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Gerald Horne e la Grande Guerra Razziale
Miguel Martinez
Gennaio 1942, due mesi dopo Pearl Harbor. E’ l’epoca in cui folle sovreccitate di bianchi americani danno fuoco alle sale dei Testimoni di Geova, sospettati per il loro rifiuto del servizio militare di essere la quinta colonna dell’Asse.
I principali dirigenti delle comunità nere statunitensi si riuniscono e votano, 36 contro 5 e con 15 astensioni, una mozione moderata nei toni, ma che in sostanza nega il sostegno alla guerra contro il Giappone.
E’ una delle vicende che porta alla luce lo storico nero americano, Gerald Horne, in Race War! White Supremacy and the Japanese Attack on the British Empire (New York University Press, 2004).
Quando si parla di “storia” o di “memoria”, si intendono in genere unicamente i sei anni della Seconda guerra mondiale, e unicamente il fronte europeo di tale guerra.
Chiedete a bruciapelo a qualunque alunno dell’Istituto Tecnico per il Settore Economico Paolo Dagomari di Prato, cosa è stata la Seconda guerra mondiale.
All’incirca, vi dirà che c’era un pazzo di nome Hitler che voleva conquistare il mondo e uccidere gli ebrei; ma sono arrivati gli americani e ci hanno salvati.
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Wojtyla l'uomo bianco, Bin Laden l'uomo nero*
di Luca Baiada
Il 1° maggio 2011 si consuma una tappa storica e spettacolare. A migliaia di chilometri, la città dell’antico impero e la terra incognita della nuova incontrollabilità sono scenari della sistemazione immaginaria del passato, e forse luoghi di progettazione del futuro. Praticamente nelle stesse ore, Wojtyla viene beatificato, Bin Laden muore: se i dati diffusi sono esatti, l’uccisione avviene dopo la cerimonia di beatificazione e poche ore prima della messa di ringraziamento. Che in Italia una parlamentare della destra abbia spiegato la morte dell’uno come miracolo compiuto dall’altro, non c’è da stupirsi: in molti, hanno farfugliato sciocchezze del genere. Qui, tenendo fermo che un vero e proprio paragone fra i due sarebbe esagerato, proviamo ad accostarli come spunto di riflessione. E accettiamo la versione ufficiale sulla fine del capo di Al Qaeda, ma tenendo presente che molti la considerano falsa, convinti che l’uomo fosse già morto anni fa.
Wojtyla e Bin Laden assumono i loro importanti ruoli nello stesso periodo: la fine degli anni Settanta. Il sorpasso tecnologico è in pieno svolgimento, e gli Usa hanno già vinto la corsa allo spazio. In Vietnam, hanno da poco subìto una sconfitta militare, ma la guerra ha reso profitti, e la teoria del domino si è rivelata falsa: l’Asia non è diventata tutta comunista. In Europa, il blocco socialista galleggia fra stagnazione e crisi; in Spagna e in Portogallo sono cadute le dittature. Di quelle nell’America del Sud, invece, si fa sentire la stretta, mentre il successo delle rivoluzioni in Nicaragua e in Iran segna in modo esemplare, per il blocco capitalista, l’esigenza di contrastare qualsiasi cambiamento politico sgradito, anche approfittando di manovre religiose (su un fronte si mobiliterà la chiesa cattolica, con l’appoggio alla destra e con la repressione della Teologia della liberazione; sull’altro si offrirà sostegno all’islam radicale).
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Essere se stessi con un po’ meno di fatica
di Christian Raimo
Ci sono degli eventi che hanno delle somiglianze. L’arresto per stupro di Strauss-Kahn, la vicenda di Don Seppia, la tragedia del padre di Teramo che lascia la figlia sotto il sole. Tre persone – tre maschi, diciamolo subito – che pensavamo affidabili, molto affidabili, si rivelano un disastro. Addirittura dei mostri per alcuni, indifendibili per la maggior parte (tranne le mogli – notiamo subito anche questo – nei casi di DSK e del padre). Eppure, evidentemente non sono tre episodi isolati. Voglio dire: 1) il Time della settimana scorsa ci ha addirittura fatto la copertina sugli uomini di potere che si comportano come maiali; Strauss-Kahn, Schwarzenegger, Tiger Woods, John Edwards, Charlie Sheen… sono soltanto l’ultima avanguardia di un esercito ben in forze; 2) la questione della pedofilia nella chiesa è diventata di rilevanza sociologica (tanto che l’associazione prete-pedofilo è purtroppo una di quelle che facciamo sempre più spesso, quasi un luogo comune); 3) queste tragedie dei bambini dimenticati in macchina sotto il sole si ripetono ogni tanto (due negli ultimi dieci giorni, Teramo, Perugia), e sono probabilmente l’emersione più tragica di una “distrazione di massa” – è una cosa che poteva capitare a chiunque, come ha detto non senza verità la moglie difendendo in lacrime il padre della piccola Elena.
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Dall' università dei baroni all'università dei padroni
Andrea Martocchia
L'attacco al sapere
Lo stravolgimento del sistema della formazione e della ricerca in Italia ha segnato un suo momento topico nel passaggio in Senato della riforma Gelmini. Ad attestare l'importanza del frangente è tra l'altro l’impressionante dimensione e determinazione delle iniziative del movimento di protesta, che ha catalizzato insieme molti diversi settori: non solo studenti ma anche ricercatori, precari e non, dell’università, degli enti di ricerca, pezzi del mondo della scuola di ogni ordine e grado, della cultura e dello spettacolo, rappresentanti del precariato diffuso, giovani disoccupati e sotto-occupati. Il movimento, per la sua stessa composizione, è stato una dimostrazione vivente del fatto che il colpo sferrato contro l'università con la riforma Gelmini è parte di una ristrutturazione ampia e strategica, che in altra sede abbiamo definito un generalizzato attacco al sapere rivolto contro più di una generazione di “giovani”, che attraverso il sapere per l’appunto avevano creduto di poter costruire un futuro per se stessi e per la società tutta.
In questa sede cercheremo di spiegare che l'attacco al sapere non è un fatto contingente, bensì strutturale; esso non è legato ad una specifica gestione politica di centrodestra, ma è bipartisan; non accade solamente in Italia per ragioni legate alla nostra storia o fase specifica, ma è riconoscibile in tutti i Paesi a capitalismo avanzato. La prospettiva nella quale tale attacco va inquadrato è una prospettiva globale ed epocale, poiché il suo carattere è sistemico e perciò non può essere compreso, tantomeno efficacemente contrastato, se non se ne considerano le cause macro economiche.
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Il 5 aprile 2011 allo SPAZIO TADINI in Via Jommelli 24 a Milano, organizzato da Adam Vaccaro di MILANOCOSA, c'è stato un incontro per discutere di "Calpestare l'oblio", un'antologia - così recita l'annuncio pubblicato sulla stampa nazionale - di "Cento poeti italiani contro la minaccia incostituzionale, per la resistenza della memoria repubblicana". curata da Valerio Cuccaroni, Davide Nota e Fabio Orecchini.
Intervento di Ennio Abate
Gentili autori e organizzatori di CALPESTARE L’OBLIO,
sono del ’41. Da vecchio, dunque, scrittore quasi clandestino e militante in proprio fuori da qualsiasi partito, ragionando sulla base della storia del Novecento e di quella italiana del dopoguerra (in particolare degli anni Settanta), mi permetto di porvi due domande:
- quale oblio ha da essere oggi calpestato?
- lo si può calpestare solo in poesia, soltanto con la poesia?
Vi anticipo, in attesa di vostre risposte, le mie:
- in questo Paese l’oblio non è caduto soltanto o soprattutto sulla Resistenza e la Costituzione, come sostenete nell’introduzione del libro e in vari testi antologizzati, ma sulla lezione profonda di Marx e sulla storia del comunismo novecentesco - terribile sì, ma non cancellabile o surrogabile dall’apologia, quasi sempre in piatto “americanese”, della democrazia;
- ad obliare non sono stati solo i poeti o i leader politici e intellettuali viventi (della sinistra in primis), ma anche quella parte della popolazione che una volta poteva ancora a buon diritto essere chiamata ‘popolo’ o ‘di sinistra’;
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Le terre di Alice. Dal sottosuolo alla deliranza
Francesca Matteoni
F.: Alice nel Paese delle Meraviglie, la conosci?
Nonna: No, non ci ho mai giocato insieme.
L’Alice di Lewis Carroll è circondata da una campagna estiva – acqua, siepi, margherite, quando fa la sua comparsa il coniglio. Lo segue giù per il buco, un passaggio stretto e impossibile, scoprendo un mondo rovesciato, dove gli animali si vestono come gli umani, le parole non sono più ciò che erano solite essere. Il linguaggio non è più un mezzo, ma qualcosa di vivo, emotivamente malleabile o soggetto a una logica tanto ferrea quanto priva di significato concreto, svuotato infine di ogni conoscenza specifica, ma impiegabile come oggetto materiale, fragile e potente.
L’esperienza più importante di un bambino non è la perdita dei sogni o la loro realizzazione, ma il suo divenire gradualmente consapevole delle lingue, dei vocabolari, che causano il mondo e ne sono causati. “Secondo Lewis Carroll – scrisse W.H. Auden -, ciò che un bambino desidera più di ogni altra cosa è che il mondo nel quale si trova coinvolto possa avere un senso1”. Il sottosuolo (Underground) della prima versione del libro, o il paese delle meraviglie (Wonderland) o la scacchiera oltre lo specchio, sono tutti luoghi disordinati, sebbene retti da personaggi assurdamente formali e arroganti, dove Alice stessa rischia di venir messa a soqquadro: le sue dimensioni corporee cambiano in modo grottesco e difficilmente controllabile; l’educazione ricevuta è del tutto inservibile; deve mantenersi sana di mente, fuggire, svegliarsi.
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Le buone azioni dello scettico
Franco Marcoaldi intervista il linguista Raffaele Simone, marxista-leopardista, impegnato e disincantato: "Il nostro è un paese dove è diventato difficile distinguere il vero dal falso"
Per affrontare in profondità la questione delle credenze è bene prendere in esame anche l´aspetto linguistico. Perciò il nostro terzo interlocutore è Raffaele Simone, ordinario di Linguistica Generale all´Università di Roma Tre e autore di importanti studi che spaziano tra storia, politica e trasformazioni culturali.
«Cominciamo col dire che in italiano, a differenza di altre lingue, si può credere a qualcosa o a qualcuno, ma anche in qualcosa o in qualcuno. A, in – queste due diverse preposizioni aprono una crepa semantica interessante. 'Credere a' significa dare credito alle dichiarazioni verbali di qualcuno. 'Credere in' ha invece una doppia valenza. Se io credo in un mio alunno, è perché penso che nel futuro farà belle cose, avrà fortuna. Confido nella speranza di una sua affermazione positiva. L´altro senso del 'credere in' poggia invece con fiducia su ciò che qualcuno fa, asserisce o è. Se affermo di credere nella sinistra, per esempio, questo non implica che avrà fortuna o si imporrà, ma che i suoi valori e il suo progetto politico mi convincono».
Proviamo a calare queste distinzioni semantiche nell´Italia di oggi.
«Quanto al credere a qualcuno, gli italiani credono sin troppo.
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Il Mediterraneo è l'avvenire dell'Europa
Dialogo fra Alain de Benoist e Danilo Zolo (*)
Alain de Benoist. Lei è stato l'architetto, insieme a Franco Cassano, di un libro collettivo di oltre 650 pagine intitolato L'alternativa mediterranea (1). Citando Peregrine Horden e Nicholas Purcell - che nella loro opera monumentale The Corrupting Sea. A Study of Mediterranean History (2000) scrivono: «l'unità e la coerenza dell'area mediterranea sono indiscutibili» - aggiungete: «"Unità" non significa uniformità culturale o monoteismo», ma al contrario «pluriverso». Nel corso della storia, dalle guerre di Atene contro Sparta o dal grande scisma d'Oriente alla divisione attuale dei paesi arabi, passando per le avventure coloniali francesi e britanniche, non è che il Mediterraneo sia sempre stato profondamente diviso? Aldilà dei conflitti di cui il Mediterraneo è stato testimone, secondo Lei, cosa crea questa unità mediterranea, sia a livello storico e geografico che a livello spirituale, ambientale o simbolico?
Danilo Zolo. Come è noto, un contributo di grande rilievo al dibattito sulla questione mediterranea, e quindi sull'unità del Mediterraneo, è stato offerto da Fernand Braudel. Ed è appunto al suo pensiero storiografico che si ispira il libro che Franco Cassano ed io abbiamo recentemente curato per l'Editore Feltrinelli. Mentre Henry Pirenne aveva elaborato lo schema della cesura dell'unità mediterranea a causa della conquista araba del Medio Oriente e dell'Africa del Nord, Braudel ha valorizzato il pluralismo delle fonti culturali che hanno dato vita alla civiltà mediterranea.
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Senza stupore: eccezione e norma ai tempi di Arcore
Laboratorio Sguardi sui generis
Walter Benjamin, 1940.
Con queste parole, Walter Benjamin impartiva una lezione di metodo critico che continua a valere: quando di fronte ad accadimenti politici ci si appella all'eccezione – oppure ci si indigna denunciando un regresso rispetto a una presunta norma di civiltà – ciò significa semplicemente che non si è capito nulla o non abbastanza, che non si dispone di strumenti adatti a comprendere il proprio tempo. A partire da questa considerazione – assunta come strategia metodologica – è possibile costruire una riflessione sugli scandali sessuali che hanno scosso la cronaca italiana delle ultime settimane, cercando di sottrarsi sia alla trappola del cinismo che a quella del moralismo.
«Lo stupore non è filosofico». In prima istanza, la massima suggerisce di sgomberare il campo dalle posizioni che – se pur in modi e con intenti differenti – considerano l'accaduto una deviazione rispetto alla regola dell'esercizio del potere, il risultato scabroso di vizi e perversioni private da cui difendere il corpo sano della democrazia. Questa, come si evince dai maggiori quotidiani nazionali, è l'opinione dominante nella sinistra istituzionale, condivisa anche da molti cittadini italiani e fondata su una sorta di soglia etica minima, equiparabile al buonsenso. I comportamenti del premier – si legge nei vari editoriali e appelli – offendono la dignità delle donne e della democrazia.
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La politica come mitologia
di Cesare Del Frate
La filosofia è piena di miti politici, dal Leviatano di Hobbes, il mostro biblico chiamato a rappresentare il terribile e onnicomprensivo potere dello Stato, alla Città del Sole di Campanella, utopia in terra, fino al Katéchon di Schmitt, la forza che resiste, trattiene e dilaziona la fine dei tempi, che per il filosofo tedesco era nientemeno che il Sacro Romano Impero da lui tanto rimpianto.
Ben poco, tuttavia, la filosofia ha detto e scritto sulla mitologia politica, cioè sul mito che la politica è essa stessa: insomma, la narrazione fantastica e archetipica non è solo uno strumento per illustrare questo o quel concetto, separando emozione e raziocinio, bensì ha a che fare con il cuore dell’esercizio del potere nonché, ovviamente, con la ricerca del consenso.
Il Leviatano di Hobbes
Il mito è, essenzialmente, racconto: delle origini da cui veniamo e del futuro che ci attende. Di questo parlano i miti indigeni della “nascita” della comunità, ma pensiamo anche a Romolo e Remo, che fondando Roma col duro lavoro le assegnarono il destino dell’operosità, o a Didone la quale, erigendo Cartagine grazie a un inganno, ne prefigurò il fato legato al commercio e all’astuzia.
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I padri ingannevoli
di Christian Raimo
Piccolo quiz di inizio anno: di chi sono queste parole?
“Giovani, combattete sempre per la libertà, per la pace, per la giustizia sociale. La libertà senza giustizia sociale non è che una conquista fragile, che per alcuni si risolve semplicemente nella libertà di morire di fame. Libertà e giustizia sociale sono un binomio inscindibile. Lottate con fermezza, giovani che mi ascoltate, e lo dico senza presunzione, ma come un compagno di strada, tanto mi sta a cuore la vostra sorte. Io starò sempre al vostro fianco”. La soluzione completa la trovate a quest’indirizzo. È il discorso di Capodanno del Presidente della Repubblica. Del 1983, era Pertini. Fa impressione, eh?
Ma perché citarlo? Nelle ultime settimane, qui sulle pagine del manifesto, si è molto parlato, a partire dalle analisi di Recalcati e del suo Uomo senza inconscio, del declino di un modello paterno che rappresentasse la Legge o la Responsabilità, sostituito da un modello che invece incita al godimento compulsivo.
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L’Italia senza inconscio. E senza desideri
Massimo Recalcati
Il recente rapporto annuale del Censis che descrive lo scenario sociale del nostro paese, come è stato notato da diversi commentatori, si nutre abbondantemente di concetti, figure e metafore tratte dalla psicoanalisi. Ida Dominijanni, sulle pagine del manifesto di sabato 6 dicembre, riconosceva nel mio ultimo libro, pubblicato a gennaio del 2010 da Cortina con il titolo L’uomo senza inconscio (Raffaello Cortina editore, Milano 2009), la fonte di ispirazione maggiore del ritratto che Giuseppe De Rita e il suo Centro Studi propongono per il nostro tempo. La sregolazione pulsionale e l’eclissi del desiderio, il dominio del godimento immediato, l’apologia del cinismo e del narcisismo, l’evaporazione del padre, sono tutti concetti che il lettore di L'uomo senza inconscio può facilmente ritrovare, alla lettera, nel rapporto del Censis. Lo stesso vale per la coincidenza tra la mia tesi di fondo e quella proposta da De Rita: la cifra nichilistica del nostro tempo si può sintetizzare parlando di una estinzione del soggetto del desiderio e di una apologia del godimento sregolato e immediato.
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L'effetto Berlusconi
Antonio Gnoli intervista Slavoj Žižek
Si può analizzare un fenomeno mediatico, politico, culturale qual è da quasi un ventennio Silvio Berlusconi, senza lasciarsi condizionare dal fastidio che l'«oggetto» in questione sovente provoca in chi lo analizza? Non è una forma di neutralità che si invoca, ma una connessione più attenta tra superficie e profondità: diciamo tra il volto-maschera, al quale ci ha abituati nelle sue molteplici apparizioni televisive, e l'anima-merce, nella quale albergano desideri, finzioni, progetti. Per molti italiani egli è l'uomo del sogno: figura temibile e consolatoria a un tempo, le cui parole, quando vengono pronunciate, hanno per lo più un carattere fuggitivo. Nello schema generale del suo linguaggio rassicurante (legato all'idea del fare) le variazioni sono minime, e la mobilità è massima. Nel senso che Berlusconi tende a dire sempre le stesse cose, ma nel dirle - come accade nei sogni - le parole hanno un carattere volatile e lievemente ipnotico. Quel linguaggio diverte e rassicura coloro che ne sposano i contenuti. Egli incarna un potere «grottesco»: esilarante, minaccioso, imprevedibile, efficace. Ci ha colpiti il modo col quale, qualche tempo fa, sulla «London Review of Books», Slavoj Zizek riportava quel potere all'ironica immagine di un Panda, protagonista di un cartoon di successo. Ed è la ragione per cui abbiamo voluto incontrare questo intellettuale che con grande libertà ha messo assieme Lacan e il cinema, indagato Freud e Marx e preferito il moderno al «post». Zizek non si considera un esperto di Berlusconi e soprattutto — tiene a precisare — pensa che per molti versi il problema non sia lui, ma che lo stesso Berlusconi sia l'effetto di un processo più generale che non coinvolge solamente l'Italia. Il discorso, dunque, non può che cominciare dall'intreccio tra due figure cardine della modernità: politica ed economia.
Lei sostiene che sia stata recisa ogni connessione fra democrazia e capitalismo. Com'è accaduto? E cosa sostituisce oggi quel legame?
Sì, nella mia interpretazione questo accade soprattutto in Cina, anche se non solo lì. Qualche tempo fa il mio amico Peter Sloterdijk mi confessò che, dovendo immaginare in onore di chi si costruiranno statue fra un secolo, la sua risposta sarebbe Lee Kwan Yew, per oltre trent'anni Primo ministro di Singapore. E stato lui a inventare quella pratica di grande successo che poeticamente potremmo chiamare «capitalismo asiatico»: un modello economico ancora più dinamico e produttivo del nostro ma che può fare a meno della democrazia, anzi funziona meglio senza democrazia. Deng Xiaoping visitò Singapore quando Lee stava introducendo le riforme e si convinse che quel modello andava applicato alla Cina.
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I barbari e la peste
di Nicola Lagioia
Invasioni barbariche e fine della civiltà sono due paure che la cultura occidentale coltiva in maniera talmente ricorsiva – e spesso con tale voluttà – da far venire il sospetto che siano a essa addirittura costitutive. Perennemente scisso tra la brama paranoide di annichilire tutto ciò che è diverso da sé e il desiderio inconfessabile di un crollo rigeneratore, il cuore stesso dell’occidente è riuscito nella macabra e vertiginosa impresa di battere in virtù di ciò che non esiste: i nostri sogni sono alimentati dal terreno e dal mercato e dalle culture ancora da conquistare o assimilare, mentre una certa nostra profonda infelicità – che di quel sogno imperiale è il lato oscuro – arriva ciclicamente-ciclotimicamente a tali vertici negativi che un violento e disastroso rovesciamento del tavolo da gioco diventa addirittura una speranza. Sogni di conquista e speranze di crollo. Siamo, appunto, tutto ciò che ci manca.
Per limitarci al campo della cultura e della rappresentazione artistica, l’ultimo decennio (quello iniziato con l’attacco alle Due Torri) ha visto il rifiorire degli scenari apocalittici. The road di Cormac McCarthy è solo tra i più recenti e noti capitoli di una poetica che nel Novecento ha molti precedenti.
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Network clandestini nell’era del Web 2.0
di Geert Lovink*
“Occuparsi della luce, nella più oscura delle ore”. - Johan Sjerpstra
“I giorni in cui avevi un’immagine differente per i tuoi amici di lavoro e per i tuoi collaboratori e una per le altre persone che conosci probabilmente finiranno presto… Avere due identità per te stesso è un esempio di mancanza di integrità”. – Mark Zuckerberg
La questione dei siti di social networking negli ambiti artistici e di movimento è strategica e tocca alcuni temi chiave, dall’organizzazione interna all’articolazione di campagne di comunicazione e design. Ciò che sembra solo un altro livello di idiozia sociale sembra reclamare risposte di principio. Il panico morale condanna il web 2.0 come pubblicità (“Disarmiamo gli spacciatori!”). La frangia monofunzionale invoca la pubblica condanna della mania mainstream per i gadget più recenti e per le killer apps, le applicazioni di successo. Facebook ci sta friggendo il cervello e rovina le prospettive di successo negli studi (se mai ve ne sono state). Tale critica affrettata dell’ideologia ci impedisce di fare analisi accurate. I social media stanno invadendo tutti gli aspetti della vita. E’ un fatto. Dal tradizionale punto di vista ‘underground’, controculturale e/o clandestino che dir si voglia, sarebbe inconcepibile utilizzare Facebook o Twitter. Secondo la propria autopercezione il guerrigliero nei barrios comunica “faccia a faccia”, come disse un tempo Hakim Bey.
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