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Il rivoluzionario conservatore
di Alberto Burgio
Ricordando Cesare Cases a due anni dalla morte (avvenuta a Firenze il 28 luglio del 2005), Claudio Magris ebbe a dire che la sua vita e la sua opera sono «un capitolo della nostra storia e del nostro destino». Queste parole non mi è mai riuscito di dimenticarle. Di quanti si potrebbe affermare altrettanto? E perché a proposito di Cases è possibile, persino necessario? Un capitolo «della nostra storia»: della nostra formazione, di un itinerario di letture e di pensieri e di esperienze che in altri tempi si sarebbero dette «spirituali». Fin qui ci siamo.
Totalità aperta
Chi negli anni '70 aveva già - se non proprio il ben dell'intelletto - strumenti per decifrare pagine impervie, era certo di trovare pane per i suoi denti in quelle di Cases, disseminate tra le riviste e i giornali, un tempo numerosi, della sinistra italiana (da «Passato e presente» a «Lotta continua», dal «manifesto» a «Nuovi Argomenti», ai «Quaderni piacentini»). Pane e companatico: ricco di idee e di sfide «intellettuali e morali», di suggestioni e insegnamenti. E, perché no, di battute al vetriolo: urticanti, gratuite e irresistibili, epiche addirittura, come quella che demolì - così mi parve allora e credo tuttora - il povero Soldati, innalzato, dopo una stroncatura tombale dell'Attore (libro, anzi «fumettone», di una «noia mortale e teologica»), a paradigma d'insignificanza: onde Primo Levi sarebbe stato pienamente assolto, dopo Se questo è un uomo e La tregua, «anche se per il resto della sua vita fosse vissuto di conferenze all'Aci sui Lager o avesse scritto un romanzo di Mario Soldati».
Ma un capitolo «del nostro destino» perché? Ignoro cosa Magris intendesse: so finalmente, in qualche misura, cosa queste parole abbiano ridestato in me, da allora sospingendomi, con un'insistenza sempre premiata, verso un lascito inestimabile e, non per caso, pressoché dimenticato.
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Società e individuo da una prospettiva psicoanalitica: identità di una crisi
Emanuela Mangione
Si può parlare oggi di una genesi sociale del narcisismo? Questa è una delle tematiche intorno a cui filosofi, psicoanalisti, ma anche economisti e politici si stanno interrogando; essenzialmente la questione riguarda le possibili connessioni tra l’attuale sistema sociale ed economico e certe patologie di tipo prevalentemente narcisistico, con aree sintomatiche in cui il protagonista risulta essere sempre più il corpo e le scissioni corpo mente.
A tale proposito mi sembra calzante l’espressione“liquidità del soggetto in una società liquida” (Garella,congresso SPI 2012). Una società, quella della postmodernità, che sembra porre l’individuo all’interno di una accelerazione costante alla ricerca di scommesse continue in cui impegnare il proprio futuro, in una sorta di surf dettato dall’imperativo etico di tenersi sempre sulla cresta dell’onda. Un narcisismo individuale imperante spinge la macchina del mondo umano a funzionare non tanto per realizzare un progetto, bensì per produrre una perpetuazione di se stessa attraverso un investimento asettico e senza fine che corrode i caratteri individuali, consumando le potenzialità della propria vita.
Da un punto di vista psicoanalitico è come se si configurasse un assetto simile a quello di una “patologia narcisistica da difetto” contraddistinta dalla carenza di quel “narcisismo minimo vitale” o “necessario” (Bolognini, 2008) le cui carenze possono limitare la capacità di accettare ed amare il proprio sé, sia nei riguardi di se stessi, che degli altri.
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L’industria culturale di Fortini e l’industria cinematografica di Pasolini
La mutazione degli strumenti intellettuali
Roberta Cordisco
1.
Durante gli anni del boom economico e della rivoluzione dei consumi Pasolini e Fortini ne hanno inquadrato gli effetti nelle ormai note categorie di “mutazione antropologica” e “surrealismo di massa”. Spesso si è discusso sulle ripercussioni che il moderno capitalismo ha avuto in ambito sociale ma è interessante, sempre attraverso questi due autori, esaminare il problema da un’altra prospettiva, ossia quella che si sofferma a riflettere sugli sconvolgimenti che la mutazione ha operato anche all’interno della produzione culturale e del lavoro intellettuale.
In molte pagine della saggistica di Franco Fortini risuonano le note francofortesi della critica alla cosiddetta industria culturale. È fondamentale capire l’influenza che tale nozione esercita sull’analisi di Fortini anche per coglierne un’importante differenza con la critica di Pasolini. Quest’ultimo ebbe sempre «un atteggiamento di rifiuto e di ignoranza procurata nei confronti della critica della cultura e della industria culturale»1 poiché essa lo avrebbe costretto al compito spiacevole di «una critica dei propri strumenti di comunicazione che prevedeva paralizzante »2.
Così Fortini coglie il punto esatto in cui la teoria dell’amico cade in contraddizione: è vero che Pasolini denuncia la minaccia di un «Potere senza volto» e invita a combatterlo, ma il suo grido d’allerta promana dalle strutture comunicative interne a quello stesso Potere. Egli è sceso a patti con le logiche del mercato letterario e dei nuovi strumenti di comunicazione di massa, per questo non può che criticare il sistema capitalistico rimanendo in parte impigliato alle sue reti.
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Il disagio della cultura
di Tonino Bucci
Il disagio della cultura è uno dei tratti paradossali della società contemporanea. Il degrado delle istituzioni culturali e le politiche di tagli di bilancio a scuola, università, ricerca, musei, archivi, teatri, cinema ed editoria, è solo un lato del problema. Prima ancora di essere erosa dalle logiche di contabilità dei governi, la cultura è oggi messa a rischio dal venir meno della legittimazione di cui godeva in passato e dal discredito del suo ruolo nella comunità. Tramontata la stagione dell'engagement, da un lato, e dell'universalismo dei valori, dall'altro, il segno più evidente della decadenza culturale è proprio la trasformazione del ruolo degli intellettuali – ammesso che in un tempo di profonda rivoluzione delle professioni cognitive si possa ancora parlare degli intellettuali come di un ceto sociale. Seconda un'efficace formula di Zygmunt Bauman, l'intellettuale contemporaneo sarebbe passato dalla funzione di legislatore a quella di interprete. Quella figura di intellettuale che in passato, a torto o a ragione, poteva accreditarsi agli occhi della società come portavoce di istanze universali, capace di indicare ideali e modelli per l'avvenire, ha oggi abbandonato il campo a vantaggio di una nuova schiera di professionisti della comunicazione.
L'intellettuale dei nostri giorni non ha verità alle quali legare il proprio destino, ma solo opinioni candidate, di volta in volta, a incarnare le mode dei tempi e destinate a essere accantonate non appena sorgano opinioni concorrenti più in sintonia con lo spirito dominante. Alla cultura che ambiva ad esprimere l'universalità del genere umano si sostituisce oggi una sorta di marketing delle idee da utilizzare disinvoltamente a seconda delle opportunità e delle convenienze. Ai nuovi intellettuali – ma forse sarebbe meglio parlare di intellettualoidi, sulle orme della definizione di Corinne Maier1 – si addice il ruolo non più di legislatori, ma di interpreti, di traduttori a uso e consumo del grande pubblico delle idee dominanti e funzionali al potere e ai gruppi sociali più influenti: traduttori che prediligono perlopiù il linguaggio orale e delle immagini, quello più congeniale agli studi televisivi.
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Le pieghe del mondo
Fabio Ciriachi
Non ho conosciuto di persona Franco Fortini, a parte una volta, ad Arezzo, nell’88, quando ha accettato di partecipare alla rassegna di poesie “Confluenze”. Nel corso degli anni, però, ho letto molti suoi libri che qui elenco tanto per stabilire, fin da subito, una possibile bibliografia comune.
SAGGI: Verifica dei poteri, Garzanti, 1974; Questioni di frontiera, Einaudi, 1977; L’ospite ingrato - Primo e secondo, Marietti, 1985; Insistenze, Einaudi, 1985; Saggi italiani 1, Garzanti, 1987; Nuovi saggi italiani 2, Garzanti, 1987; Extrema ratio, Garzanti, 1990; Non solo oggi, Editori Riuniti, 1991; Attraverso Pasolini, Einaudi, 1993; Breve secondo Novecento, Manni, 1996; Disobbedienze 1, Manifestolibri, 1997; Un dialogo ininterrotto - Interviste 1952-1994, Bollati Boringhieri, 2003.
Per ridurre la mia incolmabile distanza dalla forza mentale di Franco Fortini, vera e propria voragine che mi rende difficile tradurne la ricchezza teorica a un livello di quotidiana applicabilità politica, mi gioverò dell’aiuto di Piergiorgio Bellocchio, che con Fortini ha condiviso la stagione dei Quaderni Piacentini (e non solo), e che è da questi ricordato nella poesia “Dove ora siete…”,
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Alessandro Baricco e lo Zeitgeist
di Emanuele Zinato
Criticare una voce autorevole di Repubblica equivale tout court a essere, più o meno consapevolmente, “di destra”? Credo di no, anche se molto è stato fatto, in Italia, negli ultimi vent’anni perché le cose potessero sembrare proprio così. Ultima: la larga ospitalità concessa da organi del berlusconismo, come “Il Foglio”, a voci del pensiero critico più indocile e eterodosso, come quella di Alfonso Berardinelli, che ai tempi di “Diario”, della satira contro Eco o Scalfari hanno fatto uno dei propri maggiori cavalli di battaglia. Ultimamente, nel mirino di questi ultimi, ai “guru” di “Repubblica” si sono aggiunti Fazio e Saviano. Personalmente, credo sia necessario distinguere. Credo a esempio che alla volgarità dei talk show urlanti e scosciati la sobrietà, sia pure “politicamente corretta” e talvolta stucchevole, sia di gran lunga preferibile. Credo, insomma, per dirla tutta, che i “socialdemocratici” fossero preferibili ai “fascisti”, che il parlamentarismo borghese, sia pure coi suoi infingimenti e il suo “terrore mite”, fosse più “abitabile” di una dittatura. Sulle responsabilità dei “consumi culturali” nella degenerazione populista e mediatica della nostra vita politica occorrerà, inoltre, prima o poi decidersi a spendere energie cognitive ideologicamente indipendenti e eticamente sensibili: servirà una storiografia critica, contro i luoghi comuni e contro l’oblio controllato, e una saggistica capace di partire almeno dagli anni Settanta (da Piazza Fontana, a esempio, film a parte). Ma non credo nemmeno all’utilità di un approccio adorniano fuori tempo massimo e so bene che le cose sono in generale più “complesse”: rinvio, per questo, alla mia verifica delle parole n. 1, Libertà e comunismo, pubblicata su LPLC.
Tuttavia… tuttavia non posso fare a meno parlare di Alessandro Baricco. L’ho già fatto, una volta, all’uscita di Oceano mare. Ho tentato in seguito in tutti i modi di convincermi che si trattava di un “efficace divulgatore”, uno tra gli altri, buono quanto e forse più di un altro.
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L'evaporazione del padre nella scuola "senza Legge"*
Daniele Balicco intervista Massimo Recalcati

La Legge, per come la pensa la psicoanalisi, vale a dire la legge simbolica, che è la legge della castrazione, si manifesta attraverso l’introduzione dell’impossibile. La Legge segnala l’esistenza di una soglia, di un limite che è impossibile valicare, riprendendo per altro una tradizione che sta all’origine dei testi biblici. E tuttavia, a differenza dei testi biblici, questo impossibile non si chiama Eden, ma incesto. Cosa significa? Significa che è impossibile per l’uomo fare esperienza di un godimento illimitato, che è il godimento della cosa materna. Questo godimento senza limiti è interdetto dalla Legge, la cui funzione è precisamente quella di introdurre il senso del limite come elemento costitutivo dell’esperienza umana. Nello stesso tempo, questo impossibile è ciò che paradossalmente apre la possibilità stessa del desiderio.
Per venire al nostro caso, il diritto ad essere puniti è un diritto, senza dubbio. Tuttavia, per uno psicoanalista questa idea rischia sempre di scivolare verso un terreno che è quello del godimento sadico di chi esercita la punizione.
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Una premessa e otto tesi per essere (criticamente) molti in poesia[1] *
di Ennio Abate
Premessa Partiamo da qui: è crollata una chiara definizione dei confini della poesia, è stata svalutata dal prevalere della società dello spettacolo e dalla TV la lettura in generale e lo studio di quei testi, che autorità riconosciute nel campo della critica e nella comunità dei poeti avevano fino a ieri garantito come poesia. La poesia, come dopo un’esplosione, sembra disseminata dappertutto: nelle canzoni, nei testi di amici e conoscenti, nei poeti pubblicati dai massimi e dai minimi editori, nelle plaquette autoedite, sul Web…
Questa crisi ho cercato di leggerla attraverso il fenomeno dell’essere molti in poesia.Che è sotto gli occhi di tutti, ma rimosso, non pensato, poco indagato nei suoi aspetti ambivalenti, positivi e negativi. La proliferazione elefantiaca e incontrollata delle scritture poetiche, parapoetiche o similpoetiche (Raboni) è dovuta a tanti fattori (sociali, economici e tecnologici) sui quali qui non posso fermarmi.[2]
Ma mi preme indicare come concausa anche il disarmo della critica. Che, tranne eccezioni, ha preferito affrontare la crisi della poesia (e di se stessa) tirando i remi in barca e vivendo di rendita, come fecero gli antichi mercanti borghesi che, durante il Seicento, nel periodo della rifeudalizzazione, diventarono proprietari fondiari e rinunciarono ai rischi “militanti”.
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Perec, Svevo e la memoria
di Maria Anna Mariani
«All’epoca mi nutrivo di Svevo», scrive Perecin Sono nato (Je suis né), una sottile autobiografia pubblicata nel 1990, che così si intitola perché la sua trama è infittita dall’anafora «sono nato».
Sono nato il 7.3.36. Quante decine, quante centinaia di volte ho scritto questa frase? Non lo so. So che ho cominciato abbastanza presto, ben prima che il progetto di un’autobiografia si formasse. Ne ho tratto materia per un cattivo romanzo intitolato J’avance masqué e per un racconto altrettanto pessimo […]. È difficile immaginare un testo che cominci così. Sono nato. Ma ci si può invece interrompere, una volta precisata la data. […] Questa quasi-impossibilità di continuare, una volta emesso questo “Sono nato il 7.3.36”, costituì, a ripensarci oggi, la sostanza stessa dei libri summenzionati: in J’avance masqué il narratore raccontava almeno tre volte di seguito la sua vita in tre narrazioni tutte ugualmente false («una confessione in iscritto è sempre menzognera», all’epoca mi nutrivo di Svevo) ma forse significativamente diverse (Perec 1990, 11-12).
«Una confessione in iscritto è sempre menzognera»: ecco il cibo sveviano del quale specialmente si nutre Perec. Svevo è condensato per sineddoche in questa frase famosa, che sembra fatta apposta per essere citata. Perec la infila tra due parentesi e non sente la necessità di indicare il luogo del prelievo: lo dà per scontato o non se ne cura. Ma non si fa nessuna fatica a rintracciarlo: è il capitolo ottavo della Coscienza di Zeno.
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Su «One Big Union» di Valerio Evangelisti
di Daniele Barbieri
E’ «una specie di fantasma», un «uomo ombra» che «acquista vita concreta solo quando si finge qualcun altro» Robert William Coates, detto Bob. Ne è consapevole e – verso la fine della sua “carriera” – alla domanda «Ma tu chi sei?» risponde la verità: «Non sono nessuno».
Una vita da spia, da infiltrato, da provocatore con occasionali ruoli di picchiatore e sparatore o di capo delle squadracce anti-rossi. Inizia a 14 anni (nel 1877) facendosi reclutare per dare una lezione ai sovversivi della Comune di Saint Louis, «una massa di miserabili», e finisce – da assassino e torturatore – nel 1919. Eppure il Coates, quasi inventato da Valerio Evangelisti, è figlio di un operaio irlandese immigrato negli Usa. Si vende ai padroni certo, tradendo quelli come lui (“la sua classe” avrebbero detto socialisti e anarchici) ma quel che più colpisce è la sua convinzione di essere dalla parte del giusto, un «soldato dell’esercito del bene»: gli operai sono fannulloni anzi «sfaticati di professione, senzadio, sovversivi, accattoni nati» (come scrive la sorella di Coates, giornalista filo-padroni); se si vietasse il lavoro minorile sarebbe una tragedia nazionale; bisogna «attenersi all’ordine cristiano del mondo, al rispetto della proprietà privata» se occorre ingannando e violando le leggi; per la «feccia», la «mandria umana» (cinesi, slavi, negracci, ungheresi, scandinavi, tedeschi e «dagos» cioè italiani, una razza dannata) ci vogliono «legnate» o peggio; se in acciaieria «muore in media un operaio al mese e moltissimi restano feriti» (o si ammalano) è una ineluttabile fatalità; e se i padroni vogliono licenziare, abbassare i salari, fare trattenute per le parrocchie, pagare in buoni da spendere solamente nei loro spacci, vietare le rappresentanze dei lavoratori… sono nel loro pieno diritto. Verità ripetute da «autorità, Chiese, i giornali più diffusi, gli intellettuali illustri, i politici migliori» spiega Coates a Sam Dreyer, una specie di gorilla che risponde: «Tanto meglio, picchierò con più convinzione».
Quando spia o bastona, Coates è convinto di farlo per l’America e anzitutto per moglie e figli, da bravo cristiano. «In fondo la famiglia era una società in formato piccolo» e se la giovane donna che ha sposato si ribella va picchiata, «come spesso il pastore raccomandava ai mariti», anzi – così riflette – «sarebbe stata un’estensione domestica del suo mestiere quotidiano».
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Perché gli artisti? MACAO è la risposta
Written by Franco Berardi Bifo
E commentando questo verso, Heidegger dice: “Forse siamo nel momento in cui il mondo va verso la sua mezzanotte”.
In nome del vuoto
Il 5 maggio un gruppo di artisti, architetti, insegnanti e studenti e lavoratori precari della scuola e della comunicazione hanno occupato un edificio chiamato Torre Galfa e l’hanno rinominato Macao. L’edificio è un grattacielo di trentacinque piani, abbandonato da quindici anni.
Dieci giorni dopo l’occupazione, mentre il corpo gigantesco del precariato cognitivo milanese cominciava a stiracchiare le sue membra e a sintonizzarsi con la torre, sono entrati in azione gli esecutori del piano di sterminio finanziario. Il proprietario, noto alle cronache giudiziarie come corrotto e corruttore, ha deciso che quel posto è suo e deve rimanere com’è: vuoto. Tutto deve essere vuoto nella città, perché il capitalismo finanziario ha bisogno di distruggere ogni segno di vita. Le risorse materiali e intellettuali vengono progressivamente inghiottite, annullate, perché i predatori possano espandere la loro insensata ricchezza.
Per la prima volta, occupando la Torre, il movimento è uscito dalla sfera dell’underground e si è proiettato verso l’alto. Non è un movimento di talpe, ma di sperimentatori. Le talpe ora debbono venire fuori, debbono occupare ogni spazio, e contenderlo all’organizzazione di morte che si chiama Banca Centrale Europea.
Artisti che vuol dire?
Perché gli artisti occupano spazi vuoti per restituirli alla collettività? Perché l’arte sembra tanto interessata a farsi attivismo proprio mentre il mercato invade lo spazio dell’arte e riduce l’attività degli artisti a lavoro astratto privo di significato?
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Introduzione a "La società dei simulacri"
di Mario Perniola
La società dei simulacri nel tempo del governo dei peggiori
Ho aspettato trent’anni per ripubblicare questo libro, nonostante le ripetute sollecitazioni di lettori e di editori. Infatti solo ora i fenomeni sociali descritti allora, al loro sorgere, il potere delle organizzazioni criminali e la decadenza del sapere, hanno raggiunto il loro momento culminante.
Si è così verificata un’inversione di tendenza: qualcuno si è finalmente accorto che la distruzione sistematica dell’eredità civile, culturale, morale ed estetica dell’Occidente e dei criteri di legittimazione elaborati attraverso più di due millenni, giova alla diffusione dell’ignoranza e della paura, sulle quali prosperano le mafie e il conformismo consumistico. E comincia ad avere il coraggio di dirlo e trova anche spazio in qualche quotidiano senza essere censurato dal timore dei capo-redattori e dei direttori dei giornali di vendere qualche copia in meno o di dispiacere ai loro padrini politici. Nel momento in cui l’amministrazione della giustizia e le istituzioni sanitarie, scolastiche ed accademiche collassano, si è manifestato finalmente il dubbio che il furore contro le aristocrazie scientifiche, intellettuali e burocratiche ha portato al trionfo delle oclocrazie, cioè al governo dei peggiori. Spacciare l’oclocrazia per democrazia è un errore fatale che gli antichi Greci non avrebbero mai commesso.
Il successo che ha ottenuto la prima edizione di questo libro, al punto di essere il più citato tra i miei lavori, si è basato spesso su di un equivoco. Infatti la nozione di simulacro è stata per lo più intesa come sinonimo di falsità, d’inganno, di frode e quindi come una teoria della manipolazione mass-mediatica; al contrario, essa è un salvagente per galleggiare nel tempestoso oceano della comunicazione, in cui tutti siamo, volenti o nolenti, immersi. La posta in gioco era la seguente: inutile impegnarsi nella difesa degli intellettuali, nelle tre forme classiche di giornalisti, professori e politici. Già nel 1980 – anzi già dal 1968 - era evidente che la civiltà di cui erano stati i protagonisti stava tramontando: lungo trent’anni, hanno cercato di difendersi con le unghie e con i denti in una società che non aveva più bisogno di loro, sposando via via le opinioni più idiote, purché sembrassero nuove, up-to-date, riformiste, e contribuendo così in modo determinante al totale sfacelo delle loro istituzioni.
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Insurrezione e narrazione
di Lanfranco Caminiti
Il prossimo anno cade il centenario della pubblicazione de I vecchi e i giovani di Luigi Pirandello per l’editore Treves di Milano. In realtà, il romanzo – «amarissimo», lo definì lo stesso Pirandello in una lettera a un amico – era in buona parte già uscito a puntate, come spesso accadeva, per il giornale «Rassegna contemporanea» tra il gennaio e il novembre 1909. L’edizione del 1913 risistema l’articolazione dei capitoli, rivede quanto era già stato pubblicato e lo completa. Ancora nel 1931, Pirandello deciderà di intervenire sul testo per una definitiva edizione per Mondadori, che poi è quella che leggiamo oggi. In nessuna delle rivisitazioni Pirandello modifica l’impianto dei personaggi e l’intreccio tra i loro comportamenti e gli eventi e il suo sguardo.
Pirandello inizia a scrivere I vecchi e i giovani nel 1906, e sono passati poco più di dieci anni dalla “materia” del romanzo, che è l’esplosione del movimento dei Fasci siciliani tra il 1892 e il 1894, cioè tra l’inizio degli scioperi nelle campagne e nelle zolfare – una cosa nuova che mai si è veduta prima – e le stragi di contadini e popolani fino all’instaurazione dello stato d’assedio e la repressione di massa, con l’arresto di tutti i dirigenti dei Fasci e centinaia e centinaia di militanti; lo stesso lasso di tempo che intercorre tra lo scandalo della Banca romana e la crisi del giolittismo, con l’avvento al governo di Francesco Crispi. Dieci anni soltanto. Sembrerebbe perciò un po’ azzardato definire “romanzo storico” I vecchi e i giovani. Qui non si tratta della rivolta degli schiavi di Euno o dei Vespri. Eppure. Non è solo una questione di distanza temporale dai fatti narrati.
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"Il romanzo di una strage"
di Girolamo De Michele
Un film ammiccante, menzognero, pavido, vigliacco, politicamente corretto, cialtrone
Il romanzo di una strage è, in prima battuta, un titolo ammiccante. Pasolini, Il romanzo delle stragi, io so ma non ho le prove: avete presente? Quella roba lì. Quella roba che nel film non c'è. Detto fuori dai denti: cominciano a svenderli a 3x2, i pasoliniani de noantri che si riempiono la bocca col coraggio della verità, il dovere della verità, la religione della verità fino all'estremo, e poi continuano a ruzzolare e razzolare come e peggio di prima. Il modo peggiore di uccidere una seconda o terza volta Pasolini è quello di usarlo come specchietto per le allodole: e Giordana, dopo aver girato un film su Pasolini nel quale, com'era suo dovere di intellettuale, lasciava intendere altri scenari e altri finali al di là di quelli giudiziari ufficiali, tradisce se stesso, il suo mentore e il pubblico con un film nel quale non si arriva neanche alle verità giudiziarie, figurarsi spingere lo sguardo un filo più in là.
Il romanzo di una strage è, quindi, un titolo menzognero. Perché "romanzo" dovrebbe alludere a un'opera di fantasia che non replica il reale, ma lo arricchisce attraverso una grammatica delle immagini che sopravanza quella grammatica delle parole che ripete il mondo. E in tal modo rende possibile dire ciò che la parola non può dire: la potenza della fantasia, si direbbe nella lingua di Dante. Ricorda Goffredo Fofi che il cinema italiano fu capace, all'indomani di dittatura e guerra, di opere che raccontarono ciò che ancora non si aveva la forza di dire. A l’alta fantasia qui mancò possa, si potrebbe dire: ma ciò ch'è certo è che qui s'è parsa la sua (di Giordana) nobilitade.
Il romanzo di una strage è, dunque, un film pavido. Che non ha il coraggio di dire che non segmenti marginali o laterali dello Stato, ma lo Stato in quanto tale, o se si preferisce l'altra faccia dello Stato, il doppio Stato, pianificò e attuò coscientemente la strategia della tensione, delle stragi, dei depistaggi, al fine di "destabilizzare per stabilizzare".
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Nuovo cinema paraculo
Romanzo di uno strascico
di Christian Raimo
Come trasformare un film animatissimo di buone intenzioni in un roba deludente? Basta fidarsi troppo delle buone intenzioni (le strade per l’inferno, si sa, ne sono lastricatissime). Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana è un film che avrebbe potuto essere bello, e non lo è. Per moltissimi motivi. Per primi, certo, quelli legati all’affidabilità della ricostruzione vedono contrapposte tante versioni diverse: il libro-inchiesta di Paolo Cucchiarelli che sostiene la tesi delle due bombe contemporanea (una bombetta-civetta anarchica e una bomba devastante di marca neofascista) e a cui si è ispirato Giordana, viene considerato molto molto discutibile da vari altri, tra cui per esempio Adriano Sofri che in questi giorni ha scritto un istant-book precisamente polemico contro libro e film.
Ma Giordana, come Sofri stesso fa notare, non sposa neanche completamente la tesi del libro, tessendo una narrazione che non si assume dei rischi. In nome di un auto-ricatto, riconosciuto o meno che sia, di un fare semplicemente un film utile, o come si usa dire oggi civile. Civile, utile alle nuove generazioni che magari non sanno nulla della bomba a piazza oppure pensano che ce l’hanno messa le Brigate Rosse.
Ma limportante è parlarne in questo caso ovviamente non basta, oltre a essere impossibile. L’intento del film di non urtare la sensibilità di nessuno finisce per non sfiorare nemmeno un pezzettino di cuore nello spettatore. L’intento del film di non incorrere noie legali finisce per avvalorarne solo le paranoie.
Il punto più problematico di questa intricata vicenda (Piazza Fontana-morte di Pinelli-omicidio Calabresi-delitto Moro), ovvero il buco nero italiano per eccellenza, è che molto spesso nelle ricostruzioni piuttosto che andarci a trovare una verità storica, i nodi mai affrontati della democrazia italiana, ognuno ci scopre il suo buco nero, il suo rimosso, la sua biografia con fantasmi revisitata, la sua personale visita agli inferi. Capita così che dalle prime reazioni al film ognuno si lamenti perché c’è un pezzo che manca: una prospettiva, un dettaglio…
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