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“Il concetto di Sinistra non ha più alcun senso”
Giovanni Zimisce intervista Guido Viale
Nel suo ultimo libro, l'ex leader di Lotta Continua tenta di redigere il vocabolario del tempo presente. Intervista su: lavoro (precario), sinistra (che non c'è), democrazia (in bilico), ecologia. "Ha stravinto la politica dei grandi interessi, basta vedere Trump..."
In rete gira ancora un video che s’intitola “Manifestazione per la liberazione di Guido Viale”. Siamo nel 1968. Università di Torino. A ‘fare il 68’, a Torino, davanti a tutti, c’è lui, Guido Viale. Classe 1943, nato a Tokyo, compleanno fra qualche giorno – il 20 novembre – “Guido Viale è stato – ed è, e rimane – l’autore di una delle cose più belle scritte in quell’anno. L’‘anno mirabile’. Cioè il ’68. L’articolo si intitolava Contro l’Università ed apparve nel numero 33 (febbraio 1968) della rivista Quaderni Piacentini. Contro l’Università – scriveva Viale dall’interno della Università di Torino occupata – che conferma e consolida i rapporti autoritari di classe: baroni contro studenti, studenti benestanti contro studenti nullatenenti. Contro quell’Università che contribuiva, sempre secondo Guido Viale, ad una cultura fatua e compiaciuta”. Questo è Beniamino Placido, su la Repubblica, parecchi anni fa, era il 1994. Quell’anno Viale aveva pubblicato per Feltrinelli Un mondo usa e getta. La civiltà dei rifiuti che lo aveva eletto a “filosofo ambientalista” (ancora Placido). Nel mezzo, Viale, insieme a Sofri, Pietrostefani, Rostagno, Deaglio, Boato, è stato tra i leader di Lotta Continua. “Nel Sessantotto il tentativo è stato quello di costruire una cultura alternativa dal basso.
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Il prevedibile fallimento del Brancaccio e le conseguenze da trarre
di Domenico Moro*
Il percorso partito dal teatro Bancaccio e che avrebbe dovuto dar luogo a una lista di sinistra alternativa al Pd, mettendo insieme la società civile e un ampio spettro di forze da Mdp a Sinistra italiana, Possibile e Partito della rifondazione comunista, è fallito. Mdp, Si e Possibile si sono riuniti per elaborare un loro documento escludendo Rifondazione, la quale ha valutato i contenuti del suddetto documento non coerenti con la formazione di una lista alternativa al Pd. A questo punto, Anna Falcone e Tomaso Montanari, i due promotori della assemblea del Brancaccio, hanno annullato l’assemblea prevista per il 18 novembre.
L’impasse era tutt’altro che imprevedibile. Ma quali ne sono le ragioni? Tomaso Montanari le rintraccia nella contrapposizione tra la forma partito e la società civile. In pratica i partiti, tutti i partiti che hanno partecipato al Brancaccio, avrebbero schiacciato le esigenze e la spontaneità della società civile. Si tratta di una posizione tutt’altro che nuova. Sono più di due decenni che si contrappongono i partiti alla società civile. In modo alquanto schematico, i primi sono identificati con il male, la seconda con il bene. I primi sono il vecchio, la “casta”, sempre corrotta e da rottamare, la seconda il nuovo da far emergere. Tuttavia, in questi anni, abbiamo visto come sono andate le cose e quale prova di sé abbiano dato la società civile e il nuovo (di solito rapidamente divenuto obsoleto) allorché si siano trasformati in classe politica.
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La fine del capitalismo, dieci scenari
Un libro di Giordano Sivini
di Rezens
Giordano Sivini, già professore di sociologia politica nella facoltà di economia dell’università della Calabria, pubblica con l’Editore Asterios La fine del capitalismo, dieci scenari. Vengono presentate le posizioni di studiosi che negli anni recenti hanno affrontato il problema, non di rado sostenendone l’inevitabilità. Si tratta di Arrighi, Wallerstein, Streeck, Harvey,Postone, Kurz, Gorz, Mason e Rifkin. Questa che segue è la Presentazione del libro.
C’è stata una parentesi nella storia del capitalismo in cui il sociale è riuscito ad emergere dall’economico. Aveva rilevanza, in quanto sociale, per il riconoscimento giuridico che lo stato gli attribuiva in forza della sua esistenza come popolazione disciplinata dal lavoro salariato. In funzione della mediazione con l’economico, lo stato aveva ricevuto legittimazione dal sociale. La democrazia, che come parvenza funzionava fin dall’800, era stata giuridicamente ridefinita in senso sostanziale con una articolazione istituzionale orientata a garantire il benessere del sociale. Le politiche economiche e fiscali, pur racchiuse in uno spazio definito dall’economico, realizzavano questo obiettivo attraverso la crescita e lo sviluppo. Agenti dello sviluppo erano le imprese regolate dallo stato, che interveniva sui processi economici stabilendo vincoli per il mercato, e sosteneva la domanda creando quel reddito aggiuntivo che il capitale non poteva o non voleva assicurare, permettendo la riproduzione delle condizioni di crescita e di sviluppo.
Questa parentesi è ormai chiusa, e se ne è aperta un’altra. Il sostegno dello stato alla domanda, come condizione di crescita e sviluppo, è venuto meno, e il sistema cerca di garantire l’offerta spingendo all’indebitamento e abbassando i prezzi mediante una infaticabile ristrutturazione del sistema produttivo.
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Caffè, la costituzione del lavoro, l'efficienza del mercato e la fabbrica di formaggio di Keynes
di Quarantotto
1. Come sappiamo, per via della interpretazione "autentica" di Caffè e Ruini (il cui contributo al modello economico accolto in Costituzione è fondamentale) la Costituzione italiana, del 1948, è coscientemente keynesiana: questa scelta non è senza conseguenze, poiché il modello economico, e dunque l'assetto socio-politico, conformato in Costituzione ha valore normativo supremo, cioè intangibile (il che, in termini, normativi significa "non suscettibile di revisione neppure costituzionale"), e quindi ineludibilmente vincolante per il plesso Governo-Parlamento.
Per questo ci pare interessante richiamare il pensiero di Caffè (maestro dai troppi allievi che "prendono le distanze", con pensieri, parole opere ed...omissioni), in questi tempi oscuri, in cui le elites "cosmopolite" (finanziarie e grande-industriali) che dominano il mercato (internazionalizzato), e che sotto la sua facciata nominalistica, "governano" (qui, p.8.1.), cioè decidono per tutta la comunità nazionale, sostituendosi alla sovranità popolare, con il fine inevitabile e strutturale di proteggere e massimizzare le rendite oligopolistiche di cui sono beneficiarie.
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La Rivoluzione d'Ottobre e i movimenti di liberazione nazionale
di Spartaco A. Puttini
A un secolo dall’assalto al palazzo d’Inverno cosa resta dell’Ottobre?
Cosa resta della rivoluzione russa, dopo il crollo dell’URSS e la dissoluzione del campo socialista? Dopo il collasso dei sistemi politici novecenteschi e la fine del compromesso tra capitale e lavoro che ha caratterizzato la seconda metà del XX secolo, in seguito alla vittoria sovietica nella seconda guerra mondiale e all’ombra della competizione bipolare?
A un primo sguardo sommario una risposta potrebbe essere “non molto”. Eppure molte delle conquiste che sono scaturite dal ’17, secondo un processo tortuoso e mai rettilineo, continuano a interessare il nostro mondo.
Una su tutte: il risveglio dei molti Sud del pianeta dalla colonizzazione di cui sono stati vittime nel ciclo storico imperialistico precedente la rivoluzione del ’17.
Come ha scritto lo storico britannico Geoffrey Barraclough, “Quando la storia della prima metà del ventesimo secolo […] verrà scritta in una più ampia prospettiva, è difficile che un solo tema si riveli più importante della rivolta contro l’Occidente”1.
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Ops, s’è rotto il giocattolo del Brancaccio
di Alessandro Avvisato
Non ci aveva convinto fin dall’inizio, e lo avevamo scritto subito. Troppo evidente il tentativo di creare una specie di “isola dei quasi famosi” – per motivi anche lodevolmente diversi – che avesse come punto di approdo una lista elettorale “competitiva col Pd, ma non chiusa a eventuali collaborazioni” con i miliziani di Renzi.
Cero, i discorsi erano stati più elevati, le critiche al renzismo quasi definitive, gli obiettivi ben più lontani nel tempo (ben oltre, insomma, l’orizzonte elettorale). Ma – conoscendo certa “sinistra italiana” (nel senso di sciagura, ovviamente) – non avevamo molti dubbi che la lista elettorale sarebbe stato l’alfa e l’omega intorno a cui questo ennesimo tentativo di evocare la mitica “società civile” si sarebbe inevitabilmente infranto.
Adesso ne ha dato l’annuncio ufficiale Tomaso Montanari, che apprezziamo sinceramente molto come critico e storico dell’arte ma poco credibile nella parte di “rifondatore” di quella melma impresentabile fatta di ex ministri che hanno privatizzato Telecom e fatto la guerra alla Jugoslavia (D’Alema), che hanno steso “lenzuolate” agli appetiti di imprenditori pronti a rivendere a pezzi il patrimonio industriale edificato con i soldi pubblici (Bersani), che hanno affossato scientemente l’immagine stessa dei comunisti (Vendola, Fratoianni, on alle spalle l’onda lunga di Bertinotti), che non hanno mai opposto una minima opposizione a “pacchetto Treu”, riforma delle pensioni (dalla Dini alla Fornero), Jobs Act, decontribuzione per i nuovi assunti (significa riduzione del salario “lordo”, per la parte “differita), decreti fascistoidi da stato di polizia (quelli a firma Orlando e Minniti) e chi più ne ricorda aggiunga pure.
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Karl Marx, la comune rurale e la questione russa
di Alessandro Visalli
Un interessante saggio di Pier Paolo Poggio, direttore della Fondazione Luigi Micheletti, pubblicato su Sinistrainrete, dal titolo “Marx sulla Russia”, consente di tornare sulla valutazione che il Marx maturo compie sul vasto movimento rivoluzionario russo che di lì a qualche decennio porterà alla rivoluzione del 05 e poi del 17. Ci sono da trenta a quaranta anni tra la lettera alla «Otecestvennye Zapiski», che è del 1877, e gli eventi rivoluzionari; una distanza pari a quella che ci divide da eventi come “via Fani”, o il compromesso storico che questa interrompe.
Nella lettera (che viene pubblicata solo dopo un decennio) e nella successiva lettera a Vera Zasulic, di cui abbiamo parlato nella lettura del libro di Marcello Musto “L’ultimo Marx” che è del 1881, prende posizione per la obšcina e la proprietà collettiva della terra. Ovvero, sposando anche tatticamente (contro Bakunin) la posizione di Cernyševskij, Marx tenta di connettere comunità ed individualità.
Il tema era, ed è, di enorme difficoltà, e viene infatti rimosso completamente dal “marxismo” che comincia a formarsi già negli ultimi anni di vita del filosofo di Treviri e si consoliderà nel marxismo-leninismo dopo l’esperienza di radicale rottura del ‘17.
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Lavoro, non lavoro, gratuità
Su precarietà e rifiuto del lavoro
di Anna Curcio
Per affrontare il tema del rifiuto del lavoro e discutere la sua attualità vorrei innanzitutto provare a definire l’oggetto della riflessione, ovvero provare a rispondere alla domanda: di cosa parliamo quando diciamo rifiuto del lavoro? La domanda, tutt’altro che retorica, muove da due esigenze tra loro complementari: la prima, di carattere metodologico, ha a che fare con un’esigenza definitoria che accompagna o dovrebbe accompagnare ogni esercizio analitico; l’altra, su un piano evidentemente differente, risponde a una necessità di carattere politico che intende mettere a critica il vizio lavorista di questa società, compresa la (o meglio a partire dalla) sinistra. Nel senso che resta forte l’esigenza anche a sinistra, tanto che ci si trovi davanti a interlocutori informati tanto che si abbia a che fare con interlocutori non politicamente formati e informati, di sgomberare il campo da quell’idea che associa il rifiuto del lavoro alla pigrizia e a un atteggiamento parassitario sulla società.
In secondo luogo vorrei in queste brevi note provare a discutere di rifiuto del lavoro al tempo della precarietà e del lavoro gratuito, per provare a tratteggiare possibili piste di inchiesta all’altezza delle sfida che le trasformazioni produttive e del lavoro oggi ci pongono.
Lavoro e attività
«Credi davvero che il mondo possa funzionare se tutti rifiutassimo il lavoro?»
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La Rivoluzione d'Ottobre
di China Miéville*
L’alba del 25 si avvicinava. Kerensky, disperato, lanciò un appello ai cosacchi «in nome della libertà, dell’onore e della gloria del nostro Paese natio […] per venire in aiuto del Comitato centrale esecutivo del soviet, della democrazia rivoluzionaria e del governo provvisorio, e per salvare lo Stato russo morente».
Ma i cosacchi volevano sapere se la fanteria stesse arrivando. La riposta del governo fu evasiva, e allora tutti, ad eccezione di pochi fedelissimi, risposero che non erano disposti ad agire da soli «facendo da bersagli viventi».
Ripetutamente, in diversi punti della città, il Comitato militare rivoluzionario (Cmr) disarmava senza colpo ferire le guardie fedeli al governo, invitandole semplicemente a tornarsene a casa. Nella maggior parte dei casi, esse obbedirono. Gli insorti occuparono il Palazzo dei genieri semplicemente entrandovi. «Entrarono e si misero a sedere, mentre quelli che erano seduti si alzarono e se ne andarono», secondo un aneddoto. Alle sei del mattino quaranta marinai rivoluzionari si diressero verso la Banca di Stato di Pietrogrado, le cui guardie, del reggimento Semenovsky, si erano dichiarate neutrali: avrebbero difeso la banca da rapinatori e criminali, ma non avrebbero preso posizione tra reazione e rivoluzione, né sarebbero intervenuti. Si fecero allora da parte e lasciarono che il Cmr prendesse il loro posto.
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C’è disagio e disagio!
Alcune riflessioni sulla Teoria della classe disagiata
di Sebastiano Isaia
Che sospendendo il lavoro, non dico per un anno,
ma solo per un paio di settimane, ogni nazione
creperebbe, è una cosa che ogni bambino sa.
Karl Marx
Amico, non fare il sogno più lungo del tuo conto in banca!
Il Nostromo
Penso che le due citazioni in epigrafe colgano molto bene lo spirito del brillante saggio di Raffaele Alberto Ventura Teoria della classe disagiata (minimum fax, 2017), almeno per quello che ho potuto ascoltare dalla viva voce dell’autore (ero presente alla presentazione del libro fatta al Teatro Coppola di Catania), dalle pagine del libro che circolano sul Web e sulla scorta delle molte recensioni (alcune davvero interessanti, altre assai meno) che hanno avuto per oggetto questo saggio di successo. Ebbene sì, non ho ancora letto il libro.
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La rivoluzione d'Ottobre continua
di Bruno Casati
L’insurrezione in Russia dell’Ottobre di 100 anni fa fu l’atto conclusivo, liberatorio, di un lungo processo rivoluzionario. Un processo che si apre e si chiude a Pietrogrado, la capitale dell’impero, e poi dilaga nell’immenso paese.
Si apre nel 1905 in quella che passò come “la domenica di sangue” quando, davanti al Palazzo dello Zar, i soldati massacrarono il popolo inerme che chiedeva pane, pace e libertà. Migliaia i morti e i feriti in quell’eccidio spaventoso voluto dall’autocrazia che da oltre tre secoli opprimeva i cittadini russi che, quel giorno, supplicavano lo Zar, ingenuamente chiedendogli di rinunciare ad essere quel che era (questa prima parte dell’articolo è liberamente estratta da alcune pagine del recente libro di Angelo D’Orsi “1917, l’anno della Rivoluzione” Editore Laterza). Ingenuità del popolo, stolta crudeltà dello Zar. Ma è proprio in quel giorno tragico, che si ripeterà mesi dopo a Mosca, che si avvia la Rivoluzione Russa. Una rivoluzione che non dispone né di una guida, ne di una strategia: è un Movimento. E tale resta anche 12 anni dopo quando, nel Marzo 1917, ancora il popolo di Pietrogrado in rivolta, sempre per il pane, la pace e la libertà, si trova di nuovo schierati davanti i soldati dello Zar che, questa la novità, si rifiutano di sparare e si ammutinano: “la guarnigione della capitale ha issato la bandiera rossa”, così Leone Trotsky nella sua fondamentale “Storia della Rivoluzione Russa”.
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Medioriente, quel che si vorrebbe e quel che purtroppo è
Stavolta davvero verso un’altra guerra
di Fulvio Grimaldi
Partiamo con una notizia esaltante. Liberata Abu Kamal, città al confine siro-iracheno, dalla vittoria congiunta dell'Esercito Libero Siriano e dalle truppe irachene, esercito e Forze di Mobilitazione Popolare. Una vittoria di altissimo valore simbolico, che vede uniti due paesi che l'imperialismo-sionismo, insieme ai clienti satrapi del Golfo, avevano tentato di distruggere. Un nuovo inizio di unità nazionale araba con il concorso della Russia, dell'Iran e delle forze antimperialiste libanesi. Che questa, per oggi, ci paia l'unica notizia buona non diminuisce la nostra gioia e gratitudine.
E’ un antico vezzo di intellettuali, tra cui carissimi amici di notevole livello teorico, attenti alle profondità degli eventi e, come insegnava Montessori, ai dettagli e alle connessioni (vedere gli alberi nel bosco), quello di cucire un vestito e metterlo addosso al soggetto di cui trattano, convinti che gli stia bene, benché una manica sia corta e le spalle caschino. Succede in particolare da chi scatta dagli stessi blocchi di partenza, anche quando sono cambiati, anche quando non ci sono proprio. Tipo Stati Uniti democrazia liberatrice, o URSS comunque dalla parte di classi e nazioni oppresse.
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L'ascesa del denaro al cielo
di Robert Kurz
I limiti strutturali della valorizzazione del capitale, il capitalismo da casinò e la crisi finanziaria globale
1. Capitale reale e capitale produttivo d’interesse
Delle molte strutture schizoidi del mondo moderno fa parte anche il rapporto contradditorio tra lavoro e denaro. Il lavoro come dispendio astratto di energia umana nel processo di razionalità aziendale, e il denaro come forma fenomenica del "valore" economico così prodotto (cioè di una fantasmagoria feticistica della coscienza sociale oggettivata), sono due lati della stessa medaglia. Nel processo capitalistico autoreferenziale, che consiste in un’accumulazione incessantemente accresciuta di tale mezzo feticistico, il denaro rappresenta o "è" nient’altro che "lavoro morto", al quale l’astrazione reale conferisce l’aspetto di una cosa. L’umano "ricambio organico con la natura" (Marx) è diventato un dispendio di forza-lavoro, astratto e di per sé insensato, proprio perché nella forma feticistica potenziata, cioè nel capitale, il denaro si è autonomizzato di fronte all’attore umano: non è il bisogno umano a regolare il dispendio di energia; al contrario, è la forma "morta" dell’energia spesa, la forma autonomizzata nelle cose, ad aver sottomesso a sé la soddisfazione dei bisogni umani. Il rapporto con la natura, così come i rapporti sociali, sono diventati puri e semplici processi di passaggio per la "valorizzazione di denaro".
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USA, un simulacro di democrazia
di John Steppling
Questo articolo di Counterpunch denuncia apertamente gli USA come una democrazia finta, votata al dominio militare e capace di tenere soggiogata o destabilizzare buona parte del mondo. Per affrontare la situazione occorre però riconoscere che questo processo non è nato con Trump, ma è in atto da decenni. Lo stesso Obama, proprio perché godeva di credito tra il popolo, è stato particolarmente efficace nel portarlo avanti con grandi danni per la classe media e immensi guadagni per i ricchissimi
Non riesco a ricordare alcun momento storico in cui la cultura USA sia stata così compromessa come oggi dal controllo della classe dominante. Hollywood sforna un film razzista o sciovinista o guerrafondaio dopo l’altro. I notiziari sono completamente controllati dalle stesse forze che dirigono Hollywood. La classe liberale ha completamente capitolato di fronte agli interessi di una élite USA sempre più fascista. Tutto questo non è iniziato con Donald Trump. Quantomeno bisogna risalire a Bill Clinton, e in realtà bisogna andare indietro alla fine della Seconda guerra mondiale. La traiettoria ideologica si è formata sotto i fratelli Dulles (uno ex segretario di stato degli USA e l’altro direttore civile della CIA a partire dagli anni ’50, NdVdE) e il complesso industriale militare – che rappresenta gli interessi degli affaristi USA ed esprime l’esigenza di egemonia globale. Ma una volta collassata l’Unione Sovietica, il progetto ha accelerato e si è intensificato.
Un’altra origine può essere identificata con l’operazione fallimentare della Baia dei Porci del 1960, o con l’assassinio di Patrice Lumumba da parte della CIA (e del MI6) nel 1961. Oppure con il discorso di Kennedy del 1962 all’Università Americana che chiedeva la fine della “Pax americana”.
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“Ritorno a casa”
di Elisabetta Teghil
Se è doveroso studiare il destino degli ebrei europei a livello locale, regionale e nazionale, sotto la pressione e la persecuzione nazista nei diversi campi di concentramento e di sterminio è altrettanto necessario raccontare delle altre vittime, prigionieri di guerra slavi, zingari, malati mentali, omosessuali perché ci si renda conto che la politica antisemita fa parte di una politica di dimensioni ben più ampie e naturalmente raccontare l’atteggiamento delle popolazioni “legittime”, vale a dire la così detta “gente normale”. Questo perché tutto ciò faceva parte del progetto nazista di rimodellamento razziale del continente, inseparabile dalla volontà di trasformazione economica, sociale e demografica.
La popolazione divenne una variabile in cui i dirigenti nazisti intendevano intervenire trapiantando, sterilizzando, sterminando tutto quanto fosse considerato necessario per garantire ad un popolo “superiore” il “suo spazio vitale” ed un livello di vita ottimale.
Il genocidio non è il frutto avvelenato di un gruppo di fanatici, ma è stato concepito ed è stato possibile realizzarlo con il concorso di tante figure, economisti, sociologi, geografi, demografi, urbanisti, biologi, medici…tutta una pletora di segmenti sociali che popolavano i livelli intermedi dell’apparato compresi i lavoratori e la gente che viveva intorno ai campi e al loro servizio la cui partecipazione al programma nazista mette in evidenza fino a che punto fu il risultato di contributi diversi spesso parcellizzati che non solo si sono sommati fra loro, ma si sono amalgamati e sono stati portati a sintesi.
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Samir Amin, “La crisi”
di Alessandro Visalli
Il libro di Samir Amin, “La crisi”, del 2009, il cui sottotitolo è “Uscire dalla crisi del capitalismo o uscire dal capitalismo in crisi?” conclude per ora la lettura di alcuni testi dell’economista egiziano che ha visto prima il suo testo del 1973 “Lo sviluppo ineguale”, poi il libro del 1999 “Oltre la mondializzazione”, e quello del 2006 “Per un mondo multipolare”. Dieci anni dopo abbiamo letto l’intervento “La sovranità popolare unico antidoto all’offensiva del capitale”, nel quale la pluridecennale riflessione dell’alfiere della liberazione terzomondista e instancabile denunciatore della polarizzazione generata dallo sviluppo capitalista perviene alla determinazione, apparentemente di chiave tattica, di dover far leva sulle lotte nazionali e popolari, punto per punto, dai luoghi più deboli. Il riscatto deve, cioè, pervenire dai luoghi in cui la contraddizione tra la promessa di prosperità e la realtà di assoggettamento e alienazione è più ampia. Ciò che bisogna combattere è una tendenza intrinseca al capitalismo, al quale non è riconosciuta alcuna capacità emancipatoria o di sviluppo delle forze produttive: quella di schiacciare le periferie, creandole come tali. Creandole in quanto periferie, rispetto ai centri dominanti nei quali il capitale si concentra e dalle quali domina, accade che la logica intrinseca della macchina produttiva (di valore) tende quindi continuamente a fare della natura (e degli uomini) risorse e per questo ad estrarle, ad alienarle.
Per contrastare questa tendenza, dice Amin, non bisogna aspettare che una qualche contromeccanica automatica intervenga a salvarci: bisogna prendere il potere. Occorre, cioè, lottare per il potere. Costringerlo a fare i conti con le forze popolari, schiacciate, ma che vogliono rivendicare il proprio.
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100 anni dopo. Ascesa e crisi del movimento comunista internazionale nel ‘900
di Francesco Piccioni
A 100 anni dalla Rivoluzione d’Ottobre, ci sembra utile accompagnare il ricordo per la prima e straordinaria vittoria duratura della Rivoluzione con una riflessione che non si nasconde quel che è accaduto dopo. Ma che, al tempo stesso, non cade nel vecchio vizio di andare a “trovare l’errore decisivo” nel comportamento di Tizio o Caio o addirittura – come fanno i pentiti di ogni epoca – nell’idea stessa di Rivoluzione. Viene tracciata un’ipotesi di ricerca storiografica, certamente complessa ma almeno all’altezza dell’oggetto.
A voi l’intervento elaborato da Francesco Piccioni per il convegno ‘Il vecchio muore ma il nuovo non può nascere’, a dicembre 2016.
* * * *
Idee per un programma di ricerca
Se si guarda alla storia del movimento comunista, oggi, l’impressione è spesso quella di trovarsi davanti a un deserto di macerie. In cui vagano alcuni fantasmi che, se si incontrano, si mandano a quel paese…
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C'era una volta la favola...
di Alberto Bagnai
Prefazione a Il Pedante: La crisi narrata, Imprimatur, 2017
(...come forse saprete, e questa è la prefazione...)
C’era una volta... – Una regina! – diranno subito i miei lettori, per evitare gli strali del politicamente corretto, che trafiggerebbero senza remissione chi, cedendo a un impulso sessista, avesse d’istinto pensato al più classico “re”. No, cari amici: c’era una volta la favola, “breve vicenda il cui fine è far comprendere in modo piano una verità morale” (come riporta Google...). Ecco: questa era la favola. Si sapeva cosa fosse, si sapeva a cosa servisse: a proporre (e se del caso imporre) al destinatario una “verità morale”, che poi significa: a decidere chi fosse buono (e meritasse una ricompensa) e chi fosse cattivo (e meritasse un castigo). I genitori, o i nonni (e, naturalmente, le nonne) raccontavano favole ai bambini per farli diventare “buoni” proponendo loro esempi “virtuosi”, o almeno per farli addormentare cullandoli con la nenia di un resoconto confortevole nella sua prevedibilità. Due obiettivi (ammansire o addormentare) che, per chi gestisce il potere a qualsiasi livello (dalla famiglia all’impero), sono sostanzialmente equivalenti: entrambi assicurano che il manovratore non venga disturbato.
C’era una volta la favola, e oggi non c’è più.
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Comunismo interiore
di Francesco Pecoraro
[Cento anni fa, nella notte fra il 6 e il 7 novembre 2017, cominciava la Rivoluzione d’Ottobre]
Per molti anni (ancora adesso è così) la Rivoluzione d’Ottobre è stata per me solo un pacchetto dis-articolato di immagini, neanche tanto nutrito, ma molto impressionante, collegato a un pacchetto di parole, frasi, slogan, libri da leggere mai letti, spesso comprati annusati aperti e furiosamente sotto-lineati, magari fino a pagina 15, e poi richiusi per sempre, perché mi sembravano difficili oppure troppo sollecitanti o troppo veri.
Anche la Rivoluzione del ’17 era troppo, troppo di tutto, un troppo inconcepibile, un risultato unico & inaudito & mai più ripetibile: tutto era stato fatto con incredibile fluida semplicità: fare fuori gli avversari interni al partito, fare fuori gli avversari esterni, fucilare lo Zar, porre fine alla guerra e poi, nella mia confusione di allora (e di adesso) diventare gradualmente tutti uguali, nel senso di spartirsi le risorse equamente e secondo giustizia in un processo che avrebbe dovuto condurre una volta per tutte al completamento della Rivoluzione Francese, cioè al regno di Égalité, che però, una volta insediatasi, avrebbe automaticamente comportato la soppressione di Liberté.
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Il circuito del capitale
di Tony Norfield
Questo articolo si basa su un saggio scritto ormai più di trent’anni fa. Saggio che, con alcune modifiche stilistiche minori, una conclusione rivista e qualche aggiornamento alle note, ripropongo qui come contributo alla comprensione del Capitale di Marx. Le note a piè di pagina sono numerose, in molti casi fanno riferimento sia a pagine specifiche di un’edizione del Capitale che alla collocazione precisa di un passo all’interno di un capitolo. Questo al fine di agevolare il lettore nel rintracciare i riferimenti in altre edizioni e nelle risorse online (specialmente l’ottimo Marxist Internet Archive, [per la traduzione italiana, in riferimento al Capitale, si rimanda al sito CriticaMente, n.d.t.]).
Dei tre libri del Capitale di Marx, il secondo, dedicato al processo di circolazione del capitale, è il più trascurato. Laddove ha riscosso una qualche attenzione, come riguardo all’utilizzo degli schemi di riproduzione per analizzare la “trasformazione” dei valori in prezzi di produzione, è stato spesso frainteso [1]. La prima sezione di questo saggio delinea il rapporto metodologico fra i tre libri del Capitale; la seconda affronta in modo più ampio gli argomenti del secondo libro e la sua relazione col primo.
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L’alternanza scuola-lavoro e la lotta di classe rovesciata
di Danilo Del Bello
Le ultime mobilitazioni studentesche contro l’alternanza scuola-lavoro hanno avuto una grande risonanza mediatica, anche a livello internazionale, al di là dei numeri di studenti effettivamente mobilitati.
Per quale motivo?
È evidente che in questo caso entra in gioco la centralità della contraddizione tra formazione, lavoro e capitale, la sua qualità strategica per i movimenti, da una parte, per il dominio di classe ordo-liberista dall’altra. Un campo di battaglia fondamentale, su cui è necessario e possibile, ancora una volta, sviluppare autonomia, rapporti di forza, percorsi di liberazione sociale. La posta in gioco è altissima e bene lo hanno compreso i governi liberisti, i media, le nuove forme di comando e sfruttamento del capitale post-fordista, con tutti i suoi apparati egemonici.
In realtà, proprio su questo nodo, la formazione della soggettività funzionale ed addomesticata ai nuovi meccanismi di accumulazione ed estrazione di plusvalore si rivela fino in fondo l’essenza della Buona Scuola.
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Costituzione italiana versus architettura attuale della UE
di Andrea Catone
Testo presentato al Forum «Cina e Ue. I nodi politici ed economici nell’orizzonte della “nuova via della seta” e di una “nuova mondializzazione”», Roma, 13 ottobre 2017
Perché introdurre in questo IV forum europeo dedicato ai rapporti Cina-UE nel quadro della via della seta e della nuova globalizzazione il tema della Costituzione italiana? A prima vista può apparire fuori luogo rispetto al tema centrale.
In questo forum, gli studiosi italiani intendono fornire agli studiosi cinesi, in una pluralità di valutazioni e analisi, elementi di conoscenza critica sulla Ue, sulla sua crisi attuale e sull’origine di tale crisi. Da parte mia proverò ad individuare una possibile linea che porti ad affrontare in senso progressivo questa crisi. E in questo la Costituzione italiana può fornire una bussola fondamentale.
Che la Ue sia in crisi, che vi siano diversi elementi di criticità nella sua costruzione, credo che sia incontestabile. E credo si possa anche affermare che tale crisi non è contingente o passeggera, ma radicale, insita in profondità nelle radici stesse della costruzione europea. Gli ultimi discorsi trionfalistici sul cammino della Ue con il suo grande allargamento ad est li abbiamo ascoltati nel 2007, quando entrano a far parte della Ue, dopo il folto ingresso del 2004 di Polonia, Ungheria, Repubblica ceca, Slovacchia, repubbliche baltiche, gli altri due paesi ex socialisti, Bulgaria e Romania.
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“Lavoro mentale e classe operaia”
Le categorie di Marx applicate al capitalismo del XXI secolo
di Paolo Plona
Il testo che segue, elaborato a partire da “Lavoro mentale e classe operaia” di Guglielmo Carchedi, costituisce il tentativo di sviluppare un punto di vista politico sull’argomento. Per questo abbiamo organizzato la presentazione di tale saggio dentro lo spazio occupato “Ci Siamo”, in via Esterle a Milano, come parte delle attività che vede coinvolta la Rete Solidale insieme ad un gruppo di immigrati arabi e africani, in un percorso di lotta sulle tematiche dell’immigrazione e del lavoro.
Portare questo dibattito all’interno di tale realtà non è stato semplice. Questo ci ha permesso un originale esperimento: provare a parlare, all’interno della scuola popolare di italiano che si tiene in quella sede, di alcune categorie base della teoria marxista, rendendole semplici e comprensibili, adatte ad essere oggetto di un dibattito tra italiani e immigrati. Il tutto tradotto simultaneamente in tre lingue, inglese francese ed arabo. I risultati di questo momento “propedeutico” hanno di gran lunga superato ogni aspettativa. Siamo partiti dall’esempio concreto del bracciante agricolo raccoglitore di frutta, per definire parole come “sfruttamento”, “plusvalore”, “capitalista”, “proletariato”. Da questa base abbiamo parlato degli effetti della meccanizzazione, della competizione al ribasso tra lavoratori, delle delocalizzazioni, dei licenziamenti, dello sciopero e delle lotte.
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“Devono imparare ad obbedire”
Lo stage: lavoro coatto gratuito en travesti
di Alessandro Mantovani
Rossana Cillo (a cura di), Nuove frontiere della precarietà del lavoro, Stage, tirocini e lavoro degli studenti universitari, Venezia, Ed. Ca’ Foscari, 2017, pp.296, free access
La risposta di Renzi allo sciopero con cui gli studenti, venerdì 13 ottobre, sono scesi in piazza in tutta Italia per protestare contro le forche caudine della cosiddetta “alternanza scuola-lavoro” introdotta obbligatoriamente dalle regole della sedicente “buona-scuola”, non si è fatta attendere: ha proposto che il servizio civile, attualmente volontario, divenga obbligatorio, per un mese, per tutti i giovani. Una contromossa, come si vede, che suona come provocatoria verso le richieste del movimento studentesco.
A questo punto, quello curato dalla Cillo è un libro necessario. Le analisi che i diversi autori presentano, e che costituiscono il primo approccio scientifico ad un mondo ancora in larga misura sconosciuto, diventano infatti in questo contesto un’arma contro l’ignobile retorica sulla “formazione” di competenze atte a risolvere il problema della disoccupazione giovanile con cui questo cinico abuso della forza lavoro viene paludato. Malgrado tutte le difficoltà nel reperire i dati, che nessuno ha interesse a raccogliere e soprattutto divulgare, difficoltà che gli autori non sottacciono, il volume riesce nell’impresa di fornirci un quadro sufficientemente ampio e chiaro della dimensione del fenomeno e delle modalità con cui irreggimenta masse crescenti di giovani dietro il miraggio di un accesso al mondo del lavoro.
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Referendum Veneto-Lombardia: cosa porterà ai lavoratori la vittoria del sì?
Comitato di sostegno ai lavoratori Fincantieri
Comitato permanente contro le guerre e il razzismo
Due note sui risultati dei referendum in Veneto e Lombardia, senza ripetere quanto abbiamo già detto in precedenti prese di posizione.
1. L'esito del voto era scontato, dato che l'intero arco delle forze istituzionali era a favore del Sì (con lievi mal di pancia nel Pd e in Fratelli d'Italia). L'analisi del voto dice che la prospettiva autonomista ha più consenso in Veneto che in Lombardia, più seguito nei comuni minori e periferici che nelle città, e soprattutto nella sola metropoli dell'area (Milano). A favore di questo risultato hanno giocato fattori storici, economici (la crisi ha colpito più duro in Veneto che in Lombardia, e lo scontento sociale è più diffuso) e culturali - le linee di fuga localiste e regionaliste hanno maggiore presa là dove minore è il contatto diretto con il capitalismo globale, e più forte resta la illusione antistorica di poter vivere meglio "chiusi". Almeno in Veneto, poi, hanno avuto il loro peso sul risultato il nettissimo schieramento per il Sì delle strutture della Chiesa cattolica, e un sentimento di rivalsa venetista nei confronti dei 'lombardi' presente dentro la Lega e nelle piccole ma attive aree autonomiste-indipendentiste. Insomma: il passato pesa come un incubo sul cervello dei viventi.
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