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Huawei, Cina, Usa e la lotta per il primato tecnologico
di Vincenzo Comito
La disputa tra Cina e Stati Uniti, e l’accordo commerciale che si sta discutendo, a partire dal primato della compagnia Huawei nella tecnologia G5. Con l’Europa in ordine sparso. Ma delle 20 più grandi imprese nelle tecnologie avanzate, 11 sono statunitensi e 9 cinesi. Nessuna europea
Cosa sta succedendo alla Huawei
Intorno ai casi di Huawei, la grande compagnia di telecomunicazioni cinese, si vanno sviluppando da qualche mese molte questioni e diversi interrogativi, insieme a parecchia confusione. Appare importante soffermarsi sulle vicende di questa impresa, cruciali da molti punti di vista, per valutare tra l’altro in che direzione sta andando l’innovazione tecnologica nel mondo, come si presenta poi il quadro della situazione competitiva tra Cina e Stati Uniti, quali i risultati dei tentativi sempre più marcati di un’applicazione extraterritoriale delle leggi americane, quali infine i possibili sviluppi delle vicende relative nel prossimo futuro.
Il peso della società nei suoi mercati di riferimento
Preliminarmente ad un’analisi del quadro politico della situazione, appare opportuno ricordare il posizionamento della società cinese sui suoi due mercati principali, gli smartphone e gli apparati per telecomunicazioni.
Il mercato dei telefonini
Qualche settimana fa la Apple annunciava che l’azienda stava vendendo meno smartphone che in passato a causa di un rallentamento generale del mercato cinese. Si trattava di un annuncio che in realtà affermava al massimo solo una mezza verità.
E’ certamente vero che il mercato cinese degli smartphone sta rallentando, non si sa se temporaneamente o meno, ma è anche vero che la Apple sta vendendo di meno nel Paese anche, se non soprattutto, perché essa sta perdendo quote di mercato a favore dei produttori cinesi ed in prima fila di Huawei. Quest’ultima invece sta collocando sempre più prodotti non solo sul mercato interno, ma anche all’estero (tranne che negli Stati Uniti, dove il suo sviluppo è sostanzialmente impedito politicamente). E la Apple sta lentamente perdendo quote su tutti i mercati, non soltanto in Cina.
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Manifesto per la Sovranità Costituzionale
Istruzioni per l’Uso
di Ugo Boghetta
La presentazione del Manifesto per la Sovranità Costituzionale ha suscitato attenzione e consensi, ma anche dissensi e critiche. E’ normale. Per questi motivi, in questo scritto, cercherò di dar conto – dal mio punto di vista – del percorso fatto e dell’approccio che ha portato alla stesura del Manifesto in questa forma. Il tutto tenendo conto delle obiezioni avanzate in modo critico ma costruttivo. Di tutti gli altri: “Non ti curar di lor ma guarda e passa“.
Va detto in primo luogo, che il Manifesto è il frutto della convergenza di associazioni che provengono da esperienze diverse. Rinascita! nasce dal rifiuto di aderire all’esperienza di Potere al Popolo in quanto segnata dall’autoreferenzialità e dal sinistrismo. PeC nasce dal fallimento della sinistra di mezzo. Mentre Senso Comune prende il via da una lettura del populismo in senso democratico. Ciò significa che c’è tanta strada da fare. E’ tuttavia di buon auspicio che questa convergenza si sia sviluppata in modo così rapido. Con altri, ad esempio Marx21, il confronto è aperto. Il FSI ha rifiutato la proposta.
Nonostante queste diverse provenienze la discussione tuttavia è stata convergente sui temi principali.
L’obiettivo condiviso è quello di costruire un campo, un’area, un soggetto politico sovranista, costituzionale, socialista. La ricerca è stata quella di capire quale fosse il modo migliore per impostare e comunicare le questioni principali. Solo il tema dell’ immigrazione ha comportato una discussione di merito partendo da posizioni in parte diverse o, come spesso accade rispetto a questo argomento, da malintesi. La posizione assunta è quella della solidarietà internazionalista per il diritto a non essere costretti ad emigrare, e regolazione e controllo dei flussi per poter consentire una vera integrazione ed evitare, non a chiacchiere, la guerra fra poveri ed i rigurgiti razzisti e fascisti.
Il tratto comune è l’uscita dalla sinistra. Per questo motivo dobbiamo continuare a combattere contro il sinistrismo che è ancora in noi: in tutti noi.
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Sulla cibernetica socialista, i sogni accelerazionisti, e gli incubi di Tiqqun
di Paul Buckermann
Nikita Krusciov era scettico sul fatto che i computer potessero contribuire a promuovere la storia in direzione del comunismo. Nondimeno, era disposto a fare un tentativo in proposito, ed aveva ordinato un super-computer che supportasse il socialismo sovietico. I migliori e più preparati ingegneri sovietici avevano installato il computer, e gli avevano chiesto di testare subito la macchina. Krusciov, che non era ancora convinto, aveva deciso di porgli una domanda incredibilmente difficile e complessa: «Quando si arriverà al comunismo?» La scatola cominciò a tremare e a fare degli scatti, finché con voce metallica disse: «Fra diciassette chilometri.» Krusciov scoppiò a ridere e ripeté di nuovo la sua domanda, pronunciandola in maniera ancora più chiara. Stavolta, la macchina rispose subito «Fra diciassette chilometri». A questo punto, il compagno cominciò ad arrabbiarsi e chiamò i suoi ingegneri per lamentarsi della stupidità del costoso macchinario. I tecnici si mostrarono sorpresi, dal momento che i test precedenti erano andati tutti sufficientemente bene; per cui chiesero gentilmente al computer di spiegare la sua risposta. La macchina, ferma sul tavolo, senza paura rispose: « Il risultato di diciassette chilometri si basa sui dati provenienti dall'ultimo discorso del compagno Krusciov, durante il quale ha detto che ad ogni piano quinquennale ci saremmo avvicinati di un passo al comunismo».
Questa vecchia barzelletta sovietica indica come ci sia un abisso fra il potenziale tecnologico ed il progresso emancipatorio. La storia ha almeno due diversi possibili finali: o l'immaginario computer viene distrutto in quanto dimostra chiaramente quella che è l'attuale insufficienza della politica sovietica, oppure la potenza del computer viene invece assunta come punto di partenza per calcolare e decidere che cosa fare, anziché dipendere dalle deboli macchine umane e dai loro milioni di pezzi di carta.
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Il Capitale e il suo punto cieco: il denaro come tecnica di misura
di Frank Engster*
Abstract: In the 1960s, a logical-categorial reading of Marx’s Capital began, especially with focus on the value-form analysis, from which the so-called «New Marx Reading» in Germany was one of the outcomes. These readings on the one hand found, with the necessity of synthesizing the theory of value with that of money, the key to opening up the further development of the capitalist mode of production. On the other hand, they stayed fixed on money’s second function as a medium of exchange and on money-mediated commodity exchange, remaining trapped in the contradiction between use-value and exchange-value and the need for an abstraction to quantify the commodity relations. In contrast, the thesis of this paper is that it is money’s first function as a measure of value which is decisive for the development of the inner connection of money and value and for the capitalist mode of production as a whole. Only through the first function can the technique of quantification be deduced, the technique to turn the negativity of a pure social relation into the positivity of quanta and to release with this turn the productive power of the capitalist mode of production. Quantification in capitalism is neither an abstraction, nor a reduction or a form of counting. Rather, in capitalism society is subjected to a measurement of its own productive power; a productive power which through its measurement is, in the first instance, released and systematically expanded. Developing the capitalist mode of production from the “standpoint” of money – the standpoint of an ideal unit which becomes by money’s main function the measure of value, the means of the realization of value and the form of its valorization – opens up an adequate understanding of how to make society an object of both science and critique
«Tutte le illusioni del sistema monetario derivano dal fatto che dall’aspetto del denaro non si capisce che esso rappresenta un rapporto di produzione sociale, sia pure nella forma di una cosa naturale di determinate qualità». (Marx 1961, 22)[1]
C’è un compito della critica dell’economia politica che precede l’esposizione vera e propria del modo di produzione capitalistico. La prima sfida – nel senso più autentico del termine – è motivare perché la società capitalistica possa essere in generale per noi oggetto di critica e al contempo di scienza[2].
La pretesa critica della critica marxista in quanto tale e, per così dire, l’assioma materialistico che la fonda, è il tentativo di comprendere le categorie economiche come «modi d’essere, determinazioni dell’esistenza» sociali (Marx 1961, 635; cfr. anche Marx 1976, 40). Ciò significa che le categorie sono tanto forme soggettive del pensiero, della conoscenza, e necessità logiche quanto categorie dell’oggettivo esserci sociale. Esse sono inoltre storicamente connotate, e più precisamente capitalisticamente connotate, dunque non prestabilite sovratemporalmente dalla natura o da Dio, né determinate antropologicamente od ontologicamente.
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Capitali in fuga. Il grafico definitivo
di Giuseppe Masala
Potete apprezzare come in Italia siano impiegati quasi 300 miliardi di capitali esteri a fronte di quasi 800 miliardi di capitali italiani impiegati all’estero. La più grande fuga di capitali
Se guardate il grafichetto qui sotto, che rappresenta il saldo Target2 della BCE sommata al saldo cumulato della Bilancia dei Pagamenti italiana, potete apprezzare come in Italia siano impiegati quasi 300 miliardi di capitali esteri a fronte di quasi 800 miliardi di capitali italiani impiegati all’estero. Ciò significa chiaramente che siamo di fronte alla più grande fuga di capitali dal Sistema-Italia della storia.
Quasi 500 miliardi di risparmi italiani utilizzati all’estero. Come mai questi danari sono impiegati all’estero e non Italia? Semplice, perché lo stato italiano non può indebitarsi in ossequio ai parametri di Maastricht. O meglio ancora, chiamiamo le cose con il significato proprio: lo Stato italiano non può mobilitare il risparmio degli italiani per erogare beni e servizi agli stessi italiani. Il debito pubblico così va inteso (e così andrebbe chiamato): “Risparmio interno mobilitato dallo Stato”. Il debito pubblico non è il debito del bottegaio.
Dunque, si può dire senza tema di essere smentiti che il debito pubblico (o le “risorse italiane mobilitate dallo stato italiano”) potrebbe essere più alto di quasi 500 miliardi, senza che lo stato italiano assorba neanche un centesimo dal risparmio dei nostri “amici” stranieri. [Ovviamente semplifico, perché è chiaro che se lo stato italiano desse una spinta poderosa alla spesa pubblica, agli investimenti, dovrebbe mobilitare meno perché una determinata quantità Q della cifra in questione verrebbe mobilitata dalle imprese private e dalle famiglie].
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Un “Piano B”, anche per Potere al Popolo
di Mauro Casadio*
Com’è noto le elezioni producono “in automatico” accelerazioni e sintesi politica. Questo sta accadendo anche nel contesto del prossimo passaggio elettorale per le europee. Il tentativo – al quale Potere al Popolo ha aderito definendo con chiarezza i propri punti “non trattabili” – di dare vita alla sinistra del PD ad una lista che facesse riferimento a Luigi De Magistris, è fallito in quanto il sindaco di Napoli ha ritirato la propria disponibilità dichiarando che: “Per quanto mi riguarda non ci sono gli spazi per essere presente alle europee e nemmeno con una lista che faccia riferimento al movimento demA”.
E’ noto anche che i motivi del mancato accordo ruotano tra l’altro attorno alla questione della “rottura dei trattati europei”, la quale ha segnato un solco invalicabile per Sinistra Italiana, Possibile e Diem, con un ruolo “centrista” del PRC che comunque sarà presente alle elezioni con il simbolo della “Sinistra Europea”, cercando di coinvolgere nella sua lista tutti quelli che in Italia si riconoscono in quell’area politica.
Se è necessario tentare di praticare tutti i passaggi elettorali, che in Italia però hanno una defatigante e deviante cadenza quasi annuale, è evidente come, appena si esce dall’ambito della miope politica delle alleanze elettorali e si arriva ai contenuti, riemerga prepotentemente la natura dei partiti e dei gruppi della sinistra nostrana.
Ovvero si evidenzia la subalternità di questi alle politiche del centrosinistra/PD, in particolare sul feticcio dell’Unione Europea, che diviene lo spartiacque strategico tra chi si oppone alla Ue reale, materiale, quella dei capitali, e chi continua a parlare di una ipotetica Europa dei popoli. Paradossalmente, questo tipo di UE oggi viene evocata anche dai cosiddetti “sovranisti di destra”, che si sono convertiti sulla via di Damasco – al mantenimento dell’Unione e dell’Euro – soprattutto dopo aver accettato a Dicembre i diktat di Juncker e Moscovici sulla legge di bilancio.
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La moderna teoria della moneta II
Una rete di protezione a favore del capitalismo
di Michael Roberts
La MMT mira a rattoppare i fallimenti della produzione capitalistica, non a rimpiazzarla
Dopo un lungo articolo che analizza la Teoria della moneta moderna (Modern monetary theory - MMT), in questo contributo, esaminerò gli aspetti pratici di questa teoria. In altre parole, quali sono le proposte politiche che i sostenitori della MMT propongono al governo per creare più posti di lavoro con salari milgiori senza provocare inflazione?
Dopo la Grande Recessione, gli economisti di sinistra hanno cercato di confutare le teorie economiche neoliberiste che impongono l’equilibrio nei bilanci pubblici e una riduzione degli alti livelli di debito pubblico. Le politiche di austerità che scaturiscono dal punto di vista neoliberista hanno significato il taglio del welfare state, la riduzione dei servizi pubblici, la stagnazione dei salari reali e l'aumento della disoccupazione. Naturalmente, il movimento operaio vuole invertire queste politiche che fanno sì che i lavoratori paghino per il fallimento delle banche e del capitalismo.
L’alternativa tipica viene dal keynesismo tradizionale, ovvero dalla convinzione che una maggiore spesa pubblica (tramite deficit sui bilanci annuali dello stato) può aumentare la domanda effettiva nell'economia capitalista e creare posti di lavoro e aumentare i salari. Ed è qui che entra in gioco la MMT. Come dice uno dei suoi esponenti, Randall Wray, ciò che la MMT aggiunge alla politica di stimolo fiscale di stampo keynesiano è l’argomento teorico secondo cui “a un governo sovrano non può scarseggiare la propria moneta”. Fin tanto che lo stato ha il monopolio nello stabilire l'unità di conto (dollari, euro o pesos), può creare quanta moneta abbisogna, distribuirla a entità “non statali”, aumentare la domanda e quindi fornire posti di lavoro e redditi. Stephanie Kelton, uno dei principali esponenti della MMT e consigliere di Bernie Sanders, afferma: “L’entità che emette moneta non può mai rimanere senza denaro perché può sempre stampare o coniare più dollari, pesos, rubli, yen, ecc.”
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L'Unione Europea di Hayek
di Giovanna Cracco
Ci attende una lunga campagna elettorale in vista delle europee di maggio. La complessità dei Trattati, degli accordi intergovernativi (come il Fiscal compact) e della struttura legislativa e istituzionale Ue non facilita i cittadini alla comprensione del 'sistema' Unione europea, e una politica sempre più spettacolo e povera di cultura avrà gioco facile ad appoggiarsi a slogan e dogmi. Eppure non è affatto complicato capire dove siamo. Certo occorre uscire dal postmodernismo e portare la riflessione sul piano storico e teorico, l'unico che consente di guardare l'Unione europea senza le lenti distorcenti della propaganda, a favore o contro; perché l'Unione europea, come tutti i progetti umani, e quelli politici ed economici non fanno certo eccezione, è figlia di un pensiero, di un'idea di società. Facciamo quindi un passo indietro.
L'affermarsi del sistema economico capitalistico ha prodotto il suo specifico conflitto sociale. Ben prima dei cosiddetti Trenta gloriosi - gli anni del dopoguerra caratterizzati, nei Paesi europei, da politiche socialdemocratiche di stampo keyne-siano - il potere politico è intervenuto nella sfera economica per disinnescare il conflitto di classe, agendo principalmente su due piani: operando una redistribuzione attraverso le politiche fiscali, e implementando uno stato sociale - la prima a strutturarlo è stata la Prussia di Bismarck di fine Ottocento, dopo aver cercato inutilmente di contenere le rivolte del nascente movimento operaio attraverso la repressione. Per il pensiero economico liberista è una inaccettabile invadenza: Friedrich von Hayek, tra i massimi esponenti della Scuola austriaca, assertore dell'esistenza di una autoregolamentazione del mercato, di un ordine spontaneo che agisce attraverso la concorrenza, sostiene che il mercato non deve subire limiti. L'economista inizia dunque a riflettere su come eliminare l'ingerenza: individua il problema nella piena sovranità che contraddistingue gli Stati nazione, che consente loro il controllo sulle politiche monetarie ed economiche e sui fattori della produzione - capitali, merci, persone - e trova la soluzione nella sua "abrogazione".
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OIL, il Lavoro è povero. Figuriamoci lavoratori e lavoratrici
di Alessandro Perri
Quando Marx, quello “vero”, dei testi letti direttamente dall’originale in tedesco e non tramite compendi terzi, carenti in termine di comprensione; ebbene quando fece il suo ingresso in Italia, lo fece per mezzo della penna di Antonio Labriola negli ultimissimi anni del XIX secolo.
Questi, fine filosofo prima ancora che socialista della primissima ora, era solito insistere su un punto fondamentale: la praxis, ossia il lavoro come energia, è l’essenza dell’essere umano («l’uomo», scriveva in realtà Labriola…). L’individuo è il suo lavoro, e poiché sono le azioni dell’essere umano che fanno la storia (la cui scrittura, poi, è un capitolo a parte), quest’ultima va intesa come la storia del lavoro, ossia dell’insieme delle attività del genere umano.
A livello «concreto», ne consegue che le condizioni in cui è dato all’essere umano di esprimere la propria natura sono quelle, nel modo di produzione capitalistico, del mondo del lavoro propriamente detto, e dello “stato sociale” in cui queste si esprimono.
Se così stanno le cose, allora il World employment and social outlook, “Prospettive occupazionali e sociali nel mondo” rilasciato pochi giorni fa dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil, Ilo nella versione internazionale), riveste un’importanza decisiva, al netto della retorica istituzionale e del linguaggio tendente al neutro, come rilevanza-accademica-vuole, per avere un quadro più ordinato del mondo nel suo insieme.
Senza remore, possiamo affermare che il documento rilasciato è un bollettino di guerra, per come questa è intesa al giorno d’oggi nei confronti del mondo del lavoro. Come riassume l’«executive summary» dello studio, che di seguito vi riportiamo nella traduzione italiana, sono molti i dati allarmanti di cui nel futuro difficilmente saremo, o meglio, chi di dovere sarà, in grado di venirne a capo.
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Henri Lefebvre: una teoria critica dello spazio
di Sonia Paone
Pubblichiamo la prefazione di Sonia Paone al libro di Francesco Biagi, Henri Lefebvre: una teoria critica dello spazio, Jaca Book, Milano, 2019, uscito da poche settimane. Buona lettura
Henri Lefebvre è stato un importante intellettuale e prolifico autore, avendo pubblicato nel corso di una lunga vita, che ha attraversato buona parte del Novecento, una sessantina di opere, alcune delle quali possono essere considerate un punto di riferimento per le scienze sociali e per quelle territoriali. In questo ultimo ambito le sue considerazioni e intuizioni sulle trasformazioni dei territori e sul destino delle città sono di grande attualità.
Lefebvre aveva evidenziato la forza distruttrice che accompagnava l’affermazione dell’urbano, ovvero l’avvento di una fase storica in cui la città si sarebbe identificata con la forma complessiva della società. E da qui aveva individuato e preconizzato una serie di fattori di crisi: l’impatto della produzione capitalistica sulla organizzazione dello spazio urbano e la sua conseguente mercificazione, la città diviene un mero oggetto di scambio e di profitto; la progressiva urbanizzazione del mondo intesa come espansione del cosiddetto tessuto urbano, ovvero un processo economico-culturale che avrebbe fatto aumentare la segregazione e la frammentazione urbana e avrebbe assoggettato il rurale, facendo scomparire la campagna, attraverso l’industrializzazione della produzione agricola; il declino della vita rurale tradizionale e la distruzione del suolo e della natura. Oggi ci confrontiamo sostanzialmente con gli esiti di quelle direttrici di sviluppo che Lefebvre aveva tracciato, siamo infatti nell’epoca dell’urbanesimo planetario visto che dagli inizi del nuovo millennio la maggior parte della popolazione mondiale risiede nelle città, ma questo traguardo è coinciso con l’esplosione della marginalità urbana poiché i tassi di urbanizzazione sono cresciuti e continueranno a crescere nei prossimi anni nei paesi poveri. Siamo anche nell’epoca del pieno dispiegamento delle logiche della valorizzazione economica sui territori, sia nel contesto urbano che in quello rurale.
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Venezuela, i 30 giorni nei quali Juan Guaidó non è andato da nessuna parte
di Gennaro Carotenuto
Escludendo l’intervento militare in Venezuela, la riunione del gruppo di Lima (il consesso dei governi latinoamericani di destra, riuniti ieri a Bogotá) ha chiuso nella sostanza la parabola del tentativo di Juan Guaidó come presidente autoproclamato del Venezuela e allo stesso tempo evitato la regionalizzazione della crisi. Proviamo a mettere insieme elementi di analisi sugli ultimi 30 giorni e in particolare sull’ultimo lungo fine settimana al confine tra Colombia e Venezuela.
La guerra si allontana dai Caraibi?
Partiamo dalla fine, da Bogotá e dal cosiddetto Gruppo di Lima, creato solo nel 2017 dagli USA come istanza multilaterale per risolvere la crisi venezuelana, e che, solo a gennaio, per riconoscere Guaidó aveva registrato la defezione di un pezzo da novanta come il Messico di Andrés Manuel López Obrador, messosi alla testa della linea del dialogo con Maduro. Pur con l’augusta presidenza del vice di Trump, Mike Pence, alla quale quasi tutti i convenuti riconoscono ben più di una primogenitura, dimostrando anche plasticamente come l’America latina sia tornata subalterna a Washington, questa volta tutto è andato male per il giovane capo (forse) dell’opposizione venezuelana. Salta infatti all’occhio che questa volta la riunione è stata appena per vice-presidenti, ma soprattutto che il Perú prima, il Brasile soprattutto, abbiano escluso la soluzione militare alla crisi sulla quale ancora poche ore prima batteva la grancassa mediatica.
Del Brasile diremo di più subito sotto. Perché i latinoamericani siano riottosi sull’intervento militare è presto detto: ne hanno paura e hanno paura di opinione pubbliche nelle quali il discorso integrazionista non si è mai spento. Una guerra civile in Venezuela rischia di creare un movimento enorme e armato, brigate internazionali in difesa del Venezuela.
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La ragionevole inefficacia della scienza di base (per la spiegazione della natura umana)
Alessandro Della Corte conversa con John Dupré
John Dupré si è principalmente occupato della filosofia delle scienze della vita. Un aspetto molto interessante del suo lavoro riguarda le ricadute dello studio degli organismi viventi su problemi classici dell’epistemologia come quelli riguardanti riduzionismo, determinismo e libero arbitrio. Spero che i lettori di Anticitera apprezzeranno l’intervista che Dupré ha gentilmente accettato di concederci.
* * * *
Nei suoi scritti lei ha criticato il riduzionismo, e in particolare la possibilità teorica di spiegare tutti i fenomeni naturali (inclusi comportamenti e abilità complessi tipici dell’uomo) utilizzando la fisica fondamentale. Oggi il riduzionismo è probabilmente meno popolare tra i filosofi rispetto a qualche anno fa, ma spesso continua a essere il modello epistemologico di riferimento (esplicito o implicito) per molti scienziati. Come mai, e che c’è di sbagliato in esso?
Penso che scienziati e filosofi diano alla parola riduzionismo significati leggermente diversi. Per gli scienziati, spesso è poco più che la convinzione metodologica che sia tipicamente una buona idea analizzare le varie parti di un sistema e descrivere le loro interazioni se si vuole spiegare il suo comportamento. I filosofi di solito intendono qualcosa di molto più forte, che ogni cosa è spiegabile, in linea di principio, in base alle proprietà e alle interazioni delle sue parti. Dal momento che le spiegazioni sono di solito supposte transitive, questo potrebbe implicare che tutto, in linea di principio, è spiegabile con la fisica fondamentale. L’espressione “in linea di principio” gioca un grande ruolo qui; vista la complessità dei calcoli richiesti, potrebbe essere necessario Dio per avere una vera spiegazione.
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L’oggettività ideologica del capitalismo assoluto
di Salvatore Bravo
Le leggi galileane della natura, l’eternità inamovibile delle leggi scientifiche sono il fondamento ideologico del capitalismo assoluto. L’ideologia instaura l’eterno, anche dove non vi è che la realtà “umana troppo umana”, come affermerebbe Nietzsche. Ogni piano della vita sociale è espropriato del tempo storico e di senso, per essere sostituito dal tempo eterno della ripetizione. La temporalità è ciclica ripetizione del sempre eguale, nella caverna del tempo vi cadono anche i detentori dei mezzi di produzione e di illusione di massa, poiché ritengono le leggi dell’economia attuale fondate scientificamente e dunque intrasmutabili. I guinzagli dei poteri sono scintillanti di calcoli ed oggettività, i sudditi ne accettano il giogo, perché dinanzi al feticcio della scienza avulsa dalla temporalità, credono con atto di fede automatico alla verità della condizione attuale. Rompere tali meccanismi automatici, nei quali siamo intrappolati è operazione non semplice, ma i grandi mali non sono esenti da potenziali rimedi, per riportare la storia nella vita dei popoli è necessario capire, ed in ciò vi sono autori imprescindibili: György Lukács in Storia e coscienza di classe, problematizza l’economicismo e l’esemplificazione per reintrodurre la possibilità del senso, contro coloro che vorrebbero congelare la storia in un silenzio esiziale e fatale per l’umanità ed i popoli1 :
”Dal punto di vista del capitalista singolo, la realtà economica appare come un mondo dominato da leggi eterne della natura, alle quali egli deve adeguare il proprio /faire e laisser /faire. La realizzazione del plusvalore, l'accumulazione si compie per lui (naturalmente non sempre, ma molto spesso) nella forma di uno scambio con altri capitalisti singoli. E l'intero problema dell'accumulazione è dunque soltanto quello di una forma delle molteplici trasformazioni subite dalle formule D-M-D e M-D-M nel corso della produzione, della circolazione, ecc. Così, esso diventa per l'economia volgare un problema scientifico-particolare di dettaglio, che non ha quasi nessun legame con il destino del capitalismo nel suo complesso, - un problema la cui soluzione è sufficientemente garantita dalla giustezza delle «formule, di Marx, che dovranno al massimo – secondo Otto Bauer - essere perfezionate in modo da renderle « aggiornate ,..
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La recessione incalza e l'euro ci soffoca
E' il momento di emettere dei titoli quasi-moneta per rilanciare l'economia
di Enrico Grazzini
Una recente indagine scientifica dell'autorevole istituto di ricerca tedesco Centrum für Europäische Politik e i dati della Banca Mondiale sul mancato sviluppo dell'eurozona dimostrano chiaramente e con la forza dei numeri che l'euro è una moneta che frena gravemente l'economia, provoca diseguaglianza, arricchisce alcune nazioni, come la Germania, e ne impoverisce altre, come l'Italia. Il Centrum für Europäische Politik dimostra, come vedremo, che l'euro ha tolto soldi ai cittadini italiani ma ha riempito le tasche dei cittadini tedeschi. Questo non basta: si prospetta una nuova recessione economica. L'Italia sembra oggettivamente paralizzata sull'orlo del precipizio (e questa volta non per sua colpa). Per rilanciare l'economia il governo italiano dovrebbe finanziare estesamente molti piccoli e grandi investimenti pubblici, ma mancano i soldi necessari. Il problema è che la Banca Centrale Europea non può sovvenzionare gli stati e pompa moneta solamente per le banche; ma le banche commerciali non hanno interesse a fare credito a favore di una economia depressa. Gli operatori finanziari lucrano invece sui debiti pubblici e chiedono tassi di interesse sempre più elevati per prestare denaro agli stati. Così i paesi dell'eurozona non trovano le risorse per fare gli investimenti necessari per rivitalizzare l'economia. Inoltre l'Unione Europea impone ulteriori restrizioni di bilancio pubblico. Il cappio si sta stringendo. La crisi italiana potrebbe facilmente precipitare.
In questo contesto di crisi annunciata tocca alla politica percorrere strade innovative e alternative per difendere e risollevare l'economia nazionale. A mali estremi estremi rimedi. Una maniera concreta di dare ossigeno monetario e fiscale al nostro Paese è che il governo emetta urgentemente dei titoli quasi-moneta complementari all'euro. Pur restando nell'eurozona i Titoli di Sconto Fiscale a favore delle famiglie, delle imprese e degli enti pubblici potrebbero legittimamente (e senza infrangere nessuna regola europea) affiancare l'euro e neutralizzare gli effetti deflazionistici della moneta unica.
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Che Guevara, Maradona e Jim Morrison
Metaintervistina 30 – Writing Bad
Intervista a Marco Veronese Passarella
1 ) WW: le metaintervistine sono nate per “intervistare” persone legate al mondo della letteratura, poi si sono spinte verso il mondo della musica e ora… siamo giunti all’economia. Marco Veronese Passarella: l’economia è scienza o è anche arte? L’economista può essere un artista nel suo essere, appunto, economista?
MVP: Mi verrebbe da dire che è confusione, come rivela il fatto che si usi comunemente lo stesso nome, “economia”, per riferirsi sia alla scienza che al suo oggetto. Prescindendo da questo, l’economia politica o “economica” è l’arte di dimostrare, attraverso l’utilizzo di strumenti e metodi scientifici, che l’interesse materiale particolare della propria parte sociale corrisponde all’interesse generale. Insomma, l’una e l’altra cosa – arte della retorica e scienza – al servizio della lotta di classe nel piano più alto della sovrastruttura, quello della produzione delle lenti attraverso cui filtriamo (e modifichiamo) il mondo.
2) WW: quando l’ho contattata, lei si è definito “un barbaro”, ci spiega perché? Intendeva nel campo della letteratura?
MVP: Lo sono nell’accezione propria di straniero, appartenente a una civiltà remota – dato che sono comunista, ateo e, nei fatti anche se non per scelta, apolide. E, inoltre, lo sono anche nel senso lato di persona che legge ormai pochissimi libri, quasi nessuno. Persino nel mio lavoro la maggior parte del tempo di ricerca è assorbito dalla scrittura di codici e dalla lettura ‘diagonale’ di manuali e pubblicazioni tecnico-scientifiche. E, naturalmente, niente più carta. Solo bit. La barbarie, appunto.
3) WW: Com’è arrivato a essere lecturer in economics presso l’Economics Division della Business School, University of Leeds, e che giudizio da’ di questa sua esperienza lavorativa?
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La non-contemporaneità
Temporalità plurale in Louis Althusser
di Joseph Serrano
Nel 1988, durante una conferenza dedicata a ciò che gli organizzatori chiamarono «L’eredità di Althusser», Étienne Balibar presentò una relazione intitolata La non-contemporaneità di Althusser. La distanza temporale tra il momento in cui si tenne la conferenza e la pubblicazione degli atti è significativa, a maggior ragione se si tiene conto delle ambivalenze di cui Balibar parla nella prima parte della sua presentazione: qual è il significato del termine «eredità» in relazione a un filosofo come Althusser il quale, se anche non produceva più testi filosofici come in passato, né ricopriva una posizione nei circoli accademici e politici, non era comunque morto?1
Certo, Athusser sarebbe morto prima della pubblicazione degli atti di quella conferenza, un fatto che rende le esitazioni di Balibar ancora più palpabili, come se la non-contemporaneità che Balibar individuava nel cuore del lavoro di Althusser potesse diventare visibile solo nella discrepanza temporale della stessa Eredità di Althusser, nel fatto cioè che la conferenza sarebbe arrivata troppo presto, e il libro troppo tardi. Trent’anni dopo (a cento anni dalla nascita di Althusser), nel mezzo di un rinnovato interesse per il marxismo e il lavoro del filosofo francese, siamo in grado di comprendere la potenza piena di questa non-contemporaneità. Il mio tentativo qui consisterà dunque nel far emergere questa forza considerandola come un momento di rottura che si produce nell’incontro tra la non-contemporaneità e un concetto fortemente problematico nel marxismo: la «determinazione in ultima istanza» ad opera dell’economia.
Il luogo in cui il problema della «determinazione in ultima istanza a opera dell’economia» viene esposto con maggiore chiarezza ed enfasi è Contraddizione e surdeterminazione, dove, alle ultime pagine del saggio, Althusser scrive: «l’ora solitaria dell’ultima istanza non suona mai, né al primo momento né all’ultimo»2. È impossibile non osservare la temporalità qui in gioco, anche se essa esiste solo a un livello letterario o metaforico.
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Proprietà, patriarcato e criminalità ecologica, Cop24
di Karlo Raveli
Pubblichiamo un nuovo testo di Karlo Raveli, speditoci da una tappa della sua lunga odissea migrante. Si scusa per il suo limitato italiano da immigrato da lunga data e spera che "possa apportare buone energie ai nuovi processi di lotta che a quanto pare si stanno accendendo globalmente"
“La nostra credenza di essere separati l’uno dall’altro, dipende da una illusione ottica della nostra coscienza” Albert Einstein
Non ci conosciamo personalmente, caro Guido Viale, ma – pur navigando per mari lontani – ho per fortuna pescato un tuo bel tracciato attraverso il nuovo movimento delle donne, diretto a (ri)scoperte risolutive per la possibile uscita dal progressivo imbarbarimento della civiltà capitalista (1). Alle dipendenze del potere reale di poche migliaia di delinquenti plurimiliardari con la loro coorte di milionari, statisti, direttori di stampa, TV, ecc. e di tutti gli altri mezzi politici, culturali, educativi, sportivi e mediatici sistemici. Società che si presenta sempre più sconvolgente, come riflette per esempio con impressionante pessimismo Bifo in un suo recente messaggio in Effimera, pure caduto per caso nelle mie reti (2). Una prospettiva ancor più vicina dopo l’esito scellerato della Cop 24.
E allora vediamo con un po' d’illusione o speranza come queste tue riflessioni si possano cuocere in modo più preciso e sostanzioso. Visto che per buona sorte appaiono sempre più frequentemente tra libertari e comunisti di questo policromo “movimento mondiale (di donne) che riempie la scena politica e sociale degli ultimi anni”. Facendoci presumere “che sarà protagonista di ogni possibile processo di trasformazione dei rapporti sociali nei decenni a venire” se riuscissimo ad evitare l’immane catastrofe planetaria verso cui ci porta questo modo di “sviluppo”. Trasformazione ancora possibile, come ci sta dimostrando la magnifica e straordinaria vicenda sociale curda in Rojava, non occultiamolo! O la nuova stupenda speranza di masse giovanili sempre più coscienti e attive, accese tra l’altro dalla stupefacente scintilla Greta.
Politica e scena politica reale
Ma cominciamo da questa ‘scena politica’ che proponi, e su cui non sono d’accordo. Almeno nel senso tradizionale di politico anche in uso nelle sinistre del sistema.
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Per il centesimo anniversario della fondazione della Terza Internazionale
di Eros Barone
Per la prima volta, dopo centinaia e migliaia di anni, la promessa di “rispondere” alla guerra tra gli schiavisti con la rivoluzione degli schiavi contro tutti gli schiavisti è stata mantenuta fino in fondo e lo è stata malgrado tutte le difficoltà.
Noi abbiamo cominciato quest’opera. Quando, entro che termine precisamente, i proletari la condurranno a termine? Non è questa la questione essenziale. È essenziale il fatto che il ghiaccio è rotto, la via è aperta, la strada è segnata.
Lenin, Per il quarto anniversario della rivoluzione.
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«Una nuova Internazionale veramente rivoluzionaria»
«Creare una nuova Internazionale veramente rivoluzionaria»: questa era la finalità che l’ultima delle Tesi di aprile di Lenin proponeva ai bolscevichi. La bancarotta dell’Internazionale all’inizio della guerra europea era stata infatti, per Lenin, la prova decisiva della crisi del socialismo europeo. Da questo punto di vista, la nascita di una Internazionale, che sarà la Terza dopo l’“Associazione Internazionale dei lavoratori” sorta nell’epoca di Marx e dopo l’“Internazionale Socialista” fondata nel 1889, era chiaramente la prova del maturare, ben oltre i confini della Russia, di un movimento rivoluzionario mondiale capace di assolvere il proprio compito, ossia di trasformare il pianeta in senso socialista. Così, la nuova Internazionale avrebbe dovuto essere, per un verso, la sintesi delle due Internazionali che l’avevano preceduta: della Prima doveva avere lo spirito intransigente e rigoroso, della Seconda l’organizzazione e il radicamento territoriale; ma, per un altro verso, rispetto alla Seconda essa doveva essere anche un’antitesi, in quanto doveva incarnare un netto rifiuto del riformismo, dell’opportunismo e dello spirito di compromesso che erano stati i caratteri distintivi delle socialdemocrazie europee.
Quindi, dopo la votazione dei crediti di guerra alle rispettive borghesie da parte dei partiti socialdemocratici, che segnò la bancarotta politica, ideologica e morale della Seconda Internazionale, Lenin non ebbe alcun dubbio sulla necessità e sulla urgenza della creazione di una nuova Internazionale.
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Compiti per il pensiero complesso
di Pierluigi Fagan
Nell’articolo, che originariamente è pubblicato sul sito del Festival della Complessità, si pone la questione della agonistica separazione tra cultura scientifica e cultura umanistica, conosciuta anche come questione delle “due culture”. Questa separazione,a grandi linee e con bordi sfumati, sembra corrispondere ad una più profonda divisione tra cultura europea e cultura anglosassone, che oltre al suo riflesso in filosofia ha oggi anche una sua attualità politica. Poiché finisce col presentarsi anche come separazione tra il fare le cose ed i fini per cui le si fanno, nonché il loro significato ed il come le giudichiamo criticamente e per altri versi come separazione tra uomo e natura, la si pone come una delle questioni in agenda per un pensiero che voglia ripensare le cose “nel loro complesso”, inclusa la conoscenza stessa. Parleremo anche del sito americano -Edge- un aggregatore di pensatori tra cui molti rappresentanti di un certo tipo di pensiero della complessità contemporaneo.
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L’americano John Brockman nasce come agente letterario a vocazione scientifica, ma nell’esercizio della sua professione è poi diventato depositario di così vaste conoscenze da vedere una possibile sintesi, quella sintesi di sintesi di cui abbiamo parlato in un precedente articolo (qui). E’ diventato così autore egli stesso e animatore di circoli di pensiero, sempre nell’ambito tecno-scientifico tipicamente anglosassone. Come autore, ha scritto almeno un libro l’anno negli ultimi quindici anni (più d’uno tradotto in Italia), mente quindi molto eccitata. Uno in particolare si distingue, “La terza cultura” (Garzanti, 1999), che segna il momento in cui gli si è formato un nuovo sistema mentale, un diverso modo di vedere le cose nel “loro complesso”. Di quel libro in cui il nostro ha preferito far parlare direttamente 25 scienziati tra cui molti interni alla tradizione del pensiero complesso (M. Gell Mann, F. Varela, B. Goodwin, S. Jay Gould, S. Kauffman, C. Langton, L. Margulis ed altri molto noti da S. Pinker a M. Rees, da L. Smolin a R.Penrose, più tangenziali a questa forma di pensiero) ha avuto l’intuizione del titolo che fa categoria e le categorie, si sa, ordinano le sintesi. Ma cos’è la “terza cultura”?
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Il regionalismo, il caos e l'unità nazionale
di Leonardo Mazzei
Questa del Mazzei è senza dubbio la migliore analisi critica del cosiddetto "regionalismo differenziato"
«Se passasse il regionalismo differenziato l'Italia diventerebbe, come disse il Metternich nel 1847, una mera "espressione geografica"...»
Diciamo le cose come stanno: con il fallimento del Consiglio dei ministri del 14 febbraio il cosiddetto "regionalismo differenziato" è stato messo su un binario morto. Per ora è solo un rinvio, ma adesso fermarlo è possibile. Lo stop imposto dai ministri M5S alle richieste di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna non è dunque roba di poco conto.
La scadenza di metà mese sembrava quella del giudizio divino: o il progetto passava, o il governo cadeva. Così tuonava Giorgetti all'inizio dell'anno, puntualmente rilanciato dai capibastone della Lega nordista. E invece, né l'una né l'altra cosa. Bene, anzi benissimo, a condizione che il dibattito che si è finalmente aperto conduca al definitivo affossamento del disegno in questione.
Quel che è incredibile è come in tanti ancora non si rendano conto della posta in gioco, che non è solo lo spostamento delle risorse dalle regioni più povere a quelle più ricche - che già di per sé griderebbe vendetta -, ma l'avvio di un processo disgregativo potenzialmente in grado di minare la stessa unità nazionale. Il tutto per la gioia dei potentati euro-tedeschi che non potrebbero chiedere di meglio.
Sulla materia la confusione è tanta. Proviamo perciò a mettere un po' di ordine, affrontando sette questioni: 1) che cos'è il "regionalismo differenziato"; 2) da dove arriva, ovvero il problema di una Costituzione "incostituzionale"; 3) cosa chiedono le tre regioni del nord; 4) il trucco dei "fabbisogni standard"; 5) la truffa dei "residui fiscali primari"; 6) il caos di un regionalismo "fai da te"; 7) un secessionismo di fatto che farebbe il gioco dell'oligarchia eurista.
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Critica del neoliberismo e critica dell’europeismo devono procedere assieme
Fabio Cabrini intervista Domenico Moro
Il titolo del tuo ultimo libro “La gabbia dell’euro” non lascia spazio a troppe interpretazioni. Ci spieghi, in sintesi, perché la zona euro dovrebbe essere intesa come una camicia di forza dalla quale liberarsi il prima possibile? Cosa rispondi alle critiche di coloro che vedono nell’uscita, dati gli attuali rapporti di forza, un evento che andrebbe ad avvantaggiare esclusivamente i partiti nazionalisti?
DM: L’integrazione europea, in particolare quella monetaria, aliena alcune importati funzioni – bilancio e moneta – dallo Stato alle istituzioni sovranazionali europee. Lo scopo è sottrarre le decisioni economiche fondamentali all’influenza dei Parlamenti, ossia alla sovranità popolare e ai lavoratori, allo scopo di ricondurle sotto il controllo dello strato superiore e fortemente internazionalizzato del capitale. L’integrazione europea modifica, insieme al funzionamento delle istituzioni dello Stato, anche i rapporti di forza tra classi sociali, lavoratori salariati e capitalisti, a favore di questi ultimi. Per questa ragione, in Europa al centro di una politica democratica e favorevole alle classi subalterne non può che esserci il superamento dell’euro e dei Trattati, in pratica il superamento della Ue. Dire che per uscire bisogna aspettare rapporti di forza favorevoli è sbagliato. Infatti, se uscire espone a dei rischi e rimanere è disastroso, qual è l’alternativa? Una tale posizione è ingenua e impolitica, condannando alla irrilevanza e all’impotenza qualsiasi posizione politica progressiva e di classe. I rapporti di forza si modificano attraverso la politica, cioè mediante la creazione di consenso e la costruzione di organizzazione attorno a posizioni forti e adeguate alla fase storica. Uscire dall’euro è una di queste posizioni, anzi al momento è quella centrale, imprescindibile nella definizione di un programma di sinistra e socialista.
A maggio si terranno le elezioni europee. A parte che un eventuale spostamento dei rapporti di forza si andrebbe a realizzare in un organo, il Parlamento europeo, dal peso specifico assai relativo, c’è anche da dire che il PPE e il PSE, forze che si richiamano a un europeismo di matrice neoliberale, quasi certamente manterranno la maggioranza. Insomma, ad oggi sembra alquanto difficile immaginare, come fanno alcuni sovranisti di destra, dei cambiamenti sostanziali circa gli equilibri vigenti. Cosa ne pensi?
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Obbligo o verità?
La battaglia dei vaccini e il silenzio-assenso della sinistra
di Marco Craviolatti
Copernico partì da osservazioni note e usò un metodo accessibile a tutti.
Molti non gli credettero, ma le sue affermazioni erano già vere,
perché chiunque ci sarebbe potuto arrivare, grazie alla scienza del tempo.
Il suo punto di vista non venne imposto da un re o dai preti.
Altrimenti sarebbe stata una verità instabile, contraddittoria e ingiusta.
Wu Ming, Proletkult
Renzi-Gentiloni, Macron, Macri. Se vi dicessero che questi governi-modello del liberismo globale hanno imposto la stessa misura legislativa in Italia, Francia e Argentina, vi scatterebbe qualche campanello d’allarme? Nemmeno se toccasse quanto di più sacro vi appartiene, non il vostro portafoglio, bensì il vostro corpo? Nemmeno se stravolgesse all’improvviso un contesto stabile della salute pubblica, virando a 180° le norme precedenti? Se l’allarme non è scattato siete in buona compagnia della sinistra italiana (quella poca ancora tale).
Nel giugno 2017 il DL Lorenzin (procedura di urgenza! Poi convertito dalla Legge 119/2017) ha introdotto un abnorme obbligo vaccinale (10 + 4 raccomandati) dai 0 ai 16 anni, con corollario di misure coercitive e punitive: è una svolta della politica sanitaria di portata almeno equivalente a quanto rappresentò il pacchetto Treu per il lavoro, il piano inclinato della progressiva cancellazione dei diritti. Come allora, si parte da alcune fasce della popolazione per raggiungere via via tutti gli altri. Nell’intera storia italiana, dal 1939, i vaccini obbligatori non avevano mai superato i 4. Nell’ottobre 2017 è la Francia a portare da 3 a 11 i vaccini obbligatori. L’ulteriore salto di qualità arriva nel dicembre 2018 con il DDL argentino 972-D, che impone vaccinazioni certificate anche agli adulti perfino per il rilascio dei documenti di identità, seppur non vincolandoli (ma il passo è breve). In compenso diventano già indispensabili per l’accesso a scuole e università e per le visite pre-assuntive e lavorative: no iniezione – no lavoro. No Jab – No Job proclama compiaciuto in Australia il governo del Partito Liberale, che ha adottato una misura analoga, oltre a quelle No Jab – No Pay (taglio dei sussidi familiari) e No Jab – No Play (esclusione dalla scuola).
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Per la storia. Per la politica
A proposito di Sei lezioni sulla storia di Edward H. Carr
di Giorgio Riolo
Questo breve scritto riprende una nota a suo tempo redatta come introduzione all’opera di Edward H. Carr. Come si cerca di argomentare, la storia non è solo disciplina, materia, ambito del sapere e della conoscenza. Essa è fondamento della cultura critica, dello spirito critico, tanto più necessario nella nostra realtà contemporanea, della educazione civile e della formazione della persona attiva. È fondamento e sostanza della politica
Queste note che seguono hanno il modesto fine di richiamare l'attenzione sulla questione della storia. A riconsiderare il problema della storia, come questione cruciale della sostanza della nostra cultura, della nostra politica, della nostra democrazia, della nostra vita. Nell'epoca del trionfo della filosofia complessiva del neoliberismo, non solo della sua naturalmente potente e decisiva dimensione economica. Nell'epoca della destoricizzazione compiuta, della eternizzazione del presente e quindi del potente bisogno dei dominanti di espungere la coscienza storica, la dimensione storica dalla coscienza diffusa delle persone. Coscienza diffusa già manipolata e alienata. Ma proprio al fine della manipolabilità infinita delle coscienze delle persone. A partire dal retroterra della filosofia individualistica compiuta (la signora Thatcher “La società come ente non esiste, esistono gli individui e le famiglie”), come una delle componenti più granitiche di questa filosofia complessiva. Cultura dell'io, cultura del corpo, cultura del narcisismo (Christopher Lasch): la trinità del contemporaneo monoteismo imperante.
Ricordiamo il problema che sottolineò Lukács, già nel 1923, e cioè che il limite del pensiero borghese (noi diremo oggi del pensiero e dell'ideologia capitalistiche), proprio perché appiattito sul “dato”, sul “compiuto”, sul “risultato” della forma-merce, occultando il processo genetico, la processualità, risiedeva nella difficoltà di considerare il presente come problema storico, il presente come storia. Questo complesso problematico è più attuale che mai proprio nell'era del capitalismo della globalizzazione neoliberista.
Queste note le facciamo cogliendo l'occasione della riproposizione di un testo importante della cultura storica, della metodologia della storia. Apparso in lingua italiana nel lontano 1966, formò molti di noi, non solo come libro di studio, liceale e universitario, ma anche come libro della formazione (e autoformazione) politica.
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Mario Draghi, “La sovranità in un mondo globalizzato”
di Alessandro Visalli
Nel mondo globalizzato che un sistema di azione altamente complesso[1] ha costruito a partire dai primi anni settanta, non c’è alcuno spazio per la democrazia dei nostri padri e nonni.
Non c’è alcuno spazio, cioè, per la democrazia inclusiva e popolare che muoveva, certo sempre in modo incompiuto e come progetto da rinnovare, dall’eguaglianza dei ‘cittadini’[2] in quanto ‘persone’ e non per le loro capacità (siano esse economiche o cognitive), quanto per il loro diritto di formarsi norma a se stessi. Certo una forma, quella democratica, che è sempre cambiata nel tempo, passando dal parlamentarismo delle origini alla democrazia a suffragio universale e di massa ‘dei partiti’ novecentesca, ed alla trasformazione di questa in una ‘democrazia del pubblico’[3], centrata su pratiche di sorveglianza e discredito per le forme della politica.
Il vuoto che anche l’autore diagnostica viene però riempito dall’espressione di una diversa ‘sovranità’: la vecchia definizione del ‘controllo’, ovvero della potenza. Si torna in questo modo alla ‘sovranità’ del discorso politico seicentesco[4]. A ben vedere il discorso di Draghi, nel momento in cui retoricamente difende la pace, è quindi un discorso di guerra, è esattamente il contrario di quel che dice di essere. Quel che accusa ad altri di essere lui è.
Come dice, infatti:
“La vera sovranità si riflette non nel potere di fare le leggi, come vuole una definizione giuridica di essa, ma nel migliore controllo degli eventi in maniera da rispondere ai bisogni fondamentali dei cittadini: ‘la pace, la sicurezza e il pubblico bene del popolo’, secondo la definizione che John Locke ne dette nel 1690[3]. La possibilità di agire in maniera indipendente non garantisce questo controllo: in altre parole, l’indipendenza non garantisce la sovranità.”
Qui il soggetto di potenza deve ‘controllare gli eventi’ per ‘rispondere’ a bisogni, che sono oggettivati, di cittadini che diventano destinatari passivi.
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Il governo giallo-verde. Non sarà per sempre
di Fabio Nobile
Dopo circa nove mesi di governo giallo-verde è possibile tracciare un primo bilancio del suo operato che va commisurato alle aspettative dell’articolato e contraddittorio aggregato sociale che lo ha sostenuto alle politiche dello scorso anno. Un bilancio che può essere supportato, in alcuni aspetti cruciali, dai risultati elettorali avuti in Abruzzo. La vittoria del centrodestra a trazione leghista (la Lega al 27,5% , il doppio rispetto ad un anno fa) e il pesante stop elettorale del M5s (la metà dei voti in percentuale rispetto a quelli ottenuti alle politiche un anno fa, in confronto ad un differenziale percentuale tra politiche e regionali precedenti molto più basso) sono la fotografia dei nuovi rapporti di forza nella maggioranza che già emergevano da recenti sondaggi. Va sottolineato, in questo senso, che ad oggi, oltre all’Abruzzo, sono sei le Regioni governate da una coalizione trainata dalla nuova Lega: Liguria, Lombardia, Friuli, Molise, Sicilia e Veneto. Al contempo la mobilità elettorale è da collocare in una fase fortemente instabile. Quello che è oggi, anche per la Lega, può cambiare radicalmente in poco tempo. Come lo stesso risultato del M5s non può essere letto come un dato di irreversibile arretramento. E questo è confermato ancora di più con i dati dell’astensionismo.
I bassi livelli di partecipazione al voto (ancora in calo rispetto alle regionali del 2014) segnalano una volatilità dell’elettorato ancora più grande rispetto a quello che dicono i numeri dei voti assegnati. Tale dinamicità può rappresentare, allo stesso tempo, la leva su cui impostare un lavoro per iniziare a tracciare un’alternativa.
Accennati alcuni elementi di analisi del voto in Abruzzo, prima di qualunque considerazione, il primo elemento da sottolineare riguarda l’approccio sulla natura di questo governo. Senza capirne la natura si rischia di andare fuori bersaglio o peggio stare al gioco di chi, con richiami ipocriti, dipinge fronti repubblicani funzionali solo a ristabilire quell’ordine politico che negli ultimi venti anni ha significato rigore economico e impoverimento di massa.
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