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“La meritocrazia non è un meccanismo di liberazione, ma un’ideologia pericolosa”
Alessandro Bonetti intervista Vittorio Pelligra
Abbiamo intervistato Vittorio Pelligra, professore di politica economica all’Università di Cagliari, che nella sua rubrica Mind the economy sul Sole 24 Ore ha sollevato un interessante dibattito sulla meritocrazia
Bonetti: Lei sottolinea come molti movimenti che si definiscono progressisti, liberali, di sinistra abbiano introiettato l’idea di meritocrazia. Pensiamo a Blair, Obama, Renzi. Qual è la grande contraddizione?
Pelligra: Più che una contraddizione è un equivoco, nel senso che l’idea di merito è solo apparentemente semplice. È in realtà un concetto complesso, sia dal punto di vista filosofico sia dell’implementazione operativa: merito di cosa, merito per chi? Quanto “merito”?
L’equivoco nasce in buona fede nel tentativo di dare risposta a domande reali. Spesso queste risposte, però, sono diventate semplicistiche scorciatoie. E così, a sinistra l’idea di merito è assurta a una sorta di antidoto alle disuguaglianze. Si afferma che l’attuale struttura sociale tende a rigenerare le disuguaglianze, perché punta più agli esiti che alle opportunità. Quindi se riuscissimo a far partire tutti dalle stesse opportunità potremmo isolare l’effetto della dotazione di partenza dal merito e dall’impegno individuale e perciò diventerebbe possibile incentivare l’impegno premiando il merito stesso. Questo è un tentativo lodevole, ma è logicamente impossibile.
Infatti, tutto quello che è impegno è fortissimamente determinato da elementi che non sono impegno, come l’essere nato in una certa famiglia, in un certo paese, in un determinato momento storico. Oggi sappiamo che il processo di accumulazione di capitale umano funziona attraverso un meccanismo di complementarità dinamica: riesco a imparare se ho imparato ad imparare. Lo stesso impegno, dunque, produce risultati differenti in base alle dotazioni iniziali che dipendono totalmente dalla fortuna.
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La storia come chiave per comprendere la pandemia
di Francesca Romana Capone
Per orientarci nella pandemia attuale, più che i numerosissimi “instant book” pubblicati a tempo di record, possono essere utili letture legate a malattie del passato e, comunque, edite prima dell’emergere del COVID-19 che, necessariamente, ha mutato lo sguardo sul problema. Vedremo, allora, quanto l’efficacia dell’azione sanitaria sia connessa ad aspetti legati alla politica, alla comunicazione, alla fiducia e, in ultima istanza, alla capacità di comprendere i limiti stessi della nostra conoscenza.
* * * *
Contro gli instant book
Leggere è anche un modo per orientarsi nel presente, per guardare all’oggi da punti di vista inediti, lontani nello spazio e nel tempo. Ma la letteratura ha un peculiare rapporto con il tempo, lontano dall’immediatezza cui ci hanno abituato internet e i mezzi tecnologici. Non sorprende, quindi, che per interpretare l’attuale situazione pandemica possano risultare più utili libri usciti ben prima che SARS-COV-2 facesse la sua comparsa, oppure riferiti a pandemie di un remoto passato.
Tuttavia gli eventi eccezionali (guerre, attentati, epidemie) stimolano il mercato editoriale a sfornare decine e decine di “instant book”. Se è vero che questi testi possono nascere anche da una reale urgenza di fissare sulla pagina gli eventi osservati (ci si conservano molti taccuini d’autore legati ad avvenimenti storici importanti), altrettanto la mancata sedimentazione e rielaborazione del pensiero e delle idee, finiscono per renderli piuttosto effimeri. Non a caso gli scrittori del passato hanno usato i propri taccuini per dare profondità e verità a narrazioni di finzione, scritte successivamente e ben altrimenti meditate, piuttosto che per documentare un evento.
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Peggio di un complotto
di Leonardo Mazzei
Covid e Grande Reset viaggiano in coppia, proprio come i carabinieri. Senza il virus, il violento piano di ristrutturazione (e distruzione) sociale della cupola oligarchica sarebbe evidentemente improponibile. Perlomeno oggi, quantomeno nei termini desiderati da lorsignori. Questo è un fatto.
Con il virus ciò che era improponibile diventa all’improvviso altamente probabile, per molti addirittura inevitabile, per i non pochi ultras del “nulla sarà come prima” addirittura auspicabile. E questo è un altro fatto.
Che ad oggi i più vedano solo il virus e non ancora l’orribile disegno sociale che gli si staglia dietro è un terzo fatto, che certo non possiamo negare. Questo è anzi lo snodo decisivo, perché l’epidemia svolge la duplice funzione di cortina fumogena e di nave rompighiaccio, quella che deve aprirsi la strada verso il “nuovo mondo” distopico del Grande Reset.
Secondo alcuni questi tre fatti sarebbero la prova di un vero e proprio complotto. Una cospirazione che avrebbe avuto come prima mossa la deliberata diffusione del virus stesso. Possiamo escludere a priori una tale ipotesi? Assolutamente no. Chi scrive è lontano mille miglia dalla forma mentis del complottista, tuttavia anche i complotti esistono e – pur non spiegandola nei suoi flussi profondi – possono talvolta contribuire a fare la storia.
Ma qui avanziamo un’altra ipotesi, per molti aspetti peggiore, di sicuro più inquietante di quella del “semplice” complotto. Un’ipotesi che il complotto non lo esclude del tutto, ma che da esso è comunque indipendente.
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Filosofia prêt à porter
Un pensiero che non vuole più essere inattuale
di Carlo Formenti
«Polemos (la guerra) è il padre di tutte le cose» recitava Eraclito, non a caso fra i filosofi più amati da Marx. Ma mentre Marx inquadrava il detto nella cornice del pensiero dialettico, pensando alla guerra di classe, più che alla guerra in generale, il pensiero ermeneutico ricama su questo frammento presocratico (come su molti altri) per estrarne tutt’altro, dal momento che il conflitto antagonistico è stato espulso dall’orizzonte dei temi “politicamente corretti”. E dal catalogo della correttezza politica è stata espulsa anche la vocazione alla inattualità del pensiero, visto che gli autori inattuali tendono a coltivare visioni utopistiche che oggi vengono automaticamente associate ai campi di sterminio.
In un bell’articolo pubblicato sul sito di Micromega http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2020/07/30/filosofia-del-ritiro-ritiro-della-filosofia/?fbclid=IwAR2pbt022V8vXY5SxTtSlzWp-zFjTa-qNXfOxvLxhwZAUoPALcNsHxGwN-o Yuri Di Liberto utilizza, per definire questa svolta antipolitica che accomuna larga parte del pensiero contemporaneo, la categoria di "filosofia del ritiro": «non si tratta di un progetto filosofico univoco, ma di una linea di tendenza della filosofia occidentale che, sulla base dell’equazione potere=totalitarismo, ha forgiato una panoplia di concetti che mirano alla reinterpretazione dello scenario del conflitto in termini di un’opposizione manichea tra il potere costituito (il male assoluto) e la relazionalità immanente; o, per usare i termini di Deleuze e Guattari, tra il molare (Stato, paranoia) e il molecolare (il desiderio, lo “schizo”».
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Vaccino Pfizer-BioNTech, cosa sappiamo
Composizione, meccanismo d'azione, efficacia, sicurezza
di Mariagiovanna Scarpa*
La Dott.ssa Mariagiovanna Scarpa, Coordinatrice di IppocrateOrg per il Regno Unito, ha sintetizzato nel suo scritto – che vi invito a leggere – la posizione del Movimento Ippocrate in relazione al vaccino Pfizer.
Le considerazioni espresse sono state elaborate sulla base delle conoscenze che ci sono concesse: sia da quanto dichiarato dal produttore del vaccino, da una parte, sia da quanto oggi la scienza può oggettivamente concludere in base ai dati in possesso, dall’altra.
Pertanto le valutazioni prodotte non sono da considerarsi come espressione di conclusioni scientifiche definitive ma soltanto quale momento di riflessione da arricchire con successivi auspicati contributi.
Quando parlo di ulteriori contributi intendo l’approfondimento di ambiti quali:
- la corsa alla messa a punto del vaccino con i rischi potenziali (sia nel breve ma soprattutto nel medio/lungo periodo) connessi alla drastica riduzione dei tempi di sperimentazione;
- il campo ancora in gran parte inesplorato dei vaccini genici;
- l’efficacia e sicurezza di vaccini proteici alternativi a quelli genici di cui conosciamo la sicurezza;
- la possibile inutilità di un vaccino somministrato ad una popolazione che si sta avviando verso l’immunità di gregge;
- se sia eticamente accettabile che alcune informazioni sul vaccino di proprietà dell’Azienda Produttrice rimangano tali quando sono necessarie per valutarne la sua pericolosità;
- …e altro.
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Una prospettiva filosofica sulla fine della scuola occidentale
di Paolo Di Remigio
Quella che per abitudine si chiama scuola pubblica non è più pubblica, neanche nel nome, e non è più scuola, nel senso di istituzione diretta a educare i giovani alla conoscenza. L’estinzione della scuola pubblica è momento della decadenza dello stato occidentale. Nel corso della lotta per escluderlo dall’economia, alcuni lo hanno considerato un importuno che mette le mani nelle tasche dei cittadini e ne cede la ricchezza alla politica clientelare; altri vi hanno rinvenuto l’origine di ogni male. Si è così perduta l’intuizione della sua essenza e del suo fine: riesce incomprensibile che lo stato sia la forma libera della comunità, garante del libero volere di ognuno, che il suo primo fine sia rendere sacra la persona e intangibile la sua esistenza. Il rifiuto dello stato nasce dal disconoscere la nozione di libertà e il suo nesso con quella di legge. Da queste nozioni dipende però anche la disposizione al conoscere; l’incomprensione dello stato si associa dunque al disprezzo della conoscenza. Ne è vittima la scuola che, abbandonata a interessi estranei, è soffocata dall’attivismo ignorante e si estingue.
I. Distinzioni filosofiche
a) Libertà e stato
Di solito la libertà è intesa come sinonimo di arbitrio, come possibilità di scelta; se fosse così, lo stato, che limita l’arbitrio imponendo le leggi, sarebbe negazione della libertà[1]. Chi non facesse differenza tra impulso, arbitrio e libertà non potrebbe che concordare con la conclusione di questo sillogismo.
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Glosse in margine all’epidemia come politica
di Flavio Luzi
Penosamente amare quel che non si ama,
da quando il fumo uccide,
ecco, ubbidire.
Patrizia Cavalli
1. Nemo propheta acceptus est in patria sua
“A me sembra che il vero compito politico, in una società come la nostra, sia quello di criticare il funzionamento delle istituzioni, soprattutto di quelle che appaiono come neutrali e indipendenti, e di attaccarle in maniera tale che la violenza politica che si esercita oscuramente in esse sia finalmente smascherata, così da poter essere combattuta”. Con queste parole, in un dibattito televisivo tenutosi a Eindhoven nel 1971, un ridente Michel Foucault ribatteva alle posizioni espresse in quell’occasione dal suo avversario, Noam Chomsky. Il filosofo francese si riferiva a tutte quelle istituzioni – come l’Università, l’Istruzione, la Psichiatria e la Giustizia – che diversamente dall’Esercito, dalla Polizia e dal Carcere, si presentano in maniera apparentemente neutrale, affrancata dall’evidente circolazione (sottomissione ed esercizio) del potere politico. Dietro le funzioni di distribuzione del sapere, della promozione della libera ricerca, della cura dei disturbi mentali, dell’amministrazione del diritto, queste istituzioni – o, se si preferisce, questi dispositivi epistemico-sociali – occultano la violenza politica che continuamente esercitano sui corpi degli individui, disciplinandoli e soggettivizzandoli come studenti, come anormali, come colpevoli. In tal senso, dal punto di vista foucaultiano, non vi è ragione alcuna di ritenere che l’istituzione sanitaria e, più in generale, il sapere medico siano esenti da questo tipo di mistificazione, dimostrandosi sinceramente neutrali, estranei a qualsivoglia ideologia, potere o violenza politica.
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Gaia e Ctonia
di Giorgio Agamben
I.
Nel greco classico, la terra ha due nomi, che corrispondono a due realtà distinte se non opposte: ge (o gaia) e chthon. Contrariamente a una teoria oggi diffusa, gli uomini non abitano soltanto gaia, ma hanno innanzitutto a che fare con chthon, che in alcune narrazioni mitiche assume la forma di una dea, il cui nome è Chthonìe, Ctonia. Così la teologia di Ferecide di Siro elenca all’inizio tre divinità: Zeus, Chronos e Chtonìe e aggiunge che «a Chtonìe toccò il nome di Ge, dopo che Zeus le diede in dono la terra (gen)». Anche se l’identità della dea resta indefinita, Ge è qui rispetto ad essa una figura accessoria, quasi un nome ulteriore di Chtonìe. Non meno significativo è che in Omero gli uomini siano definiti con l’aggettivo epichtonioi (ctonii, che stanno su chthon), mentre l’aggettivo epigaios o epigeios si riferisce solo alle piante e agli animali.
Il fatto è che chton e ge nominano due aspetti della terra per così dire geologicamente antitetici: chton è la faccia esterna del mondo infero, la terra dalla superficie in giù, ge è la terra dalla superficie in su, la faccia che la terra volge verso il cielo. A questa diversità stratigrafica corrisponde la difformità delle prassi e delle funzioni: chthon non è coltivabile né se ne può trarre nutrimento, sfugge all’opposizione città/campagna e non è un bene che possa essere posseduto; ge, per converso, come l’eponimo inno omerico ricorda con enfasi, «nutre tutto ciò che su è chthon» (epi chthoni) e produce i raccolti e i beni che arricchiscono gli uomini: per coloro che ge onora con la sua benevolenza, «i solchi della gleba che danno vita sono carichi di frutti, nei campi prospera il bestiame e la casa si riempie di ricchezze e essi governano con giuste leggi le città dalle belle donne» (v.9-11).
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Pochi appunti sul ‘femminismo della differenza’
di Alessandro Visalli
Da quando ad ognuno di noi capitò di aprire gli occhi e quando poi arrivammo all’età della ragione scoprimmo che nel mondo ci sono molte e diverse gerarchie, diverse forme di esercizio di autorità (da parte di madri, di padri, di maestri/e, di posizioni e ruoli, di ricchi, di colti e di tecnici, ...) e tutti scoprimmo, con il tempo, che queste forme allo stesso momento tengono insieme la società e gli consentono di funzionare. Il loro segno è dunque ambiguo, necessario e sempre sul punto di eccedere.
Parimenti, quando iniziammo a crescere ognuno di noi si sentì interrogato dal proprio genere, da quello che la società propone come modello appropriato di genere, e quindi fummo spinti ad interrogarci sulla differenza che si percepisce ovunque, e si incontra sempre, tra una certa visione e sensibilità ed un’altra. Nella media, naturalmente, perché esistono sempre individui intermedi, più vocati ad alcune sensibilità, aperti ad un altro “lato” come si dice. Anzi, non esistono personalità ben formate, normali, che non abbiano elementi di entrambe le sensibilità idealtipiche.
Quanto queste differenze sono biologia, quanto cultura, quanto proprio morfologia, quanto esperienza di base? Quanto dipendono dal momento centrale della riproduzione (che è in assoluto il momento di massimo dimorfismo)? Quanto, magari, proprio dalla meccanica dell’atto sessuale (simmetricamente opposto, si dà e si riceve)?
Difficile, e probabilmente impossibile dirlo con certezza. Una cosa è sicura: ci sono delle differenze. Un’altra, però l’accompagna: la specie è unica, la sua base genetica (circa ventimila geni) coincide in grandissima parte in tutti ma la sua espressione (ovvero la codifica delle proteine) differisce sensibilmente.
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Recovery Fund: manuale di autodifesa contro la propaganda di regime
di Thomas Fazi
Quando si parla del programma Next Generation EU (NGEU), comunemente noto in Italia con il nome di Recovery Fund, una premessa è d’obbligo: quello che nei media viene presentato come un accordo già chiuso deve in realtà ancora superare un ostacolo non da poco, ovverosia la ratifica da parte di tutti e 27 i parlamenti nazionali dell’UE. Si tratta, a detta dei più, di un passaggio puramente formale, che si dovrebbe concludere entro la prima metà del 2021. E probabilmente hanno ragione: è difficile immaginare che un parlamento nazionale possa far naufragare un accordo negoziato dal governo che ne è espressione. Tuttavia non è da escludere che il percorso possa riservare delle sorprese. Soprattutto in Olanda, dove si andrà al voto a marzo e dove il primo ministro Mark Rutte è stato fortemente criticato per l’accordo. Quanto meno, la mancata ratifica dell’accordo da parte dei parlamenti nazionali dovrebbe suggerire una certa prudenza quando si parla di Recovery Fund.
Fatta questa doverosa premessa, vediamo di entrare nel dettaglio del cosiddetto Recovery Fund. Partiamo innanzitutto dall’aspetto strettamente finanziario. L’accordo si compone di due pezzi: il programma Next Generation EU, appunto, pari a 750 miliardi (che la Commissione andrà a prendere sui mercati) spalmati su sei anni, di cui 390 miliardi dovrebbero venire corrisposti agli Stati membri sotto forma di trasferimenti “a fondo perduto” (come vedremo, le virgolette sono d’obbligo) e 360 miliardi sotto forma di prestiti; e il quadro finanziario pluriennale (QFP) 2021-2027, ovvero il bilancio europeo classico, pari a poco più di 1.000 miliardi di euro (di poco superiore all’ultimo bilancio europeo 2014-2020). In totale circa 1.800 miliardi.
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Liberalprogressismo, liberalconservatorismo e “sovranismo” nella crisi della democrazia moderna
di Stefano G. Azzarà
Il 9 gennaio interverrò alla Rosa-Luxemburg-Konferenz - appuntamento di dibattito teorico ormai divenuto istituzionale per i comunisti e la sinistra europea e dedicato quest'anno al confronto tra razionalismo e irrazionalismo - presentando una sintesi del mio libro "Il virus dell'Occidente".
Nel frattempo, Junge Welt (11.12.2020) ha tradotto e pubblicato un estratto, nel quale parlo del concetto di "popolo", della genesi della democrazia moderna e della sua attuale crisi, caratterizzata dall'involuzione in chiave imperiale dell'universalismo, dalla reazione particolarista (populismo e sovranismo) e dell'imminente riconciliazione tra queste due varianti del liberalismo. Nel link in fondo la versione tedesca, qui di seguito il testo in italiano. Seguirà presto il programma della Konferenz.
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I rapporti di forza politico-sociali sono il segreto della democrazia moderna nella sua lunga storia. E sono, alla stessa stregua, il mistero della sua crisi nella sua più rapida agonia. Dal momento in cui e fino a quando i rapporti di forza tra le classi in lotta si sono mossi verso un maggiore equilibrio, si sono prodotte le condizioni per la fioritura di imponenti processi di democratizzazione. Finché le classi subalterne sono riuscite a difendersi e poi a farsi rispettare, conquistando il riconoscimento attraverso la loro capacità di agire il conflitto in maniera consapevole e organizzata, si è innescato un grandioso meccanismo di redistribuzione dello status, della ricchezza materiale e immateriale, del potere e della cultura che non ha certamente realizzato l’eguaglianza ma che sulla strada dell’eguaglianza si è quantomeno incamminato. E che ha dato vita alla democrazia moderna, arrivando per certi tratti e in certi momenti particolarmente felici anche a mettere in discussione i rapporti di proprietà e il controllo della produzione stessa.
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Prendere parola
di Monica Quirico, Gianfranco Ragona, Roberto Salerno
La pandemia di Covid19 è un fenomeno epocale, rispetto al quale è opportuno porre domande adeguate più che proporre risposte nette.
Viviamo un tempo di gravi difficoltà, di disaccordi, incertezze e paure diffuse. Su un punto, però, crediamo si possa trovare una convergenza di opinione: l’anno 2020 con la pandemia di Covid19 rappresenta davvero una «svolta epocale». Negli ultimi trent’anni si è forse abusato di questa espressione. Si potrebbe ipotizzare, non senza fondamento, che in occidente abbiamo sviluppato (o recuperato) una tendenza alla drammatizzazione, che in realtà cela un processo di normalizzazione dell’emergenza: un aspetto di cui tener conto, nel valutare l’impatto della pandemia. Essa, certo, si connota come un evento spartiacque, capace di distinguere nella storia, con grande nettezza, un prima e un dopo. E su scala planetaria
Proprio la propagazione capillare del virus costituisce il carattere peculiare dell’evento, ancor più dei numeri. Questi ultimi, infatti, nella loro vaghezza sembra svolgano la funzione di portarci rapidamente dal tormento (se consideriamo l’elevato numero di morti attribuibili al virus) al cinismo, (se rapportiamo lo stesso numero ad altre malattie o alla popolazione complessiva).
La diffusione dell’ingiustizia
È stato opportunamente osservato che la pandemia colpisce più severamente le fasce povere delle popolazioni , (ri)portando alla luce – se ce ne fosse ancora bisogno – un terreno sociale fortemente polarizzato, con le diseguaglianze in progressivo aumento in tutto il mondo: non soltanto quelle economiche, o non da sole, perché spesso intersecate con le diseguaglianze di genere e di razza e di età.
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Se il capitale si concentra
di Claudio Gnesutta
Tra crisi della pandemia e nuove politiche keynesiane, le trasformazioni del capitalismo prendono la strada di un maggior potere della finanza, una crescente centralizzazione del capitale, nuovi rischi per la democrazia nel libro di Emiliano Brancaccio ‘Non sarà un pranzo di gala’
I pesanti riflessi della crisi sanitaria provocata dal Covid-19 sull’economia sono stati affrontati in un’ottica “keynesiana” sostenendo dei redditi e prevedendo investimenti pubblici (Next Generation EU). Si tratta di interventi che, per noi europei, innovano la politica di austerità prevalsa negli anni successivi alla crisi finanziaria del 2007-08, ma non è dato sapere se sono espressione dell’eccezionalità del momento o indicano un nuovo orientamento della politica economica europea. In quest’ultimo caso si tratta di capire se politiche “keynesiane”, per quanto serie possano essere le loro attuazioni, siano sufficienti a mettere ordine nel nostro mondo, e quale ordine.
È una questione che va oltre il contingente; la cui risposta può essere formulata solo con una visione generale del processo sociale. Prova a offrirla Emiliano Brancaccio nel suo recente libro (Non sarà un pranzo di gala. Crisi, catastrofe, rivoluzione, Meltemi Editore, 2020) nel quale raccoglie le interviste e gli interventi in dibattiti ai quali ha partecipato negli ultimi cinque anni. Il messaggio dell’autore – come riprende Russo Spena nell’introduzione – è che “le politiche economiche ordinarie non solo pregiudicano lo sviluppo e il benessere sociale ma rischiano anche di preparare il terreno per una violenta revanche oscurantista”; una tesi che, disseminata in tutti i saggi, trova un’esposizione sistematica nell’ultimo, quello che si presta come sottotitolo del libro.
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Violenza, classi e persone nel capitalismo crepuscolare
di Roberto Fineschi
Trascrizione leggermente rivista della conferenza tenutasi online il 3 maggio 2020 organizzata dalla Rete dei Comunisti. Video. Inedito
Lo sforzo di questo intervento è iniziare a pensare le dinamiche di classe, la configurazione dei soggetti che agiscono storicamente e politicamente in quella sottofase dello sviluppo del modo di produzione capitalistico che chiamo “capitalismo crepuscolare”; si vedrà come il nodo della violenza nasca intrinsecamente in seno a queste dinamiche e come la violenza ed il suo inasprimento siano un portato necessario dello sviluppo di strutturazioni sociali complesse.
Uno dei punti chiave di questa fase è la “crisi” del concetto di persona. Il concetto di persona è la chiave logica, istituzionale, giuridica del mondo borghese e per un largo periodo di tempo la sua rivendicazione è stata una lotta progressista; se si pensa al periodo rivoluzionario, conflittuale della classe borghese contro le forze dell'ancien régime, è proprio l'affermazione dell'universalità della persona, dell’uomo in generale come principio che ha carattere assolutamente positivo. Qui già emerge un punto chiave: la storicità di queste categorie; questa storicità implica che una categoria come quella di persona abbia una funzione storicamente progressiva in un determinato momento di sviluppo dei rapporti di forza e che possa averne una negativa, o diversa, in altre fasi. Perché nella teoria di Marx, che fa da orizzonte di riferimento in queste considerazioni, un concetto chiave è quello della storicità dei soggetti e dei modi di produzione; nel caso specifico ciò significa che, secondo Marx, l’uomo in generale non esiste, la persona astratta non esiste come dato naturale, è piuttosto essa stessa risultato di processi storici, di modificazioni dei modi di produzione che implicano esattamente che questo stesso concetto di uomo in generale si produca storicamente. Si tratta di un punto veramente chiave, perché tutta l’ideologia borghese si basa sul naturalismo della persona, cioè sul ritenere che uomo e persona siano la stessa cosa.
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Negri a Francoforte
La polemica tra la Teoria critica e il marxismo autonomo
di Patrick Cuninghame
L’operaismo politico italiano e la Scuola di Francoforte sono, indubbiamente, due grandi movimenti teorico-politici del Novecento. Hanno alcuni tratti comuni dal punto di vista dei riferimenti genealogici, innanzitutto la rottura con l’ortodossia e il dogmatismo marxisti; hanno, soprattutto, profonde divergenze nello sviluppo politico. Alla ricerca dell’emergenza delle nuove soggettività della lotta di classe, l’operaismo; la constatazione di un’integrazione ormai avvenuta, di una società divenuta gabbia totalitaria, la prima generazione francofortese. In questo articolo Patrick Cuninghame analizza il rapporto di comunanze e contrasti tra i due movimenti di pensiero in particolare attraverso le analisi di Toni Negri, dalla teoria dello Stato-piano fino al concetto di impero. Tenendo ben presente, ci dice l’autore, che mentre l’operaismo è stato un pensiero incarnato in una costellazione di esperienze rivoluzionarie militanti, la Teoria critica è rimasta ai margini dell’attività politica diretta, finendo spesso per limitarsi a osservare le macerie della storia.
Patrick Cuninghame è professore di sociologia alla Universidad Autónoma Metropolitana di Città del Messico. Tra i suoi saggi sul tema qui trattato si segnalano Autonomism as a Global Social Movement (2010), El «Otoño caliente»: Consejos de fábrica y asambleas obreras autónomas italianas de la década de 1970 (2017) e The Self-Organization of the Mexican Multitude Against Neoliberal State Terror: The Cnte Dissident Teachers’ Movement Against the 2013 Education Reform (2020).
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Per esplorare l’interazione tra la Teoria critica e l’operaismo e post-operaismo italiani, prendo in considerazione i dibattiti teorici, perlopiù polemici, tra Negri e la Scuola di Francoforte, con l’obiettivo di valutare il contributo di Negri a tale scuola.
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Giornalismo in Italia al tempo del covid e dell'inversione sinistra-destra
di Fulvio Grimaldi
Media e papa castigano chi si lamenta (cioè chi dubita e chi protesta). Variante Covid: punizione globalista per Brexit
Zitto, il nemico ti cancella
Qualche riga in aggiunta, partendo da lontano. Coloro che sono stati incaricati, a forza di miliardi e trilioni, di gestire le comunicazioni tra gli esseri umani, i signori HighTech delle piattaforme, hanno sancito che chiunque, nel Web, contrasti con - o dica cose diverse da - OMS, Bill Gates e Joe Biden, è FUORI! Parlare di tampone dubbio, vaccino incerto, brogli elettorali da ieri non si puo' più. Potete immaginarvi come questo possa riverberarsi sui nostri informatori, quelli della stampa generalista, detta anche ufficiale, o di regime. Quella per la quale quanto divergeva dal dogma nella rete dava tanto fastidio da dover essere soppressa. Non trovi forse un magistrato, in tempi da Palamara, che avalli ogni arbitrio contro la libertà? Basta che vada sul sito "Open" del supergiornalista Enrico Mentana e sa subito cosa deve decretare.
E, a proposito di magistratura ai tempi di Palamara e della stampa ai tempi di Mentana, consentitemi un inciso per dire "auguri, complimenti e brava" al sindaco Virginia Raggi, finalmente sgravata delle infinite vessazioni cui è stata sottoposta. Vessazioni che hanno ripreso a far ghignare una Roma e un establishment devoti ai Buzzi, ai Carminati, ai Casamonica, grazie alle frecce velenose scagliate sulla sindaca dalla Procura di Pignatone, che ha mollato la presa solo perchè il capo è transitato in Vaticano. Dardi roventi sostenuti dalla disponibilità mercenaria dei media a mentire, contraffare, occultare e dei Cinque Stelle poltronari, capeggiati dalla virago cripto-piddina Roberta Lombardi, a vendicarsi di una collega dalla coerenza assoluta e dai nervi d'acciaio.
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La “distruzione creatrice” del G30 di Draghi e l’intervento dello Stato come concentratore del capitale
di Domenico Moro
Ogni crisi è occasione per il capitale di ristrutturarsi. Questo vale a maggior ragione per la crisi odierna, che è la più profonda dal ’29 e imporrà cambiamenti che vanno studiati, dal punto di vista del lavoro salariato, per capire come si trasformerà il modo di produzione capitalistico e, di conseguenza, il terreno di lotta fra le classi.
In questo senso è interessante quanto emerge dall’ultimo rapporto del Gruppo dei Trenta (G30), un think tank, fondato su iniziativa della Rockefeller Foundation nel 1978, che fornisce consulenze sui temi di economia internazionale e monetaria[1]. Il G30 è formato da accademici e banchieri o ex banchieri provenienti dalle più importanti banche centrali mondiali. Tra di essi ci sono Mario Draghi, che fa parte del comitato direttivo, e Jean Claude Trichet, ex presidenti della Bce, Janet Yellen, ex presidente della banca centrale Usa, la Fed, ed ora ministro del Tesoro designato da Biden, Raghuram Rajan, ex governatore della Banca centrale dell’India, Yi Gang, governatore della Banca centrale cinese, ed economisti di fama mondiale come Kenneth Rogoff, Paul Krugman, e Laurence Summers.
La situazione economica attuale è descritta dal G30 in modo catastrofico: le economie mondiali si stanno avvicinando “al bordo di una scogliera”. Durante la presentazione del rapporto Draghi ha affermato che “Stiamo entrando in un’era nella quale saranno necessarie scelte che potrebbero cambiare profondamente le economie”. La domanda più importante è: “Chi dovrà decidere quali compagnie dovranno essere aiutate?”
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Sorpresa! I comunisti cinesi sono marxisti
di Francesco Galofaro*
Recensione a: Rémi Herrera e Zhiming Long, La Cina è capitalista?, Bari, Edizioni MarxVentuno, 2019
Le edizioni MarxVentuno hanno appena pubblicato un utile volume dal titolo La Cina è capitalista? L'opera è frutto di una felice collaborazione tra un ricercatore del centro di economia della Sorbona e un economista, professore dell'Università Tshinghua di Pechino. Gli autori intendono dimostrare come la convinzione diffusa che la Cina sia una nazione capitalista sia un luogo comune; al contrario, la Cina deve il proprio attuale successo internazionale proprio al fatto di essere un'economia socialista. Insomma: il socialismo funziona: la dimostrazione avviene sotto un profilo essenzialmente storico-economico, con una vera e propria caterva di dati, grafici, indicatori, senza che questo pregiudichi in nulla la leggibilità di una scrittura estremamente coinvolgente … Per i numeri, rinviamo il lettore al volume, mentre qui vorremmo riassumerne e discutere le tesi principali argomentate dai due autori.
1. Caratteri generali dell'economia cinese
Non è possibile comprendere la Cina contemporanea se non si tengono ferme due caratteristiche della sua economia:
1) Si tratta di un contro-modello (p. 82). Non è possibile ridurlo all'economia capitalista occidentale, subordinata alla supposta razionalità dell'alta finanza, e nemmeno all'economia sovietica, in cui lo Stato si appropria di ogni cosa; l'economia cinese si è sviluppata anzi in opposizione all'una e all'altra;
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Biopolitica del virus
di Rocco Ronchi
Le prese di posizione sulla pandemia di Giorgio Agamben, ora raccolte nel volume A che punto siamo edito da Quodlibet, hanno suscitato stupore e irritazione. Gli si rimprovera, e non velatamente, l’adesione alla tesi della “dittatura sanitaria”. La semplificazione giornalistica delle tesi agambeniane è brutale e ingenerosa, tuttavia è un fatto che la piazza negazionista non ha avuto difficoltà a fare proprie le parole d’ordine di una una delle più raffinate, potenti e precise teorie filosofiche che la contemporaneità abbia prodotto. La questione sollevata da questo uso politico della filosofia è, a mio giudizio, enorme e va ben oltre i semplici confini della buona o cattiva ermeneutica. La questione, direi, è innanzitutto politica. Ciò che si registra, se guardiamo alle piazze della protesta, è infatti la singolare convergenza che si è venuta a creare tra la critica dell’ideologia neoliberale – dunque qualcosa di molto leftish nella sua genealogia intellettuale – e la mobilitazione di masse spaventate che delirano complotti orditi da élites sataniche e che sognano palingenesi fasciste. Non c’era certo bisogno del Covid perché si avviasse questo processo di cui l’Italia è stata storicamente un laboratorio per tutto il Novecento. Il Covid lo ha però accelerato, facendo, come si suole dire, venire i nodi al pettine.
Tagliare questi nodi con il moralismo di chi si sente autorizzato a giudicare sommariamente mi pare un grave errore. I passi da compiere sono piuttosto due: innanzi tutto comprendere la fondatezza e, direi, l’immanente necessità della posizione agambeniana; poi, ed è il passo più importante, mostrare come tra le “virtù” del Covid sia da annoverare il fatto che ci costringe, volenti o nolenti, a riformulare diversamente il problema che Agamben, per coerenza intellettuale, non poteva non porre.
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Dopo il Virus: la Città che verrà e quella che vorremmo
di coltrane59
“Piuttosto che distribuire ai bambini un po ‘ di giocattoli, non dovremmo aiutarli ad uscire dal vaso di sabbia e a riconquistare la città?” ( Colin Ward – Il bambino nella città)
“Ci hanno mescolato le anime e ormai abbiamo tutti gli stessi pensieri. Noi aspettiamo, ma niente ci aspetta, né un’astronave, né un destino” (Gianni Celati – Verso la Foce).
La seconda ondata del Covid-19 sta lasciando sulla strada milioni di morti in tutto il mondo e le conseguenze economiche, sociali e culturali sono e saranno devastanti. A distanza di quasi un anno dall’inizio della pandemia non sono ancora state adottate le misure giuste per arginarla. In particolare l’Occidente, basta guardare l’Italia, sta dimostrando tutta la sua incapacità gestionale, politica e scientifica a costruire un modello di lotta al virus chiaro, efficace e omogeneo.
Ma finito questo momento drammatico cosa rimarrà delle nostre città? Cosa capiremo da questa grande lezione storica? Che tipo di memoria collettiva potrà nascere da queste rovine umane e culturali?
Sanità e territorio
La Pandemia ha messo in luce una serie di mancanze della situazione della sanità occidentale e soprattutto di quella italiana: quasi 70.000 morti al momento, carenza di medici e infermieri lasciati allo sbando, problemi di materiale sanitario, bombole, ossigeno, mascherine, mancanze di terapie intensive e di posti letto dovute ai tagli effettuati dalle politiche neo liberiste di governi presieduti dalla destra o dal centro sinistra.
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Prefazione a "Il marxismo di Gramsci"
di Fabio Frosini
È in uscita, con la casa editrice Red Star Press, il libro Il marxismo di Gramsci dell’argentino Juan Dal Maso: un’opera che dal 2017 ha costituito un significativo contributo in Argentina e in America Latina nel dibattito – molto ricco ed eterogeneo nel Cono Sur – sul marxismo e sui grandi temi politici legati all’opera di Antonio Gramsci e in particolare ai suoi Quaderni del Carcere.
Questo libro esce finalmente anche in italiano (dopo l’edizione in lingua portoghese) con una traduzione a cura della redazione della Voce delle Lotte, e per maggiori informazioni sull’acquisto invitiamo a scrivere alle nostre pagine sui social o alla nostra mail This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it..
Riproduciamo di seguito, come primo di molti materiali che proponiamo per lo studio e il dibattito attorno a questa opera, la prefazione a cura di Fabio Frosini, professore di Storia della filosofia all’Università di Urbino “Carlo Bo” autore di La religione dell’uomo moderno. Politica e verità nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci e di altri libri, membro della IGS- Italia e dell’equipe che sta curando una nuova edizione critica dei Quaderni.
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1. Questo libro tratta un argomento – Gramsci come “marxista” – importante e molto controverso. Infatti, nella quasi immensa quantità di interpretazioni di Gramsci, quest’ultimo è stato poco a poco allontanato dalla tradizione marxista. Da principio, si è sostenuto che si trattava di un marxista molto originale, quindi, che il suo era un marxismo radicalmente originale e innovativo; infine, si è parlato di Gramsci come di un post-marxista, o in alcuni casi come un autore che non ha nulla a che fare con il marxismo (essendo piuttosto riconducibile alla tradizione del pensiero liberale o, addirittura, cattolico).
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Il coefficiente di stupidità della Sinistra
di Tomasz Konicz
La stupidità è la miglior alleata dell'opportunismo di sinistra, la crisi attuale lo dimostra ancora una volta
Capitalismo o morte? In un'intervista pubblicata nel dicembre del 2019, il famoso marxista americano David Harvey ha reso assai chiaro, con una franchezza deprimente, in che cosa possa rapidamente degenerare la teoria di Marx, quando, dopo decenni, si continua ad ignorare in maniera sovrana la crisi sistemica, e di conseguenza non si dà forma ad un adeguato concetto di crisi [*1]. Rivoluzione? Una «fantasia comunista», oramai non viviamo più nel 19° secolo. Il capitale è «too big to fail», è diventato troppo necessario, e pertanto non possiamo permetterci il suo crollo. D'altra parte, le cose devono essere «mantenute in movimento», dal momento che in caso contrario «moriremmo quasi tutti di fame». E c'è bisogno anche che investiamo il nostro tempo per «rianimarlo», questo capitale, dice Harvey. Forse si potrebbe lavorare lentamente ad una riconfigurazione graduale del capitale, ma un «rovesciamento rivoluzionario» è qualcosa che «non può e non deve accadere»; e bisogna anche si lavori attivamente per fare in modo che non avvenga. Allo stesso tempo, alla fine il professore marxista ha osservato anche che il capitale è diventato «troppo grande, troppo mostruoso» per poter sopravvivere. Insomma, si tratterebbe di un «percorso suicida».
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Manifesto per la sovranità democratica
di Giulio Di Donato
Questo mondo colpevole, che solo compra, spettacolarizza e disprezza ci ha nauseati. Noi protestiamo in modo radicale. Lo facciamo con un clamore e una violenza rivoluzionaria perché la nostra critica verso la società patinata dell’indifferenza, degli inganni e della mercificazione universale è totale e intransigente. E di tutto siam capaci fuorché di attenerci all’ordine degradante dell’orda[1]
Suona paradossale, nelle settimane del distanziamento sociale e del ripiegamento solitario, presentare un testo che raccoglie gli esiti di un dialogo. Eppure questo tempo sospeso è stato anche il tempo in cui si sono creati e alimentati rapporti, affinate e precisate nuove idee, concepiti e realizzati nuovi progetti.
Oggi raccogliamo i frutti di questo intenso lavoro di semina: discuteremo infatti i temi teorici e politici trattati in questo prezioso volume dal titolo Contro Golia. Manifesto per la sovranità democratica, Rogas edizioni, frutto di un dialogo fra Gabriele Guzzi e il Prof. Geminello Preterossi. Questo testo inaugurerà una nuova collana di studi politici, “Inciampi”, diretta dallo stesso Preterossi, che impreziosirà il già ricco catalogo della Rogas edizioni, e andrà ad affiancarsi alle iniziative avviate e promosse sia da l’Indispensabile che da La Fionda (da segnalare l’uscita, sempre in questi giorni, del primo numero del cartaceo).
A discutere i contenuti di questo dialogo, assieme ai due protagonisti, ci sarà Vladimiro Giacché, autore di illuminanti saggi di argomento filosofico ed economico. La prima presentazione non poteva che partire da lui: non solo per le affinità e il legame di amicizia con il Prof. Preterossi, ma anche per la sua capacità di cogliere le implicazioni filosofiche e politiche dei fenomeni economici, collocando e inquadrando storicamente questi ultimi. Uno studioso, inoltre, che ha previsto con largo anticipo gli effetti della crisi che stiamo vivendo, le cui ragioni vanno ricercate nelle contraddizioni sistemiche del cosiddetto finanzcapitalismo globale e nei limiti strutturali del processo di integrazione europea.
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La strada meno percorsa. Appunti su comunismo e natura umana
di Antiper
“Due strade divergevano in un bosco ed io,
io presi quella meno percorsa
e questo ha fatto tutta la differenza”
Robert Frost, The road not taken [1]
È passato molto tempo dal Manifesto [2] ma del comunismo si continua a parlare; e molto, stando alle quotidiane dichiarazioni di morte di cui è oggetto. Evidentemente lo “spettro” – come ebbero a definirlo Marx ed Engels (e oggi il termine sembra ancor più appropriato, se è vero che della prospettiva del comunismo si dice che sia morta e sepolta) – sembra incutere ancora una certa qual inquietudine.
Non c’è da stupirsi, in fondo. I capitalisti (o quanto meno i loro “intellettuali organici”) sanno bene che il modo di produzione capitalistico genera le loro ricchezze, ma anche una serie di irrisolvibili contraddizioni; ed è proprio dentro queste contraddizioni, prima ancora che nella soggettiva consapevolezza degli uomini, che si costituiscono la possibilità e la necessità storica del “nuovo mondo”, del non ancora esistente.
Viviamo in una società in cui la maggior parte degli individui ha smesso di domandarsi quale sia il senso della propria esistenza e persino se debba esisterne uno. Ogni giorno ci muoviamo dentro un sistema di relazioni sociali che si è costituito nel corso di migliaia di anni e che abbiamo ereditato da ciò che è venuto prima di noi.
“Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione.
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La sinistra che trattiene
di Wolf Bukowski*
I. Il capitalismo come religione
Al prossimo capodanno, avvolto nel coprifuoco notturno, s’aprirà il genetliaco secolare, almeno secondo la datazione accettata, del frammento Kapitalismus als Religion di Walter Benjamin. Possiamo certamente confermare oggi, come si legge nel breve testo, che il capitalismo risponde alle «stesse ansie, pene e inquietudini a cui in passato davano risposta le cosiddette religioni». Nondimeno, adesso, quel passato di appartenenza religiosa, almeno per la maggioranza dei cittadini della parte di mondo che abitiamo, è ormai remoto e avvolto nella nebbia dell’indifferenza e, salvo per curiosità personale, dell’oblio. Dunque, qui e ora, la dimensione religiosa del capitalismo si regge da sola, emancipata dalle sue assonanze con le esperienze religiose storiche. In ciò si manifesta l’attualità mordente di Benjamin, che tratta del capitalismo come «fenomeno essenzialmente religioso» in senso pieno, e «non solo, come intende Weber, come […] formazione condizionata dalla religione», e il riferimento è qui ovviamente al Max autore de L’etica protestante e lo spirito del capitalismo.
Oggi forse ancor più di allora, proprio perché sgravato da ingombranti persistenze (quelle appunto delle religioni in senso storico), il capitalismo è religione altamente sincretica, opportunista, senza teologia e senza dogmi, se non quella e quelli relativi al proprio essere eterno ed eternamente adattabile al mutare delle condizioni.
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