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Da Israele un blando attacco all’Iran ma la vera sfida è con l’Occidente
di Gianandrea Gaiani
La contro-rappresaglia israeliana per i raid con droni e missili di Teheran che avevano colpito la base aerea di Nevatim e installazioni militari nel Golan alla fine ha avuto luogo la notte del 19 aprile a quanto sembra con un raid limitato all’impiego di 3 UAV a lungo raggio armati con altrettanti missili lanciati contro una installazione radar della difesa aerea iraniana a Isfahan, nell’Iran centrale.
Lo ha detto una fonte governativa statunitense alla emittente televisiva ABC parlando di “attacco limitato” aggiungendo che il radar faceva parte della struttura di difesa posta a protezione dell’installazione per la ricerca nucleare di Natanz, programma che secondo diversi osservatori avrebbe potuto essere nel mirino di Israele col rischio di scatenare una ulteriore massiccia risposta iraniana.
Secondo la fonte della ABC “Israele intendeva far capire all’Iran di avere queste capacità” anche se i tre UAV con la stella di David sembra siano stati abbattuti dalla difesa aerea iraniana: al tempo stesso il governo israeliano ha eseguito la rappresaglia che Stati Uniti ed europei avevano cercato di scongiurare per evitare ulteriori escalation ma l’ha effettuata in modo quasi simbolico senza probabilmente scatenare ulteriori risposte dall’Iran.
Israele del resto non intendeva rinunciare al “diritto di replica” (il 18 aprile il ministro della Difesa Yoav Galant aveva detto “Israele deve sapere che ha libertà di azione per fare ciò che vuole, e c’è la garanzia che ciò che è deciso venga anche attuato”) pur senza provocare troppi danni all’Iran e soprattutto senza irritare troppo gli alleati occidentali. Funzionari statunitensi avevano infatti negato il 18 aprile che l’amministrazione Biden avesse dato il via libera a un’operazione terrestre israeliana a Rafah, ultimo baluardo di Hamas nella Striscia di Gaza se Israele avesse rinunciato a colpire l’Iran.
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Storie di solidarietà e resistenza
Ed Rampell intervista Ken Loach
Ken Loach parla del suo ultimo film, The Old Oak, e riflette sulle forme di lotta e alleanza tra chi è costretto a vendere il proprio lavoro e chi ne trae profitto
Da quando la commedia televisiva della Bbc Cathy Come Home del 1966 ha innescato cambiamenti nelle leggi inglesi sui senzatetto, Ken Loach, figlio di un elettricista, ha fatto film su personaggi ordinari e semplici. Persone alle prese con sistemi capitalisti ingiusti e crudeli – dalla classe operaia in Gran Bretagna alla guerra dei Contras in Nicaragua, fino alle ribellioni irlandesi di Los Angeles con la campagna di organizzazione sindacale Justice for Janitors per azioni segrete a Belfast – così come documentari come quello del 2016 In conversazione con Jeremy Corbyn, il leader di sinistra del partito laburista.
The Old Oak è l’ultimo film sulle sofferenze della gente comune dell’infaticabile esponente socialista. Dopo una lunga e illustre carriera nel mettere in scena e documentare i dannati della terra, The Old Oak è anche l’ultimo lungometraggio di Ken Loach, che compirà ottantotto anni il prossimo giugno. Tra i tanti riconoscimenti di Loach ci sono due Palme d’Oro al Festival di Cannes, tre Premi César e tre Premi Bafta, ma nel 1977 rifiutò la medaglia di Ufficiale dell’Ordine dell’Impero Britannico. Per lo storico del cinema David Thomson, «nella sua dedizione e serietà, è una figura esemplare». Lo abbiamo intervistato via Zoom mentre si trovava nel West Country, in Inghilterra.
* * * *
Raccontaci di The Old Oak, cosa ti ha spinto a girare un film su questa storia?
Avevamo girato due film nel nord-est [dell’Inghilterra]. Uno [Io, Daniel Blake, 2016] sul modo in cui alle persone vulnerabili viene negato il sostegno finanziario a cui hanno diritto da parte di uno Stato che vede la povertà come un modo per disciplinare la working class. Il secondo film [Sorry We Missed You, 2019] parlava dell’insicurezza del lavoro e della gig economy. Non hai sicurezza sul lavoro, sei visto come un lavoratore indipendente, quando in realtà sei un dipendente, ma non hai i diritti di un dipendente, anzi, non hai alcun diritto sul lavoro. Riguardava le conseguenze di tutto questo sulla vita familiare.
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Scontro Israele-Iran e rischi di regionalizzazione del conflitto
di Roberto Iannuzzi
I missili iraniani nei cieli d’Israele segnano una svolta negli equilibri mediorientali
Come di consueto, molti commentatori occidentali hanno perlopiù travisato, talvolta demonizzato, o perfino deriso, le ragioni e la portata della rappresaglia iraniana compiuta in territorio israeliano.
Essa, facendo emergere la pluriennale “guerra ombra” fra Israele e Iran, finora combattuta prevalentemente “per procura” attraverso una pletora di attori regionali, e trasformandola per la prima volta in un confronto militare diretto, segna nondimeno una pericolosa svolta negli equilibri mediorientali.
Dopo alcuni giorni di attesa, la risposta più volte ventilata dal governo Netanyahu, ma scoraggiata da Washington, è giunta stanotte sotto forma di un attacco limitato, compiuto da piccoli droni (quadricotteri) contro la base militare di Isfahan.
Un episodio che non sembra aver provocato danni (i quadricotteri sono stati abbattuti), e parrebbe un segnale di de-escalation, se non vi saranno altri attacchi nei prossimi giorni (maggiori dettagli più in basso nell’articolo).
La possibilità di uno scontro diretto fra Israele e Iran è però ora una realtà regionale con cui bisogna fare i conti.
Gaza come chiave di volta
La rappresaglia iraniana, consumatasi la notte fra sabato 13 e domenica 14 aprile in conseguenza del precedente bombardamento israeliano del consolato iraniano a Damasco, non rappresenta semplicemente un inedito capitolo del confronto regionale fra Israele e Iran.
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SoftWar
di Giulio De Petra
Alla digitalizzazione della guerra corrisponde la militarizzazione del digitale. L’utilizzo dell’AI nella guerra di Gaza è solo la parte visibile di una più vasta e intensa torsione bellica della produzione digitale
Lavender
Da quando l’inchiesta di Yuval Abrahm sulla rivista israeliana +972 Magazine ha raccontato come l’esercito israeliano stia intensamente utilizzando sistemi basati su intelligenza artificiale nella guerra di Gaza, grande è stata l’attenzione che la stampa ha dedicato al funzionamento e all’uso di ‘Lavender’, che è il nome del sistema di AI appositamente realizzato.
In particolare opinionisti ed esperti sono rimasti colpiti dal fatto che l’individuazione dei bersagli da uccidere fosse di fatto delegata al sistema digitale senza alcuna revisione o intervento da parte di militari ‘umani’.
Poiché i bersagli da uccidere sono i militanti di Hamas ci si è interrogati su quali fossero i criteri con cui il sistema individua chi sia un militante di Hamas, attribuendo anche un rango al bersaglio (capo, ufficiale, soldato semplice, fiancheggiatore), rango che, come vedremo, genera effetti significativi nelle procedure di ‘eliminazione’ del bersaglio.
E poi quali fossero gli indizi, sempre valutati dal sistema automatico, che associavano il bersaglio così individuato a un punto effettivo sulla mappa di Gaza da colpire.
E, in presenza di percentuali di errore stimate del 10% dei casi, si è criticata l’assenza di ogni controllo umano, che forse avrebbe diminuito di qualche punto percentuale la possibilità di un falso positivo, cioè di far diventare un bersaglio chi non era un militante di Hamas.
Si sono cioè utilizzati, nell’analisi e nel commento, gli stessi argomenti di valutazione di un sistema digitale automatico di predizione che si sarebbero utilizzati per una campagna di marketing progettata per vendere aspirapolvere.
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Lenin a Wall Street: imperialismo e centralizzazione nel XXI secolo (II)
di Andrea Pannone
A 100 anni dalla morte di Lenin (21 gennaio 1924) e nel pieno di una fase storica nuovamente caratterizzata dalla contrapposizione diretta tra superpotenze mondiali, una riflessione critica sul concetto di imperialismo formulato dal leader bolscevico nel 1917 assume una specifica rilevanza. Partendo da qui, questo scritto si focalizza sul nesso tra eccesso di capacità produttiva e centralizzazione internazionale dei capitali alla luce del processo di finanziarizzazione dell’economia mondiale che sta caratterizzando il XXI secolo. La nostra tesi, infatti, è che i connotati assunti da questi tre fenomeni negli ultimi quindici anni concorrano in modo decisivo a interpretare la natura delle recenti tensioni belliche tra alcune nazioni.
Il lavoro è organizzato come segue. Nel primo paragrafo si esamina la categoria centrale della teoria dell’imperialismo di Lenin ossia il concetto di esportazione di capitale in eccesso. Nel secondo paragrafo si cerca di evidenziare l’attuale rilevanza di questa categoria concettuale alla luce di quella che può essere considerata una sua proxy: gli investimenti diretti esteri. Nel terzo paragrafo si esamina il nesso tra eccesso di capacità e centralizzazione del capitale nella sua evoluzione storica, a partire dagli anni ’90 del secolo scorso. Il quarto paragrafo analizza la crescente influenza delle oligarchie economico-finanziarie sulle politiche degli Stati e sulle relazioni internazionali. Il quinto paragrafo conclude evidenziando il ruolo dei conflitti bellici nell’equilibrio instabile tra gruppi di potere che perseguono logiche di accumulazione diverse.
Pubblichiamo oggi la seconda parte dello scritto (A.P.)
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IV. Oligarchie economico-finanziarie e potere politico
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Questioni di genere nella sinistra di classe
di Elisabetta Teghil
Mi sta a cuore mettere qualche punto fermo sulla questione che viene chiamata ormai abitualmente <questione gender> (anche se già chiamarla così e definirla come se fosse una questione a parte significa che stiamo facendo il gioco del potere che mette un gruppo sociale contro l’altro, una guerra tra poveri insomma) perché è necessario sapere da dove si parte e se ci sono delle premesse condivise. Io sono materialista e parto da questo terreno. Quindi, per me, ne discendono alcuni posizionamenti di fondo.
Penso che l’approccio etico alle questioni, quali che siano, non ci dovrebbe appartenere, noi non ragioniamo in termini di giusto-sbagliato, bene-male, buoni-cattivi… riteniamo che la storia sia lotta di classe, verità di una classe contro l’altra, rapporti di forza… È chiaro che abbiamo dei valori, ma la scala di valori non è una premessa da imporre, viene dalle lotte che portiamo avanti contro lo sfruttamento, l’oppressione, la soggezione… dove possiamo trovare compagni/e di strada con cui sperare di uscire da questa società e con cui sperare magari di costruire una scala di valori comune.
Dovremmo evitare accuratamente di parlare di natura, di naturalità delle cose, di natura come riferimento perché sappiamo che tutto quello che ci circonda è un prodotto sociale e una costruzione sociale, natura compresa. A quale naturalità dovremmo fare riferimento? a quella del neolitico? a quella del secolo scorso? a quella di ieri? Illuminanti in questo senso sono gli scritti di Colette Guillaumin, femminista materialista francese, di cui in Italia è stato tradotto poco ma è uscito nel 2020 Sesso, razza e pratica del potere. L’idea di natura.
Ci sono esseri umani che hanno organi riproduttivi di un tipo e vengono chiamati maschi, esseri umani che ne hanno altri e vengono chiamati femmine, altre varianti minoritarie che non vengono nemmeno prese in considerazione e, in questa società, corrette alla nascita, ma questo è un dato, evitiamo di aggiungere la specificazione di natura perché ci trascina su un terreno senza costrutto e che non ci appartiene.
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Eros della guerra
di Emiliano Brancaccio, Elisa Cuter
Da oggi è in libreria il libro dell’economista Emiliano Brancaccio Le condizioni economiche per la pace (Mimesis, Milano). Nel libro è contenuto un dialogo con Elisa Cuter (una degli editor di questa rivista), di cui riportiamo un estratto.
* * * *
Elisa Cuter: Un tempo si diceva “fuck for peace”, che in versione edulcorata e pubblicabile divenne “make love, not war” grazie a un’intuizione di Penelope Rosemont e altri attivisti, e poi fu riciclato in diverse varianti, tra cui la più hippy probabilmente era “put flowers in your guns”. Questi slogan ebbero un enorme successo mondiale alla fine degli anni Sessanta, nel pieno delle proteste contro la guerra in Vietnam. Viceversa, oggi non sono soltanto dei motti sbiaditi, sono proprio indicibili. Nemmeno il più gretto censore perderebbe tempo a passarci il bianchetto, visto che appaiono talmente assurdi che nessuno oserebbe farli entrare nel gergo pacifista. Insomma, mettere la liberazione dell’amore contro la schiavitù della guerra prima funzionava e adesso proprio no. Questo cambiamento mi pare un fatto rilevante, che rende la questione non di costume ma proprio politica, nel senso che sembra cogliere un mutamento storico essenziale. Quindi voglio domandarti: perché oggi anche solo sussurrare lo slogan “make love, not war” sembra un anacronismo senza senso, una roba da pazzi?
Emiliano Brancaccio: Perché all’epoca tutti mettevano il naso per aria e sentivano l’odore seducente della “rivoluzione”. Oggi la sensazione generale è che l’aria sia stata ripulita, sia diventata asettica, immune al morbo rivoluzionario. Questa sensazione non descrive necessariamente la realtà, eppure è reale: è una “evidenza”, nel senso ideologico che ci ha spiegato Althusser. La specificità dell’ideologia è esattamente quella di imporre senza averne l’aria, poiché presenta le “evidenze” come cose che non possiamo negare, di fronte alle quali ci viene solo di esclamare: “è evidente: la rivoluzione è impossibile”.
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Oltrepassare il secolo lungo
di Luigi Alfieri
Il “paradigma moderno” è legato a un’epoca già finita. Il sistema che gli corrisponde non è sostenibile. È necessario, e perciò possibile, un paradigma antropologico basato sul trinomio cura, rispetto del limite, condivisione
Quello che definisco qui il “paradigma moderno” si basa su una visione profonda dell’uomo, un’antropologia fondamentale, da cui siamo ancora molto condizionati e che continua a sembrarci evidente, un dato indiscutibile di realtà. Invece, come ogni antropologia, è una costruzione culturale, legata a un’epoca che si avvia alla fine, anzi nella sostanza è già finita.
Uccidibilità, desiderio, produttività
Questo paradigma può essere riassunto in tre concetti, ciascuno dei quali esprime quello che si ritiene essere un tratto sostanziale dell’uomo: ‘uccidibilità’, ‘desiderio’, ‘produttività’. L’uomo è per essenza uccidibile, desiderante e produttivo. Tutti questi concetti sono ravvisabili già nel primo grande filosofo della modernità, Hobbes, ma appaiono, con infinite varianti, quasi in ogni sforzo di pensiero, comprese forme ‘sovversive’come il marxismo o la psicoanalisi. Fino a tutto il Novecento e ancora adesso, in un nuovo secolo che non è ancora riuscito a rendersi davvero nuovo. Se Hobsbawm sostiene che il Novecento comincia nel 1914 e finisce nel 1991[1], bisogna probabilmente obiettargli che nasce sì nel 1914 con l’industrializzazione della guerra (su basi comunque assai più antiche), ma si avvia alla fine solo in questi anni Venti del XXI secolo con la catastrofe climatica (e forse con la guerra nucleare). Mi sembra davvero difficile negare che sia il secolo peggiore della storia umana, e questo costringe a interrogarsi sull’intera epoca che in questo secolo culmina, su quella appunto che chiamiamo ‘modernità’. Torniamo dunque ai tre concetti costitutivi della modernità. Come si rappresenta a se stesso l’uomo moderno?
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Dopo il “caso” Soumahoro, ecco il “caso” Bachcu
di Algamica*
Sui giornali online dell’11 aprile e su tutti i quotidiani del giorno successivo abbiamo dovuto leggere che un nuovo pericoloso criminale immigrato è stato arrestato dopo un lunga indagine della polizia e della sezione dell’antimafia durata, stando alla cronaca dei fatti imputati, ben due anni.
L’immigrato in questione, ora agli arresti presso il carcere di Regina Coeli e in attesa del pronunciamento da parte del GIP, non è un immigrato qualsiasi, ma è Nure Alam Siddique detto “Bachcu” famoso per essere un leader storico della comunità Bengalese in Italia la cui associazione, Dhuumcatu, nel corso di trent’anni (dagli anni ‘90 ai giorni nostri) è stata punto di riferimento per l’organizzazione delle lotte non solo degli immigrati connazionali, ma anche per indiani, pakistani, filippini, nord africani, rom, albanesi e latino americani. In sostanza dopo il “l’affare Abou Soumahoro”, un altro pesce ancora più grosso della lotta trentennale degli immigrati in Italia cade sotto la sferza del potere poliziesco e della magistratura, in nome della difesa della legge vigente nel nostro paese. I quotidiani del perbenismo democratico Occidentale si sfregano le mani proponendo tutti lo stesso titolo: “arrestato portavoce e paladino storico e della comunità bengalese di Roma”.
Quali i fatti imputati per cui è agli arresti fin dalla notte tra il 10 e 11 aprile?
Chiariamo sin da subito, che per uscire dalla cosiddetta clandestinità l’immigrato che già lavora in nero è costretto a pagare troppo spesso la documentazione necessaria al datore di lavoro, al proprietario di casa, ecc. Tantissime associazioni di immigrati, inclusa la Dhuumcatu, hanno denunciato e combattuto pubblicamente questa giungla razzista.
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Ponte di Messina, dalla commedia alla farsa
di Stefano Lenzi
Smontato da 534 pagine di osservazioni redatte da esperti di 9 atenei e presentate dalle associazioni ambientaliste e dai comitati dei cittadini messinesi, il Ponte sullo Stretto è stato grottescamente confermato dal governo. Cosa resterà dell’incredibile progetto già accantonato 11 anni fa?
Lavorate con la fantasia, siete nelle prime file con me a teatro dell’antica Roma repubblicana a vedere l’ultima strepitosa commedia di Plauto “De ponte Messanae”, sì, “Sul ponte di Messina”. Nell’attesa dell’inizio dello spettacolo, in platea risatine degli spettatori solo per il titolo. Nelle idi di Aprile dell’Anno 200 AC (15 aprile) ci troviamo in un teatro che ha al centro della scena un’ambientazione austera, con colonne poste ad anfiteatro, siedono alti funzionari della Repubblica (compiaciuti) e popolani espropriandi (piuttosto irati). Silenzio e poi brusio, ha inizio lo spettacolo. Passato poco tempo, entra in scena un messaggero trafelato, irrompe in scena e annuncia: “Sono 240, sono 240 le richieste di integrazione del progetto, è una battuta d’arresto per il ponte sullo Stretto di Messina, non può stare in piedi!”. Si agitano alcuni dignitari. L’autorevole Pichetto (ministro), imperturbabile, risponde: “È del tutto ordinario che ci siano osservazioni e richieste di dati e informazioni tecniche”, mormorio in sala. Lancia il cuore oltre l’ostacolo Salvini (ministro): “Vado avanti dritto, i lavori partiranno entro l’estate”. Chiosa, tale Ciucci (amministratore delegato della Stretto di Messina SpA – SdM SpA): “Contiamo entro la fine dell’estate, che finisce a settembre, di avere l’approvazione del Cipess”. Fragorose risate del pubblico in sala per la protervia dei personaggi, ma soprattutto per la confusione tra estate e autunno: i protagonisti della commedia non sanno nemmeno in quale stagione collocare, nel calendario, il mese di settembre (Plauto è geniale). E non sanno nemmeno distinguere, gli attori principali, tra approvazione e apertura dei cantieri.
Facciamola breve, arriva a concludere la commedia, ormai tramutata in farsa, la dea ex machina Minerva – dea della saggezza, dell’ingegno e delle arti utili…tra cui c’è l’ingegneria – che entra impetuosa e intima ai dignitari di sgomberare il campo.
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L’ebreo immaginario degli antisemiti non abita a Tel Aviv
di Fabio Ciabatti
Manuel Disegni, Critica della questione ebraica. Karl Marx e l’antisemitismo, Bollati Boringhieri, Torino 2024, pp. 448, € 26,60
Ma davvero qualcuno ha potuto sostenere che Marx era antisemita? Ebbene sì. Evidentemente è difficile resistere alla tentazione di attribuirgli anche questa infamia. Di sicuro il linguaggio del rivoluzionario tedesco è tutt’altro che politically correct quando parla dei problemi attinenti alla questione ebraica. Si pensi, solo per fare un esempio, a un’espressione come la “raffigurazione sordidamente giudaica” utilizzata nelle Tesi su Feuerbach. In ogni caso, tutta questa faccenda non meriterebbe di essere presa sul serio se non fosse che, dietro di essa, si nasconde il tentativo truffaldino di attribuire lo stigma dell’antisemitismo a tutta una tradizione politica che a Marx si richiama o, molto più spesso, si richiamava. E questo per alimentare la narrazione degli opposti estremismi, di destra e di sinistra, a beneficio di un centrismo liberale tanto nobile quanto introvabile. O, peggio ancora, il presunto peccato di Marx servirebbe a ripulire l’immagine di una destra che verso gli ebrei ha avuto storicamente un’ostilità esplicita e feroce. Come dire, tutti antisemiti, nessun antisemita.
E allora prendiamo il toro per le corna, utilizzando l’interessante testo Critica della questione ebraica. Karl Marx e l’antisemitismo di Manuel Disegni. Attraverso questo libro vogliamo partire da Marx per giungere a questioni di più stretta attualità arrivando a conclusioni che, meglio dichiararlo subito, potrebbero anche non piacere all’autore. Marx tratta apertamente dell’antisemitismo in un solo testo, per di più giovanile. Si tratta del famoso articolo intitolato Sulla questione ebraica in cui Marx non ha remore nell’utilizzare stereotipi ripresi dalla tradizione antiebraica a lui coeva. Senonché, nota l’autore, non li utilizza perché li condivide ma perché li vuole ritorcere contro chi li propugna.
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Iran contro Israele, con l’Ucraina che passa in cavalleria
di Paolo Arigotti
La notte tra sabato 13 e domenica 14 aprile 2024 l’Iran ha lanciato contro Israele un attacco con centinaia di droni e missili: si calcola che siano stati utilizzati circa 170 droni, 30 missili da crociera e 120 missili balistici[1].
Leggere in questo episodio un atto terroristico e/o un nuovo capitolo della conflittualità tra la Repubblica Islamica e lo stato ebraico sarebbe a dir poco riduttivo. Teheran, appellandosi all’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite[2], che contempla il diritto all’autotutela in attesa delle eventuali misure assunte dal Consiglio di sicurezza, ha motivato l’azione come ritorsione rispetto all’attacco del primo aprile scorso, contro la propria sede diplomatica di Damasco, che provocò la morte di tredici persone (sei delle quali cittadini siriani), tra cui il generale Mohammad Reza Zahed, ufficiale delle Guardie Rivoluzionarie e altri sei membri dello stesso corpo.
Il raid israeliano era stato criticato in termini piuttosto blandi da diversi leader occidentali, pur ricevendo la condanna del segretario dell’ONU Antonio Guterres, per la violazione della Convenzione di Vienna del 1961[3] (quella che sancisce l’inviolabilità delle sedi diplomatiche[4]); gli stessi leader occidentali, però, si sono affrettati a chiedere la condanna iraniana per le azioni del 13 e 14 aprile.[5]
In una recente intervista[6], la professoressa Hanieh Tarkian, docente di studi islamici, ha parlato di superiorità morale dell’Iran, che ha attuato una rappresaglia in conformità al diritto internazionale, prendendo di mira obiettivi militari e senza provocare vittime, oltretutto agendo in piena autonomia e senza il supporto degli alleati regionali; Hezbollah si è limitata ai consueti attacchi dal territorio del Libano.
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La Grande Guerra in arrivo: non "se" ma "quando"
di Konrad Nobile
Il 2024 ha visto un deciso “salto di qualità” nei toni guerreschi usati dalle istituzioni europee e, in genere, occidentali.
Minacce e dichiarazioni fino a poco fa inimmaginabili sono diventate via via realtà, in un crescendo allarmante che pare confermare i peggiori presentimenti sul nostro futuro.
Se infatti il presidente francese Macron ha iniziato a paventare l’invio diretto di truppe in Ucraina, da oltremanica Patrick Sanders, capo dell’esercito britannico, dichiara apertamente che il mondo è alle porte di una nuova grande guerra e che, conseguentemente, vi è la necessità di addestrare i cittadini e prepararli alla battaglia (1).
Dai palazzi di Bruxelles i vertici dell’UE rincarano e, invitando gli Stati europei a prepararsi alla guerra, chiedono di mettere il turbo all’industria bellica e “produrre armi come i vaccini” (2)(3).
Pare proprio che la direzione voluta dai vertici occidentali sia quella di preparare i loro Paesi ad andare incontro a un nuovo conflitto su vasta scala contro chi si oppone, volente o nolente, ai piani e all’egemonia dell’imperialismo (4).
Questo scenario prebellico ha iniziato a prendere concretamente forma nel fatidico febbraio 2022 quando la Russia, entrando direttamente sul suolo ucraino (sul quale la NATO ha messo le sue grinfie dal 2014, anno del golpe “Euromaidan”), ha sferzato un colpo storico all’Occidente minandone l’immagine di assoluto padrone del mondo, immagine già indebolita da tutta una serie di errori e insuccessi (5). Ora gli sviluppi mediorientali avviatisi dopo il 7 ottobre, in parte favoriti proprio dal riverberarsi dello scossone dato dalla Russia e dai derivati entusiasmi delle nazioni oppresse, galvanizzate “dall’Operazione Militare Speciale”, non hanno fatto che ampliare la portata dello scontro e la gravità dei tempi.
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Dall’Iran droni e missili contro il “cane pazzo”
di Geraldina Colotti
Il regime sionista, si sa, approfitta del ruolo di vittima perenne per imporre, con la politica dei fatti compiuti e forte del suo ruolo di gendarme degli Usa in Medioriente qualunque violazione dei diritti umani e della legalità internazionale: a cominciare da un’occupazione criminale che, dal 1948, ha espropriato ed espulso il popolo palestinese in una successione di massacri, oggi culminati col genocidio che ha ucciso più di 30.000 persone, un terzo dei quali bambini.
Questa volta, però, Netanyahu ha stabilito un altro primato, compiendo un atto di aggressione inedito: l’attacco aereo al consolato iraniano a Damasco, in Siria che, il 1° di aprile, ha ucciso 16 persone, fra cui due generali dei Guardiani della rivoluzione. Un’ulteriore escalation nella provocazione a Teheran, per allargare il conflitto in Medioriente, tirando per la giacca gli Usa e i loro alleati europei - Francia, Gran Bretagna e Germania. Il governo iraniano ha dichiarato che avrebbe esercitato il proprio diritto all’autodifesa e, il 13 sera, ha fatto partire decine di missili e droni “su dei bersagli specifici all’interno dei territori occupati”: in risposta “ai numerosi crimini commessi dal regime sionista”, nello specifico l’attacco contro la sezione consolare a Damasco. Il mattino di quello stesso giorno, le forze speciali marittime dei guardiani della rivoluzione iraniana si erano impadronite del porta-container Msc Aries, circa un centinaio di chilometri a nord della città emiratina di Foujeyra. Una nave battente bandiera portoghese, ma riconducibile alla società Zodiac che – ha fatto sapere l’agenzia stampa iraniana Irna – “appartiene al capitalista sionista Eyal Ofer”.
Dopo lo schiaffo del 7 ottobre, inflitto dalla resistenza palestinese al regime occupante, il quale ha dato inizio al genocidio programmato da Netanyahu, ci sono stati numerosi attacchi contro navi dirette a Tel Aviv che transitavano nel mar Rosso e nel golfo di Aden o che commerciavano con Israele.
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Si rafforza il processo di de-dollarizzazione del mercato petrolifero globale
di Demostenes Floros
Il 5 settembre 2023, Natasha Kaneva, resposabile JPMorgan per la strategia sulle materie prime, ha dichiarato a Business Insider che “il dollaro americano, uno dei principali motori dei prezzi del petrolio sul mercato globale, sta perdendo la sua antica importanza”[1]. Com’è noto, tra “biglietto verde” e barile sussiste una relazione tendenzialmente inversa: dal momento che il petrolio è scambiato in dollari, quando la valuta statunitense si apprezza, la domanda petrolifera tende a diminuire e con essa il valore dell’“oro nero”.
Più precisamente, gli analisti della banca statunitense hanno calcolato che, nel periodo 2005-2013, a un aumento dell’1% del valore del dollaro ponderato per il commercio ha corrisposto un calo del prezzo del petrolio di circa il 3%. Tuttavia, questo schema è significativamente mutato nel periodo 2014-2022, visto che a un aumento dell’1% del dollaro ha corrisposto un calo del prezzo del petrolio solo dello 0,2%. Ciò, ha portato Jahangir Aziz, responsabile JPMorgan per le economie emergenti, ad affermare che “complessivamente, rileviamo che l’importanza del dollaro [nell’influenzare il prezzo del barile] è diminuita significativamente tra il 2014 e il 2022”.
Questo cambiamento, evidenzia JPMorgan, è dovuto al fatto che ogni giorno sempre più petrolio non viene venduto in dollari, ma nelle valute nazionali dei partecipanti alle transazioni, a partire dallo yuan, ma non solo.
Nello specifico, secondo i dati della banca statunitense, nel 2023, il 20% del commercio globale di petrolio – pressoché 40.000.000 b/g a fronte dei circa 100.000.000 b/g consumati – è stato regolato in valute diverse dal dollaro (all’incirca 8.000.000 b/g)[2].
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Quando il polemos si fa prassi
Recensione a Lenin, il rivoluzionario assoluto di Guido Carpi
di Andrea Rinaldi
«Il cammino del rivoluzionario è pertanto un cammino anche solitario, o almeno non al centro del benvolere dell’opinione pubblica, spesso lontano dall’amicizia, sicuramente non benvisto dalla società civile, "la merda" come la chiamava Lenin. La storia di Lenin è quindi una storia di esilio, di critiche feroci, ma anche di carisma, di centralità politica da una posizione numericamente minoritaria e di coraggio tattico». Pubblichiamo oggi, nell'anniversario della scrittura delle Tesi d'Aprile, una recensione di Andrea Rinaldi a Lenin, il rivoluzionario assoluto (1870-1924) di Guido Carpi (Carocci, 2023). Sempre sulla figura del grande rivoluzionario, sarà presto disponibile per DeriveApprodi, Che fare con Lenin? curato dallo stesso Andrea Rinaldi, con contributi di Guido Carpi, Rita di Leo, Maurizio Lazzarato, Gigi Roggero, Damiano Palano, Mario Tronti.
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Majakovsky aveva paura che «una corona» avrebbe potuto «nascondere la sua fronte così umana e geniale e così vera» e «che processioni e mausolei» avrebbero offuscato la «semplicità di Lenin». Guido Carpi, che di Majakovsky e di Lenin si intende, è riuscito nell’impresa, non banale, di togliere Lenin dalla sua teca nella piazza Rossa di Mosca, rimuovere la corona e darci un libro vivo: non una ricostruzione agiografica, come nel mito staliniano, né una noiosa critica umanitaria tipica della moderna storiografia liberal, ma un’attuale rappresentazione di Lenin, fusione inscindibile di teoria e prassi, di politica e rivoluzione.
Questi due poli della lettura classica della vita e delle opere di Lenin, mito e incubo, potrebbero sembrare opposti, ma sono in realtà strettamente complementari.
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Intelligenza artificiale. O della “guerra all’umano”
di Antonio Cantaro
L’IA è sempre più una meta-tecnologia in guerra con l’umano che ci comanda di “Agere sine Intelligere”. L’uomo connesso è sempre meno un uomo relazionale. Nessun Dio ci salverà, solo una mobilitazione collettiva può farlo
Sostiene Luigi Alfieri che essere uomini è essere in relazione. L’uomo è un essere relazionale, ‘naturalmente relazionale’. Proverò ad aggiungere una postilla a questa, da me condivisa, tranchant contro-antropologia filosofica.
Naturalmente relazionale, naturalmente artificiale
Una postilla insita in un cruciale passaggio del suo discorso ‘empirico’: «L’origine immediata della mia vita è molto concreta, molto corporea, molto biochimica. Non un supremo atto creativo dell’Essere, ma l’unione sessuale di due corpi e un corpo materno dentro cui a poco a poco è maturato il mio come una sorta di parassita simbiotico. Poi una separazione dolorosa, atrocemente traumatica per entrambe le parti: un corpo emerge dall’altro, si strappa dall’altro. Ma la separazione non è totale, perché uno dei due corpi continua ad avere bisogno dell’altro, dall’altro ricava nutrimento, cura, protezione. Nessuno viene al mondo come soggetto razionale capace di libera autodeterminazione e responsabile di sé, ma come esserino inerme urlante e scalciante, capace a stento di respirare e bisognoso di tutto. Ma la cosa straordinaria è che il bisogno ottiene risposta, che qualcuno, in cambio di niente, è disposto a dare all’esserino urlante tutto ciò che gli consente di sopravvivere, di nutrirsi, di stare al caldo, di crescere, di imparare a parlare e a pensare».
L’uomo, dunque, “impara a parlare e a pensare” per il tramite di parole che non nascono da Lui, “ma che vengono da fuori”. Da un linguaggio, da un artificio che dà alle parole i suoni, un ordine grammaticale e sintattico, un senso. L’uomo è ab origine il suo linguaggio (da ultimo E. Dell’Atti, 2022), un essere naturalmente artificiale.
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Il nodo Israele fa scomparire l'Ucraina dai radar
di Paolo Arigotti
La notte tra sabato 13 e domenica 14 aprile 2024 l’Iran ha lanciato contro Israele un attacco con centinaia di droni e missili: si calcola che siano stati utilizzati circa 170 droni, 30 missili da crociera e 120 missili balistici.
Leggere in questo episodio un atto terroristico e/o un nuovo capitolo della conflittualità tra la Repubblica Islamica e lo stato ebraico sarebbe a dir poco riduttivo. Teheran, appellandosi all’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite, che contempla il diritto all’autotutela in attesa delle eventuali misure assunte dal Consiglio di sicurezza, ha motivato l’azione come ritorsione rispetto all’attacco del primo aprile scorso, contro la propria sede diplomatica di Damasco, che provocò la morte di tredici persone (sei delle quali cittadini siriani), tra cui il generale Mohammad Reza Zahed, ufficiale delle Guardie Rivoluzionarie e altri sei membri dello stesso corpo.
Il raid israeliano era stato criticato in termini piuttosto blandi da diversi leader occidentali, pur ricevendo la condanna del segretario dell’ONU Antonio Guterres, per la violazione della Convenzione di Vienna del 1961 (quella che sancisce l’inviolabilità delle sedi diplomatiche ); gli stessi leader occidentali, però, si sono affrettati a chiedere la condanna iraniana per le azioni del 13 e 14 aprile.
In una recente intervista, la professoressa Hanieh Tarkian, docente di studi islamici, ha parlato di superiorità morale dell’Iran, che ha attuato una rappresaglia in conformità al diritto internazionale, prendendo di mira obiettivi militari e senza provocare vittime, oltretutto agendo in piena autonomia e senza il supporto degli alleati regionali; Hezbollah si è limitata ai consueti attacchi dal territorio del Libano.
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Engels oggi: genere, riproduzione sociale e rivoluzione
di Marnie Holborow
È sorprendente quanto spesso nei resoconti marxisti sull'oppressione delle donne si trascuri Friedrich Engels. Lo si liquida come un determinista, eccessivamente economicista e addirittura non marxista. Heather Brown, nel suo importante lavoro su Karl Marx e la questione di genere, considera Engels un "meccanicista grossolano" rispetto a Marx.[1] Un più recente giudizio sostiene che quanto scritto da Engels sulle donne rappresenti «una revisione di Marx».[2] Lise Vogel, una scrittrice di riferimento su Marx e la questione di genere, ritiene Engels responsabile delle successive, errate spiegazioni dualistiche capitalismo-e-patriarcato circa l’oppressione delle donne.[3]
Per altri teorici marxisti della riproduzione sociale, Engels semplicemente non figura nella discussione. In una raccolta del 2017 sulla teoria della riproduzione sociale e basata sull'economia politica marxista, Engels non viene menzionato nemmeno una volta a pieno titolo, ma solo come co-autore con Marx.[4]
Eppure Engels, a differenza di Marx, ha dedicato un intero libro alle origini dell'oppressione femminile: L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, che metteva in discussione la visione accettata della famiglia nucleare come naturale e universale. È rimasto il testo di riferimento per molte donne socialiste del passato, come Eleanor Marx, Clara Zetkin, Rosa Luxemburg e Alexandra Kollontai, così come per quelle delle generazioni successive, come Claudia Jones e Angela Davis. In occasione del centenario della pubblicazione di L'origine della famiglia, femministe di diverso orientamento hanno ritenuto Engels talmente importante da dedicare un volume alla rivalutazione della sua eredità.[5] Se si include anche il libro di Engels sulla vita operaia del XIX secolo a Manchester, descritto da Eric Hobsbawm come pionieristico e che conteneva intuizioni anticipatrici sul cambiamento dei ruoli di genere, la tesi che Engels abbia poco da offrire riguardo all'oppressione di genere semplicemente non regge.
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Per una teoria minimale del capitale
Invito alla lettura e alla collaborazione
di Autori Vari
Riprendendone l’indice e la concisa presentazione segnaliamo ai lettori un lavoro, ancora in evoluzione ma già abbastanza maturo, prodotto da un gruppo di persone di varia provenienza tra le quali naturalmente alcune legate alla nostra rivista. Tratta di questioni, diciamolo francamente, intellettualmente complesse e tendenzialmente demoralizzanti: è noto l’aforisma nietzschiano che spiega come gli abissi non si possano guardare a lungo, ma qui vogliamo invece ricordare quello che — forse rendendosi conto di come stava raccontando sempre la storia di cose, belle e umane, andate perdute — ripeteva Ivan Illich: «Non dimentichiamo mai che tutto il tempo è benedetto, anche questo nostro tempo in cui ci è capitato di vivere». Come i curiosi vedranno si tratta di un’antologia in quattro lingue, c’è ancora molto lavoro da fare sia per le traduzioni sia per un controllo che vorremmo meticoloso. Altri apporti sarebbero benvenuti. (red)
Scopo e autori
È ormai disponibile una vasta letteratura che implicitamente contiene e fertilmente sviluppa un nucleo teorico veritativo (cioè pienamente confermato dal processo storico) che trova origine in una serie di intuizioni di Marx. Va tuttavia riconosciuto che, nella mole dei manoscritti e opere dello studioso, i testi seminali di quel nucleo sono dispersi e in netta minoranza rispetto a quelli che propongono tesi diverse e anche contrapposte (queste peraltro in gran parte confutate dalla critica dei fatti).
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L’inquietudine di Lenin. L’attualità del suo pensiero a cento anni dalla sua morte
di Salvatore A. Bravo
L’inquietudine politica di Lenin
Una delle ultime opere di Lenin è stata pubblicata sulla Pravda il 4 marzo 1923. Il lungo articolo “Meglio meno, ma meglio” non è solo una sintesi critica del percorso tormentatissimo della Rivoluzione bolscevica, tra Prima Guerra mondiale e guerra civile, ma anche “testamento politico” nel quale Lenin si spinge a ipotizzare, su dati materiali e oggettivi, previsioni geopolitiche ed economiche che avrebbero potuto rompere l’assedio militare ed economico di cui l’Unione Sovietica era oggetto.
“Meglio meno, ma meglio”(in russo Лучше меньше, да лучше, Lučše men’še, da lučše) è da allora diventato un detto della lingua russa che invita alla qualità dell’azione da preferire alla quantità.
Lenin scorge nella Russia sovietica la sindrome del fare senza la qualità, perché presa dalla trappola dell’accerchiamento. Il prevalere della quantità sulla qualità non è casuale, dato che la lunga guerra non poteva che condurre a una notevole quantità di provvedimenti e il “fare” era spesso deficitario della qualità. Lenin nella sua solitudine, mentre la salute declinava (sarebbe deceduto il 21 gennaio 1924) non poteva non constatare i limiti della Rivoluzione sovietica e indicare i processi per risolverli. Per poter rafforzare la Rivoluzione essa andava sottoposta a critica radicale in modo da intervenire e fare tesoro degli errori. Il problema si poneva in modo stringente per l’elezione dei Commissari del popolo, i quali avevano il compito di controllare i settori produttivi e di stimolarne la crescita:
“Per poter migliorare il nostro apparato statale, l’Ispezione operaia e contadina, a parer mio, non deve correr dietro alla quantità e non deve aver fretta.
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Democrazia o barbarie
di Pierluigi Fagan
Wendy Brown: Il disfacimento del demos. La rivoluzione silenziosa del neoliberismo, Luiss University Press, 2023
Buon libro questo della Brown. In particolare, mi piace il suo linguaggio, pulito, chiaro, attinente al discorso e poco indulgente allo svolazzo.
E mi piace o meglio riscontro, la sua struttura del discorso. Purtroppo, una buona parte del testo è dedicata alla analisi ravvicinata, simpatetica ma spesso critica, della famosa lezione di M. Foucault su Biopolitica al College de France 1978-79 (un caso di prescienza), nel quale però il francese -per primo-, individuò il nucleo inquietante di ciò che poi abbiamo imparato a conoscere come neoliberismo. Invero MF, individua un neoliberismo particolare, la versione sociale tedesca, ma lasciamo perdere. Brown gli fa le pulci e spesso coglie nel segno.
In sostanza, Brown individua una lotta ordinativa fondamentale per determinare il governo della società. L’ordinatore economico in versione estremista neoliberista o l’ordinatore politico in versione naturale quindi democratica. Homo oeconomicus vs Homo politicus. Tempo speso a lavorare e consumare, tempo speso a interessarsi della gestione comune della società di cui siamo soci naturali.
Evita di entrare nei maggiori dettagli della versione democratica c.d. “diretta” o “delegata”, ma ribadisce che l’opposto del neoliberismo non è il socialismo o altra forma economica ma il ritorno del primato politico basato sulla prima persona.
Io non capisco perché nessuno mai ammetterebbe che la gestione di sé stessi sarebbe meglio affidarla ad altri, ma quando si parla si società non ha problemi invece a dirlo o sostenerlo convinto pure. Mi manda ai matti, non riesco proprio a capirne la logica.
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Il nuovo disordine mondiale / 25: Fratture della guerra estesa
di Sandro Moiso
«Grand Continent», Fratture della guerra estesa. Dall’Ucraina al metaverso, LUISS University Press, Roma 2023, pp. 170, 18 euro
«Grand Continent» è una rivista online consacrata alla geopolitica, alle questioni europee e giuridiche e al dibattito intellettuale con lo scopo di “costruire un dibattito strategico, politico e intellettuale”. Nata nell’aprile 2019, è pubblicata dal Groupe d’études géopolitiques, associazione indipendente fondata presso l’École normale supérieure nel 2017. A partire dal 2021 è integralmente pubblicata in cinque lingue diverse: francese, tedesco, spagnolo, italiano e polacco.
Gli articoli sono scritti da giovani ricercatori e universitari, ma anche da esperti e intellettuali di vario indirizzo, come: Carlo Ginzburg, Henry Kissinger (†), Laurence Boone, Louise Glück, Toni Negri(†), Olga Tokarczuk, Thomas Piketty, Élisabeth Roudinesco e Mario Vargas Llosa.
«Grand Continent» ha animato un ciclo di seminari settimanali presso l’École normale supérieure, nonché un altro di conferenze trasmesse da Parigi in numerose città europee e divenuto un libro, Une certaine idée de l’Europe, pubblicato dall’editore Flammarion nel 2019 (con scritti di Patrick Boucheron, Antonio Negri, Thomas Piketty, Myriam Revault d’Allonnes ed Elisabeth Roudinesco). Gli articoli della rivista sono stati ripresi in numerosi quotidiani e media internazionali.
Fratture della guerra estesa è il secondo volume cartaceo di «Grand Continent», il primo pubblicato anche in italiano. Uscito per la LUISS University Press, pur presentando contenuti per molti punti di vista ampiamente discutibili, si rivela comunque di grande interesse per chiunque voglia affrontare i problemi connessi all’attuale età della guerra e della crisi dell’ordine occidentale del mondo seguito sia alla fine della guerra fredda e alla fine dell’URSS che alla successiva crisi apertasi con la fine della globalizzazione o, almeno, di ciò che l’Occidente intendeva come tale.
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I lavoratori digitali (platform worker): problemi e prospettive
di Mauro De Agostini
Sul tema dei lavoratori digitali (platform worker) riportiamo questo articolo di Mauro De Agostini dal n. 6/marzo 2023 di “Collegamenti per l’organizzazione diretta di classe”
“Prima di internet, sarebbe stato difficile trovare qualcuno e farlo sedere per dieci minuti a lavorare per te, per poi licenziarlo passati quei dieci minuti. Ma con la tecnologia, in realtà, puoi davvero trovarlo, pagarlo una miseria e poi sbarazzartene quando non ti serve più” (1) questa frase dell’imprenditore americano Lukas Biewald descrive alla perfezione la nuova realtà creata dal capitalismo delle piattaforme.
Una situazione tutt’altro che marginale visto che (secondo stime ufficiali) attualmente risultano attive nella sola Unione europea circa 500 piattaforme digitali che nel 2022 impiegavano almeno 28 milioni di lavoratrici/ori, destinate a diventare 43 milioni entro il 2025, un nuovo proletariato digitale privo di ogni tutela. (2)
Piattaforme “web-based” e “location-based”
Alcune piattaforme, dette “web-based”, operano esclusivamente online arruolando persone (magari in un altro continente) per ottenere prestazioni come traduzioni, lezioni, consulenze, servizi di call center o di chat, oppure per svolgere microlavori come trascrivere una registrazione audio, riconoscere una immagine, risolvere un captcha, leggere uno scontrino. In questi casi ogni singola prestazione fa storia a sé ed è pagata separatamente, non esiste alcuna continuità nel rapporto di lavoro, dirigenti, lavoratori e clienti non si incontrano mai fisicamente tra loro. In tutti questi casi si parla di “crowdwork”, letteralmente “lavoro nella folla”, perché si offre il proprio lavoro in rete a una massa potenzialmente infinita di clienti che poi ti “scelgono”, magari per quell’unica micro-prestazione.
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Per un nuovo ordine multipolare, contro unipolarismo USA e dominio del capitale finanziario
di Alessandro Valentini
Per un soggetto politico rivoluzionario all’altezza del XXI secolo, non si può prescindere dalla lezione teorica e pratica marxista che ci viene oggi dall’Oriente, rispetto a un marxismo occidentale ingessato o mal interpretato, in una parola agonizzante
Un nuovo tornante della storia
Con l’inizio dell’operazione militare speciale della Russia in Ucraina siamo a un nuovo tornante della storia, una di quelle situazioni nuove che si presentano dopo tantissimi anni, un tornante paragonabile alla Rivoluzione francese o a quella dell’Ottobre del 1917.
Per questa ragione è da respingere la tesi, cara anche a una certa sinistra, che la guerra in Ucraina sia una guerra imperialistica tra gli USA e la NATO da una parte e la Russia e i suoi alleati dall’altra, simile al grande conflitto mondiale del 1914/18. Il confronto storico è più simile alla grande coalizione che fu costituita in Europa per soffocare la Rivoluzione francese o alla guerra civile nella giovane Repubblica dei soviet tra i bianchi, sostenuti attivamente da una coalizione occidentale, e i bolscevichi, dopo la presa del potere nel 1917, allo scopo di restaurare il regime zarista. È evidente che in Francia il fine era quello di riportare al potere la monarchia assolutista e in Unione Sovietica di impedire che le idee rivoluzionarie socialiste potessero diffondersi in tutto l’Occidente.
Dal capitalismo al dominio del capitale finanziario
Alla base dello scontro, politico e militare, vi è la volontà da parte dell’Occidente collettivo di contrastare, anche con la guerra, la costruzione di un ordine mondiale multipolare. La cosiddetta “guerra mondiale a pezzi” ha questo segno chiaro, netto, e si è potuta scatenare solo dopo che gli accordi di Bretton Woods, che nel 1944 avevo stabilito la convertibilità del dollaro in oro, furono messi in discussione da Nixon nel 1971.
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