Fai una donazione
Questo sito è autofinanziato. L'aumento dei costi ci costringe a chiedere un piccolo aiuto ai lettori. CHI NON HA O NON VUOLE USARE UNA CARTA DI CREDITO può comunque cliccare su "donate" e nella pagina successiva è presente (in alto) l'IBAN per un bonifico diretto________________________________
- Details
- Hits: 966
A cento anni dalla morte, perchè Lenin è ancora attuale?
di Domenico Moro
Il 21 gennaio 1924 moriva Lenin. Cento anni sono tanti e moltissime cose sono cambiate, eppure il lascito di Lenin è, in gran parte, ancora attuale. Lenin è stato uno dei personaggi storici più importanti del XX secolo, l’uomo che più di ogni altro ha contribuito alla Rivoluzione di Ottobre e alla fondazione dell’Unione Sovietica. Ma, come diceva il filosofo ungherese Lukács in un pamphlet, scritto subito dopo la morte di Lenin, l’importanza dell’uomo politico russo va oltre le vicende politiche immediate che l’hanno visto protagonista: “Egli resta perciò sul piano storico-universale l’unico teorico di livello pari a quello di Marx che fino a oggi sia venuto dalle file della lotta di emancipazione proletaria”[i]. Forse mettere Lenin a un livello teorico pari a quello di Marx può essere eccessivo, ma sicuramente Lenin, subito dopo Marx, rimane ancora oggi il maggiore teorico nell’ambito del marxismo.
Lenin è stato insieme un teorico, un interprete del modo di produzione capitalistico e della società che vi si erge sopra, e un politico che opera per la trasformazione della realtà in senso rivoluzionario. In un’epoca, come quella attuale, in cui la politica spesso si riduce a politicismo e tatticismo, rimanendo separata dalla scienza sociale e dall’analisi di ampio respiro, l’esempio di Lenin assume un valore ancora più grande. Teoria e prassi sono fuse nel modo più intimo possibile in Lenin, nel quale la strategia, ossia gli obiettivi di lungo periodo – la trasformazione della società del capitale in quella socialista –, è sempre strettamente connessa con la tattica, ossia con i compiti e l’agire sul piano pratico politico, a differenza di quanto la politica attuale ci ha abituato. L’azione di Lenin è sempre guidata dall’analisi concreta della situazione concreta, lì dove il concreto sta per il complesso dei fatti e delle relazioni sociali in un dato luogo e in un dato periodo storico. Non a caso, secondo Lukács, una delle categorie più importanti del marxismo è quella di totalità, cioè la capacità di comprendere e analizzare nelle loro connessioni reciproche tutti gli aspetti di una data società, quelli economici, politici, culturali e ideologici.
- Details
- Hits: 744
Controstoria
di Salvatore A. Bravo
Una delle necessità non più rimandabili, in un momento storico caratterizzato dalla cultura della cancellazione-riscrittura della storia, “è ridare voce” a testi che hanno scritto la controstoria dell’Occidente. La storia presentata da manuali e dai media ufficiali ha il suo focus sui “grandi”; la storia sembra essere il campo di battaglia di eroi, manager e imprenditori che con la loro azione hanno condotto i popoli verso la libertà. In tale cornice ideologica il popolo e i ceti subalterni sono solo soggetti passivi che attendono di essere agiti. È il modo più efficace per eternizzare il presente e santificare l’uomo-imprenditore. La restante parte dell’umanità è solo un mezzo nelle fatali mani dei “grandi”. Si addestrano le classi subalterne del nostro tempo a diventare plebi che attendono la soluzione dei “grandi”. Devono adattarsi a una realtà, in cui sono solo materia grezza che attende il Demiurgo-imprenditore.
La controstoria, invece, pone in evidenza senza dogmatismi o idealizzazioni che la storia è lo spazio e il tempo della resistenza di popoli e dei gruppi oppressi. Le sconfitte sono imputabili al deficit politico. Nessun progetto di cambiamento è realizzabile senza un’organizzazione stabile e una chiara visione dei fini politici da realizzare. Capire le ragioni della lotta e delle sconfitte è la modalità con cui comprendere gli errori del presente e, specialmente, significa non cadere nella trappola del fatalismo. Uomini e donne che ci hanno preceduto hanno lottato e il loro sacrificio non è stato vano, se la loro testimonianza ci è d’ausilio per resistere al pessimismo che la montante ideologizzazione della storia sta mettendo in atto.
Il testo di J. Hobsbawm, I Ribelli Forme primitive di rivolta sociale, ricostruisce i movimenti di resistenza evidenziando che il popolo e gli oppressi nella storia sono stati protagonisti. Le sconfitte non cancellano la traccia di libertà di coloro che hanno lottato per la giustizia.
- Details
- Hits: 1569
Il capitale va in guerra (e ci porta con sé)
di Xavier Vall Ontiveros - geoestrategia.es
Non credo che il catastrofismo serva a nulla, né a mobilitare la classe operaia contro la guerra né a contrastare l’euforia militaristica delle élite, ma è difficile stabilire una lettura alternativa di ciò che sta accadendo. La diplomazia è sepolta, i canali di dialogo sono inesistenti, si intraprende una corsa agli armamenti che non è altro che il preludio al disastro imminente. Molti degli ingredienti che portarono alla grande distruzione della carne umana che fu la Prima Guerra Mondiale sono sul tavolo. Ma sia per entusiasmo militaristico o per suprema ignoranza – o entrambi allo stesso tempo… – i media e i governi occidentali continuano a trasmettere un discorso unidirezionale e semplicistico, in base al quale tutto ciò che accade è spiegato esclusivamente dalle manie di grandezza di un pazzo disposto a distruggere il mondo. Le complesse analisi geopolitiche, quando sono più necessarie, non vengono prese in considerazione nel fissare le coordinate che orientano la politica estera, né da parte dei media sempre pronti a sfruttare la dimensione spettacolare della cosa e che considerano delle sciocchezze discorsive dotate di un certo fondamento noioso. Proprio come nel 1914, stiamo scivolando irresistibilmente verso l’abisso nichilista della guerra totale, i falchi militaristi hanno occupato la centralità del dibattito politico e sembra che non si possa tornare indietro per evitare il disastro. Come nel 1914, la sinistra è incapace di costruire un discorso internazionalista coerente e, nella migliore delle ipotesi, nasconde la testa sotto la sabbia; Nel peggiore dei casi, sostiene attivamente la politica di riarmo e il rafforzamento del blocco imperialista atlantista.
Eppure, indipendentemente dalle responsabilità della Federazione Russa, l’attuale conflitto non può essere compreso senza tenere conto dell’interventismo occidentale a partire dagli eventi di Euromaidan (2013-2014) e prima.
- Details
- Hits: 929
Conflitto nelle università: studenti, professori e guerre
di Maria Chiara Pievatolo
Kant e Humboldt avevano ben compreso i rischi portati da interessi privati o di Stato all’autonomia della ricerca universitaria. Le odierne manifestazioni di dissenso ci ricordano quanto sia importante distinguere i funzionari del sapere da coloro che studiano, tutelando entrambi dagli abusi del potere
1. Un punto di vista indipendente
Il professor Kant, alla seconda edizione (1796) dell’ideale trattato internazionale per istituire la Pace perpetua che è la sua opera politica più coraggiosa, aggiunse un articolo segreto col seguente dispositivo:
“Le massime dei filosofi sulle condizioni di possibilità della pace pubblica devono essere consultate dagli Stati armati per la guerra” (AA, VIII, 368).
Da professore, Kant aveva sperimentato la censura quando aveva provato a scrivere di religione, cioè di ciò che fondava il diritto divino della monarchia assoluta al potere in Prussia e fresca di decapitazione altrove. La sua richiesta, in questo articolo segreto solo in senso ironico, che i “filosofi” siano consultati è un modo per prendersi, sotto la protezione di un espediente retorico, la libertà dell’uso pubblico della ragione sulla pace e sulla guerra.
Con questa libertà, in un momento in cui le guerre si giustificavano di nuovo con motivazioni ideologiche, in appoggio agli interessi statali, Kant si permette di affermare qualcosa che oggi torna a suonare scandaloso: per superare la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali occorre riconoscere che, sebbene ci siano guerre che sono o paiono necessarie, non ci possono essere guerre giuste. I belligeranti possono accampare ottime ragioni ideologiche per mandare al massacro militari e civili, ma chi fa combattere una guerra presuntivamente giusta non si appella alle ragioni del diritto, che avrebbero bisogno di essere accertate da un giudice terzo non in conflitto di interessi e secondo una legge pubblicamente e universalmente riconosciuta, bensì a quelle della forza.
- Details
- Hits: 992
Sulla XII Disposizione, vecchi e nuovi fascismi
Alba Vastano intervista Raul Mordenti
“Esiste un nesso assai stretto fra la guerra e il fascismo. Ciò fu evidente nel caso della I° guerra mondiale, senza la quale il fascismo sarebbe stato impensabile. Si può ben dire che la guerra produce fascismo come il fascismo produce guerra” (Raul Mordenti)
“L’antifascismo è vissuto per decenni imbalsamato in una retorica stucchevole che lo ha reso debole ed impotente, soprattutto di fronte ai nuovi fenomeni neofascisti e neonazisti. Non ha saputo di conseguenza parlare ad ampie fasce giovanili che lo hanno vissuto come lontano e, a volte, come vuota espressione istituzionale…ad aggravare la situazione non va dimenticata la storica mancata volontà politica a perseguire i casi di apologia e riorganizzazione dei movimenti fascisti, sottovalutati, lasciando così campo aperto ai nostalgici di ogni risma”. (Saverio Ferrari, Osservatorio democratico sulle Nuove Destre)
“ Il fascismo è finito con la fine di Mussolini. Parlarne è inutile, dopo 80 anni dalla fine della dittatura fascista. Quindi perché parlare di antifascismo?” Mantra triti e ritriti menzionati dalla gente comune e dai politici di destra nei talk show televisivi. Eppure, sarebbe falso negarlo, il fascismo serpeggia latente, ci affianca e vuole tentarci, seduttivo e con fare ambiguo riaffiora nei comportamenti più usuali e comuni a molte persone, senza che i più se ne rendano conto.
Così’ il professor Angelo D’Orsi, illustre storico (ndr, più volte ospite in questa rivista) “Se non si può parlare di “ritorno del fascismo”, è solo perché dall’Italia il fascismo non se n’è mai andato, ma ha continuato a scorrere sotterraneo, come un fiume carsico, riemergendo di tanto in tanto. Le sue riemersioni, da una trentina d’anni a questa parte, sono diventate sempre più frequenti, e il revisionismo storico, nella sua forma estrema, il rovescismo, ha svolto un ruolo determinante. Forse occuparsene, non è fare sfoggio di sapere accademico, ma fare esercizio di pensiero critico e insieme di militanza civile”.
- Details
- Hits: 1424
La storia riconoscerà che Israele ha commesso un olocausto
di Susan Abulhawa
In questo momento a Gaza e in Palestina sono le 20.00: è la fine del mio quarto giorno a Rafah e il primo momento in cui ho potuto sedermi in un posto tranquillo per riflettere. Ho provato a prendere appunti, foto, immagini mentali, ma questo è un momento troppo grande per un taccuino o per la mia memoria in difficoltà. Niente mi aveva preparato a ciò a cui avrei assistito. Prima di attraversare il confine tra Rafah e l’Egitto ho letto tutte le notizie provenienti da Gaza o su Gaza. Non ho distolto lo sguardo da nessun video o immagine inviata dal territorio, per quanto fosse raccapricciante, scioccante o traumatizzante. Sono rimasta in contatto con amici che hanno riferito della loro situazione nel nord, nel centro e nel sud di Gaza – ciascuna area soffre in modi diversi. Sono rimasta aggiornata sulle ultime statistiche, sulle ultime mosse politiche, militari ed economiche di Israele, degli Stati Uniti e del resto del mondo. Pensavo di aver capito la situazione sul campo. Ma non è così. Niente può veramente prepararti a questa distopia. Ciò che raggiunge il resto del mondo è una frazione di ciò che ho visto finora, che è solo una frazione della totalità di questo orrore. Gaza è un inferno. È un inferno brulicante di innocenti che boccheggiano in cerca di aria. Ma qui anche l’aria è bruciata. Ogni respiro irrita la gola e i polmoni e vi si attacca. Ciò che una volta era vibrante, colorato, pieno di bellezza, possibilità e speranza contro ogni aspettativa, è avvolto da un grigiore di sofferenza e sporcizia.
Quasi nessun albero
Giornalisti e politici la chiamano guerra. Gli informati e gli onesti lo chiamano genocidio. Quello che io vedo è un olocausto, l’incomprensibile culmine di 75 anni di impunità israeliana per i ripetuti crimini di guerra.
- Details
- Hits: 1204
La trappola dell’efficienza
di Mauro Gallegati, Pier Giorgio Ardeni
La crescita del Pil di oggi è sempre più realizzata a scapito del benessere futuro, e la crisi ecologica è un segno di come il mercato non possa funzionare come regolatore del sistema economico. Un’anticipazione dal libro “La trappola dell’efficienza”
Il capitalismo ha cambiato il mondo di vivere di gran parte dell’umanità, migliorandone enormemente le condizioni materiali di vita.
Negli ultimi duecento anni, l’aumento del reddito globale e medio – oggi incomparabilmente maggiore di ogni altra epoca – è avvenuto in modo non uniforme per tutti i Paesi e le fasce sociali, beneficiando più alcuni di altri, sistematicamente, provocando una distribuzione delle ricchezze iniqua. L’aumento del reddito non è stato lineare e costante, ma soggetto a variazioni e a crisi che hanno contribuito a esacerbare le disparità. A ciò si aggiunga che lo sviluppo capitalistico industriale ha portato a un degrado ambientale sempre più insostenibile, all’origine della crisi ecologica attuale, di cui il riscaldamento globale è solo un aspetto.
Il nostro benessere, che era parso migliorare a ritmi vertiginosi negli ultimi decenni, ci appare compromesso se guardiamo a come sostenerlo. Vi sono tante storture nella distribuzione, nei meccanismi di funzionamento del sistema, nei presupposti per la sua riproducibilità, che è lo stesso capitalismo ad apparirci giunto a un punto critico. Oggi non siamo più sicuri che esso sarà in grado di produrre ulteriore benessere. Come se una parte del nostro benessere di oggi dovesse essere sacrificato se voglio garantircene uno domani. E ciononostante sembriamo procedere nella stessa direzione, pur consci dei problemi che si prospettano.
Questo libro si occupa di come siamo potuti arrivare a sacrificare il benessere futuro in cambio del Pil di oggi e di come uscirne. Il capitalismo è un sistema economico affermatosi negli ultimi due secoli e mezzo in questa parte del mondo. Un sistema che per consolidarsi ha plasmato la società e la politica, creando un ordine sociale.
- Details
- Hits: 771
La scuola del futuro: un grande regalo alle aziende High-Tech
di Arianna Cavigioli
Con decreto del Ministro dell’istruzione n. 161 del 14 giugno 2022 è stato adottato il Piano Scuola 4.0, il ramo di investimenti in ambito educativo e scolastico dell’arborescente PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza). Il progetto è stato delineato sulla scia di azioni già attivate precedentemente grazie ai fondi del PNSD e del PON per la scuola, con i quali dal 2014 al 2021 sono stati finanziati con 1,9 miliardi di euro l’acquisto di dispositivi e tecnologie digitali (quali schermi, computer, registri elettronici, connessioni in fibra ottica, sistemi di gestione informatizzati), ma anche formazione tecnica ai docenti e veri e propri ambienti didattici digitali. L’urgente obiettivo dichiarato con il Piano Digitale 4.0 è quello di “accelerare il processo di transizione digitale della scuola italiana e allinearlo alle priorità dell’Unione Europea”. La missione prevede cospicui investimenti soprattutto nella Didattica Digitale Integrata (DDI) – percepita dai sostenitori del Piano 4.0 come uno strumento inclusivo e rivoluzionario -, nello sviluppo didattico di competenze maggiormente legate ai lavori del futuro come scienza, tecnologia, ingegneria e matematica, nella formazione digitale di docenti e nella costruzione di innovativi laboratori di apprendimento – tali principalmente per via dell’uso di nuove tecnologie come realtà virtuale e aumentata. Il più grande teatro sperimentale di queste pratiche digitali sono stati sicuramente gli anni della pandemia. Nella maggior parte dei governi occidentali la dichiarazione di lockdown fu accompagnata dalla chiusura temporanea delle scuole e, persino nella loro successiva riapertura, dal continuo tracciamento di casi positivi tra studenti e docenti, al fine di escludere gli infetti reali o potenziali dalle lezioni in presenza.
- Details
- Hits: 1049
Perdita di potere e deriva autoritaria dell’Occidente
di Roberto Iannuzzi
Dal rinnovato militarismo alla repressione delle proteste universitarie, ultimo presidio di democrazia, le élite occidentali si mostrano incapaci di leggere la mutata realtà globale
Con una spesa militare globale che continua a crescere, avendo toccato lo scorso anno la cifra record di 2,443 trilioni di dollari, la parte del leone continuano a farla i paesi occidentali e i loro alleati (dove risiede un sesto della popolazione mondiale), i quali contribuiscono a circa due terzi di essa.
Ciò non sembra rassicurare i nostri leader su nessuna delle due sponde dell’Atlantico, malgrado il pacchetto da 95 miliardi di dollari recentemente approvato dal Congresso USA per sostenere militarmente Ucraina, Israele e Taiwan.
Difendere l’egemonia occidentale
Da oltreoceano continuano a giungere appelli, debitamente rilanciati dai politici del vecchio continente, affinché l’Europa si riarmi per impedire una sempre più probabile vittoria russa in Ucraina, che potrebbe preludere nientemeno che a un attacco di Mosca alla NATO.
Ultimo a lanciare l’allarme, in ordine di tempo, è stato l’ex premier britannico Boris Johnson, il quale ha affermato che, se Kiev verrà sconfitta dai russi, “sarà una totale umiliazione” per i paesi occidentali, e anche “un punto di svolta nella storia, il momento in cui l’Occidente perderà definitivamente la sua egemonia”.
I timori di Johnson non sono nulla di nuovo. I leader occidentali sono terrorizzati all’idea di perdere la supremazia mondiale.
- Details
- Hits: 1011
Note su “Categorie della politica” di Vincenzo Costa
di Linda Dalmonte
Della scomparsa della diade destra/sinistra si può parlare in diversi modi, e con scopi più o meno espliciti. Nel dibattito degli anni Ottanta, segnato dalla fine del comunismo nella storia mondiale e dal trionfo della democrazia liberale, la critica alla distinzione destra/sinistra poteva maturare in seno all’orizzonte della perdita di alternative reali, di fronte alla quale si aveva buon gioco nel dichiarare la fine delle ideologie minimizzando le differenze politiche, tanto più se all’alba di quel nuovo Manifest destiny verso un mondo unico e omogeneo, presuntivamente pacificato secondo le categorie del mercato. In questa contingenza, destra/sinistra si sarebbero ridotte a semplici varianti del neoliberalismo: due alternative vuote, artificiosamente reimpostate di fronte al fatto della globalizzazione, e di cui – perfino dal versante socialista – si sarebbe potuta ribadire una «natura inservibile»[1] di contro a Bobbio e al criterio – resosi presto pilastro teorico – dell’eguaglianza come valore discriminante. E non solo perché, a conti fatti, «esse applicano le stesse ricette economiche e sociali»[2], in linea cioè con la prosecuzione del modo di produzione capitalistico e dell’equilibrio di mercato; ma, più radicalmente, per la loro strumentalità al nuovo spazio economico: c’è il sospetto di una nuova tassonomia fatta ad arte per riorganizzare la politica in maniera innocua, così da respingere come “radicali” ed “estremiste” le alternative reali, escluse dal bipolarismo costruito. Tanto da suscitare una tesi, scriveva Costanzo Preve, «molto più folle e scandalosa, quella della profonda affinità di fondo tra cultura di sinistra e il “fatto della globalizzazione”»[3]. Oppure, questa la tesi di Vincenzo Costa, da far pensare a una ricaduta oligarchica, a «una regressione a un’organizzazione concettuale ottocentesca e all’articolazione politica che precedette l’introduzione del suffragio universale e la conseguente affermazione dei partiti popolari di massa» (p. 12).
- Details
- Hits: 908
La grande frattura tra gli ebrei americani
di Peter Beinart
Questo articolo è stato pubblicato originariamente dal New York Times. Ringraziamo l’autore e la direzione del giornale per avere autorizzato la traduzione, curata da Giovanni Pillonca
Negli ultimi dieci anni circa, un tremore ideologico ha scombussolato la vita degli ebrei americani. Dal 7 ottobre è diventato un terremoto. Riguarda il rapporto tra liberalismo e sionismo, due fedi che per più di mezzo secolo hanno definito l’identità ebraica americana. Negli anni a venire, gli ebrei americani dovranno affrontare una sollecitazione crescente a fare una scelta tra queste due opzioni.
Dovranno affrontare questa sollecitazione perché la guerra di Israele a Gaza ha accelerato una trasformazione nella sinistra americana. La solidarietà con i palestinesi sta diventando essenziale per la politica di sinistra quanto il sostegno al diritto all’aborto o l’opposizione ai combustibili fossili. E come accadde durante la guerra del Vietnam e la lotta contro l’apartheid sudafricano, il fervore della sinistra sta rimodellando la corrente principale del pensiero liberale. A dicembre, la United Automobile Workers ha chiesto un cessate il fuoco e ha costituito un gruppo di lavoro sul disinvestimento per considerare i “legami economici del sindacato col conflitto”. Nel mese di gennaio, la task force del Comitato Nazionale L.G.B.T.Q. ha chiesto un cessate il fuoco. A febbraio, la leadership della Chiesa episcopale metodista africana, la più antica denominazione protestante nera della nazione, ha invitato gli Stati Uniti a sospendere gli aiuti allo Stato ebraico. In tutta l’America blu [le zone degli Usa in cui prevale il voto democratico, ndt], molti liberali, che una volta sostenevano Israele o evitavano l’argomento, stanno facendo propria la causa palestinese.
Questa trasformazione rimane nelle sue fasi iniziali. In molte importanti istituzioni liberali – in particolare nel Partito Democratico – i sostenitori di Israele rimangono non solo i benvenuti ma sono anche maggioranza. Ma i leader di quelle istituzioni non rappresentano più gran parte della loro base. Il leader della maggioranza democratica, il senatore Chuck Schumer, ha riconosciuto questa divisione in un discorso su Israele all’aula del Senato la scorsa settimana.
- Details
- Hits: 987
Provaci ancora, Emmanuel
di Gianandrea Gaiani
Macron ci riprova e torna a parlare di inviare truppe francesi e di altre nazioni aderenti NATO in Ucraina ma più lo ripete meno risulta credibile.
La prima volta le affermazioni del presidente francese scatenarono un vivace dibattito in Europa ed ebbero il merito di evidenziare come gli alleati dell’Ucraina fossero disposti al massimo a un “armiamoci e partite” o, se preferite, a combattere i russi fino all’ultimo ucraino.
Tutte le nazioni dell’alleanza precisarono che non avrebbero inviato proprie truppe a combattere nelle trincee del Donbass con l’esclusione di Polonia e repubbliche baltiche che non esclusero un futuro coinvolgimento diretto nel conflitto. Circolarono voci di un reggimento dell’Armèe de Terre pronto a partire e qualche indiscrezione riferì di truppe francesi nell’area di Odessa: nulla di confermato se non la presenza al fronte di qualche migliaio di combattenti stranieri, per lo più provenienti da Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna e Georgia, ma inquadrati nella Legione Internazionale che combatte al fianco di Kiev e che alcune fonti russe stimano avere oggi la consistenza di circa 3.100 uomini.
La russa Foundation to Battle Injustice (non proprio una fonte neutrale) stima che vi sia un numero elevato di soldati e ufficiali delle nazioni aderenti alla NATO in Ucraina: ben 6.800, di cui 2.500 americani, 1.900 canadesi, 1.100 britannici e circa 700 francesi che avrebbero compiti di consulenza, addestramento, incarichi nei comandi ucraini e forse anche operativi.
La stessa fonte inoltre ritiene siano circa 13.000 i “mercenari” stranieri che eseguono anche ordini diretti provenienti da strutture di comando NATO.
- Details
- Hits: 1400
La rivoluzione fallita di Karl Polanyi
L’ordine mondiale liberale sta crollando ancora una volta
di Thomas Fazi
Pochi pensatori del XX secolo hanno avuto un’influenza così duratura e profonda come Karl Polanyi. “Alcuni libri si rifiutano di andare via: vengono sparati fuori dall’acqua ma emergono di nuovo e rimangono a galla”, ha osservato Charles Kindleberger, lo storico dell’economia, a proposito del suo capolavoro La Grande Trasformazione. Ciò rimane più vero che mai, a 60 anni dalla morte di Polanyi e a 80 dalla pubblicazione del libro. Mentre le società continuano a lottare per i limiti del capitalismo, il libro rimane senza dubbio la critica più tagliente mai scritta al liberalismo del mercato.
Nato in Austria nel 1886, Polanyi crebbe a Budapest in una prospera famiglia borghese di lingua tedesca. Anche se quest’ultimo era nominalmente ebreo, Polanyi si convertì presto al cristianesimo – o, più precisamente, al socialismo cristiano. Dopo la fine della prima guerra mondiale, si trasferì nella Vienna “rossa”, dove divenne redattore della prestigiosa rivista economica Der Österreichische Volkswirt (economista austriaco), e uno dei primi critici della scuola neoliberista, o “austriaca”, di economia, rappresentata tra gli altri da Ludwig von Mises e Friedrich Hayek. Dopo la conquista nazista della Germania nel 1933, le opinioni di Polanyi furono ostracizzate socialmente e si trasferì in Inghilterra, e poi negli Stati Uniti nel 1940. Scrisse The Great Transformation mentre insegnava al Bennington College nel Vermont.
Polanyi si proponeva di spiegare le massicce trasformazioni economiche e sociali a cui aveva assistito durante la sua vita: la fine del secolo di “pace relativa” in Europa, dal 1815 al 1914, e la successiva caduta nel tumulto economico, nel fascismo e nella guerra, che era ancora in corso al momento della pubblicazione del libro.
- Details
- Hits: 1135
Extinction Internet
di Geert Lovink
Internet sta accelerando i problemi del mondo ed è ormai destinata a una morte prematura. Ma un’altra fine è possibile, se ammettiamo che c’è bellezza nel collasso
Può la cultura di Internet allo stato attuale resistere all’entropia e sfuggire alla registrazione infinita mentre fa fronte alla propria fine senza fine? Questa è la domanda che ci ha lasciato in eredità il filosofo francese Bernard Stiegler, scomparso nell’agosto 2020. Un’antologia su questo tema, intitolata Bifurcate: “There Is No Alternative”, è stata scritta durante i primi mesi del COVID-19: portata a termine poco prima della sua morte, è basata sul suo lavoro e redatta in consultazione con la generazione di Greta Thunberg. Bifurcate è anche un progetto per la giustizia climatica e l’analisi filosofica, firmato collettivamente sotto lo pseudonimo Internation. “Biforcare” significa dividere o bipartire in due rami. È un appello a ramificarsi, creare alternative e smettere di ignorare il problema dell’entropia, un quesito classico della cibernetica. Conosciamo il disordine nel contesto della critica di Internet come un problema dovuto al sovraccarico cognitivo, associato a sintomi psichici quali la distrazione, l’esaurimento e l’ansia, aggravati a loro volta dalle architetture subliminali dei social media estrattivisti. Stiegler chiamò la nostra condizione l’Entropocene in analogia con l’Antropocene: un’epoca caratterizzata dal “massiccio aumento dell’entropia in tutte le sue forme (fisiche, biologiche e informative)”. Come Deleuze e Guattari avevano già rilevato, “Non ci manca certo la comunicazione, anzi ne abbiamo troppa; ci manca la creazione”. Il nostro compito, perciò, è creare un nuovo linguaggio per comprendere il presente con l’aspirazione di fermare e superare l’avvento di molteplici catastrofi, esemplificate dal concetto plurimo di Extinction Internet.
- Details
- Hits: 1425
Dal Vietnam alla Palestina: la guerra è tornata come un boomerang nel “giardino” statunitense
di Giacomo Marchetti
La Casa Bianca si sta spazientendo sulla necessità di raggiungere un cessate il fuoco a Gaza. Il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca, John Kirby, ha insistito martedì sui negoziati al Cairo per un patto tra Israele e Hamas che consentirebbe una tregua nella Striscia di Gaza in cambio del rilascio di ostaggi. “Se avremo un cessate il fuoco, potremo ottenere qualcosa di più duraturo e forse porre fine al conflitto (a Gaza)… ma tutto ciò inizia con un accordo per la restituzione degli ostaggi alle loro famiglie”, ha dichiarato in una conferenza stampa.
Al di là della scena internazionale, questo messaggio ha anche una motivazione politica interna.
Nel momento in cui i sondaggi del Presidente Joe Biden non sono in crescita, per la Casa Bianca il raggiungimento di un accordo è vitale, soprattutto nel bel mezzo di una campagna elettorale e mentre le proteste universitarie pro-palestinesi, sempre più diffuse, si scatenano contro il sostegno di Washington a Israele.
L’ “oltranzismo” dell’attuale governo israeliano potrebbe costare caro all’attuale amministrazione statunitense che, come un qualsiasi apprendista stregone, ha attivato delle forze che ora non riesce a governare facendo da ostetrica alla nascita del fascismo ebraico dentro e fuori i confini di Israele.
In questo caso le élite statunitensi sono recidive, basti pensare al supporto dell’insorgenza islamica contro l’Afghanistan democratico in funzione anti-sovietica.
Ma non sembrano appunto, avere imparato molto dai propri errori.
- Details
- Hits: 1264
Ucraina: Un’ulteriore guida per i perplessi
Non lo sapevano. Ma ora lo sanno
di Aurelien
La scorsa settimana abbiamo analizzato cosa potrebbe accadere in Ucraina. Un armistizio, ovvero un accordo su come e quando terminare i combattimenti, dovrà essere negoziato a breve, anche se non sarà semplice da realizzare e potrebbe facilmente fallire. Tuttavia, supponendo che entro la metà del 2025 (o qualsiasi altra data vogliate proporre se ritenete che sia troppo presto) ci sia un armistizio e che i combattimenti siano finiti, cosa succederà? Questo è l’argomento del saggio di oggi.
Le questioni principali sono due. La prima riguarda le circostanze dell’armistizio stesso e il rapporto tra la situazione militare e le decisioni politiche che dovranno essere prese. Comincia a delinearsi la situazione che avevo previsto da tempo: gli ucraini si stanno ritirando da un certo numero di posizioni chiaramente indifendibili e alcune unità sembrano aver ceduto e si sono ritirate senza ordini. Con la crescente carenza di manodopera, equipaggiamento e munizioni, e dato che non si può combattere solo con i soldi, è probabile che entrambi questi processi continuino. Tuttavia, non c’è nulla di deterministico o matematico nella decisione di arrendersi, ed è per questo che è effettivamente impossibile prevedere anche solo una data approssimativa. La storia, che per quanto imperfetta è l’unica guida che abbiamo, suggerisce che ciò che determinerà la data sarà la perdita di speranza e di unità tra l’élite al potere, e questo potrebbe avvenire tra un mese o tra un anno.
Supponiamo quindi, per amor di discussione, che a un certo punto i russi abbiano il pieno controllo della regione del Donbas e che l’UAF si sia ritirata da Kharkov e Odessa. I russi hanno interrotto le operazioni offensive di terra, a eccezione di un’occupazione simbolica di Odessa per prendere il controllo del porto, ma continuano ad attaccare le aree posteriori dell’Ucraina e le infrastrutture del Paese. Ok, e allora? E chi decide?
- Details
- Hits: 1087
AL COMPAGNO CARLO FORMENTI
Lettera aperta di Fosco Giannini
Carissimo Carlo, carissimo compagno Formenti,
ho avuto l'onore di conoscerti personalmente solo da pochi anni e il conoscerti come persona ha confermato in me la grande stima che già nutrivo per il tuo lavoro politico-teorico, che invece avevo già “frequentato”. Conoscendoti, dunque, ho potuto apprezzare, moltissimo, sia l'uomo, il compagno, che l'intellettuale.
Nonostante la tua scelta di dichiarare pubblicamente la tua non adesione (che personalmente mi fa molto male, proprio per la stima che ho nei tuoi confronti) al Movimento per la Rinascita Comunista, non nutro certo sentimenti avversi verso di te. Rimane, intera, la stima e, anche se non ci siamo frequentati tanto, anche l’affetto, cresciuto verso di te per un tuo particolare modo d’essere: quello di rimanere, senza “posa” alcuna, un “giovane rivoluzionario”.
E’ mia colpa non aver interloquito con te negli scorsi giorni, quando, con molta correttezza, hai posto il problema di pubblicare sul tuo blog la dichiarazione di non adesione al MpRC. Mi scuso sinceramente e, a mia parziale scusante, ti dico solo che, in questa fase del nostro lavoro politico, con tante iniziative su buona parte del territorio nazionale, con l’obiettivo della riuscita della nostra Assemblea dell’11 maggio a Roma e con la costruzione in atto di nuove e importanti relazioni con altri gruppi/movimenti comunisti, non ho il tempo nemmeno per la mia vita, per la mia compagna, per le mie figlie.
- Details
- Hits: 1013
Plusvalore che grida allo scandalo. Deleuze e Derrida, empiristi raffinati
di Leo Essen
I
Nel 1967 Suzanne de Brunhoff scrive un libricino su Marx e la moneta che cade sotto lo sguardo di Deleuze, il quale ne fa il perno della sua lettura del tramonto dei Trente Glorieuses.
In Francia, negli stessi anni, alcuni economisti, riuniti sotto l’etichetta Circuitistes, cercano di inquadrare in una teoria monetaria moderna l’uso da parte dei governi della leva monetaria e valutaria per sostenere un industrialismo che arranca.
L’inflazione rende obsoleta ogni analisi che ritiene la moneta uno strumento neutro. La moneta ha un potere. Essa non ha solo il ruolo di misurare e quantificare il volare di scambio, ma ha anche un potere performativo.
La moneta non misura allo stesso modo se spesa dal proletario o se spesa dal capitalista, non ha lo stesso potere (d’acquisto), e non lo ha in virtù del fatto che non acquista la stessa merce. Il segno che misura il quanto di merci che posso acquistare non è neutro, non è stabile. Non è un mero metro che funziona allo stesso modo se usato da me o se usato dal mio vicino di casa. Quando si dice che l’inflazione in Italia è al 2%, oppure che lo spread è del 3% si parla come se l’effetto di questo aumento fosse uniforme per tutte le persone. E invece non è così. E lo sappiamo bene.
È l’ingresso del potere – della lotta di classe – nell’analisi della moneta.
Queste analisi, lo dico per inciso, si muovono sul terreno di un raffinato empirismo. Considerano la moneta come oggetto parziale. Non considerano la moneta ideale, la moneta senza corpo (ammesso che una cosa del genere possa darsi), la moneta usata in quanto unità di conto, moneta scritturale dei ragionieri (scontata l’evidenza lampante che anche la moneta scritturale ha una empiricità irriducibile), ma la moneta empirica, individuale, che tengo in tasca, e che nelle mie mani ha un potere diverso da quello che ha nelle mani di un altro individuo.
- Details
- Hits: 899
L’intreccio dei paradigmi strategici
di Alastair Crooke - strategic-culture.su
Molti europei vorrebbero un'Europa nuovamente competitiva, che fosse un attore diplomatico, piuttosto che militare
Theodore Postol, professore di Scienza, Tecnologia e Politica di Sicurezza Nazionale al MIT, ha fornito un’analisi forense dei video e delle prove emerse dall’attacco dimostrativo dell’Iran con droni e missili del 13 aprile contro Israele: Un “messaggio”, piuttosto che un “assalto”.
Il principale quotidiano israeliano, Yediot Ahoronot, ha stimato il costo del tentativo di abbattere la salva di missili e droni iraniani in 2-3 miliardi di dollari. Le implicazioni di questa cifra sono sostanziali.
Il professor Postol scrive:
“Ciò indica che il costo della difesa contro ondate di attacchi di questo tipo è molto probabilmente insostenibile contro un avversario adeguatamente armato e determinato”.
“I video mostrano un fatto estremamente importante: tutti i bersagli, droni o altro, sono abbattuti da missili aria-aria”, [lanciati per lo più da aerei statunitensi. Secondo quanto riferito, circa 154 velivoli erano in volo in quel momento] che probabilmente usavano missili aria-aria AIM-9x Sidewinder. Il costo di un singolo missile aria-aria Sidewinder è di circa 500.000 dollari”.
Inoltre:
“Il fatto che molti missili balistici non intercettati siano stati visti brillare al rientro nell’atmosfera ad altitudini inferiori [un’indicazione di ipervelocità], fa capire che, in ogni caso, gli effetti delle difese missilistiche David’s Sling e Arrow di [Israele], non sono stati particolarmente efficaci. Pertanto, le prove a questo punto mostrano che essenzialmente tutti o la maggior parte dei missili balistici a lungo raggio in arrivo non sono stati intercettati da nessuno dei sistemi di difesa aerea e missilistica israeliani”.
- Details
- Hits: 1519
Effetti culturali dell’economia neoliberista II
di Luca Benedini
(Seconda parte: una forma di patriarcato più sofisticata, oltre che una basilare occasione per rifocalizzarsi sull’incompatibilità strutturale che c’è tra pensiero socialista e cultura patriarcale)*
Ruoli di genere e neoliberismo
Oltre alla “novità” culturale costituita dalla combinazione tra la precarietà liberista sviluppatasi diffusamente nell’Ottocento e le aspirazioni consumiste divenute popolari in concomitanza col boom tecnologico ed economico novecentesco (boom che non casualmente è maturato proprio con l’allontanarsi dell’economia di mercato dal liberismo ottocentesco e che sempre non casualmente si è in buona parte dissolto proprio col ritornare del liberismo nella sua nuova forma collegata all’“edonismo reaganiano”...), vi è un altro aspetto culturale in cui l’attuale società neoliberista si è mostrata orientata fortemente alla novità: le modifiche che stanno avvenendo nei ruoli di genere sia nel modo di vivere delle classi dominanti sia soprattutto – fatto socialmente più significativo perché riguarda miliardi di persone – nell’ambito della “cultura di massa”.
1. Il nòcciolo della questione
Durante l’ultimo paio di secoli, moltissime voci nel movimento femminista hanno sottolineato come per millenni le società organizzate in modo patriarcale abbiano cercato di indurre nelle donne una tendenza alla dipendenza emotiva da figure maschili come il padre inizialmente e il marito poi, tendenza cui si affiancava il contraltare costituito nella vita pubblica da altre figure dominanti tipicamente maschili, come i capi politici, religiosi e militari e in tempi relativamente recenti i dirigenti d’impresa [40]. Nella vita pratica ciò si esprimeva in un’esistenza femminile incentrata sulla vita di famiglia (e in particolare sull’occuparsi dei famigliari, della casa e dei dintorni), mentre nel caso in cui per un motivo o per l’altro una donna operasse anche al di fuori di tale contesto la sua posizione avrebbe dovuto rimanere comunque subordinata – direttamente o indirettamente – a qualche figura solitamente maschile.
- Details
- Hits: 1214
Perché l'America fatica a mantenere il dominio globale
Appunti su un numero della rivista Limes
di Carlo Formenti
Premessa
Il numero 3 (marzo 2024) di “Limes”, la prestigiosa rivista italiana di geopolitica, dovrebbe essere una lettura obbligata per gli intellettuali e i militanti marxisti che vogliano comprendere a fondo quali sfide orientano le attuali scelte di politica internazionale degli Stati Uniti. A incuriosirmi al punto da acquistare il corposo fascicolo (compro “Limes” solo saltuariamente) sono stati, più del titolo “Mal d’America”, i tre sottotitoli; “Il peso dell’impero mina la repubblica”, “Il Numero Uno non si piace più”, “Come perdere fingendo di vincere”. Li ho trovati stuzzicanti, anche se ad alcuni potrebbero sembrare un modo criptico e allusivo di evocare le contraddizioni che riducono le speranze di chi auspica che il XXI possa essere un nuovo secolo americano. Inoltre mi rendo conto del fatto che possano suonare depistanti alle orecchie d’una cultura comunista ancorata all’analisi “classica” (variamente aggiornata) dell’ imperialismo, appiattita sui meccanismi economici tardo capitalisti e poco propensa a valutare il peso dei fattori “sovrastrutturali”. Motivo per cui si perde la possibilità di capire le motivazioni del nemico che, da un lato, vengono ridotte a un chiacchiericcio ideologico che serve a mascherarne i suoi “veri” obiettivi, dall’altro, vengono depurate dalle tensioni e dalle contraddizioni che le attraversano, neutralizzandone la complessità.
Un’attenta lettura di queste trecento pagine consente a mio avviso di evitare la duplice trappola appena descritta. In primo luogo perché è lo stesso statuto della geopolitica a favorire un approccio “realistico” ai problemi, sfrondandoli (in parte) degli (inevitabili) pregiudizi valoriali.
- Details
- Hits: 719
La tensione tra Israele e Iran non giova alla causa palestinese
di Il Pungolo Rosso
Abbiamo voluto attendere che si concludesse lo scambio di colpi tra Israele e Iran per dire la nostra, che – però – a vicenda per il momento conclusa, resta identica: nonostante le possibili (e realmente esistenti) illusioni a riguardo, l’innalzamento della tensione tra i due stati non giova alla causa palestinese.
Un indizio di fondamentale importanza dovrebbe essere nel fatto che è stato il regime sionista a prendere l’iniziativa di colpire duro a Damasco abbattendo mezza ambasciata iraniana e alcuni alti ufficiali del regime di Teheran. Un avvertimento dato in due direzioni: verso gli Stati Uniti e l’Europa; verso l’Iran. Ai suoi protettori la banda di Netanyahu (e la sua finta opposizione) hanno mandato a dire: noi siamo in grado, e siamo determinati, se necessario, a far deflagrare la guerra in tutto il Medio Oriente, ben sapendo voi Stati Uniti, voi Unione Europea, non siete pronti a questo. Ricatto pesante. Ai prudentissimi ayatollah (che, ricordatelo, avevano sconsigliato Hamas dall’agire in modo offensivo, e che fino alla fine di marzo hanno tenuto un profilo d’azione molto basso) lo stato sionista ha mandato a dire: continuate a restare prudenti, perché noi siamo in grado di colpirvi duro (il sottinteso riguarda le centrali di arricchimento dell’uranio e quant’altro di strategico possa essere colpito). Altro ricatto pesante.
Dopo l’attacco del 1° aprile, era impossibile, per Teheran, restare con le mani in mano, salvo perdere la faccia. La risposta è stata accorta, spettacolare, di sicuro dannosa per il mito di invincibilità di Israele – già fatto a pezzi dall’offensiva della resistenza palestinese del 7 ottobre -, ma nello stesso tempo prudente. Un piccolo capolavoro tattico, nell’esclusivo interesse dell’Iran come potenza regionale, senza nessuna ricaduta positiva per il popolo palestinese. Anzi.
- Details
- Hits: 719
Foreign Affairs è “putiniana” e i russi continuano a bombardarsi da soli
di Gianandrea Gaiani
Nei giorni scorsi ha fatto scalpore, ma forse in Italia non abbastanza, l’articolo di Foreign Affairs in cui Samuel Charap e Sergey Radchenko hanno ricordato i punti salienti della trattativa tra Russia e Ucraina che grazie alla mediazione turca erano giunte a fine marzo del 2022 a un accordo per interrompere le ostilità dopo poco più di un mese di guerra.
Come ricorda Roberto Vivaldelli su InsideOver, il magazine americano ha dedicato, con tanto di documenti e testimonianze inedite, un lungo articolo ai negoziati. “Alcuni osservatori e funzionari (tra cui, soprattutto, il presidente russo Vladimir Putin) hanno affermato che sul tavolo c’era un accordo che avrebbe posto fine alla guerra, ma che gli ucraini se ne sono allontanati a causa di una combinazione di pressioni da parte dei loro protettori occidentali e delle supposizioni di Kiev sulla debolezza militare russa” nota Foreign Affairs ammettendo che “i partner occidentali di Kiev erano riluttanti a lasciarsi coinvolgere in un negoziato con la Russia”, in particolare “in un negoziato che avrebbe creato nuovi impegni per garantire la sicurezza dell’Ucraina”.
La bozza di accordo visionato da Foreign Affairs prevedeva un’Ucraina “neutrale e priva di armi nucleari”, che avrebbe rinunciato a “qualsiasi intenzione di aderire ad alleanze militari o di permettere la presenza di basi militari o truppe straniere sul proprio territorio”.
I possibili garanti della sicurezza ucraina sarebbero stati i 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (inclusa quindi la Russia) insieme a Canada, Germania, Israele, Italia, Polonia e Turchia.
- Details
- Hits: 885
Le tante faglie che attraversano gli Stati Uniti d’America
di Paolo Arigotti
La Treccani definisce[1] faglia la “frattura in un corpo roccioso, caratterizzata dal movimento relativo fra i blocchi adiacenti che essa separa”. Ma non siamo qui per parlare di geologia, bensì di un altro tipo di fratture, intese in senso politico e sociale, che da tempo interessano gli Stati Uniti d’America. Non ci occuperemo, pertanto, di questioni collegate alla politica internazionale, ma a una serie di criticità interne alla federazione a stelle e strisce.
Ai primi di novembre, precisamente il giorno 5 - come da tradizione il primo martedì dopo il primo lunedì del mese - gli statunitensi saranno chiamati per la sessantesima volta nella loro storia a scegliere (con un elezione di secondo grado) il prossimo Presidente, e stando così le cose la sfida sarà la stessa di quattro anni fa: Joe Biden contro Donald Trump, anche se a parti invertite, visto che stavolta è il primo a occupare la prestigiosa residenza al numero 1600 di Pennsylvania Avenue, Washington D.C. Se l’attuale Amministrazione sembra ancora proiettata alla politica internazionale – ricordiamo il recente voto della Camera dei rappresentanti, col contributo decisivo della maggioranza repubblicana guidata dallo Speaker Mike Johnson, che ha approvato un nuovo pacchetto di aiuti destinato a Ucraina, Israele e Taiwan (con qualche briciola destinata agli aiuti umanitari, magari per le stragi provocate dalle stesse armi incluse nelle misure licenziate)[2], che finirà per lo più appannaggio dell’apparato militare industriale a stelle e strisce[3] - sembrano ben altri i problemi coi quali deve fare i conti l’americano medio.
Per introdurne uno, particolarmente avvertito in “casa repubblicana”, pensiamo all’immigrazione clandestina, che solo pochi mesi fa rischiava (e non è detto che non lo possa fare ancora) di innescare un vero e proprio scontro istituzionale tra centro e periferia: ci stiamo riferendo al Texas[4].
- Details
- Hits: 1676
L’Unione europea, tra mito e realtà
di Gianmarco Pisa
Comprendere l’Unione europea significa comprendere il processo storico e le basi materiali della sua costituzione, la sua configurazione politica e la sua proiezione internazionale: un compito al quale i comunisti e le comuniste in Europa, e segnatamente in Italia, non possono sottrarsi.
Definire la natura, oggi, dell’Unione europea, la sua configurazione politica e la sua proiezione internazionale, e, all’interno di questa, mettere a fuoco il ruolo che svolge nel mondo contemporaneo, in cui si muove come organizzazione regionale di Stati e nel quale svolge un ruolo come attore politico, è, senza dubbio, un impegno al quale i comunisti e le comuniste in Europa, e segnatamente in Italia, non possono sottrarsi.
Va dunque, in premessa, impostata la definizione del perimetro, a partire dalla essenziale distinzione tra Europa e Unione europea: vale a dire tra Europa, come spazio geografico e culturale significativamente articolato, plurale e complesso (46 Stati, oltre 700 milioni di persone, oltre 200 lingue parlate, una composizione politica e culturale peculiare e composita), e Ue, come organizzazione istituzionale sovranazionale, di carattere politico ed economico, costituita a partire dalle Comunità europee venutesi formando negli anni Cinquanta (che conta oggi 27 Stati membri, una popolazione di meno di 450 milioni di persone, 24 lingue ufficiali). Comprendere l’Unione europea significa cioè comprendere il processo storico e le basi materiali della sua costituzione e della sua configurazione.
Le basi materiali dell’Ue
Page 79 of 612