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Elezioni USA, una guerra interna al capitalismo finanziario
di Alessandro Volpi
Alle presidenziali USA la sfida tra Harris-Walz e Trump-Vance andrebbe più adeguatamente definita come uno scontro tra il capitalismo finanziario delle "Big Three" e quello che ne vuole indebolire il monopolio. Senza scomodare la contrapposizione “Sinistra” - “Destra”
In seguito all’annuncio del ritiro di Biden dalla corsa presidenziale è emerso, con sempre maggiore chiarezza, uno scontro in corso all’interno del capitalismo finanziario statunitense. Provo a sintetizzarlo e forse anche a semplificarlo. Dopo la scelta di Vance come vicepresidente, dopo le prese di posizione di Musk, sta infoltendosi la schiera dei sostenitori – e finanziatori – di Trump. Si tratta di soggetti riconducibili a un capitalismo che prova ad arginare lo strapotere delle Big Three, cioè dei superfondi ,Vanguard, Black Rock e State Street, ormai decisamente legati ai democratici. Sia Biden sia Kamala Harris hanno avuto e hanno nel loro staff figure chiave che provengono da Black Rock. Un personaggio come Jamie Dimon, il CEO di JP. Morgan, la banca dei superfondi, blandito da Trump, è stato a lungo in procinto di essere candidato per i democratici. Il presidente della Fed, con il sostegno di Yellen, ha accompagnato le strategie degli stessi superfondi, comprando a piene mani i loro Etf [Exchange Traded Funds, fondi d’investimento quotati in borsa che seguono la performance di un in-dice: ndr].
La cordata dei trumpiani contro gli oligopoli finanziari targati “democrats”
Contro questa simbiosi ha preso corpo, come accennato, una cordata di figure che vuole utilizzare il potere politico della presidenza Trump per combattere o limitare proprio lo strapotere delle Big Three. In tale sequenza compaiono alcuni grandi fondi hedge, come quello di John Paulson, preoccupati per la progressiva emarginazione da un “mercato” normalizzato dai superfondi, alcuni petrolieri non legati direttamente ai colossi dell’energia in mano alle Big Three, come Timothy Dunn e Harold Hamm di Continental Resources, ma figurano anche miliardari di lunga tradizione come i Mellon, infastiditi dallo strapotere di Fink, e personaggi alla Bernie Marcus, il fondatore di Home Depot, un colosso da 500 mila occupati, ostile al modello fabless delle big tech che vede affacciarsi nella sua creatura, ceduta proprio a Vanguard, Black Rock e State Street.
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Cos’è la scienza?
Luca Busca intervista Carlo Rovelli
Non ha ormai più bisogno di presentazioni il professor Carlo Rovelli, assurto all’Olimpo della fisica teorica con la teoria della “gravità quantistica a loop”. Oltre agli articoli scientifici che gli hanno dato lustro in ambito accademico, il fisico ha scritto libri di divulgazione in grado di spiegare i complessi meccanismi della meccanica quantistica, e non solo, anche a chi è privo delle conoscenze necessarie.
Questa sua grande capacità esplicativa ha fatto sì che la rivista Foreign Policy lo inserisse tra i 100 «Global Thinkers» più influenti nel 2019. La sua vena “poetica” gli ha fatto valicare spesso le alte vette della scienza portandogli in dote innumerevoli premi letterari. Tra questi spiccano il Premio Galileo per la divulgazione scientifica vinto nel 2015 con il libro “La realtà non è come ci appare” e l’ultimo, nel 2024, il Premio Lewis Thomas per la “scrittura creativa”, istituto nel ‘93 dal Consiglio della Fondazione David Rockefeller.
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L.B. Una sfida quasi impossibile anche per te: in poche parole, cos’è la scienza?
C.R. La scienza…? Direi che è una cosa che fanno gli esseri umani, per cercare di capire meglio il mondo in cui sono. È una attività cresciuta lentamente, nei secoli, imparando una serie di metodi utili, come per esempio rimettere spesso in discussione le cose che crediamo di sapere, discutere, mettere le idee alla prova dei fatti, e altri.
L.B. Che rapporto hai con la fantascienza, ovviamente non mi riferisco a improbabili supereroi ma a scrittori come l’ultimo George Orwell, Isaac Asimov, Philip K. Dick, Ray Bradbury e J.B. Ballard?
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La teoria del valore di Marx: collasso, IA e Petro
di Michael Roberts
Un sito, Marxism and Collapse (M&C) ha condotto un "dialogo" con un modello di Intelligenza Artificiale chiamato Genesis Zero (GZ) il quale include «un'espansione e una confutazione» della teoria del valore di Marx. La voce umana (M&C) pone delle domande e spinge il modello di intelligenza artificiale (GZ) a discutere le inadeguatezze della teoria del valore di Marx, e a raggiungere una nuova e migliore teoria. Il sito web Marxism and Collapse può essere trovato qui, e qui si trova la loro "dichiarazione di programmatica". Mentre, le parti principali della discussione sulla Teoria del Valore di Marx, Genesis Zero - Gustavo Petro, si trovano qui
M&C sostiene che nell'analisi di Marx c'è una debolezza fondamentale secondo cui, in una merce, la cosa riguarda il duplice carattere del valore d'uso e del valore di scambio. L'addestratore umano di M&C fornisce delle domande guida in modo da far sì che GZ, di conseguenza, risponda che nella teoria di Marx c'è davvero una debolezza: vale a dire, che essa lascia fuori la natura in quanto fonte di valore. Quindi, GZ concorda sul fatto che abbiamo bisogno di modificare la teoria del valore di Marx, trasformandola in una teoria "generale" del valore che incorpori in sé il valore della "natura". Questo dibattito è stato distribuito principalmente in America Latina e in Spagna (ad esempio, nel giornale colombiano Desde Abajo), e ciò sebbene le precedenti versioni inglesi siano state ampiamente distribuite anche in diversi paesi di lingua inglese. Anche il presidente colombiano Gustavo Petro è entrato in questo dialogo, cosa che ha suscitato un notevole interesse. Petro non è solo il presidente della Colombia, ma è anche molto interessato alla teoria marxista, in relazione alla crisi ambientale e ai danni generati dal capitalismo a livello globale e in Colombia. Ed egli è desideroso di trovare un modo per poter applicare la legge del valore alla misurazione del danno ecologico e ambientale recato alla natura che viene causato dal capitale. Dal dialogo, si conclude che bisogna modificare la legge del valore di Marx in modo che essa incorpori la natura, la quale secondo lui è assente nella teoria del valore di Marx. Petro ha utilizzato le idee espresse in questo dialogo in diverse presentazioni orali.Prendiamo in considerazione l'idea che la teoria del valore di Marx sia inadeguata, incompleta e persino falsa poiché non considera la natura come fonte di creazione del valore. Però, ritengo invece che questa idea sia superflua, e che essa serva solo a indebolire la teoria del valore di Marx in quella che è la sua penetrante e convincente critica del capitalismo.
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La Meloni riceve Larry Fink (BlackRock) a Roma e gli svende l’Italia
di OttolinaTV
Nei giorni in cui l’Iran e l’asse della resistenza mandavano un messaggio chiaro e forte all’imperialismo di tutto il mondo, anche l’Italia – e, in particolare, con il suo eroico presidente del consiglio Giorgia Meloni – non ha voluto essere da meno: da poco rientrata da New York dopo aver ritirato l’infame premio di miglior atlantista dell’anno, Giorgia la collaborazionista ha infatti ricevuto a palazzo Chigi Larry Fink, il presidente e amministratore delegato di BlackRock. Il messaggio è stato chiaro: oligarchi di tutto il mondo, unitevi! E fate dell’Italia quello che volete. Nel corso del colloquio, la madre cristiana e Fink hanno infatti discusso dei possibili investimenti del fondo finanziario americano nell’ambito dello sviluppo di data center e nelle infrastrutture energetiche di supporto; e il presidente dell’amministrazione coloniale ha inoltre prospettato al fondo di investimento americano l’opportunità di investire in Autostrade e in altri settori di natura strategica. Ma i due punti principali dell’incontro sono stati la possibilità di creare strumenti finanziari specifici da parte di BlackRock nell’ambito del famoso Piano Mattei e la definizione di prestiti obbligazionari per la ricostruzione dell’Ucraina, concepiti da BlackRock e garantiti politicamente dall’Italia; Blackrock che, ricordiamolo, gestisce un patrimonio di 10 mila miliardi di dollari (il valore del PIL di Germania e Giappone messi insieme) ed è tra i primi azionisti di gran parte delle grandi aziende occidentali, Italia inclusa. Negli ultimi giorni, Giuliano vi aveva raccontato della scalata di UniCredit a Commerzbank proprio grazie alla collaborazione del fondo di investimento e del suo ingresso con una quota del 3% in Leonardo, la principale industria degli armamenti italiana; in fatto di infrastrutture, strategiche o quasi, è bene ricordare che un altro grosso attore statunitense, il fondo KKR, ha recentemente comprato la rete fissa di Telecom Italia per 22 miliardi di euro.
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Il mito antifascista degli Arditi del Popolo e del settarismo «bordighista»
Considerazioni in/attuali
di F. B.
«Ogni volta che al posto di "proletariato" leggo "popolo", mi domando quale brutto tiro si stia preparando ai danni del proletariato.»
(G. D.)
La «leggenda» degli Arditi del Popolo nasce all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso, allorché – dopo che per quasi cinquant’anni quell’esperienza di opposizione armata al fascismo in ascesa era caduta nell’oblio – un fiorire di studi ad opera di giovani storici «militanti» la riportò improvvisamente in auge. Questo rinnovato interesse per una vicenda lontana e ormai da tempo dimenticata, come sempre accade, non fu casuale: esso rispondeva, infatti, all’esigenza di dotare la pratica dell’«antifascismo militante» delle formazioni della sinistra extraparlamentare di un proprio mito fondativo, da affiancare a quello ormai sbiadito e sin troppo «istituzionale» della Resistenza. L’antifascismo militante era nato per contrastare il neo-squadrismo di fascisti vecchi e nuovi, che lo stato democratico utilizzava come manovalanza cui delegare il «lavoro sporco» nella repressione delle lotte operaie e studentesche, oltre che nel quadro della cosiddetta strategia della tensione. Ma i suoi riferimenti storici, nonché l’appellativo stesso di «antifascismo», rivelano come la sua funzione, sul piano tanto pratico che ideologico, andasse oltre il terreno della semplice «difesa proletaria», e si collocasse su un piano politico ben preciso: quello della difesa della democrazia (democrazia che peraltro in quegli anni, in Italia, non fu mai seriamente in pericolo). Inoltre, esso assolse a una funzione di polizia interna al movimento, volgendosi soprattutto contro le sue correnti più radicali (i cui aderenti erano invariabilmente bollati come «provocatori fascisti» e spesso oggetto di aggressioni fisiche da parte dei «servizi d’ordine» gauchiste). Ciò non stupisce se si pensa che, seppure con sfumature diverse, la matrice di pressoché tutti i gruppi della sinistra extraparlamentare era più o meno apertamente marxista-leninista.
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La strategia iraniana e il futuro del Medio Oriente
per "Egemonia" Alessandro Bianchi intervista Alberto Bradanini
"La strategia iraniana, dunque, sembra aver scelto la pazienza e il tempo lungo della storia. Israele è oggi un paese in seria difficoltà, diviso e in profonda crisi, un’economia in sofferenza (due declassamenti in poche settimane da parte di Moody’s), 5-600.000 israeliani usciti dal paese (molti non torneranno più) e altri lo faranno alla luce degli sviluppi."
La reazione dell'Iran ai crimini di Israele si è manifestata con 200 missili nella sera di martedì 1 ottobre. Decine hanno colpito obiettivi israeliani con Teheran che ha dato al mondo una dimostrazione pratica di come sia in grado di aggirare i sistemi di difesa israeliana e di come possa infliggere danni enormi alle infrastrutture civili e militari del regime di Tel Aviv. Si è trattata di una risposta moderata, mirata e in pieno rispetto della normativa di ritorsione nell'ambito del diritto internazionale. Con il regime di Israele che ha minacciato risposte sul territorio iraniano e con il tentativo di invasione in corso in Libano, i rischi di una ulteriore escalation nella regione sono enormi.
Nella "guerra mondiale a pezzetti" che stiamo vivendo, ogni teatro è strettamente interconnesso e il riscaldarsi di uno determina l'acuirsi di tensioni e apertura di altri. Per questo sono molti gli interrogativi che si manifestano oggi, nei drammatici tempi che viviamo, e abbiamo cercato risposte in una guida sicura per i lettori di "Egemonia": l'ex ambasciatore italiano a Teheran Alberto Bradanini.
Buona lettura.
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Ambasciatore dopo l'assassinio dello storico leader di Hezbollah Nasrallah, la possibile operazione di terra da parte di Israele in Libano e il lancio di razzi dell'Iran di martedì primo ottobre, come sono cambiati gli scenari nella regione?
È chiaro come il sole che l’escalation cui punta Israele attraverso massacri, aggressioni, omicidi mirati, bombardamenti da terra e dall’aria senza alcuna differenza tra militari e civili è un agire lontano anni luce dalla civiltà etica e giuridica del XXI secolo, che viola la Carta delle Nazioni Unite e i valori esistenziali di ogni essere umano.
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Nuovo brutalismo e guerra robotica
di Stefano Isola
Testo dell’Intervento di Stefano Isola alle Tre giornate contro le tecno-scienze, sesto incontro internazionale, Luglio 2024 ad Acqui Terme organizzate da Resistenze al nanomondo e pubblicato sul giornale L’Urlo della Terra, n.12, Luglio 2024
Nei territori palestinesi si consumano stragi quotidiane di donne e bambini sterminati da bombe teleguidate, di persone che muoiono di fame e che non hanno dove rifugiarsi e dove potersi curare le spaventose ferite, e tutto questo procede accompagnato da un irreale balletto di distinguo e accorate perorazioni contro tutte le aggressioni e tutti gli estremismi. Altri massacri, tra quelli che costellano la storia moderna, presentano efferatezze e numeri paragonabili, e sono stati talvolta colpevolmente ignorati per molto tempo a livello internazionale, ma sono stati tutti comunque raccontati a posteriori attraverso reportage di osservatori, giornalisti e storici. L’attuale genocidio perpetrato a Gaza dall’IDF si caratterizza come una delle peggiori voragini umanitarie della storia anche per il fatto di essere trasmesso in diretta audiovisiva, ovunque, orizzontalmente, e di essere perciò osservabile da chiunque voglia informarsi, e, nonostante questo, non solo non viene fatto quasi nulla per fermarlo, ma si continua a inviare armi micidiali per la sua perpetuazione. Per altro, il governo statunitense rifornisce ininterrottamente Israele di armi e risorse per perseguire il suo assedio criminale degli oltre due milioni di palestinesi di Gaza, assicura allo Stato dell’apartheid una copertura diplomatica presso le Nazioni Unite e distorce od oscura sistematicamente la condotta barbara dell’IDF. A causa di tutto ciò si dovrebbe parlare più propriamente di genocidio israelo-statunitense. Analoga e corrispondente situazione nella parallela guerra per procura che la NATO sta combattendo contro la Federazione Russa tramite il sacrificio dell’Ucraina, dove decine e decine di migliaia di giovani ucraini, e anche russi, hanno già perso la vita in una delirante prova di forza cinicamente spinta e finanziata ad oltranza da potenze esterne.
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“State tranquilli…”, disse la rana mentre bolliva
di Dante Barontini
La frittata è fatta. Ora tutti i protagonisti, spalleggiati dai loro alleati, rimuginano sulle prossime mosse e lanciano bellicose minacce perché “gli altri” si fermino. E’ una danza tra soggetti che hanno bisogno di mostrarsi fortissimi, ma che sanno bene cosa rischiano. Eppure la logica di guerra, da sempre, spinge ad andare un passo oltre quel che si vorrebbe e potrebbe fare…
Stavamo camminando sul bordo del baratro da almeno tre anni, ma gli opinion maker dell’establishment – tutti o quasi, senza grandi distinzioni – ci dicevano ogni giorno di non preoccuparci. “Il nemico” c’è, è cattivissimo e crudele, ma in fondo “noi” (l’Occidente collettivo) siamo troppo forti e gli facciamo paura. Ergo, la sua faccia feroce è solo un bluff da andare a vedere, come a poker. Non c’è un vero pericolo se “agiamo subito”, perché se si aspetta troppo quel nemico può diventare molto più forte.
Non ci vuole una grande perspicacia per riconoscere in questo filo di “ragionamento” la narrazione di un guitto come Zelenskij o di un genocida come Netanyahu. Lo schema è identico, il “suggeritore” anche: l’imperialismo degli Stati Uniti.
Facile anche riconoscere nel “ragionamento” il riflesso narrativo di una condizione reale: l’Occidente neoliberista è in declino, sia sul piano economico (i suoi tassi di crescita sono ormai surclassati da oltre 20 anni, se non di più) che su quello “valoriale” (il doppio standard sistematico ha reso una barzelletta la pretesa di ergersi a “faro di civiltà”). La sua superiorità tecnologica è azzoppata, e sempre più spesso deve ricorrere alle sanzioni o dazi (o peggio, come ha mostrato per anni la vicenda Huawei) per proteggere i propri marchi dalla concorrenza. E neanche questo basta più (vedi la crisi dell’auto).
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La frattura ecologica nell’Antropocene
F. Querido, M. O. Pinassi e M. Löwy intervistano John Bellamy Foster
In un'intervista rilasciata alla rivista brasiliana Margem Esquerda, John Bellamy Foster condivide con Fabio Querido, Maria Orlanda Pinassi e Michael Löwy, le esperienze formative che hanno contribuito al suo lavoro di giovane attivista e, successivamente, di autorevole studioso del marxismo ecologico. L'intervista si conclude con un messaggio alla sinistra ecologica in Brasile e altrove: «Quali che siano le soluzioni alla crisi planetaria attuale, esse devono, in termini storico-materialistici, sorgere a partire da formazioni sociali concrete, sulla base delle quali avverranno le nuove trasformazioni rivoluzionarie».
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Fabio Querido, Maria Orlanda Pinassi e Michael Löwy: Per iniziare, raccontaci un po' della tua infanzia e giovinezza. Sei nato a Seattle, giusto?
John Bellamy Foster: Sì, sono nato a Seattle, stato di Washington. Quando avevo un anno, la mia famiglia si trasferì a Raymond, Washington, una città dove si lavorava il legname, dove mio padre faceva l'insegnante. A Raymond c'era una fabbrica di scandole di cedro rosso occidentale, di proprietà della Weyerhaeuser Company, che emetteva acido plicatico - responsabile dell'asma - nella polvere della pianta. Ho sofferto di asma cronica, insieme alle mie due sorelle. Quando avevo cinque anni ci siamo trasferiti a Ficrest, Washington, un sobborgo fuori Tacoma. All'epoca Tacoma era una delle città più inquinate degli Stati Uniti, a causa di una fonderia che rilasciava emissioni tossiche, e delle cartiere. Quando avevo sei anni, mia sorella minore, di tre anni, ebbe un grave attacco d’asma e fu portata d’urgenza in ospedale dove morì la notte stessa. Un paio di settimane dopo, anch'io ho avuto un grave attacco d’asma e sono stato portato d’urgenza in ospedale e ho rischiato di morire.
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La sottile linea rossa tra celodurismo e guerra aperta
di Enrico Tomaselli
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’attacco iraniano di ieri non apre una fase di guerra aperta tra Teheran e Tel Aviv. Nonostante tutto, siamo ancora nella fase della deterrenza – o, se si preferisce, del celodurismo.
Indiscutibilmente, e non poteva essere altrimenti, la rappresaglia iraniana è stata su una scala ben maggiore rispetto a quella dello scorso aprile, e aveva chiaramente lo scopo – ancora una volta – di inviare un messaggio a Israele e agli USA; messaggio sia sulla determinazione iraniana a non farsi intimidire, sia sulla propria capacità di risposta militare.
Con l’attacco di ieri, assai spettacolare, l’Iran ha quindi spostato un po’ l’asticella. Non c’è stato il largo preavviso della volta precedente, non c’è stato uso di droni (molto più lenti), la quantità di missili (quasi tutti balistici) è stata significativamente maggiore.
Altri elementi degni di nota dell’operazione sono stati: l’attacco più massiccio ad almeno 4 aeroporti (Tel Nof, Nevatim, Hatzerim, Lod), che rappresentano l’infrastruttura necessaria per l’aviazione – cioè lo strumento con cui maggiormente si manifesta la supremazia militare israeliana; la scelta di bersagli esclusivamente militari (l’occidente è risucchiato nel proprio ombelico, ma il resto del mondo vede la differenza con quanto fa Israele a Gaza e in Libano); la correlazione diretta tra bersagli e causale (aeroporto Nevatim, sede del Mossad e dell’unità 8200). E, ancora una volta, l’aver utilizzato solo una parte, e non la più avanzata, del proprio arsenale.
Al tempo stesso, non può sfuggire il fatto che ben tre degli obiettivi più rilevanti (Nevatim, Mossad, 8200) siano stati evacuati qualche ora prima, il che – al di là di una certa prevedibilità, e delle capacità d’intelligence – fa sospettare che qualcosa sia stato fatto volutamente filtrare, per ridurre al minimo il numero delle vittime.
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Ucraina, Libano, Cina: l’incredibile fenomeno editoriale che racconta la sconfitta dell’Occidente
di OttolinaTV
“Perché l’Occidente non accetta la propria sconfitta?”; eh, già: perché? A porsi la domanda nella prefazione della sua ultima fatica, La sconfitta dell’Occidente, è Emmanuel Todd, uno degli intellettuali francesi più originali e controversi degli ultimi decenni; celebre per aver previsto l’implosione dell’universo sovietico nel suo Il crollo finale del 1976 – come, d’altronde, di essersi completamente illuso sul crollo dell’impero USA e la rinascita europea nel suo Dopo l’Impero del 2003 – Todd ha l’innegabile pregio di porsi le domande fondamentali e di avere il coraggio di proporre delle risposte che, anche quando non sono del tutto condivisibili, danno un contributo fondamentale al dibattito. E lo fa da vero ottoliner: “La pace alle condizioni imposte dai russi” scrive infatti Todd “significherebbe una caduta di prestigio per gli Stati Uniti, il che significherebbe la fine dell’era americana nel mondo, il declino del dollaro, e quindi della capacità statunitense di vivere del lavoro complessivo del pianeta”, un lusso che gli USA, oggettivamente, non si possono concedere; secondo Todd, infatti, a partire dalla grande crisi finanziaria del 2008 “Gli Stati Uniti hanno rinunciato al controllo militare del mondo” e da allora “l’obiettivo principale è stato quello di rafforzare il controllo sugli alleati: dall’Europa occidentale al Giappone, passando per la Corea del Sud e Taiwan”. Dopo anni di tentato disaccoppiamento dall’economia cinese, infatti, gli USA importano ormai più dagli alleati vassalli che non dalla Cina e, ancor più che per i beni materiali, per i capitali che sostengono la finanza USA via paradisi fiscali, tutti rigorosamente sotto giurisdizione statunitense o, al limite, britannica. Ecco, così, che “La sopravvivenza materiale degli Stati Uniti dipende dal controllo dei propri vassalli”: “dal punto di vista statunitense quindi, la guerra deve continuare non per salvare la democrazia ucraina, ma per mantenere il controllo sull’Europa occidentale e sull’Estremo Oriente”.
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Il «ritorno del rimosso». Dalla guerra imperialista al conflitto nucleare?
di Gianmarco Pisa
Una riflessione sulle dinamiche del mondo contemporaneo, i recenti sviluppi dello scenario internazionale, le contraddizioni aperte e le sfide poste ai movimenti di lotta contro l’imperialismo, contro la guerra imperialista, e per la pace
Le coordinate dell’imperialismo
Se, riprendendo la celebre espressione di Jean Jaurès, “il capitalismo porta la guerra come la nube porta la tempesta”, e cioè la guerra è fattore intrinseco del modo di produzione capitalistico e naturale conseguenza della logica dell’accumulazione, della massimizzazione del profitto e dell’esasperazione della competizione su scala planetaria, che sono le fondamenta della logica e della struttura del capitalismo stesso, allora è a maggior ragione vero che l’imperialismo, in quanto «fase suprema del capitalismo», è sinonimo non solo di primato del capitale finanziario, ma anche, nuovamente, di guerra. Cosa significa, in tal senso, «fase suprema», è presto detto, tenendo a mente la fondamentale lezione di Lenin: l’imperialismo non è la fase “più avanzata” o “più evoluta”, quanto piuttosto la fase “terminale”, estrema e radicale, del modo di produzione capitalistico, nella sua evoluzione storica e sociale, giunto alla fase attuale del proprio sviluppo.
Ci allontaneremmo dal nucleo della riflessione se ci dilungassimo nella letteratura dedicata all’imperialismo e ai diversi modi di configurare la categoria stessa di imperialismo: seguendo ancora la traccia (teorica e politica) indicata da Lenin (1917), e quindi l’esigenza di una lettura e di un’interpretazione della categoria che siano, al tempo stesso, teoricamente solide (capaci di intercettare la sostanza del modo di produzione nella fase contemporanea del suo sviluppo storico) e politicamente efficaci (adeguate a fornire non solo categorie di interpretazione ma anche strumenti di lotta), vale la pena soffermarsi sui ben noti cinque “contrassegni”, vale a dire sulla caratterizzazione dell’imperialismo e su una possibile proiezione nell’attualità.
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Podemos, ascesa e fallimento
di Raúl Rojas-Andrés, Samuele Mazzolini, Jacopo Custodi
Il populismo di sinistra di Podemos è rimasto vittima della sua cultura elitaria. I leader della formazione viola sono riusciti a suscitare ammirazione intellettuale, ma non identificazione politica, e questo ha favorito il cortocircuito della sua operazione populista
Quest’anno ricorre un decennio dalla nascita di Podemos, il partito che è emerso sull’onda del movimento 15M e ha sfidato l’austerità nelle piazze delle principali città spagnole. Nei primi giorni, tutto sembrava possibile. Ben presto si è trovato in testa ai sondaggi nazionali con oltre il 20% di consensi, prevedendo di superare il Partito Socialista (PSOE) terremotando il sistema dei partiti che resisteva in Spagna dalla transizione alla democrazia alla fine degli anni Settanta.
Ma da allora molto è cambiato. Oggi, la rappresentanza di Podemos nel Parlamento spagnolo è scesa a soli quattro deputati. Al suo apice, ne aveva settantuno. Alle elezioni di giugno per il Parlamento europeo, Podemos e la sua costola, Sumar, hanno corso separatamente e hanno ottenuto rispettivamente solo il 3,3% e il 4,7%.
Podemos ha fatto irruzione sulla scena adottando una strategia populista ispirata alla sinistra latinoamericana e al lavoro del teorico politico argentino Ernesto Laclau. Si è discostato dalle logiche, dai discorsi e dai simboli tradizionali della sinistra spagnola. Invece di inquadrarsi in opposizione alla destra, ha cercato di fare appello al “popolo” in opposizione alla “casta”. Ma la sua strategia si trovò ben presto divisa in due fazioni opposte.
La prima, guidata da Pablo Iglesias e nota come “pablismo”, sosteneva un ritorno a un’identità apertamente di sinistra. La seconda, quella guidata da Íñigo Errejón, riuniva coloro che volevano mantenere la tabella di marcia populista: costruire ampie maggioranze attorno a un discorso volutamente ambiguo, abbastanza ampio da includere settori diversi e non politicizzati della popolazione. L’“Errejonismo” ha finito per lasciare il partito dando vita a un proprio gruppo, Más País, che ora fa parte di Sumar.
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Jean Luc Nancy e il non finito della democrazia
di Alessandro Simoncini
La democrazia neoliberale di cui oggi sperimentiamo l’ormai lunga crisi, non è mai stata la democrazia trionfante e compiuta che si sarebbe dovuta affermare sulla spinta della vittoria epocale del mercato. Dopo quella che in modo hegelianamente perverso Francis Fukuyama definì la fine della storia, la sconfitta del “socialismo reale” e di ogni comunismo inteso come possibile alternativa politica, economica e sociale, non ha portato a una felice fine della democrazia[1]. Al contrario – sopravvissuta come uno zombie alla “fine della fine della storia” – più che realizzare una democrazia senza fine, almeno a partire dalla crisi degli anni ’70 la democrazia neoliberale ha covato a lungo in seno tutte le contraddizioni che rischiano oggi di condurre a una fine della democrazia di segno del tutto opposto a quella gaudente ed espansiva auspicata da Fukuyama[2]. Di tutto ciò era pienamente consapevole Jean-Luc Nancy, quando nel 2019 scriveva: “trent’anni dopo la caduta del muro di Berlino e della cortina di ferro i conti con i sogni sull’estensione mondiale della democrazia non tornano”[3]. A fare i conti con quei sogni, del resto, Nancy ha dedicato una parte significativa sua riflessione politica e testi molto rilevanti. Le pagine che seguono prendono in esame solo una piccola parte dell’una e degli altri.
- Critica dello spettacolo e della democrazia “gestionale”
Già alla metà degli anni ’90, nel suo Essere singolare plurale, un libro che non trattava ancora direttamente il tema della democrazia, Nancy sosteneva che le società democratiche capitalistiche realmente esistenti erano svuotate di ogni “«sociazione», di ogni «mettersi in società», per non parlare – aggiungeva senza nostalgie –, delle «comunità» e delle «fratellanze» con cui si forgiavano un tempo le scene primordiali”[4].
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Laboratorio Palestina
di Nico Maccentelli
Antony Loewenstein: Laboratorio Palestina, Fazi Editore, 2024, pg. 336, € 20,00
Come Israele esporta la tecnologia dell’occupazione in tutto il mondo
Per prima cosa due premesse. La prima: oggi più di ieri a fare qualsiasi critica a Israele si viene tacciati di antisemitismo. Nulla di più falso per quanto riguarda la gran parte di coloro, soggetti, movimenti od organizzazioni che sostengono la Resistenza Palestinese e il diritto del popolo palestinese ad avere una sua terra. Tanto più che i palestinesi sono semiti, per cui l’accusa oltre che essere falsa è pure demenziale, se non si sapesse che chi la formula è in perfetta malafede. Se l’hasbara, ossia quella rete ben organizzata dal sionismo per screditare e buttare fango su tali realtà solidali con il popolo palestinese e che è ramificata in ogni partito istituzionale, in ogni redazione mediatica, insomma ovunque viene prodotta informazione e politica, è così potente una ragione c’è.
E qui passiamo alla seconda premessa: la ragione sta nel fatto che senza Israele, l’Occidente collettivo, ossia quella parte di mondo dominata dall’unipolarismo atlantista a dominanza USA, avrebbe seri problemi di tenuta davanti all’avanzare di quell’altra parte di mondo che si sta affermando sul piano economico e geopolitico e con i conflitti in corso anche sul piano militare. La questione palestinese non è qualcosa di a sé stante ma è parte di quella guerra mondiale a pezzi, per parafrasare il papa, che rischia ogni giorno di più di diventare mondiale e nucleare. Per questa ragione, al di là degli appelli pelosi e ipocriti di tale Occidente a una tregua in Palestina e in Libano, la potenza militare di questo cane da guardia che non conosce limiti e regole, serve eccome.
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L’arretratezza del rapporto Draghi sulla competitività europea
di Andrea Fumagalli
Qualche giorno fa, la commissione Europea ha reso pubblico il rapporto Draghi sul “Futuro della competitività europea”. Tale rapporto era stato commissionato all’ex governatore della Bce per avere un quadro analitico della realtà economica, produttiva e finanziaria del continente.
Il rapporto consta di due parti – parte A e parte B – e contiene 170 proposte concrete a livello generale poi declinate in sottoproposte di vario tipo.
La prima parte è un’analisi riguardante la strategia di competitività per l’UE che vede condensate in circa 60 pagine i punti chiave del rapporto Draghi.
La seconda parte approfondisce in 328 pagine i vari punti individuando dieci principali settori di intervento (energia, materie prime critiche, digitalizzazione e tecnologie avanzate, industrie ad alta intensità energetica, tecnologie pulite, automotive, difesa, spazio, industria farmaceutica e trasporti) e cinque policy orizzontali, rispettivamente accelerazione dell’innovazione, riduzione del gap delle competenze, sostegno agli investimenti, ripresa della competitività e rafforzamento della governance. Nella parte B sono contenute le proposte dettagliate corredate da grafici, dati e tabelle che spiegano in particolare i costi della sovranità nazionale e le potenzialità della sovranità europea.
Diverse sono state le reazioni politiche in Italia. Mentre partiti come il Partito Democratico, Forza Italia, Fratelli d’Italia, Azione e Italia Viva hanno ampiamente concordato – anche se con sfumature diverse – che le proposte di Draghi sono un passo nella giusta direzione, la Lega, da un lato, il Movimento Cinque Stelle e Alleanza Versi Sinistra, dall’altro, con motivazioni antitetiche, hanno manifestato forti perplessità critiche.
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"Le tensioni mondiali sono frutto della resistenza dell’ordine coloniale contro il nuovo ordine multipolare"
intervista a Stephen Brawer
“Il pensiero neomalthusiano è una delle cause principali di guerre e conflitti, e persino del possibile scoppio di una guerra nucleare globale. Il suo obiettivo rimane quello di mantenere il mondo coloniale e imperiale”, ha dichiarato a Magyar Demokrata Stephen Brawer, filosofo newyorkese e presidente del Belt and Road Institute in Svezia.
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Signor Brawer, mentre un nuovo ordine mondiale multicentrico continua a dispiegarsi davanti ai nostri occhi, il termine “élite globalista” viene spesso usato per descrivere il potere mondiale contestato. Come definirebbe questo gruppo, chi sono queste persone e da dove vengono?
Grazie per l'opportunità di condividere con voi il mio punto di vista e le mie intuizioni. L'idea di base a cui lei si riferisce è spesso indicata come ordine mondiale unipolare o ordine mondiale basato su regole, che è stato un fattore dominante nella struttura del potere globale. Al momento credo sia molto chiaro che la situazione si sta muovendo verso una situazione molto pericolosa in cui il mondo sarebbe nuovamente diviso in blocchi, come ai tempi della cosiddetta Guerra Fredda. Credo che se ci impegniamo a fondo possiamo sperare di evitarlo. Per quanto riguarda la domanda su chi siano queste élite, esiste una struttura di potere che ha una base storica. Di solito ciò a cui mi sono riferito richiede la necessità di comprendere il lungo arco della storia. In questo contesto, credo sia molto importante identificare l'idea di quella che è la struttura di potere anglo-americana, che è stata fondamentalmente la potenza dominante dalla fine della Seconda guerra mondiale.
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Una facile profezia. La storica analisi di Hirsch jr. sulla scuola
di Giovanni Carosotti
Nel 1997 e 1998, ormai quasi trent’anni fa, furono pubblicati i primi studi in cui si esprimeva grave preoccupazione nei confronti di un’azione politica che intendeva radicalmente trasformare, in senso anti culturale, la scuola pubblica italiana. Tra gli autori pochi insegnanti, a parte qualche lodevole eccezione (Fabrizio Polacco, La cultura a picco), che dovevano forse ancora rendersi conto di quanta determinazione si stava investendo per stravolgere il senso della loro professione. A farsi carico di questa denuncia furono importanti figure intellettuali, che avevano colto i pericoli di una strategia falsamente riformatrice i cui obiettivi rispondevano a criteri di dominio economico, e il cui interesse conseguente era dunque quello di indebolire il senso critico degli studenti, per renderli soggettività integrate in un sistema di valorizzazione, incapaci di una reale critica sistemica. Oltre al giustamente famoso Segmenti e bastoncini di Lucio Russo, l’altro testo decisivo fu La scuola sospesa di Giulio Ferroni. Ciò che colpisce in questi lavori è la capacità di intuire gli effetti deleteri di lungo e lunghissimo periodo di quelle scelte, che avrebbero investito non solo l’istituzione scolastica, ma l’intera società nel suo complesso, e reso sempre meno capace l’opinione pubblica di interfacciarsi in modo consapevole con le trasformazioni politico-economiche in atto, senza rendersi conto di quanto queste, in alcuni casi, andavano a contraddire lo stesso spirito fondativo della Costituzione repubblicana. Una serie di riflessioni che, rilette oggi (e giustamente nel 2016 Feltrinelli ha riedito il testo di Russo), sembrano profetiche; espresso in un periodo – è bene notarlo – in cui si dubitava che le intenzioni radicali della classe politica potessero avere ragione nei confronti di lavoratori intellettuali, i docenti, ancora pienamente consapevoli del valore culturale del proprio lavoro (e l’ultima dimostrazione di tale consapevolezza fu l’opposizione al cosiddetto “concorsone” voluto dal ministro Berlinguer).
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Lotta di classe e lotta anticoloniale in Palestina
di Jacques Bonhomme
1. Dal presente al passato: vecchie storie da non dimenticare
Quando sono in corso rivoluzioni o guerre civili, le svolte diplomatiche più sorprendenti possono essere una “continuazione della lotta rivoluzionaria con altri mezzi” - per parafrasare il celebre detto dell’altrettanto celebre generale prussiano -, e così è stato a Brest-Litovsk, nel 1918, o in Cina, tra i comunisti e il Kuomintang, nel 1937, di fronte all’invasione giapponese. Ma quando, come appare prepotentemente nel caso della Palestina, una Rivoluzione scaturisce da una Resistenza anticoloniale lunga e sofferta, costellata di offensive e di repressioni spietate, certe svolte diplomatiche tendono ad aprire, e a esasperare, un dualismo fra due livelli, e di conseguenza fra due forme, della lotta: l’articolazione delle alleanze e l’articolazione degli obiettivi. L’apparente complementarità di queste due forme e di questi due livelli della lotta non deve, però, ingannare, poiché le alleanze e gli obiettivi non si accordano mai spontaneamente e soprattutto – a causa della contraddizione che li oppone – non si accordano mai stabilmente. In alcune circostanze le alleanze e gli obiettivi si divaricano ampiamente.
Per quanto riguarda la Palestina, il dualismo concerne due scene non componibili: da una parte l’accordo di Pechino, con il quale le autorità cinesi hanno precostituito, all’ombra dei propri investimenti di capitale nell’area mediorientale, una riconciliazione al ribasso fra tutte le organizzazioni palestinesi e dall’altra le iniziative autonome delle formazioni della Resistenza, come, per esempio, la diffusione di una guerriglia capillare della popolazione palestinese in Cisgiordania, una guerriglia destinata a generalizzare e a radicalizzare lo scontro con lo Stato sionista nelle zone affidate alla sorveglianza dell’ANP, il solerte poliziotto di Israele.
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Benedetto Croce: pregi e limiti di un autore classico
di Eros Barone
È invece in quel Croce che seppe meditare… sui meccanismi dell’autorità, della forza e della violenza nella esistenza dei singoli, delle classi, dei ceti e dei popoli, che possiamo ancora oggi trovare un aiuto contro le stoltezze pseudo-etiche che intessono la ideologia italiana incaricata di distrarci dalle vere ragioni dei conflitti… Croce sapeva bene di dovere i propri privilegi alla violenza giacobina del 1793 e ai bersaglieri che dopo il 1860 ammazzarono, nella guerra al ‘brigantaggio’, più contadini del sud di quante vittime fossero costate, tutte insieme, le guerre del Risorgimento.
Franco Fortini
Due anni fa il 70° anniversario della morte di Benedetto Croce (1866-1952) non ebbe una particolare risonanza se non in alcuni ristretti circoli accademici. Già allora la vicinanza e la distanza, tipiche delle ricorrenze anagrafiche degli autori classici, si sovrapponevano e si intrecciavano, conferendo, per un verso, un carattere quasi protocollare al giudizio consolidato sul rilievo storico del filosofo abruzzese, ma rendendo più problematico, per un altro verso, un bilancio obiettivo della sua opera. Vediamo allora di sciogliere, almeno in parte, questa antinomia, tratteggiando a grandi linee la vita e la molteplice produzione di una tra le più importanti personalità della cultura italiana della prima metà del Novecento.
- Il giovane Croce
Iscrittosi con scarso entusiasmo alla facoltà di giurisprudenza, il giovane Croce fu attratto soltanto dall’insegnamento vivo e anticonformista di Antonio Labriola, una figura chiave del marxismo teorico italiano a cavallo fra i due secoli, che lasciò un’impronta profonda nella formazione intellettuale di quell’allievo quanto mai dotato.
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Innovazioni linguistiche nel conflitto israelo-palestinese
di Paolo Ruta
Nella loro costante e inarrestabile trasformazione le lingue sono inevitabilmente democratiche. Per affermarsi, ogni loro mutamento deve passare al vaglio della maggioranza o, per dirla con un lessico particolarmente in voga, deve diventare virale. Infatti, è la diffusione attraverso l’uso a determinare il successo di un’innovazione linguistica, in quanto esprime il consenso da parte dei parlanti che la adottano spontaneamente.
Dopo i fatti del 7 ottobre 2023, diverse lingue occidentali hanno visto la diffusione di una particolare innovazione linguistica promossa principalmente da una parte della politica e dell’informazione, il cui successo tra i parlanti è però ancora da verificare sul lungo periodo. Il fenomeno è conosciuto come risemantizzazione estensiva e interessa la parola antisemitismo.
Prima di concentrarci su questo punto occorre ribadire che per secoli l’ostilità antiebraica non ha avuto significanti atti a rappresentarla: “in una società come quella cristiana, in cui le minoranze ebraiche vivevano nettamente separate dalla maggioranza e in cui le formulazioni teologiche e la stessa liturgia contenevano espressioni codificate di ostilità antiebraica, essa appariva come un atteggiamento naturale, che non necessitava di un nome.” Si trattava di un’avversione di tipo teologico basata sugli antichi pregiudizi deicidi generati in seno alla comunità cristiana delle origini, e che solo a partire dalla seconda metà del ‘900 ha trovato nella parola antigiudaismo un segno linguistico creato e diffuso principalmente dagli storici che hanno studiato il fenomeno in relazione al posizionamento della chiesa cattolica nel contesto della Shoah.
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Scuola fascista e scuola 4.0
di Fabio Bentivoglio
In occasione della riapertura delle scuole, portiamo all’attenzione dei lettori un importante articolo di Fabio Bentivoglio, filosofo e saggista, apparso su l’Indipendenza, n. 58, luglio – agosto 2024. Ringraziamo l’autore, l’editore e Michele Maggino
“La scuola fascista” è il titolo di un saggio a cura di Gianluca Gabrielli e Davide Montino, pubblicato da Ombre corte nel 2009, organizzato in trentotto voci redatte da dodici ricercatori, incentrato su un’analisi a largo spettro delle fonti materiali, che si intreccia con una riflessione critica di spessore. Sono oggetto di esame gli elaborati scolastici, Befana fascista, arredi e decorazioni scolastiche, registri di classe, quaderni, libri di testo e altro. L’indagine – si legge nella quarta di copertina – si sviluppa da un lato attorno agli elementi istituzionali e organizzativi che caratterizzarono gli interventi del fascismo, dall’altro attorno alla cultura materiale della scuola del ventennio, che si modificò e subì fortissime torsioni sotto una spinta volta all’indottrinamento e alla socializzazione politica delle nuove generazioni.
Bene. Si metta in parallelo quanto emerge da questo testo circa gli interventi capillari del regime in ambito scolastico, con quanto prevede il decreto ministeriale “Piano Scuola 4.0” varato dal governo Draghi il 14 giugno 2022, in merito a istruzione e ricerca 1. Si tratta di verificare se, al di là, ovviamente, della diversità degli specifici contenuti delle prescrizioni imposte, esista una matrice comune tra il progetto di scuola del regime e il progetto della Scuola 4.0: una matrice comune riconducibile a due diverse declinazioni del totalitarismo, quello novecentesco, declinato sul piano politico, e quello contemporaneo, declinato sul piano tecno-aziendale.
Per chiarezza: in sede storica la categoria di totalitarismo indica la riduzione delle molteplici istituzioni e delle molteplici sfere di attività proprie di una società moderna a una totalità unitaria che obbedisce a un’unica logica di funzionamento, tale da non ammettere criteri di giudizio e scelte operative difformi da quelle prescritte.
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Spunti per una discussione necessaria
dal Forum italiano dei comunisti
Una nuova fase di lavoro
Abbiamo più volte ribadito che l'obiettivo del Forum non è creare un nuovo gruppo politico o mantenere steccati fittizi, ma aprire nell'area comunista un dibattito e un rapporto nuovo che contribuisca a superare lo stato in cui versano gruppi e anche singoli compagni e che fino a oggi ha prodotto solo macerie e mistificazioni.
Nei dieci mesi che ci separano dall'inizio dell'attività del Forum ci siamo concentrati soprattutto nel definire la necessità che si ponga fine a nuove avventure corsare e a un modo romantico e soggettivo di intendere la ripresa di un movimento comunista in Italia. Su questo continueremo a insistere, aprendo interlocuzioni che, seppure difficoltose, sono l'unico strumento che ci può permettere di scavare sui luoghi comuni, le ambiguità e le improvvisazioni che hanno caratterizzato finora l'esperienza comunista. Senza la pretesa di salire in cattedra, ma cercando di arrivare, attraverso l'analisi e la discussione, a un punto di vista comune e a ipotesi di lavoro politico sufficientemente verificate.
Per il futuro non ci aspettiamo dunque svolte organizzative che annuncino la nascita di una nuova verità che dovrebbe riaggregare le esauste schiere di comunisti che per decenni hanno provato a riorganizzarsi. Crediamo, invece, che sia arrivato il momento di aprire una fase in cui le questioni di fondo che riguardano l'avvenire dei comunisti italiani vengano messe al centro di una elaborazione collettiva che ci faccia fare dei passi in avanti.
Imboccare questa strada è arduo e presuppone che di fronte al bilancio negativo si eviti di rinchiudersi in nicchie organizzative o culturali che sono solo dimostrazioni di difficoltà nel rapportarsi alla realtà. Per noi comunisti la teoria è la scienza della trasformazione.
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Gli USA dichiarano l’inizio della terza guerra mondiale e invocano lo stato di guerra permanente
di OttolinaTV
L’Europa che dà il via libera all’impiego dei suoi missili a lungo raggio per colpire direttamente il territorio russo; Israele che, col sostegno incondizionato degli USA, si prepara ad attaccare il Libano e prova in ogni modo ad allargare il conflitto all’intero Medio Oriente; Africa e America Latina che tornano a incendiarsi tra golpe tentati, golpe riusciti, guerre per procura e guerre ignorate; e tutti gli alleati occidentali che insieme appassionatamente, come se non avessero già abbastanza guai sugli altri quattro fronti, trovano anche il tempo per andare a stuzzicare i cinesi nel loro giardino di casa, tra gite in barca di tedeschi e italiani nello stretto di Taiwan e sistemi d’arma Typhon installati in pianta stabile nelle isole settentrionali delle Filippine. Vista superficialmente, sembra una caotica guerra mondiale a pezzi, come la definiva il compagno Papa Ciccio; in realtà, però, è tutto meno caotico e improvvisato di quanto non appaia: lo spiega chiaramente e con dovizia di particolari questo lungo documento licenziato nel luglio scorso dal Congresso degli Stati Uniti e che, molto stranamente, era passato sostanzialmente inosservato. E’ il rapporto finale della commissione sulla National Defense Strategy, il documento che mette nero su bianco la strategia complessiva dell’impero a stelle e strisce; il rapporto ufficiale, che abbiamo descritto in lungo e in largo negli anni passati, era stato pubblicato nell’ottobre del 2022 con oltre un anno di ritardo perché, nel frattempo, con l’inizio della fase 2 della guerra per procura in Ucraina il mondo era cambiato. Evidentemente, però, il mondo continua a cambiare molto più rapidamente di quanto gli analisti del dipartimento della difesa USA impiegano a comprendere questi cambiamenti e a dire come andrebbero affrontati; ed ecco così che, a meno di due anni di distanza, una commissione di altissimo livello è costretta a rimettere mano all’intero dossier per arrivare ad ammettere, nel modo più chiaro possibile immaginabile, quello che da mesi continuiamo a ribadire in ogni occasione: gli Stati Uniti sono, a tutti gli effetti, già in guerra contro il Sud globale.
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Le trappole della democrazia borghese e la verità del socialismo bolivariano
di Geraldina Colotti
“Mai ci è importato che alcuni fascisti europei votino una risoluzione senza nessun valore contro la sovranità del Venezuela”. Così, con la dignità e l’orgoglio di chi si sente erede del Libertador Simon Bolivar, il presidente dell’Assemblea venezuelana, Jorge Rodriguez, durante una conferenza stampa internazionale, ha commentato la decisione dell’Eurocamera di “riconoscere” come “presidente eletto” del Venezuela, l’ex candidato dell’estrema destra, Edmundo Gonzalez Urrutia.
Dello stesso tenore la reazione dell’ambasciatore all’Onu, Alexander Yánez, che ha definito un “ridicolo volantino” dettato da Washington la dichiarazione con cui, al Consiglio per i diritti umani, 40 paesi hanno “denunciato Nicolás Maduro”. In un successivo comunicato, il ministro degli Esteri venezuelano, Yvan Gil, ne ha precisato i termini, denunciando il tentativo di rieditare il fallito Gruppo di Lima, azionato ai tempi della precedente autoproclamazione, nel 2019.
Grottesco che a guidare all’Onu la condotta del gruppo sia stata la ministra degli Esteri argentina, Diana Mondino, portavoce di quel Javier Milei che sta calando quotidianamente la “motosega” sui diritti basici del popolo argentino. Insensato che i rappresentanti dei paesi europei definiscano una golpista dichiarata e confessa come Maria Corina Machado “leader delle forze democratiche”. Significativo, invece, che il magnate delle piattaforme digitali, Ellon Musk, abbia ricevuto in pompa magna Milei e che ora abbia dato un premio alla presidente del consiglio italiana, Giorgia Meloni, di estrema destra. Tutti, ovviamente, grandi campioni di democrazia. E altrettanto “democratiche” sono le minacce proferite dal capo di Black Water, Erik Prince, di riservare “sorprese” mercenarie al Venezuela, come poi è puntualmente accaduto, nel silenzio assordante dei media europei.
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