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Perché sulla Bolivia è calato il silenzio
di Gennaro Carotenuto
Il golpe in Bolivia, con l’appoggio del sistema mediatico, ha abbattuto una dittatura che esisteva solo nelle fake news, ed è stato costruito per rappresentarsi come istituzionale e democratico, anche se “golpe democratico”, tanto più con i morti in strada e l’UNHCR che accoglie i rifugiati, è un ossimoro irricevibile.
Riassumiamo molto sinteticamente. La prima parte è stata costruita a partire dalla stigmatizzazione, distruzione dell’immagine, demonizzazione di Evo Morales, trasformato (qui la sua character assassination) in una specie di mostro for export, l’autocrate, il narcoindio (se non è razzista l’espressione “narcoindio”…). Rappresentato Evo Morales come il nuovo male assoluto, il secondo passaggio è stato far passare un governo legittimo come illegale (i presunti brogli che, nella sua preveggenza, la OEA ha denunciato da prima che accadessero e smentiti da fonti ben più autorevoli) e liberarsene con la violenza. Era il golpe che non c’è, almeno per i grandi media.
Ora siamo alla terza fase, quella della normalizzazione che implica la rappresentazione dell’ex-opposizione, trasformatasi in “governo di fatto”, come espressione pulcra e senza ombre di quella liberaldemocrazia occidentale così incapace di autocritica, quanto capace di gettare la croce addosso a chiunque le faccia ombra, come è accaduto in Bolivia e in America latina nel XXI secolo. Finora è andata loro bene. Hanno convinto tutti o quasi che non fosse un golpe e che tutte le responsabilità fossero esclusivamente dell’indio disubbidiente. Parliamoci chiaro: si sono allineati più o meno tutti. A parte Bernie Sanders, a quale politico conviene nel 2019 sprecare un tweet per difendere gli indigeni boliviani?
Ma la realtà può essere travisata solo fino a un certo punto. Il problema è che la loro “rivoluzione colorata”, quella per giustificare la quale la quale la OEA aveva messo nero su bianco che vi fossero imprecisati brogli gravissimi senza neanche aspettare metà scrutinio, si sia ben presto trasformata in un incubo di ex abrupto.
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Sei lezioni di economia
Intervista a Sergio Cesaratto
Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne)
Prof. Sergio Cesaratto, Lei è autore del libro Sei lezioni di economia. Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne) edito da Diarkos: in che modo la teoria economica può aiutarci a spiegare la crisi europea e dell’euro, e il declino del nostro Paese?
La prima edizione delle Sei lezioni ha avuto un buon successo perché mostra come esistano diverse teorie economiche le quali ci portano a diverse visioni di come funziona il sistema economico e di come possa dunque essere migliorato. Semplificando, le prime tre lezioni del libro confrontano due teorie, quella “classico-keynesiana” che si rifà ai grandi economisti classici (come Smith, Ricardo e Marx) e alla lezione di John Maynard Keynes (1883-1946), il grande economista inglese dello scorso secolo, e quella “marginalista” (o “neoclassica”) che domina il pensiero economico dalla fine del XIX° secolo. Tale dominio è stato in taluni periodi indebolito dalla critica Keynesiana, ma anche da quella del grande economista italiano Piero Sraffa (1898-1983) che ha riscoperto la visione degli economisti classici. La figura di Sraffa è ignota alla maggioranza degli italiani, persino da quelli colti. Eppure è una figura essenziale per il percorso intellettuale di studiosi come Wittgenstein e Antonio Gramsci. Keynes offrì rifugio a Sraffa, personalmente inviso a Mussolini, accogliendolo nel suo circolo più ristretto a Cambridge. Ed a Sraffa dobbiamo l’innesto di una clamorosa controversia che negli anni sessanta e settanta dello scorso secolo scosse le fondamenta della teoria dominante. Sraffa dimostrò infatti i gravi errori concettuali del marginalismo che lo rendono una teoria analiticamente sbagliata. La controversia è nota come la “controversia fra le due Cambridge”, quella inglese e quella americana (sede del celebre MIT vicino a Boston). Ma protagonisti della Cambridge inglese erano dei giovani italiani, in particolare Pierangelo Garegnani (1930-2011) e Luigi Pasinetti.
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David Harvey, “Geografia del dominio”
di Alessandro Visalli
Questo piccolo libro di David Harvey raccoglie estratti di “Space of capital: towards a critical geography” del 2001 e contiene un efficace riepilogo di un modello interpretativo del capitalismo unito ad un interessante tentativo di sistematica estensione di questo alle determinanti spaziali. Lo sfondo principale nel quale il libro si colloca è una riflessione sulle meccaniche e le conseguenze del passaggio dal “fordismo” (ovvero catena di montaggio, organizzazione politica di massa e intervento dello stato sociale) alla “accumulazione flessibile” (definita come insieme del perseguimento di mercati di nicchia, del decentramento combinato con la dispersione spaziale della produzione, del ritiro dello Stato-nazione da politiche interventiste, insieme a deregolazione e privatizzazioni). Una transizione alla quale è connessa, come sostiene nella prima parte del testo, quella alle forme postmoderne di pensiero. Ovvero al culto dei frammenti, la perdita della ricerca della verità, e via dicendo.
Questa transizione riguarda l’ampliamento della normale tendenza del capitalismo all’accelerazione e alla riduzione delle barriere spaziali, ovvero a quella che chiama “compressione spazio-temporale” (telecomunicazioni, trasporto con i cargo, containerizzazione, mercati finanziari, information technology, …). Il punto centrale dell’esposizione è che questa accelerazione pone in particolare rilevanza le “rendite di monopolio”[1], ovvero quel valore che può essere estratto dal possesso di caratteristiche distintive e speciali. Tutti quei flussi di reddito che possono essere ottenuti grazie ad un controllo esclusivo su un oggetto negoziabile che, però, non sia per qualche ragione replicabile (almeno facilmente). Oppure (effetto indiretto), per le caratteristiche uniche di qualcosa che non viene direttamente commercializzato (ad esempio, il paesaggio senese).
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Bolivia: anatomia di un colpo di Stato
di Alessandro Peregalli
La Bolivia è sprofondata in una crisi devastante lo scorso 20 ottobre, data delle elezioni presidenziali e legislative. Si è chiuso così il periodo di maggior stabilità politica della sua intera storia indipendente; le mobilitazioni e proteste in tutto il paese mostrano uno scenario ancora aperto che ha portato, il 10 novembre, alle dimissioni e del presidente Evo Morales e del vice-presidente Álvaro García Linera, e al loro esilio in Messico. Immediatamente, due narrative opposte si sono affermate per leggere gli eventi, tanto in Bolivia come a livello internazionale: da un lato, la sinistra, legata al “primo presidente indio” Morales, o riconducibile ai suoi alleati internazionali (di sinistra o meno, dal Messico al presidente in pectore argentino Alberto Fernández, dalla Cina alla Russia), ha affermato che si sia trattato di un classico golpe de Estado, che ha fatto fuori un presidente legittimo e legalmente rieletto e che è stato orchestrato dal Dipartimento di Stato americano, dalla CIA e dall’oligarchia boliviana. Dall’altra, la destra, tanto interna come internazionale (da Trump a Bolsonaro, e con la complicità dei “sinceri democratici” dell’Unione Europea e del partito democratico americano, con l’eccezione di Bernie Sanders), hanno sostenuto che si sia trattato della rimozione legittima di un “dittatore” che aveva falsato le ultime elezioni per farsi rieleggere.
In realtà, ciò che ha reso più complicato questo tipo di polarizzazione è stato l’emergere, nella sinistra libertaria e di matrice autonomista, di uno spettro di posizioni critiche allo stesso tempo tanto del governo di Evo come delle pulsioni classiste, misogine e coloniali emerse all’interno del movimento di protesta contro di lui.
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L'”ammazza stati” bussa alla nostra porta
di Redazione Contropiano
In calce un articolo di Guido Salerno Aletta
Mettiamo da parte rapidamente la sceneggiata politica tra vecchi e nuovi complici sulla “scoperta” che l’Unione Europea sta per varare una “riforma del Mes” (il Meccanismo europeo di stabilità) che certamente impatterà in modo devastante l’economia nazionale, il risparmio dei cittadini e il sistema bancario. Tutto in un colpo solo.
Ha aperto i fuochi Salvini, ha fatto sponda l’imbarazzante Di Maio, li ha stanati Giuseppe Conte con una velenosa “chiamata di correo” (“Oggi abbiamo scoperto che c’è un negoziato che è da un anno in corso: il delirio collettivo sul Mes è stato suscitato dal leader dell’opposizione, lo stesso che qualche mese fa partecipava ai tavoli discutendo di Mes, perché abbiamo avuto vertici di maggioranza con i massimi esponenti della Lega – quattro incontri – e ora c’è chi scopre che era al tavolo ‘a sua insaputa’).
In sintesi: l’Italia ha dato il suo consenso di massima a questa “riforma” già a giugno (governo gialloverde) e l’ha confermata pochi giorni fa (governo giallorosa). Tutti d’accordo e al servizio dell’Unione Europea quando siedono al governo, tutti all’oscuro e contrari quando fingono di fare l’opposizione, come patetici leoni da tastiera.
Chiusa la parentesi ridicola, occupiamoci ancora un volta del merito di questa “riforma”, visto che ieri è stata oggetto sia di un illuminante editoriale di Guido Salerno Aletta – pubblicato dall’Agenzia TeleBorsa, non da un oscuro blog nazionalista – sia dell’audizione di Vladimiro Giacché presso la Commissione Finanze del Senato.
Il primo esamina da par suo le conseguenze finanziarie immediate dell’adozione della nuova normativa: “perdite astronomiche ai risparmiatori ed agli investitori sui titoli di Stato, ed un guadagno certo e sicuro agli speculatori”. Come altre volte, ripubblichiamo il suo editoriale qui di seguito.
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Trump contro tutti: la lunga marcia verso le presidenziali
Intervista a Stefano Graziosi
La corsa alle presidenziali statunitensi del prossimo anno deve ancora entrare nella sua parte più calda ma è già duramente combattuta tra il fronte democratico in cerca di una sintesi tra le sue diverse anime e quello repubblicano oramai completamente identificato col Presidente Donald J. Trump. Quali sono le principali dinamiche da tenere in considerazione nella marcia di avvicinamento al 2020 elettorale americano? Ne abbiamo parlato con un attento osservatore degli States, Stefano Graziosi. Nato a Roma nel 1990 Graziosi si è formato studiando Filosofia tra Pisa e l’Università Cattolica di Milano e collabora con diverse testate tra cui Lettera 43, Panorama e La Verità. Nel 2018 ha pubblicato con le Edizioni Ares il saggio Apocalypse Trump, con prefazione dell’ex direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli.
* * * *
Ciao Stefano e grazie della tua disponibilità. Il 2020 non è ancora iniziato ma la corsa alle presidenziali statunitensi è già aperta. Rispetto al 2016, Donald Trump parte con ben altri pronostici, forte della presenza alla Casa Bianca. I tre predecessori di Trump sono stati rieletti, è possibile per lui confermarsi? In prospettiva, ritieni che i trend politici riescano a far presagire dei temi elettorali che saranno dominanti nel 2020? Trump non rischia un contraccolpo nel caso in cui i successi economici degli Usa, suo principale cavallo di battaglia, calassero vistosamente nei prossimi mesi?
Grazie a voi. La storia americana insegna che, fermandoci almeno agli ultimi quarant’anni, i presidenti che non vengono riconfermati sono quelli che riscontrano seri problemi in termini di politica economica.
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Elena Ferrante. La vita bugiarda degli adulti
di Stefano Jossa e Viviana Scarinci
Ferrante mon amour
di Stefano Jossa
È possibile confrontarsi con la Ferrante (con l’articolo al femminile perché è un brand: come la Lego e la Coca Cola) senza risultare invidioso se la si critica, gregario se la si celebra e vigliacco se la si ignora? Per provarci, ho indossato simultaneamente i panni del critico, che guarda sospettoso, e del lettore, che s’immerge appassionato, fondendo due identità in una. Comincerò quindi da quella del critico, che crede di aver individuato la chiave per leggere La vita bugiarda degli adulti, passando subito dopo a una dichiarazione di amore sviscerato per la sua scrittura, che mi ha fatto leggere il suo nuovo romanzo, come i quattro precedenti, tutto d’un fiato.
Nel romanzo c’è due volte, alle pagine 132 e 142-3, una sequenza di un triplice io, che rivela la natura del libro: una lunga confessione intimistica, in presa diretta, dell’esperienza di crescita di un’adolescente, che si trova ad affrontare il cambiamento del suo corpo, la fine della sua famiglia e la scoperta del sesso. Non diventerà adulta se non simbolicamente, alla fine del libro, che già sembra preludere a un successivo. Al centro c’è lei e solo lei, come si addice a un’adolescente, ma soprattutto con l’occhiolino rivolto al lettore, che si sente voyeristicamente abilitato a farlo anche lui, un racconto simile della propria vita, in prima persona e al passato. Nell’era del narcisismo di massa, quale strategia più vincente per raggiungere il numero più alto possibile di lettori? Chi non ha mai scritto un diario, o desiderato di farlo?
Lei è Giovanna, Giannì, come la chiamano tutti, ma soprattutto è Elena Ferrante, un nome di cui non si può che essere invidiosi, per il successo che ha e il mistero che l’avvolge, che le consentono di essere libera: libera da vincoli di appartenenza, libera dai ricatti del mercato, libera dai condizionamenti del chiacchiericcio intellettuale.
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Sardine
di Alessandro Visalli
E’ bello quando molte migliaia di persone escono di casa, spinte dall’urgenza di esprimere un sentimento ed esprimere se stesse. È in sé un gesto politico? Potrebbe esserlo, ma cosa designa come nemico? Questa mi pare una delle domande più importanti da porre al fenomeno in corso.
Provare a rispondere richiede, però, un piccolo percorso.
La prima domanda che ci dovremmo fare è: che cosa fondamentalmente sta succedendo? Ci sono molti modi di provare a rispondere, si sta ovunque disintegrando il consenso che dal dopoguerra reggeva un sistema sociale prima che politico, gerarchico, fondato su una promessa di crescita e protezione. La traccia più evidente di questa disgregazione è la perdita di legittimità verso tutte quelle élite che rendono leggibile e coerente l’ordine sociale liberale, e consentono il posizionamento in esso. Tra queste (insieme agli scienziati, i giornalisti, i professori tutti) le classi politiche sono in primo piano. La ragione probabilmente principale di questa enorme ondata di discredito, che il movimento nascente delle “sardine” conferma, più che contrastare, come lo confermava quello dei “gretini”, e, qualche anno fa “i girotondi”, è il tradimento della promessa di benessere, e con essa della promessa di eguaglianza di riconoscimento.
Ma proprio qui c’è una linea di fattura, perché non proprio tutti sono stati traditi, e non nello stesso modo. Ci sono almeno due gradienti rilevanti, la densità relazionale che circonda ognuno di noi e la disponibilità di risorse. Chi è povero di entrambe è respinto da questo assetto sociale al margine invisibile, chi ricco di entrambe non è stato tradito, ma è beneficiario dell’ordine sociale liberale.
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Marx circuìto da Bellofiore
di Leo Essen
Più delle teorie della crisi, più dei temi della reificazione e dell’alienazione, dopo un secolo e mezzo di polemiche, di esegesi e confutazioni, l’argomento della discordia è ancora il Plusvalore. Il vero luogo della tempesta, dice Bellofiore (Marx rivisitato), è il Terzo libro del Capitale, con la sua trasformazione dei valori in prezzi. Se questo argomento è ancora al centro di un grande interesse, e se il capitale cerca con ogni mezzo di confutarlo è perché, dice, vuole nascondere la propria origine nel lavoro.
Il capitale non è un dato che può essere presupposto, ma è un risultato. Dunque, la sua origine deve essere spiegata. Il capitale non è un fattore della produzione, non è una cosa, non è un’entità intelligibile o una costante. Il capitale ha una storia, ha un inizio e avrà una fine. Ma, soprattutto, il capitale ha un inizio che si reitera ad ogni ciclo. Si tratta di un inizio che non è dato una volta per tutte in una certa epoca determinata, ma è un inizio che si impone e ritorna a ogni ciclo di valorizzazione del capitale. Il denaro non si trasforma in capitale una tantum, ma ha bisogno di alienarsi per l’acquisto di forza-lavoro, ad ogni ciclo, perché solo il capitale variabile ha la potenza di valorizzarlo. Di più, solo il capitale variabile lo vivifica, lo attualizza, lo mette in circolazione, lo fa essere qui o là, in questo o quest'altro investimento effettivo.
Questa sola circostanza – la reiterazione – dovrebbe mettere a tacere ogni pretesa che vorrebbe far ricadere sul genio, sul merito, sulla fortuna, sulla furbizia, eccetera, la causa dei piccoli e grandi patrimoni accumulati da alcuni.
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Il clown senza padre
di Sergio Benvenuto
Intervento tenuto al convegno Il padre oggi, 26-27 ottobre 2019, presso la Facoltà di Medicina e Psicologia dell’Università La Sapienza di Roma. Il convegno è stato organizzato dall’IPRS (Istituto Psicoanalitico per la Ricerca Sociale) e dall’IREP
1.
Il film Joker di Todd Phillips, che circola attualmente in Italia, è tratto dai fumetti di Batman, ma in realtà è ispirato sia al romanzo di Victor Hugo L’uomo che ride, sia al film V for Vendetta di James McTeigue.
Il protagonista di Joker, Arthur, è un giovane comico fallito, con ricoveri psichiatrici nel suo pedigree, che si adatta a fare il clown di strada. Questo quasi-psicotico vive da sempre con la madre stramba, non ha mai conosciuto suo padre. A un certo punto Arthur si convince, credendo a rivelazioni della madre, di essere il figlio di un grande magnate, Thomas Wayne (questo è il nome del padre di Bruce Wayne, alias Batman, nei famosi fumetti; un padre assassinato). Wayne si candida a sindaco di Gotham, alias fumettistica di New York. La madre sostiene di essere stata l’amante di Wayne da giovane e di aver avuto da lui Arthur, figlio che il padre non ha riconosciuto. Ma secondo un’altra versione, Arthur sarebbe stato adottato dalla madre, che da piccolo avrebbe abusato di lui, fino a finire lei in manicomio. Non sapremo mai, fino alla fine del film, se Wayne è davvero il padre di Arthur o no. Arthur è marcato come figlio di NN.
Arthur, una sera, spara a tre yuppies che lo aggrediscono in metropolitana e li uccide. Si diffonde la voce in tutta l’America che uno mascherato da clown è l’assassino dei tre brokers. Ben presto questo clown giustiziere diventa un eroe per la massa dei diseredati di Gotham, che protestano contro il potere indossando tutti una maschera da clown che ride. È interessante che tutti i mascherati da clowns siano uomini. L’intera città è messa a ferro e fuoco da migliaia di clowns. Arthur, che nel frattempo ha ucciso la madre e varie altre persone, viene riconosciuto come l’assassino dei tre yuppies e glorificato dai clown ribelli. Nel frattempo un uomo, anch’egli mascherato da clown, uccide Wayne. Non dico il finale.
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Contro natura! Il valore e la distruzione ambientale
Una prima proposta per un’ecologia politica critica e radicale
di Riccardo Frola e Dario Padovan
Questo testo è apparso per la prima volta come postfazione al libro “Le avventure della merce”, di Anselm Jappe, ed.Aracne, 2019
Le Avventure della merce, il libro che viene qui presentato modestamente dall’autore come un tentativo di «riassumere l’essenziale della critica del valore», è in realtà molto più. Circolato anche in Italia, nella sua versione francese acquistata più o meno avventurosamente in Francia dai lettori più attenti, il libro è stato effettivamente per anni (ed è ancora) l’unico riferimento per chi volesse avere un quadro completo della più radicale delle teorie critiche. Ma proprio questo “quadro completo” è in realtà la rappresentazione di qualcosa che, nella sua fisionomia integrale, non esisteva prima del libro. È un contributo originale e inedito dell’autore. Jappe ammette che, prima delle Avventure, nessun testo presentasse «la critica del valore nella sua integrità». Noi aggiungiamo che questa integrità, basata su un metodo che parte «dall’analisi più semplice […] per arrivare in seguito, andando per gradi dall’astratto al concreto, fino all’attualità e alle tematiche storiche, letterarie o antropologiche», è in buona parte il frutto di quell’«eccellente livello teorico di pensiero» che già Guy Debord (Debord, 2008) aveva riconosciuto precocemente all’autore delle Avventure.
Ma il libro non è soltanto la premessa necessaria ad ogni studio serio della critica del valore. Anselm Jappe (Jappe, 2019, p. 20), infatti, invita il lettore ad «entrare nella stanza in cui sono custoditi i segreti più importanti della vita sociale», soprattutto per mettere la critica del valore di fronte alla prova della contemporaneità e ai suoi problemi più urgenti. Il messaggio più importante del libro è forse proprio quello racchiuso nella convinzione che questi problemi, anche quello più legato alla quotidianità, non possono essere risolti senza attraversare il “deserto” (Jappe, 2019, p. 16) della teoria, in tutti i suoi aspetti, anche quelli apparentemente più aridi.
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‘La nostra vita all’ombra delle stelle e strisce’
A. Aresu e L. Caracciolo intervistano Pietro Craveri
LIMES La Prima Repubblica nasce e muore con la guerra fredda. In quella fase, l’Italia è un semiprotettorato americano. Condivide questo giudizio?
CRAVERI Francesco Cossiga è stato il primo a formulare il giudizio di un’Italia «semiservente». Un giudizio radicale giunto alla fine della guerra fredda come contraccolpo alla situazione interna, politicamente sempre più debole. È difficile non condividerlo. Nel corso della Prima Repubblica, dal 1946 al 1992 l’Italia è parte integrante della sfera d’influenza americana, cercando tuttavia di ritagliarsi i suoi spazi, di difendere i suoi interessi. Talvolta con successo.
LIMES L’Italia esce dalla seconda guerra mondiale sconfitta e umiliata. La sua costituzione geopolitica è il trattato di pace del 1947, che sancisce la catastrofe, malgrado la retorica pubblica che ci vorrebbe riscattati agli occhi dei vincitori dalla Resistenza.
CRAVERI Infatti il problema di Alcide De Gasperi e del suo ministro degli Esteri Carlo Sforza è mitigare le conseguenze del trattato di pace, che segna la condizione geopolitica di partenza della Prima Repubblica. Al Congresso di Parigi del 1946, De Gasperi riesce a chiudere solo la questione altoatesina, perché aiutato dal ministro degli Esteri sovietico Molotov. I sovietici avevano problemi in Austria, dove si trovavano di fronte un governo filo-occidentale. Su tutti gli altri fronti, nel dopoguerra immediato l’Italia è isolata: dagli inglesi filo-jugoslavi sull’Istria, ai francesi che non ci aiutano affatto, anzi cercano di sottrarci dei territori.
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A 30 anni dalla caduta del Muro di Berlino
Una riflessione marxista
di Compagno Pier
Esattamente trent’anni fa, il 9 Novembre 1989, accadde un evento di fondamentale importanza: la caduta del Muro di Berlino. Tale data simbolica, nonostante essa si riferisca prevalentemente agli eventi che portarono all’estinzione della Repubblica Democratica Tedesca e all’unificazione della nazione teutonica, contiene e rappresenta un significato molto più ampio, i cui esiti si ripercuotono nella società ancora oggi. Questo giorno viene celebrato ed accolto con gaudio dai media nostrani, i quali identificano questa data come «la fine della dittatura totalitaria comunista» e come «la prova oggettiva del fallimento socialista e della vittoria del capitalismo, unico sistema economico sostenibile». «La libertà ha vinto» esclamano in coro le principali testate occidentali, ben consapevoli che con questa data non si celebra solamente una mera riacquisizione da parte dei popoli orientali di questa famosa “libertà”, parola millantata e falsificata dai liberali , bensì viene soprattutto celebrata la libertà dell’occidente capitalista, che non aveva più sistemi economici con i quali competere (ora invece lo spauracchio degli americani è la Cina), di portare avanti quel processo di deregulation, costante finanziarizzazione dell’economia che ha causato l’evoluzione di una nuova forma di capitalismo, molto più aggressiva e feroce rispetto a quelle precedenti.
Il 9 Novembre del 1989 costituisce quindi uno spartiacque nella storia contemporanea: mediante la legittimazione fornita dai presunti insuccessi del cosiddetto socialismo reale applicato in Unione Sovietica e nelle democrazie popolari dell’Europa orientale, l’élite capitalista mondiale ha sfruttato la debolezza del movimento socialista e proletario per poter accelerare la transizione ad uno spinto ordoliberismo.
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ESM (2): la volontà del popolo italiano? Tabula rasa
Un popolo di "pagatori" per il moral hazard altrui
di Quarantotto
1. Per capire, senza essere trascinati nel gorgo delle grandiose costruzioni inerziali della propaganda orwelliana (adeguatamente testabile ogni giorno), abbiamo bisogno di punti di riferimenti.
Cioè di chiare enunciazioni circa i fondamenti istituzionali, cioè i contenuti normativi fondamentali, la cui "interpretazione autentica" fornisce l'indicazione della volontà politica e degli interessi economici che caratterizzano il dover essere della società in cui ci si trova assoggettati. Sudditi, non cittadini dotati della benché minima capacità giuridica di esercitare diritti politici, il primo dei quali è l'elettorato attivo e passivo, che possano in qualche modo determinare l'indirizzo politico fondamentale e quindi l'esistenza di un'autorità di governo che ne risponda secondo le regole della democrazia.
E il primo di questi riferimenti, parlando di sostenibilità, "rischio" e ristrutturazione del debito pubblico, non è ciò che potremmo pensare noi, - che, per definizione non conta nulla, essendo ridotti a vuota forma i diritti politici - ma quello che dicono loro, €SSI, senza alcuna remora.
2. Ci riportiamo all'intervento di Benoît Cœuré(sul sito BCE, datato 3 novembre 2016) già riportato qui, p.6.1. (Keynote address by Benoît Cœuré, Member of the Executive Board of the ECB, at Harvard University's Minda de Gunzburg Center for European Studies in Cambridge, MA, 3 November 2016). Sempre negli USA si manifesta il "meglio" di certe dottrine economiche...):
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Le lunghe radici di un tramonto*
Intervista a Gian Mario Cazzaniga1
Oggi, in particolar modo nei paesi anglosassoni (con Corbyn e Sanders2), stiamo assistendo a un rinnovato interesse nei confronti dell’idea di socialismo. All’interno di tale processo, attivisti e intellettuali di diverse provenienze politiche e nazionali manifestano fascinazione, ma al tempo stesso sconcerto, rispetto alla tradizione della sinistra italiana, in particolar modo alla storia del Partito comunista italiano. Può quindi immaginarsi fin da subito quale possa essere la prima domanda che venga in mente a un interessato interlocutore straniero.
Com’è che voi, che eravate così bravi, siete finiti così male? (risata). Esattamente. Proviamo a specificare. Cosa rimane del Gramsci politico e della sua creatura, il Pci? Quali sono i principali motivi della sua caduta in disgrazia? Possono essi spiegare la timida ascesa e il rapido declino di Rfondazione comunista, nonché l’attuale deserto politico nella sinistra italiana3?
Partiamo dall’episodio cruciale dello scioglimento. Quando, a seguito della proposta di Occhetto, iniziò una discussione all’interno del Pci sullo scioglimento del partito e sulla sua trasformazione in un nuovo soggetto politico, le resistenze rispetto a tale prospettiva furono abbastanza forti, e pur tuttavia difendevano un’idea di partito che certamente era esistito in passato, ma che non corrispondeva più alla sua configurazione del momento. D’altra parte, vi fu sicuramente qualche ragione se una larga maggioranza del suo gruppo dirigente perseguì un certo tipo di scelte, anche con una certa coerenza. Occorre quindi rivedere la storia del partito nelle sue diverse fasi, a partire dalla riforma togliattiana del 1944-45, per capire che cosa abbia fatto la grandezza del Pci e che cosa motivi anche la sua evoluzione successiva. Una parabola che, sebbene possa risultare più chiara agli storici, certamente non è stata compresa dal corpo centrale dei suoi iscritti e militanti.
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La trappola delle clausole di salvaguardia
L’austerità si fa ma non si dice
di coniarerivolta
La stagione della manovra ha un linguaggio tutto suo. Puntualmente, verso l’inizio di ottobre, si inizia a parlare di obiettivi di deficit e debito, di “manovre da tot miliardi”, di “sterilizzazione delle clausole IVA”. Un cittadino interessato potrebbe trovarsi disorientato dalla massa di informazioni che viene riversata sulle pagine internet e amplificata dagli studi televisivi, ma soprattutto dal lessico degli “addetti ai lavori”, che spesso nasconde vere e proprie trappole, volte a nascondere l’essenza, ormai stabilmente recessiva e antipopolare, delle diverse manovre che si succedono nel tempo. Cerchiamo, dunque, di fare ordine e di capire il significato che si nasconde dietro il gergo, per nulla innocente, degli amministratori dell’austerità.
Partiamo dal principio. Di cosa parliamo quando discutiamo la manovra economica? La Legge di stabilità – la nuova denominazione che nel 2009 fu attribuita alla legge finanziaria – era la legge ordinaria che regolava la politica economica nazionale per il triennio successivo, coerentemente con gli obiettivi programmatici fissati nel Documento di Economia e Finanza (DEF). Insieme alla legge di bilancio, la legge di stabilità costituiva il principale strumento dell’intervento pubblico nell’economia. Parliamo al passato perché dal 2016 queste due componenti – la legge di stabilità e la legge di bilancio – sono confluite in un unico testo legislativo, la nuova legge di bilancio (!). Tanto per rendere le cose più semplici ai non addetti ai lavori, ancora oggi questo documento unico viene semplicemente chiamato finanziaria o manovra economica.
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La barricata mobile delle resistenze urbane
di Fabio Ciabatti
Il campo di battaglia urbano. Trasformazioni e conflitti dentro, contro e oltre la metropoli, a cura del Laboratorio Crash, Red Star Press 2019, pp. 297, € 17,00
“Il cittadino e l’abitante della città sono stati dissociati”, sostiene Henri Lefebvre in uno dei suoi ultimi scritti. Di fronte a questo fenomeno bisogna rilanciare il diritto alla città e cioè una “concezione rivoluzionaria della cittadinanza politica”. Sebbene le analisi di Lefebvre rimangano imprescindibili per comprendere il nostro presente, possiamo ancora oggi fare nostra la sua prospettiva di un nuovo incontro tra cittadino e abitante urbano o dobbiamo fare un passo oltre? Si può partire da questa domanda per esporre i contenuti del libro Il campo di battaglia urbano, volume che presenta una selezione di testi, compreso l’articolo da cui abbiamo tratto le citazioni di Lefebvre1 e un’intervista a David Harvey, emersi da un percorso di elaborazione teorica sull’urbano articolato in convegni, dibattiti e produzione di scritti, promosso tra il 2017 e il 2018 dal Laboratorio Crash di Bologna.
Come possiamo concettualizzare le dinamiche che investono oggi la città? Secondo il Laboratorio Crash il territorio non va ridotto a un ambiente ostile alle classi subalterne come se esso fosse meramente funzionale alla produzione capitalistica e alla vita degli abitanti più ricchi. Allo stesso tempo nelle città facciamo fatica a trovare ancora i vecchi quartieri proletari, solidali e pronti alla lotta, perché in assenza di intervento politico spesso prevalgono l’anomia, la solitudine, la disgregazione, la rabbia cieca. Prodotto di una relazione antagonistica il territorio non esiste come forma predefinita e unitaria: non è un background ma un battleground.
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Il capitalismo delle piattaforme1
di Antonio Savino
Dal capitalismo immanente, quello delle ciminiere, delle sirene che chiamano al lavoro migliaia di persone, si è passati al capitalismo trascendentale, un capitalismo simil-finanziario, che trae profitto creando centri (monopolisti) di servizi e “miners”, relazioni, collegamenti e estrazione di dati: sono le nuove piattaforme che internet e le nuove tecnologie digitali consentono; il loro core business è tanto la prestazione di un servizio (spesso retribuita, ma non sempre), quanto l’estrazione di valore dalle interazioni sociali che ne derivano.
Le piattaforme fino a ieri erano delle strutture piane e resistenti che servivano come base di appoggio per un trasbordo di merci e rendono possibili dei passaggi. Le recenti piattaforme digitali sono un agglomerato di hardware e software (con uso di intelligenza artificiale e big data) che si collocano in modo tendenzialmente monopolista, tra due entità fisiche come produttori e consumatori (es. Amazon), tra parlanti e riceventi (es. Facebook) o tra macchine e operatori (es. Siemens, GE) che permettono di svolgere determinate operazioni. Sono dispositivi con strutture e norme che regolano flussi, passaggi, spostamenti ed operazioni varie di informazioni e merci.
Fin qui tutto sembra normale, le piattaforme più o meno tecnologiche ci sono sempre state, svolgevano un servizio spesso legale e “utili” (il virgolettato del dubbio) come la grande distribuzione, notai, ecc, altre volte meno legali come i sistemi mafiosi, i quali ponendosi da monopolisti tra produttori e consumatori (nei settori droga, ortofrutta, caporalato, costruzioni, ecc.) traggono profitto dalla transazione.
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La crisi capitalistica e la voliera della Sinistra
Commento a un articolo di Contropiano sul colpo di stato in Bolivia
di Michele Castaldo
In un momento di grandi sconvolgimenti degli assetti capitalistici mondiali la Sinistra somiglia a una voliera dove molte specie di volatili danno vita a un coro polifonico in cui è difficile distinguere i vari cinguettii. Segno dei tempi e delle nostre difficoltà. Una di queste voci che prendiamo a esaminare, separandola dal contesto della voliera, è quella di , una rivista e una organizzazione che fino ad oggi ha difeso strenuamente i governi di sinistra di alcuni paesi dell’America latina. Onore al merito, ci sentiamo di aggiungere.
Dopo il colpo di stato ordito dalle potenze occidentali, in primis dagli Usa, e le dimissioni forzate di Morales in Bolivia, c’è una novità in quello che scrive Luciano Vasapollo, conoscitore dei paesi latino americani e dirigente storico di quella rivista. Citiamo alcuni passaggi di un articolo comparso in rete muovendo alcune osservazioni di merito in quello che viene espresso.
Scrive Vasapollo:
«E’ assolutamente evidente che gli Stati Uniti, in ritirata in altre zone del mondo, stanno cercando di riprendersi il “cortile di casa” eliminando le esperienze alternative, dal Venezuela al Nicaragua, dal Brasile all’Ecuador e ora in Bolivia»
«E’ […questa la conseguenza di] un errore abbastanza comune, quello di credere che la conquista del governo politico coincida con la conquista del potere reale. Ma se non si mette mano alla modifica sostanziale del sistema economico, ossia se non si fa prevalere l’autodeterminazione sul come e cosa produrre e ci si limita soltanto alle politiche di redistribuzione sociale, non si modificano le modalità di riproduzione delle parti reazionarie e benestanti della società».
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Marx e la maternità surrogata
di Gabriele Pastrello
Condivido completamente questo articolo dell’amico Gabriele Pastrello, docente universitario e rigoroso studioso e intellettuale marxista.
Mi permetto solo una sola ma importante nota. Gabriele analizza (e stigmatizza) giustamente la pratica della “maternità surrogata” (leggi utero in affitto) e l’ideologia (capitalista), cioè il processo di mercificazione ideologica e pratica che gli sta alle spalle. La sua analisi si concentra però “solo” sugli effetti subiti dalle donne, sulla mercificazione (di fatto spesso coatta) del loro corpo e delle loro vite.
Non fa cenno però delle altre vittime di tale processo, e cioè i figli concepiti con tale pratica, di fatto ridotti a oggetti che possono essere venduti e comprati, con tutti i (devastanti) risvolti psicologici e umani che tutto ciò comporterà sulle loro vite.
Ma sono certo che non si tratti di una omissione e che Gabriele sia ben consapevole della questione che sicuramente non tarderà ad affrontare. [Fabrizio Marchi]
1) Premessa (un ripasso di Marx)
Ovviamente Marx non si è mai sognato di scriverne. Né negli scritti filosofici giovanili (anche se qualche eco di quegli scritti risuonerà qui sotto), né tantomeno in quell’opera il cui titolo potrebbe farlo sospettare: La Sacra Famiglia. Ma un ripassino di Marx può aiutare.
Già prima del Capitale Marx insiste sul fatto che la propria novità teorica rispetto agli economisti Classici (Smith e Ricardo) consiste nella scoperta che il lavoratore non vende ‘lavoro’ come si diceva e si dice, superficialmente, ancora oggi, bensì vende ‘forza-lavoro’. Nel linguaggio corrente, e anche di molti marxisti, purtroppo, ‘forza-lavoro’ equivale a ‘lavoratore’; abbaglio gigantesco.
Prima del Capitale Marx aveva usato un’altra espressione, ‘capacità-lavorativa’ (Arbeit-Vermögen), per sottolineare che ciò di cui si trattava la vendita era una ‘possibilità’ (Vermögen, δυναμις: capacità). Poi, dopo, forse temendo che l’espressione Arbeit-Vermögen fosse troppo filosofica (idealistica?), o forse non di comprensione immediata, la cambiò in Arbeit-Kraft (forza-lavoro).
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Dalle piazze alle urne. Lotte di classe in Spagna
di Militant
I risultati delle elezioni generali spagnole del 10 novembre 2019, la quarta convocazione elettorale per elezioni politiche negli ultimi quattro anni, a solo sette mesi dalla precedente votazione, celebrata ad aprile, confermano un panorama politico-elettorale bloccato, in cui rimangono irrisolti tutti i principali nodi della crisi multilivello che sta interessando il Paese iberico nell’ultimo decennio.
Nella precedente, brevissima legislatura Pedro Sánchez, il segretario del Partito Socialista, ha rifiutato le proposte di formare un governo di coalizione provenienti da Unidas Podemos. Un accordo che avrebbe comportato sia la necessità di realizzare politiche sociali in controtendenza rispetto alle politiche di austerity portate avanti anche dai governi a guida socialista negli ultimi anni, sia un netto cambiamento di atteggiamento verso l’indipendentismo catalano da parte di Sánchez e dei socialisti, con l’apertura di un tavolo di negoziato sulla riforma delle autonomie e/o il riconoscimento del diritto di autodeterminazione, e la fine della criminalizzazione e giudiziarizzazione del conflitto politico catalano. Sánchez e la dirigenza socialista hanno deciso invece di convocare elezioni anticipate, puntando ad aumentare i consensi elettorali e i seggi in parlamento, per poter poi formare un governo, sebbene di minoranza, ma con basi più solide e negoziare accordi puntuali da una posizione di maggiore forza. Alla fine, però, a Sánchez, come si dice in lingua castigliana, le salió el tiro por la culata, cioè il colpo, invece di uscire dalla canna del fucile, gli è uscito dal calcio, rimanendone così vittima.
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Il bisogno di un’eresia
di Diego Sarri
In un precedente articolo intitolato “Sulla necessità di teoria attuale”, abbiamo già detto come per quanto riguardi gli anni ‘60/’70 non si possa non riconoscere l’emergere sia di produzione teorica che di pratiche fortemente contaminate, sincretistiche, ad un netto “rimescolamento di carte”. Sebbene tendenze del genere spesso siano testimonianze esteriori di crisi sostanziali, ed il periodo possa essere interpretato dunque come un periodo di crisi del politico, è vero anche che questi stessi periodi si possono rivelare molto produttivi, grazie anche all’apporto di soluzioni teoriche nuove ed innovative.
Come si dice in gergo, ogni crisi nasconde un’opportunità. C’è chi ha studiato l’andamento delle grandi rivoluzioni teoriche, come Kuhn e prima ancora il francese Bachelard, di cui infatti parleremo più avanti. Sono questi autori che analizzano l’andamento, il dinamismo interno e la capacità di rottura di alcune grandi rivoluzioni scientifiche.
Come abbiamo scritto nel succitato articolo le necessità di innovazione sperimentate negli anni ’70 si ripresentano oggi, magari sotto veste diversa, con declinazioni differenti ma con un isomorfismo, un’identità formale almeno in un punto, tra i due contesti storici: senza scadere negli eclettismi, c’è bisogno di pratiche e teorie che aggiornino fortemente la nostra agenda politica.
Da un punto di vista storico, è forse nel secondo dopoguerra che certa tradizione rivoluzionaria marxista entra in crisi, almeno la sua anima più tradizionale ed ortodossa. Cerchiamo di individuarne degli indici storici: non c’è paese in Occidente che non possieda, all’indomani della seconda guerra mondiale, un partito comunista forte. Ora, il PCI italiano di questo periodo non è niente di rivoluzionario, è una grande socialdemocrazia, premessa storica perfetta per l’attuale PD.
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Bolivia, chi, come, perchè
Internazionale fascista e Quarto Potere
di Fulvio Grimaldi
Quelli che gridano “al lupo fasciorazzista” e non lo vedono quando c’è
“Una stampa cinica, mercenaria, demagogica produrrà nel corso del tempo una società altrettanto spregevole”. (Joseph Pulitzer)
“Coloro che sono contro il fascismo senza essere contro il capitalismo, sono come quelli che vorrebbero mangiare vitello senza uccidere il vitello” (Berthold Brecht)
Lo strabismo autoindotto dei media
La manipolazione-mistificazione-falsificazione dei media di regime, che ciarlano, a proposito di Bolivia, di un paese rivoltatosi in nome della democrazia contro il caudillo che non vuole mollare il potere, è scontata. Come lo è la demagogia e retorica progressisto-cerchiobottista che celebra la Bolivia di Evo Morales, ma con la riserva che era estrattivista e lui si ostinava a fare il presidente a vita. Sono gli stessi sedicenti progressisti che rimpiangono gli Usa multilateralisti di Obama e Hillary. Che poi sarebbero i due protagonisti delle sette guerre di sterminio, dei colpi di Stato in Honduras, Paraguay e Ucraina e di varie rivoluzioni colorate. Tra l’altro utilizzando le stesse manovalanze: terroristi islamici o pseudo-islamici in Oriente, ancora quelli, più lo squadrismo neonazista, in Europa, squadristi fascisti in America Latina dove islamisti non ce ne sono. Con la particolarità asiatica degli squadristi neocolonialisti, fascioteppisti quanto altri mai, sotto le bandiere britannica e statunitense a Hong Kong. E dunque amati dal “manifesto”.
Di queste manovalanze il nostro paese sa tutto, sulla base di dati processuali e d’inchiesta, fin da De Lorenzo, paragolpe Borghese, Piazza Fontana, terrorismo mafiostatale. Sa anche tutto, ma alla Pasolini, sui relativi mandanti, interni ed esteri.
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Lenin, “L’imperialismo fase suprema del capitalismo”
di Alessandro Visalli
Il libro di Lenin fu scritto tra la fine del 1915 e l’inizio del 1916 e pubblicato nel 1917. Siamo esattamente sull’orlo degli eventi che cambieranno il mondo. Da Berna, dove Lenin era in esilio in quell’anno straordinario assistette alla prima rivoluzione di febbraio[1], seguita il 7 novembre dalla rivoluzione di ottobre[2], che rovesciò il governo Kerenski.
Siamo dunque un anno prima di questi eventi.
Ma, come detto si era al secondo anno di una guerra terribile[3] seguita ad anni di scontri economici, commerciali, finanziari e coloniali tra le grandi potenze europee. Lo scopo del libro è quindi di mettere ordine alle idee circa la sostanza economica dell’imperialismo, causa ultima della guerra in corso. Inoltre di combattere la battaglia ideologica con la componente riformista della socialdemocrazia europea (e russa), rappresentata dalle posizioni di Kautsky e di Martov, ma anche, in parte dello stesso Hilferding.
Le due fonti sono Hilferdinfg[4] e Hobson[5], ma rispetto a questi Lenin ritiene con più coerenza del primo, che è marxista, che il fenomeno dipenda dal funzionamento essenziale del meccanismo di accumulazione. E che non dipenda da qualcosa di esterno a questo (come nella ipotesi coeva della Rosa Luxemburg[6]). Il meccanismo cui risale la spiegazione è la semplice tendenza del capitale all’autovalorizzazione unitamente al suo carattere plurale. Oltre a questo semplice modello, ma potente, viene sottolineato che la tendenza all’autovalorizzazione ed alla concentrazione[7] porta al monopolio e questo alla fusione del capitale finanziario con quello industriale. È questa fusione quella dalla quale scaturisce l’immane livello della competizione intercapitalista e quindi l’imperialismo. Alla fine si ha la guerra.
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Un passaggio essenziale nella teoria di Marx
di Gianfranco La Grassa
Si tratta di un brano, un semplice e solo brano delle migliaia di pagine scritte da Marx e spesso pubblicate dai suo successori, magari con aggiunte non sempre messe in evidenza nella loro non stesura (o almeno non completa e letterale) fatta proprio da lui. Ma non m’interessa nulla di tutto questo. L’importante è fissare le parti salienti di una teoria scientifica e mostrarne la rilevanza ancora attuale e, ancor più, laddove essa va rielaborata alla luce dell’esperienza storica di un secolo e mezzo! Riporto quindi un brano tratto dal III Libro de “Il Capitale”, cap. XVII.
«Trasformazione del capitalista realmente operante in semplice dirigente, amministratore di capitale altrui, e dei proprietari di capitale in puri e semplici proprietari, puri e semplici capitalisti monetari. Anche quando i dividendi che essi ricevono comprendono l’interesse e il guadagno d’imprenditore, ossia il profitto totale (poiché lo stipendio del dirigente è o dovrebbe essere semplice salario di un certo tipo di lavoro qualificato, il cui prezzo sul mercato è regolato come quello di qualsiasi altro lavoro), questo profitto totale è intascato unicamente a titolo d’interesse, ossia un semplice indennizzo della proprietà del capitale, proprietà che ora è, nel reale processo di riproduzione, così separata dalla funzione del capitale come, nella persona del dirigente, questa funzione è separata dalla proprietà del capitale. In queste condizioni il profitto (e non più soltanto quella parte del profitto, l’interesse, che trae la sua giustificazione dal profitto di chi prende a prestito) si presenta come semplice appropriazione di plusvalore altrui, risultante dalla trasformazione dei mezzi di produzione in capitale, ossia dalla loro estraniazione rispetto ai produttori effettivi, dal loro contrapporsi come proprietà altrui a tutti gli individui REALMENTE ATTIVI NELLA PRODUZIONE, DAL DIRIGENTE ALL’ULTIMO GIORNALIERO [maiuscolo mio].
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