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Dopo il 4 marzo: in cammino verso l’ignoto. Purché a destra
di Il cuneo rosso
“Noi non siamo anti-sistema. È il sistema che
è venuto giù da solo. Noi gli abbiamo dato
soltanto una piccola spinta.” (Beppe Grillo)
In molti hanno definito il 4 marzo un passaggio d’epoca. È un’esagerazione. Le epoche storiche non cominciano né finiscono a mezzo schede elettorali. Ma un fatto è certo: le recenti elezioni segnano la meritatissima fine della seconda repubblica. Meno ovvie sono le cause di questo terremoto politico-elettorale, e soprattutto le sue conseguenze.
Le cause interne
La causa principale dei risultati del voto, e del non voto, del 4 marzo sta nel vasto e acuto malessere sociale che si è espresso omogeneamente da nord a sud contro Pd e FI, le forze politiche prime responsabili dei duri sacrifici imposti negli ultimi 25 anni sia ai proletari che a parte dei ceti medi.
Partiamo dal non voto, che è stato in genere oscurato. Va invece rimarcato che l’astensione è, nel complesso, cresciuta di altre centinaia di migliaia di unità, raggiungendo il 27% (poco meno di 14 milioni). La Lega e il M5S hanno riportato ai seggi, con la loro propaganda, milioni di astenuti. La Lega deve quasi il 30% del suo voto a questo richiamo, il M5S il 19,5% – a conferma del carattere mobile di parte almeno delle astensioni. Tuttavia il totale degli astenuti è ulteriormente aumentato, soprattutto per il passaggio al non voto degli elettori del Pd, anzitutto operai.
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Israele, UK, Usa, UE; gas nervini e partite di caccia
Stati canaglia all’assalto.Colpi di coda o offensiva finale?
di Fulvio Grimaldi
Che il mostro sia ferito è indubbio, che abbia la forza per menare colpi di coda, o allestire una soluzione finale è da vedere. La resa dei conti, in ogni caso, ha per obiettivo Putin e la sua Russia, nonché i popoli europei a metà strada tra est e ovest. Quella Russia che, sottratta al magliaro Eltsin e agli avvoltoi interni ed esterni che lo sbronzone aveva invitato alla tavola apparecchiata con le membra mozzate dei popoli sovietici, rimessasi in piedi e in cammino, ha dato l’altolà al processo della mondializzazione imperialista, ha asserito e concretizzato il suo diritto ad avere una parola in merito a se stessa e al pianeta, si è mossa in sostegno di tale diritto e a difesa di chi dalla mondializzazione imperialista doveva essere spianato.
Siamo alle provocazioni che dovrebbero avvicinare quel confronto risolutivo da cui soltanto degli invasati mentecatti, manovrati al potere dalla storica cupola finanzcapitalista, possono aspettarsi una sistemazione dell’ordine mondiale che mantenga in vita l’umanità. Ci stiamo avvicinando a quel confronto, inevitabilmente nucleare, o vi siamo già dentro? That is the question. Vediamo.
Il Quarto Reich
La palma degli affossatori di ogni diritto, decenza, morale, umanità, spetta a Israele, ai superatori dei nazisti che dirigono il paese e proclamano il “più morale del mondo” un esercito che va alla partita di caccia contro donne uomini e bambini inermi e, dispiace dirlo, caccia condivisa dall’incirca 80% della sua popolazione che con tale banda di licantropi si schiera nell’occasione di ogni bagno di sangue, da 70 anni a questa parte.
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Post-verità
di Salvo Vaccaro
Chi rinuncia a monopolizzare la verità
rinuncia a comandare.
Fernando Savater
1. Il potere della post-verità
Nel novembre del 2016, Oxford Dictionaries ha eletto parola dell’anno Post-verità. Il lemma esprime una «relazione con o una connotazione di eventi in cui i fatti oggettivi sono meno decisivi per formare una opinione pubblica, rispetto al ricorso ad emozioni e credenze personali» (Relating to or denoting circumstances in which objective facts are less influential in shaping public opinion than appeals to emotion and personal belief)1. Si era appena usciti dalla sorpresa generale dell’esito referendario sulla Brexit nel Regno Unito, nonché dalla sorpresa ancora più imprevista, e a dispetto di tutti i sondaggi, della vittoria di Donald Trump alla carica di presidente degli Stati Uniti d’America. Due fatti di natura prettamente politica che fanno immediatamente evocare una Post-Truth Politics, ossia una nuova era politica segnata dalla post-verità. Ad onor del vero, questo lemma circolava almeno da una decina d’anni in letteratura, a partire per esempio da un (solitario) libro di Ralph Keys uscito negli Usa nel 2004, The Post-Truth Era, oppure da una parola simile usata l’anno successivo dallo scrittore americano Stephen Colbert, Truthiness, nel I episodio del suo programma di satira politica The Colbert Report, che significava sempre per Oxford Dictionaries «la caratteristica di apparire o di considerarsi essere ritenuta vera, anche se non necessariamente vera» (the quality of seeming or being felt to be true, even if not necessarily true)2. Nell’arco di una dozzina d’anni, il termine post-verità esorbita da una dimensione occasionale o marginale alla pubblica discussione, per piombare prepotentemente nel cuore dell’opinione pubblica, del dibattito politico contemporaneo.
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Le fondamenta perverse dell’Unione monetaria europea
Uso e abuso della teoria economica
di Jacques Sapir
In questa lunga nota, Sapir ripercorre le tappe fondamentali della creazione istituzionale europea più ambiziosa di questi ultimi anni, l’unione monetaria europea, soffermandosi sui numerosi dubbi espressi sin dalle origini da diversi importanti economisti statunitensi, ma anche sulle critiche più recenti diffusesi in Europa e sulle incoerenze stesse della teoria di Mundell, considerato il “padre intellettuale” dell’euro. Da questa lunga disamina appare evidente come la teoria economica sia stata strumentalizzata a scopi politici e come molti economisti si siano prestati a distorcere le loro teorie per dimostrare a tutti i costi la necessità e la superiorità dell’euro, coprendo i politici con la credibilità della loro reputazione
L’euro è la creatura istituzionale più ambiziosa dell’Europa degli anni recenti (1) (2). E la stessa storia della creazione (e della disintegrazione) di molte aree monetarie comuni è stata probabilmente ignorata per giustificare il progetto (3) [2]. Non è sicuro che tutte le implicazioni della creazione di una moneta comune siano state comprese chiaramente quando è stata presa la decisione di lanciare l’Unione monetaria europea (EMU) e l’euro. Le considerazioni politiche hanno preso il sopravvento sulle considerazioni economiche. L’idea dell’unione monetaria è così diventata ostaggio di una fuga in avanti dei cosiddetti “europeisti” [3]. In questo processo la teoria economica è stata strumentalizzata al fine di raggiungere un obiettivo politico.
L’idea di una moneta comune in sé non è priva di meriti. Il presidente Vladimir Putin è noto per aver provato a promuovere questa idea anche per i paesi appartenenti all’ “Eurasian Union” [4]. Ma un progetto del genere necessariamente presuppone una valutazione approfondita della situazione economica di tutti i suoi potenziali membri.
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Siete pronti? Questi sono i vostri dati che i giornali online vendono sul mercato digitale
di Tommaso Tani
I fatti a cui abbiamo assistito ultimamente suonano – almeno nei titoli delle grandi testate - con toni apocalittici, raggiungendo un livello di distopia da far sembrare 1984 un libro per bambini. Non serve riportare né i fatti né tanto meno le successive analisi – un link all'articolo di Fabio Chiusi è sufficiente per aggiornarvi su tutto. Lo scopo di questo altro pezzo invece è capire se davvero Facebook e Cambridge Analytica abbiano rappresentato l’alleanza malvagia che dal 2014 ci spia e ci manipola. In altre parole, il problema di tutto ciò è il social network di Zuckeberg? Se non ne abbiamo mai fatto parte, possiamo essere al sicuro?
La risposta, per almeno due motivi, è ovviamente no. In primis, perché, con la complicità di chiunque gestisca un sito internet, Facebook ci segue e ci studia anche se non ne facciamo parte. Ogni volta che infatti vedete un bottone blu con “Like”, potete stare certi che siete, in diversa misura ovviamente di volta in volta, tracciati dal colosso americano. Quel pulsante infatti carica del codice all’interno della pagina che gli permette di studiare i vostri dati navigazione e il vostro profilo. Da giugno 2014 infatti, Facebook raccoglie informazioni tramite quel piccolo pulsante, che ci facciate click sopra, che siate loggati o meno, poco conta.
Il secondo motivo per il quale escludendo Facebook dal gioco non potete vivere a pieno la vostra privacy è che quasi tutti i siti web più grandi su cui navigate replicano, su scala diversa ma non troppo, la facilità con cui il social network, fino al 2015, faceva fluire i dati verso soggetti terzi. E, ironia della sorte, uno dei business che più trae giovamento da questa fluidità e spensieratezza di condivisione è il settore editoriale.
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Note sul rapporto base-sovrastrutture-prassi
di Eros Barone
Molte cose sa la volpe,
Ma una sola e grande il riccio.
Archiloco1
In queste note mi propongo di individuare la radice teorica di molteplici divergenze politico-ideologiche, il cui punto cruciale è costituito da altrettante concezioni dell’insieme base-sovrastrutture-prassi. Cercherò pertanto di definire congiuntamente i tratti distintivi della base, delle sovrastrutture e della prassi, nonché il loro rapporto secondo un “verso”.
Marx ed Engels hanno distinto, nell’àmbito di ogni società concreta, la base, incardinata sul binomio forze produttive-rapporti di produzione, dalle sovrastrutture (Stato, diritto, politica, filosofia, arte, religione ecc.) e dalla prassi, a sua volta articolata in un ventaglio di pratiche sociali,2 correlative ai diversi livelli della base e delle sovrastrutture (pratica giuridica, politica, economica, religiosa ecc.); inoltre, Marx ed Engels hanno definito tra questi tre livelli della società connessioni specifiche, ossia un “verso”, tali da consentire di cogliere sul piano teorico le dinamiche di essa società.
Sostanzialmente, tali connessioni consistono nel ruolo di determinazione in ultima istanza giocato dalla base nei confronti degli altri due livelli (sovrastrutture e prassi), nella funzione di ritorno (o feed-back), svolta dalla prassi e dalle sovrastrutture sulla base, e nell’azione di rivoluzionamento sia sulla base sia sulle sovrastrutture, che è capace di esercitare una pratica, differente da tutte le altre: la pratica politica di classe.
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Il debito pubblico è crescita: aboliamo il pareggio di bilancio
di coniarerivolta
È difficile trovare nel dibattito politico-economico nostrano e internazionale un tema più discusso di quello relativo al contenimento del debito pubblico. Sappiamo bene, infatti, come la diminuzione del rapporto tra debito pubblico e PIL sia tra le stelle polari di ogni politica suggerita da Bruxelles in merito alla governance economica dell’Eurozona. Storicamente questa preoccupazione è sfociata nella firma di trattati internazionali quali Trattato di Maastricht, Fiscal Compact, Six Pack, tutti incentrati sul contenimento di questo rapporto, che come da prescrizioni non può superare la soglia del 60%.
Diverse questioni potrebbero essere sollevate parlando di questa tematica. Tuttavia, in questo contributo ciò che ci preme è provare a rispondere ad una semplice domanda: è vero che le misure di austerità – propugnate dalle istituzioni internazionali come rimedio perfetto per questo “problema” – portano ad una riduzione del rapporto debito pubblico/PIL?
Per stabilire quale sia la risposta corretta, abbiamo bisogno di due valori, ossia sapere di che entità siano il rapporto PIL/debito (non debito/PIL, questa volta) e del moltiplicatore fiscale dell’ economia di nostro interesse. Per quanto concerne il primo indicatore, notiamo come a un alto rapporto debito/PIL corrisponde un basso valore del corrispettivo PIL/debito; ciò è intuitivo, visto che la seconda misura è semplicemente l’inverso della prima. L’Italia, ad esempio, ha un rapporto debito/PIL di circa il 130%, il che significa un rapporto PIL/debito del 77% (1/1.3 = 0.77).
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Prospettive di un (possibile) soggetto politico delle classi subalterne
di Federico Repetto
1. Quando la democrazia parlamentare non sa recuperare al suo interno i movimenti, la democrazia stessa entra in crisi
Il risultato elettorale delle politiche del marzo 2018 è solo l’ultimo strascico del disastro che ha seguito la mancata risposta della sinistra istituzionale e delle élite dirigenti del paese ai movimenti, pragmatici e niente affatto millenaristici, dei millennials, per il rinnovamento dell’università, per l’acqua bene comune, contro il precariato, contro il nucleare, contro la devastazione ambientale, ecc. Lo stesso statuto del Pd, mettendo nelle mani la carica di segretario ai cittadini non iscritti al partito (e potenzialmente condizionabili dai media mainstream), metteva fuori gioco ciò che restava della base dei militanti, e insieme i contatti coi territori e coi movimenti che questa poteva fornire.
Si è ripetuto almeno per certi versi lo schema degli anni ’70, quando una parte della classe dirigente, sinistra in testa, aveva capito che la risposta al millenarismo rivoluzionario di allora doveva essere una serrata stagione di riforme sociali, ma la resistenza conservatrice dell’establishment alle riforme, la criminalizzazione dell’idealismo rivoluzionario e oscure trame interne e internazionali condussero alla stagione del terrorismo e della fuga nel privato. Questa volta però una diretta e pesantissima responsabilità tocca anche alla sinistra istituzionale, e cioè essenzialmente al Pd: non ha saputo/voluto mettersi in relazione coi movimenti e ha fatto da scendiletto del governo Monti, paracadutato dalla Ue. I risultati sono stati, più ancora che la fuga nel privato, l’emigrazione all’estero, o dal sud al nord, dei nostri laureati, l’indebolimento cronico dei movimenti o la loro normalizzazione dentro il M5S, e, infine, il successo elettorale di quel partito e l’astensione di molti giovani.
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Il «diritto di emigrare»: come la forza del diritto è il diritto della forza
di Dante Lepore
Quando si entra nel campo dell’onnipotente sacralità inviolabile della legge, della sua natura e del fondamento del diritto, sembra quasi che i principi più elementari della legislazione, del costituzionalismo e delle istituzioni giuridiche in genere, sbandierati come eterni, sacri e immutabili, siano appannaggio universale, se non esclusivo, della tradizione liberale (termine immemore della sua ascendenza autoritaria e ghigliottinarda), nonché della democrazia moderna, a sua volta erede compiaciuta della tradizione liberale come di quella della polis greca più antica da Pisistrato a Pericle ateniese (a dispetto della schiavitù, componente integrante delle sue istituzioni). Modi e forme, questi, atti a magnificare la civiltà occidentale in quanto retta dalle leggi che, nella loro apparente universalità, sarebbero uguali per tutti, più delicate e paciose della restanti forme dispotiche, violente, brutali nella sottomissione dell’altrui volontà, o in preda alla legge della giungla, alla barbarie, ossia a quella condizione in cui ciò che si conquista o si ottiene lo si ottiene appunto con la forza bruta esercitata sulla comunità o semplicemente a detrimento di altri. Ma gli orpelli della civiltà, con i suoi codici civili e le sue leggi, non possono più oggi celare il lato diabolico di questa ostentata sacralità, il fatto che quelli che persino i lavoratori più sindacalizzati invocano come diritti costanti o come rispetto della dignità sono solo il risultato di lotte dure, senza esclusione di colpi, di uso della forza. Viceversa la forza della legge (ius, da iubeo= comando) non è che il risultato di un potere conseguito con coercizione, ricatto o con una violenza fisica originaria, spesso cinica, prepotente e cieca.
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Note sulla nozione di “dialettica” in Lenin
di Matteo Giangrande*
Pubblicato su “Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane", n° 2/2017, licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0
Il 12 marzo 1922 la rivista di filosofia “Pod znamenem marxizma” pubblica un articolo di Lenin, divenuto poi celebre, su Il significato del materialismo militante. È un testo volto a delineare una strategia di battaglia e di resistenza culturale alla pervasività dell’ideologia borghese e che contemplava, tra l’altro, anche la pianificazione di un lavoro collettivo di studio delle applicazioni della dialettica hegeliana interpretata dal punto di vista materialistico. È interessante rileggere per esteso le raccomandazioni del rivoluzionario bolscevico perché, a nostro avviso, rappresentano l’introduzione più stimolante ad uno scritto che tematizza specificatamente la nozione di dialettica nei testi di Lenin:
«In mancanza di una base filosofica solida non vi sono scienze naturali né materialismo che possano resistere all’invadenza delle idee borghesi e alla rinascita della concezione borghese del mondo. Per sostenere questa lotta e condurla a buon fine lo studioso di scienze naturali deve essere un materialista moderno, un sostenitore cosciente del materialismo rappresentato da Marx, vale a dire che deve essere un materialista dialettico. Per raggiungere questo obiettivo i collaboratori della rivista “Pod znamenem marxizma” debbono organizzare uno studio sistematico della dialettica di Hegel dal punto di vista materialista, vale a dire della dialettica che Marx ha applicato praticamente nel suo Capitale e nei suoi scritti storici e politici con un successo tale che oggi, ogni giorno, il risveglio di nuove classi alla vita e alla lotta in Oriente (Giappone, India, Cina), – vale a dire il risveglio di centinaia di milioni di esseri umani che formano la maggioranza della popolazione del globo e che per la loro inattività e il loro sonno storico hanno condizionato finora il ristagno e la decomposizione in molti Stati avanzati dell’Europa, – il risveglio alla vita di nuovi popoli e nuove classi conferma sempre più il marxismo.
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Note su “Ripensare il capitalismo” di M. Mazzucato e M. Jacobs
di Lorenzo Cattani
«We used to make shit in this country, build shit. Now we just put our hand in the next guy’s pocket». È con questa frustrazione che Frank Sobotka, personaggio della seconda stagione di The Wire, traccia una sorta di parabola del capitalismo americano. Iniziare una recensione con questa citazione ha chiaramente un intento provocatorio, eppure le parole di Frank Sobotka non debbono essere così facilmente archiviate come pensieri superficiali o qualunquisti. Questo non solo perché The Wire è una serie TV che ha saputo cogliere elementi importantissimi della società americana (e non solo)[1], ma anche perché a 10 anni da una crisi che le economie avanzate non sono ancora riuscite a superare, appare chiaro come lo sviluppo che il capitalismo ha avuto negli ultimi decenni mostri debolezze strutturali.
In un certo senso, le stesse tematiche le ha affrontate Bernie Sanders nei primi anni Duemila quando faceva presente all’allora governatore della Fed, nonché paladino della deregulation e delle liberalizzazioni, Alan Greenspan che negli USA i casi di bancarotta erano aumentati del 23%, che gli investimenti privati stavano toccando i livelli più bassi degli ultimi 50 anni e che i guadagni degli amministratori delegati erano 500 volte maggiori di quelli dei lavoratori[2]. Molti di questi temi vengono affrontati dagli autori del volume Ripensare il capitalismo, a cura di Mariana Mazzucato e Michael Jacobs: l’idea alla base del loro lavoro è che gli insuccessi del capitalismo siano collegati a quelli della teoria economica e che, pertanto, sia necessario rivedere il pensiero economico dominante in modo che si possa tradurre in una nuova politica economica.
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Transizioni
di Lanfranco Binni
«Populisti, vil razza dannata!». Pianti, lamenti e lai, anatemi borghesi ottocenteschi a esorcismo delle “classi pericolose” alimentano il narcotraffico dei media di regime. Il sistema democratico è in pericolo. L’onda lunga dell’insorgenza diffusa e popolare contro ogni mediazione liberista e socialdemocratica tra potere politico e «popolo» (il popolo «sovrano» della Costituzione inattuata del 1948) che il 4 dicembre 2016 ha abbattuto con un sonoro no la “riforma” anticostituzionale della banda Renzi, grazie a un imprevisto protagonismo degli elettori ignoti (maledette elezioni!), il 4 marzo ha stravolto (anche questa volta con esiti imprevisti) un quadro politico già a rischio di «ingovernabilità». Il disegno furbastro del Pd di resuscitare il patto del Nazareno grazie a una legge elettorale anti M5S si è rovesciato nella disfatta del Pd, nella forte affermazione del M5S (primo partito nazionale), nello squilibrio dei rapporti di forza all’interno della coalizione di destra (sconfitta di Forza Italia e affermazione della Lega come primo partito della coalizione). Numerosi articoli di questo numero del «Ponte» analizzano i risultati elettorali, con punti di vista diversi e diverse valutazioni, come si addice a una rivista di aperto dibattito politico.
Mi preme sottolineare le tendenze che i dati elettorali rivelano:
1) l’astensionismo è stato un fenomeno contenuto, in controtendenza rispetto alle precedenti elezioni politiche e amministrative;
2) il voto al M5S, maggioritario nei collegi del sud e in alcune aree del centro e del nord, ma diffuso in tutto il paese, è stato prevalentemente un voto giovanile (classi di età: 18-35) e popolare;
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Crollerà o non crollerà?
di Gianni Rigamonti
1.
Non proprio da che mondo è mondo, però da che Il capitale è Il capitale, si è sempre discusso se in Marx ci sia o no una teoria del crollo inevitabile del capitalismo. Personalmente sono sempre stato per il no fin dai tempi della mia lettura integrale del Librone, più di quarant’anni fa; ma qui bisogna precisare, innanzitutto, a che cosa mi sento di rispondere “No”. Infatti se riflettiamo su una domanda come “In Marx c’è una teoria del crollo inevitabile del capitalismo?” vediamo subito che va divisa in due, abbastanza diverse:
A) Marx credeva nel crollo inevitabile del capitalismo?
B) Si può desumere dal testo del Capitale che il capitalismo inevitabilmente crollerà?
Sebbene io non legga nemmeno il pensiero dei vivi, figuriamoci quello dei morti, non vedo come non si possa rispondere affermativamente ad A. Tutto quello che sappiamo di Marx va univocamente in direzione del “Sì”. Ma per B le cose sono completamente diverse, e in questa noticina sosterrò che il testo invocato da buona parte degli interpreti per sostenere che Marx dimostra questa faccenda del crollo inevitabile non la dimostra affatto.
Piccola chiosa prima di andare avanti: questo è un problema di cui si discute, come ho già accennato, da quando (1895) grazie alle fatiche di Engels leggiamo tutti e tre i volumi del Capitale, ma fa un effetto un po’ strano riprenderlo oggi che in Europa (non in Asia, e io non so di autori che abbiano cercato seriamente di spiegarsi questa differenza) sono stati i regimi “socialisti” a crollare1. Sono convinto tuttavia – e qui cercherò di mostrare – che la questione conservi un notevole interesse.
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Idee per una sinistra nazionale e popolare
Ugo Boghetta, Carlo Formenti, Mimmo Porcaro
Quella che segue è la traccia per la discussione dell’assemblea autoconvocata “Per una sinistra nazionale e popolare”che, su iniziativa degli autori, si terrà a Bologna il 15 aprile 2018, presso l’Hotel Allegroitalia, viale Masini 3 / 4, alle ore 10
1
Le elezioni del 4 marzo ci hanno consegnato un quadro politico davvero nuovo. Il disagio, il rancore, la rabbia prodotta dalle politiche liberiste hanno rotto i vecchi equilibri e premiato M5s e Lega, ovvero quei populismi dati frettolosamente già per già spacciati. Tuttavia, la scomposizione e ricomposizione delle forze è solo agli inizi. Qualunque soluzione venga data al rebus della formazione del governo, essa non potrà che acuire i problemi. Un’ improbabile riedizione del patto del Nazareno approfondirebbe il solco tra l’elettorato ed il vecchio sistema politico. Un governo Lega-M5S farebbe esplodere le contraddizioni con Bruxelles, oppure le sposterebbe all’interno del governo e di ciascuno dei due partner. Un qualche governicchio di transizione, premessa di turbolenze future, sarebbe comunque schiacciato tra le urgenze dell’Unione europea e le impazienze popolari. Non c’è soluzione alla “questione italiana” perché nessuna delle forze in campo ha la volontà o la capacità di metter mano all’ormai ineludibile programma di ripubblicizzazione dell’economia e di piena occupazione, e di scontrarsi su questi punti definitivamente con Bruxelles, fino alla rottura. Non il PD né Forza Italia, ovviamente. Ma nemmeno il M5S a guida Di Maio, che ha già rassicurato gli investitori internazionali; e neppure la Lega, che vuol sostituire il liberismo bavarese con quello lombardo. Non si può uscire fruttuosamente dall’Unione europea (posto che lo si voglia) se si riduce il ruolo della politica alla lotta agli sprechi, se si vuole la spesa pubblica per appropriarsene privatamente, se si continua a volere la flat tax, le privatizzazioni, lo stato minimo.
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Considerazioni sulle ultime elezioni
di Guido Ortona
Una premessa. Mi pare che i problemi su cui deve riflettere chi aspira alla rifondazione della sinistra (perché di questo si tratta, dopo le ultime elezioni) siano quattro, e cioè
1) le ragioni storiche della crisi della sinistra tradizionale;
2) le ragioni della sconfitta della sinistra “qui ed ora”;
3) le ragioni del perché molti vedono nei 5s, e anche nella Lega, i soggetti che possono meglio interpretare le proposte tipiche della sinistra (a partire dal welfare);
4) che fare.
C’è chiaramente di che fare tremare le vene ai polsi; ma molti di noi “vecchi di sinistra” (cosa diversa dalla “vecchia sinistra”) hanno pensato a questi problemi, e quindi ha senso riferire su ciò che si è pensato. Prima però una premessa: ciò che dirò -e, credo, ciò che diranno gli altri colleghi e amici di Nuvole – sarà necessariamente generico e provvisorio. Generico perché ciascuno dei punti citati dovrebbe essere (e in effetti è) oggetto di studi molto approfonditi da parte degli scienziati sociali competenti; provvisorio perché non va dimenticato che stiamo vivendo in un’epoca in cui lo sviluppo delle forze produttive, per usare la terminologia marxiana, ovvero della tecnologia, per usare quella corrente, procede a ritmi frenetici; e lo stesso vale per i cambiamenti ambientali e per i metodi (e le probabilità) di nuove guerre. Per fare un esempio, tutte le analisi previsionali fatte fino a quarant’anni fa sono inevitabilmente errate, dato che non consideravano l’esistenza di internet.
Cominciamo.
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Cina e Russia nella «National Security Strategy» dell'amministrazione Trump
di Michele Nobile
Con questo articolo, Michele Nobile inizia ad approfondire l’analisi della politica estera dell’amministrazione Trump - iniziata con «La politica estera degli Stati Uniti e le contraddizioni di Trump: questioni di metodo» - partendo dalla National Security Strategy recentemente pubblicata. [la Redazione]
1. Introduzione
Sul finire dello scorso anno l’amministrazione Trump ha pubblicato la sua National Security Strategy, il rapporto sulla strategia di sicurezza nazionale che il presidente degli Stati Uniti è tenuto a presentare annualmente al Congresso (d’ora in poi indicato con la sigla NSS seguita dalla data). È legittimo chiedersi quale interesse possa avere un documento come una NSS: di sicuro non vi si trovano piani d’azione militari, neanche nei termini generali. Una NSS è frutto di compromessi in seno all’amministrazione ed è spesso superata da sviluppi non previsti; d’altra parte, la disponibilità dei mezzi previsti per conseguire gli obiettivi indicati può ben superare, e di non pochi anni, la durata dell’amministrazione che l’ha prodotta.
I dubbi aumentano di fronte a un presidente come Trump - contestato dagli specialisti di politica estera e militare del suo stesso partito - e alla serie di dimissioni di personale di alto livello, sia per contrasti col Presidente che imposte dai risultati di indagini. Dei trenta Segretari di Stato del XX secolo, Rex Tillerson è fra i sei che sono rimasti in carica per meno tempo e per il periodo successivo alla fine della Guerra Fredda solo Lawrence Eagleburger durò meno; l’amministrazione Trump è al terzo Consigliere per la sicurezza nazionale in poco più di un anno, mentre nell’arco di otto anni Clinton e Bush Jr. ne ebbero solo due e Obama tre.
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“La sfida populista”, tra demagogia e democrazia
di Nadia Urbinati
Un ebook collettaneo, edito dalla Fondazione Feltrinelli, analizza il fenomeno del populismo evitando visioni manichee e catastrofiste, nel tentativo di comprenderlo nella sua complessità. Che cosa lo rende diverso dalla democrazia, visto che entrambi sono fondati sul principio di maggioranza? Pubblichiamo un estratto dal capitolo di Nadia Urbinati, secondo la quale solo a partire dalla comprensione del populismo come maggioritarismo si può affrontare criticamente il rapporto fra esso e la nostra Costituzione - Per acquistare l'ebook
L’unificazione in alternativa al pluralismo è la dinamica strutturale del populismo nel governo rappresentativo come la demagogia lo era rispetto al governo diretto. Bisogna tener presente che l’impatto dell’appello al popolo è diverso in questi due casi. Infatti, nel governo rappresentativo, la sfera dell’opinione ha più grande rilevanza perché il potere legislativo non è qui a disposizione diretta del popolo; è dunque prevedibile che l’impresa populista si sviluppi nella dimensione ideologica e che possa in teoria restare un fenomeno di opinione, senza conquistare il governo. Diverso è il caso della demagogia antica che aveva un impatto diretto, non solo sull’opinione ma anche sulla legge perché operava in un’assemblea di cittadini dotata del potere sovrano immediato. Tenendo conto di questa differenza tra le due forme di governo democratico, mi servo dell’analisi della demagogia antica per illustrare la relazione conflittuale che essa aveva con la democrazia e proporre un parallelo con l’azione del populismo nel regime rappresentativo: in entrambi i casi centrale è l’uso e l’abuso del principio della maggioranza.
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Il conflitto permanente come culla del nuovo mondo multipolare
di Pierluigi Fagan
Le scienze sociali che usano come unità metodologica lo stato, ovvero le Relazioni Internazionali e la Geopolitica, non potendo fare esperimenti di verificazione delle teorie, si accontentano di sostenere la loro “scientificità” verificando quanto una teoria si adatti ad eventi storici pregressi. La “Storia” è l’unico dato empirico di validazione delle interpretazioni, fatto già di per sé bizzarro visto che: a) la storia è sempre una narrazione stesa su eventi ben più complessi; b) l’interpretazione ovvero la teoria è, a sua volta, un riduzione della narrazione storica.
Oltre a queste due sospensive ce ne è una ancora più determinante. Se accettiamo come quadro di riferimento macro-storico, ovvero di lunga durata, il fatto di trovarci in una transizione epocale che ci sta portando dall’epoca moderna ad un’altra che ancora non ha nome sebbene cominci a mostrare una sostanza chiaramente complessa, questo ricorso al passato rischia di basarsi sulle pericolose “false analogie”. Il ricorso al conforto di come si sono comportati gli stati nel passato al presentarsi di schemi di ordine di tipo multipolare è naturale vanga fatto, ma da quei confronti dovremmo trarre indicazioni molto relative, deboli, indiziali, poco probanti. Non siamo nella linea di uno sviluppo continuo della stessa traiettoria, siamo nella frattura profonda di un modo con un altro e quindi siamo in terra incognita dove la passata esperienza ha valore marginale.
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Come proseguire?
di Giacomo Marchetti
Rappresentanza politica, sovranità economica e conflitto sociale verso un Mediterraneo dei “non-sottomessi” alla UE
Sembra che Guido Carli, uno degli “architetti” italiani del trattato di Maastricht insieme a Tommaso Padoa Schioppa, tornando a Roma da quella fino ad allora ignota località dell’Europa settentrionale, nei primi di febbraio del 1992 avesse affermato riferendosi al Trattato: “nessuno in Italia è consapevole degli effetti che avrà nel nostro Paese”.
A più di 25 anni da quella data la consapevolezza di tali conseguenze è nota ai più, almeno tra le classi popolari, che anche nell’appuntamento elettorale del 4 marzo hanno confermato di recarsi alle urne con l’unico fine di votare per vendetta, pensando di mandare a casa quelle formazioni legittimamente percepite come corresponsabili della propria disgraziata condizione, nonché fedeli interpreti della politica dell’Unione Europea considerata responsabile ultima di tale situazione.
Ma se il senso comune nel nostro blocco sociale di riferimento ha delle legittime certezze – al di là delle forze politiche che ha scelto per incanalare il proprio voto anti-sistemico e che sono divenute transitorie depositarie delle proprie aspettative di cambiamento, come “ultima spiaggia” nel panorama politico istituzionale – altrettanto non si può dire del ceto politico residuale della sinistra. Non pago della batosta che indirettamente “il popolo” ha voluto dare alla sinistra tutta – di cui è una vittima “collaterale” – è ancora prudente nel parlare dell’Unione Europea come centro gravitazionale delle scelte politiche continentali che determinano, volenti o nolenti, i passaggi della nostra agenda politica a venire.
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Un sessantotto lungo una vita
di Stefano Zecchinelli
L’autobiografia di Fulvio Grimaldi, Un sessantotto lungo una vita pubblicato dalla Casa Editrice Zambon, rappresenta un documento – tanto breve quanto efficace – imprescindibile per chi voglia, partendo dal periodo storico 1968 – ’77, analizzare lo stretto rapporto fra le lotte di liberazione nazionale nei paesi coloniali e le mobilitazioni anti-neoliberiste delle metropoli. Grimaldi, come sempre anti-conformista, parte da lontano:
‘’Mi corre l’obbligo di un inciso. Ogni volta che mi si arriva addosso con la storia dei tedeschi tutti complici del nazismo, tutti come nei film degli urlanti ufficiali della Wehrmacht o delle SS, tutti Erich Von Stroheim, subisco un’altra spintarella all’anticonformismo, perlomeno all’anti-luogo comune. E mi ricordo di come noialtri stranieri, cittadini del paese ‘’traditore’’, venissimo ciononostante mantenuti in vita, non solo dalle ortiche raccolte ai bordi della strada e cotte come spinaci, ma anche dal fornaio che ci dava quella pagnotta extra; dalla fabbrichetta di mobili che ci arredava le due stanze gratis; dal contadino che in cambio di un paio di guanti di pelle di mamma ci elargiva uova, verdure, salumi; dalle due sorelle vivaiste che mi davano i semi e mi insegnarono a piantar pomodori su un pezzetto del loro terreno’’.
La fascistizzazione del nemico è stata un’arma adottata per la prima volta, guarda caso, dall’imperialismo USA proprio contro la Germania; il popolo di Kant, Hegel, Marx e tanti altri doveva diventare nell’immaginario collettivo il ‘’volenteroso carnefice di Hitler’’ rafforzando il costrutto ideologico, falso e bugiardo, degli ‘’statunitensi liberatori’’. Contro questa retorica, smentita dagli eventi futuri e dalle guerre dell’imperialismo americano-sionista, si scaglia Grimaldi, un giornalista che non ha mai perso, citando Lukàcs, la passione durevole dell’anti-capitalismo. Gliene rendiamo merito, dato lo spirito dei tempi che promuove la conversione all’imperialismo e all’ideologia capitalista.
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La logistica è la logica del capitale
di Anna Curcio e Gigi Roggero
Dal numero speciale di "Primo Maggio"
Partiamo dal titolo. La tesi, che facciamo nostra, è stata formulata da un lavoratore della Tnt di Bologna in un dibattito a Padova. Bologna e Padova, l’Emilia e il nord-est, due snodi importanti del sistema della logistica in Italia, due snodi importanti del ciclo di lotte dentro e contro quel sistema che ha avuto il suo picco nel periodo tra il 2011 e il 2014. A essere presenti a quel dibattito, insieme a militanti, studenti e lavoratori precari, erano Si Cobas e Adl Cobas, i due sindacati di base che maggiormente sono stati protagonisti di quel ciclo di lotte. Arriviamo ora velocemente alla “fine”, o meglio a quello che a quel ciclo di lotte è seguito. Le imprese della logistica, inizialmente spiazzate dalle lotte e dopo aver subito ingenti danni economici e di immagine, sono riuscite almeno in parte a utilizzarle per un passaggio in avanti in termini di innovazione organizzativa, produttiva e in limitata misura anche tecnologica, in uno scenario – quello italiano – segnato da una storica arretratezza del settore rispetto al contesto internazionale. Le lotte hanno trasformato in un terreno di battaglia questa arretratezza (fatta soprattutto di scarsa automazione del processo e ipersfruttamento di una forza lavoro razzializzata e retribuita come dequalificata); i padroni hanno risposto non solo mandando la polizia ai picchetti, come hanno abbondantemente fatto e periodicamente continuano a fare, ma innanzitutto tentando di mettere in produzione il conflitto per i loro fini, costruendo al contempo nuovi livelli nel governo della forza lavoro.
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Il prossimo governo? Solo promesse da rimangiare…
di Dante Barontini
Non vi illudete, non ci sarà nulla da redistribuire.
Pausa di riflessione pasquale, in attesa delle consultazioni di Sergio Mattarella per formare il nuovo governo. Pivot di qualsiasi combinazione possibile sono ovviamente la Lega e i Cinque Stelle, i “vincitori” della disfida elettorale. Impensabile un governo senza loro due, molto difficile trovare la quadra per un governo con dentro entrambi.
Il nodo vero non sono le intenzioni e i “magheggi” di Salvini e Di Maio, ma quel che saranno costretti a fare, in totale contrapposizione con le promesse elettorali che li hanno portati in cima alla piramide. In estrema sintesi, Salvini ha giurato che “straccerà la Fornero” (la legge, ovviamente) e interverrà sul sistema fiscale applicando un flat tax, ovvero una tassa sostanzialmente uguale per tutte le fonti di reddito (salari, profitti, rendite finanziarie, ecc). Di Maio ha a sua volta garantito che abbatterà i “costi della politica” e introdurrà il reddito di cittadinanza.
Tralasciamo qui l’analisi puntuale alcune di di queste misure, che abbiamo già espresso in molte occasioni (una tassa uguale per tutti è un premio favoloso soltanto per i più ricchi, il reddito di cittadinanza grillino è in realtà un obbligo ad accettare qualsiasi lavoro, eliminare quasi del tutto i “costi della politica” significa consegnare i parlamentari completamente nudi alle “offerte” delle lobby, ecc) e concentriamoci invece sulla realizzabilità di queste misure all’interno del quadro istituzionale ed economico esistente.
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Lotte (e Autolesionismo) di classe
di Norberto Fragiacomo
Sto pian piano leggendo, nei ritagli di tempo concessimi dal lavoro, un’opera di Domenico Losurdo dedicata alla lotta di classe[1].
Senza perdersi in convenevoli l’illustre cattedratico polemizza sin dalle primissime pagine con i pensatori (quasi tutti transfughi del marxismo convertiti all’idea liberale) che, per compiacere chi li foraggiava, già negli ultimi decenni del Novecento diedero per definitivamente morta la lotta di classe. L’autore ha buon gioco nel dimostrare il contrario, partendo da una frase del Manifesto del ’48 che del libro (e del ragionamento losurdiano) costituisce quasi l’architrave: “La storia di ogni società sinora esistita è la storia delle lotte di classe”.
Ciò che viene negato non è il fatto, evidentissimo, che la suddetta lotta alterna fasi acute ad altre di relativa stasi, né che il livello di consapevolezza diffuso fra i “combattenti” oscilla a seconda delle epoche storiche (l’ascesa è in genere lenta e contrastata, i crolli vertiginosi): si intende piuttosto contrastare la sicumera di quanti, per ragioni ideologico-propagandistiche, pretendono che assieme alla Storia il capitalismo trionfante abbia schiantato anche la lotta e le motivazioni oggettive e soggettive che ne stanno alla base. Quello dello scontro – aperto o latente - fra le classi è un fenomeno destinato a riprodursi fino a quando queste ultime esisteranno: onestamente la tesi di Losurdo mi sembra inconfutabile.
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La sfida Usa-Cina per l’egemonia tecnologica
di Francesco Galofaro*
Tecnopolitica e protezionismo
Questa settimana The Economist [1] ha dedicato la propria copertina alla battaglia tra Stati Uniti e Cina per la supremazia digitale. Pur adottando il punto di vista del governo americano, l’articolo è molto utile per collocare il delicato confronto in corso nel quadro più vasto delle politiche protezionistiche promosse da Donald Trump. I temi di conflitto sono diversi: mercati on-line; hardware; supercomputer; computazione quantistica; navigazione satellitare; Intelligenza Artificiale; armamenti avanzati; sicurezza nelle telecomunicazioni; potere di imporre gli standard internazionali.
Alcuni tra questi problemi, cruciali per la comprensione delle relazioni internazionali contemporanee, andrebbero approfonditi meglio. Ad esempio, gli articoli dell’Economist collocano la supremazia quantistica al primo posto tra i problemi più urgenti, senza tuttavia spiegare di cosa si tratti. Occupandomi professionalmente di computazione quantistica e di Information Retrieval [2], vorrei cogliere l’occasione per spiegare di cosa si tratta, dato che la funzione della comunicazione quantistica è meno intuitiva a comprendersi rispetto ai sistemi di riconoscimento dei volti o agli impieghi dei droni militari.
Protezionismo
I liberali condannano ideologicamente il protezionismo di Trump. E’invece più interessante da un punto di vista politico ricostruire i motivi della guerra economica cui stiamo assistendo. Ve ne sono diversi: tra i questi, alcuni sono strettamente legati alla tecnopolitica e alla lotta per l’egemonia tra cyberpotenze.
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Questione nazionale e «fronte unico»
Zetkin, Radek e la lotta d’egemonia contro il fascismo in Germania
di Stefano G. Azzarà*
Pubblicato su “Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane", n° 2/2017, licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0
1. La questione tedesca nel movimento comunista
Nel movimento operaio internazionale, la questione tedesca e le sue possibili ricadute sulle prospettive generali della rivoluzione socialista in Europa hanno costituito un argomento tradizionalmente assai dibattuto. Come faceva notare Pierre Broué, riportando nelle pagine iniziali della sua celebre opera sulla – mancata – rivoluzione tedesca le ottimistiche previsioni letterarie di Preobrazhenskij e gli auspici politici di Zinovev1, è un dibattito che si è fatto però tanto più necessario e intenso con l’Ottobre e soprattutto negli anni successivi alla conclusione della Prima guerra mondiale, in ragione delle profonde trasformazioni politiche che si erano verificate in Germania dopo la sconfitta e la caduta del Kaiser e nel contesto di un conflitto civile dalle conseguenze imprevedibili. Un conflitto a intensità variabile ma pressoché ininterrotto, le cui incontrollabili esplosioni – ora a destra, ora a sinistra – sembravano certamente porre le basi per la rottura definitiva di quell’ordine borghese del quale la socialdemocrazia, nelle analisi dei bolscevichi, si era fatta garante a Weimar. Ma che rischiavano al tempo stesso di condurre ad un esito decisamente diverso da quello che ancora dopo il Terzo congresso il Comintern riteneva comunque prossimo, come sarebbe in effetti accaduto in Italia con la presa del potere da parte del fascismo nel 19222.
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