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Nessun appello per le scienze umane
di Annalisa Andreoni
L’appello di Alberto Asor Rosa, Roberto Esposito e Ernesto Galli della Loggia in difesa delle discipline umanistiche uscito su una rivista autorevole come il Mulino (6/2013) ha la singolare capacità di far fare al dibattito sulla crisi culturale in corso un incredibile salto all’indietro di alcuni decenni. L’assunto di fondo è che in questa fase storica stia avvenendo un ripudio dell’umanesimo a favore della scienze dure, a partire dagli insegnamenti scolastici. Gli studi umanistici sarebbero gli unici che “assicurano il legame con la specificità della dimensione storica della vita”, mentre le discipline scientifiche sarebbero ovunque le medesime e tenderebbero a esprimersi tutte in una medesima lingua, l’inglese.
Il declino degli studi umanistici si rifletterebbe sulla crisi del “politico” che oggi abbiamo di fronte: ciò in particolare in Italia, perché “l’elemento più intrinseco della cultura letteraria e filosofica italiana è costituito proprio da quest’anima politica”, dato il ruolo quasi di supplenza esercitato in Italia dalla cultura storica, letteraria e filosofica, rispetto alla mancata unità politica. I tre intellettuali tracciano un breve profilo storico-ideologico su questa linea, tutta desanctisiana, che mette in fila Dante, Machiavelli, Sarpi, Campanella, Vico, Cuoco, Foscolo, Manzoni (e Cattaneo) e concludono che, se il politico è la chiave interpretativa della cultura italiana, la soluzione sta nel recuperarlo e nel rimettere il ruolo e le ragioni della politica al di sopra di quelle dell’economia, che negli ultimi anni è stata prevaricante.
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Pasolini al «Corriere della Sera»
di Valerio Valentini
1. La «rivoluzione antropologica in Italia»
Voler comprendere a pieno l’esperienza giornalistica di Pier Paolo Pasolini al «Corriere della Sera» implica necessariamente il tener conto anche di quelle che furono le reazioni agli articoli che lui scrisse in quegli anni. Gli Scritti corsari e le Lettere luterane1 sono la testimonianza di un dialogo che Pasolini intessé con l’intera società a lui contemporanea: ascoltare un solo protagonista di quel colloquio, costringerlo ad una monologante ripetitività, rischia di svilire lo spessore di un intellettuale che, solo se studiato tenendo conto della pluralità delle voci che con lui dibatterono, può essere adeguatamente compreso.
Non solo. Rileggere gli interventi di Pasolini nel contesto generale del panorama giornalistico di quegli anni, rivela un altro importante elemento. E cioè come il modo di lavorare, da parte di Pasolini, fu enormemente condizionato dagli atteggiamenti assunti dai suoi colleghi in reazione ai suoi articoli, e come il confronto che egli volle instaurare con i suoi interlocutori gli risultò funzionale a collocare in una particolare posizione – estrema e controversa – la propria figura di intellettuale all’interno del dibattito politico contemporaneo.
Il 10 giugno 1974 il «Corriere della Sera» pubblica in prima pagina Gli italiani non sono più quelli. Si tratta dell’intervento che, più d’ogni altro, affronta in maniera programmatica quello che è il vero filo conduttore di tutta la saggistica corsara e luterana: la mutazione antropologica degli italiani.
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La grande bellezza
Due recensioni da Lo Straniero
Vi presentiamo due recensioni, apparse nel numero 157, luglio 2013, del film di Sorrentino vincitore dell'ultimo Oscar.
I burattini romani di Sorrentino
di Dario Zonta
Come tutti quei registi di certa ambizione, anche Paolo Sorrentino è caduto nella tentazione di raccontare Roma. Mettendosi alle spalle la folta e ingombrante schiera di chi è riuscito e di chi ha fallito, il regista napoletano - volente o nolente - si è dovuto misurare con l'autore che meglio ha saputo declinare il paradigma del provinciale a Roma: Federico Fellini. La dolce vita e il mancato Moraldo in città, seguito ideale di I vitelloni, sono necessari punti di riferimento, come Roma, monumento alla decadenza della città eterna (ma ha anche guardato al Satyricon). Anche se a parole Sorrentino ha preso le distanze da qualsiasi riferimento felliniano (come conviene che sia), nei fatti La grande bellezza si pone come rivisitazione di quello stesso immaginario alla luce non solo della trasformazione antropologica della società italiana, ma anche del personale sentimento e delle intime idiosincrasie del regista campano. Sorrentino ha insidiato il suo affresco con una miriade di figure allegoriche, genericamente prese in prestito dalla volgarità del contemporaneo, ma alla fine staccate dalla sua contingenza.
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Il dissenso in cattedra
Marco d'Eramo
Marcello Cini, un fisico che ha rimescolato le carte della scienza. Una biografia umana e intellettuale oggi impensabile, discussa in una giornata di studi a Roma
E' incredibile come bastino pochi decenni: esperienze di vita che ci parevano esemplari diventano inaudite. Se un giovane volesse ripercorrere la traiettoria umana di Marcello Cini (1923-2012), gli riuscirebbe impossibile, anzi gli sarebbe quasi impensabile. Eppure Cini è stato uno dei migliori intellettuali italiani del '900.
Non solo perché un giovane di oggi ha la fortuna di non vedere la propria madre ebrea licenziata dall'insegnamento a causa della religione dei suoi avi, come invece avvenne a Cini. Ma anche perché un giovane di oggi ha invece la sfortuna di non potere neanche sognare di diventare professore ordinario a 33 anni, come riuscì a Marcello, nominato ordinario di fisica teorica a Catania nel 1956: ma allora i fisici in Italia erano soltanto alcune centinaia scarse.
Ma non è solo il contesto materiale, politico a essere stravolto. Chissà se un giovane di oggi parteciperebbe a una lotta partigiana se un esercito oppressore occupasse il nostro paese?
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Il corpo tossico del godimento
Su The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese
di Pietro Bianchi
Mettiamoci il cuore in pace. Non esistono film che riescano a mostrare sullo schermo il capitalismo finanziario. Il capitalismo è una faccenda troppo complessa per essere ridotta a una storia e a una serie di immagini. Il cinema invece ha bisogno di una messa in scena, di un’idea che possa essere “immaginarizzata” e diventare l’epopea di un protagonista, l’immagine di un luogo, l’affetto di una relazione. E infatti nella storia del cinema è stato possibile creare delle immagini della libertà, dell’amore, dell’odio e della violenza, o anche di concetti più complessi e persino astratti come il bisogno di Dio, l’irrazionalità delle pulsioni, lo scorrere non-lineare del tempo etc. Ma del capitalismo invece no, non è mai stato possibile crearne un’immagine.
Perché il capitalismo resiste al fatto di essere messo in immagine? Innanzitutto perché non è un singolo avvenimento, ma una logica invisibile (anche se intellegibile) che mette insieme eventi diversi che pur essendo lontanissimi, e molto spesso ignari gli uni degli altri, sono legati tra loro. Che cosa hanno in comune la City londinese, con le fabbriche del sud-est asiatico, le miniere di rame del Cile, i circuiti internazionali della logistica, l’agricoltura della California etc.? Nulla apparentemente.
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Cui prodest?
di Sandro Moiso
“Confusion will be my epitaph” (Epitaph, King Crimson 1968)
Se i macroscopici errori contenuti nel recentissimo sceneggiato televisivo, trasmesso su Rai 1, dedicato al commissario Calabresi fossero soltanto da attribuire alla grossolanità della sceneggiatura e all’insipienza della regia non ci sarebbe di che stupirsi. Né, tanto meno, ci sarebbe argomento del contendere: da più di vent’anni ormai il cinema e gli sceneggiati televisivi italiani, a parte pochi e rarissimi casi, fanno cagare.
L’impressione che però si ha di fronte alle attuali produzioni televisive e cinematografiche (dalla serie “Gli anni spezzati”, che ruba il titolo ad un bellissimo film-antimilitarista ed anti-imperialista di Peter Weir, all’ancor recente “Il romanzo di una strage”) è che tale superficialità sia voluta. Una confusione di simboli, affermazioni e ricostruzioni raffazzonate che non dipende soltanto dalla mano degli autori, in alcuni casi, anche se non sempre, di destra. Ma che dipende, invece, da una ben precisa volontà di sovvertire l’ordine e il significato storico, politico e sociale degli avvenimenti rappresentati.
“Lotta di classe è brutto” potrebbe essere il titolo sotto cui raccogliere tali capolavori che, in tutte le loro varianti, tendono a rimuovere e negare la centralità della lotta di classe non solo nella storia d’Italia, ma nella storia della specie umana. Che torna ad essere determinata soltanto dai sentimenti, dalle passioni e dai drammi, tutti rigidamente ed esclusivamente “individuali”.
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Eataly e il Rinascimento
Una polemica tra Tomaso Montanari e Antonio Scurati
***
Il Rinascimento in salsa tonnata, da Eataly
di Tomaso Montanari
«Eataly presenta il Rinascimento»: è scritto all’ingresso del nuovo negozio di Firenze. E senza un filo di ironia.
Esattamente come fa Mac Donald’s, che a Roma dipinge sulle pareti rovine classiche e in Toscana i cipressi, anche la catena di Oscar Farinetti adotta in ogni luogo una cifra ‘indigena’. Lo fa con lo stesso grado di fantasia (minima) e omologazione commerciale (massima). E, visto che Firenze vive da secoli alle spalle del mito usuratissimo del Rinascimento, a cosa altro si poteva pensare dovendo aprire giusto in faccia a Palazzo Medici di Via Larga?
Tutto ovvio dunque? Forse sì, ma è il modo ad offendere.
«Antonio Scurati, celebre scrittore e professore universitario, ha curato in esclusiva per Eataly un percorso museale che racconta i luoghi, i valori e le figure storiche che hanno contribuito al periodo artistico e culturale più fulgido di sempre», recita un cartello con foto fatale di questo nuovo Vate del Brand Italia.
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Memento italiano
Gianluca Passarelli
Una flessuosa linea di continuità ha attraversato la storia politica italiana, almeno nel periodo repubblicano. Eventi rilevanti, cruciali, definiti variamente come «terremoti», «innovazioni», «rivoluzioni», sono stati in realtà rapidamente derubricati a corrente normalità.
Un collettivo fenomeno di rimozione, cancellazione cosciente o acquiescente e interessata, delle vicende dolorose e vergognose della storia patria. Abbiamo superato o meglio saltato con un’alzata di spalle e un misero e incespicante mea culpa rapidamente recitato come svogliati ragazzini in sagrestia. Per passare da una fase – triste e ignominiosa – a una potenzialmente prospera e civile.
È possibile individuare quattro momenti in cui il cambiamento, pur significativo, ha coinciso con una fase di continuità, una lunga e indistinta calma come se nulla (o quasi) fosse avvenuto. Gli snodi della Repubblica, salutati rapidamente come «rivoluzionari» o «epocali», si sono trasformati però in una appiccicosa fase di reazione, di ritorno alla conservazione e dunque alla continuità senza cambiamento.
Il primo momento, dopo la caduta del Fascismo il 25 luglio del 1943, e la fine della dittatura nazifascista il 25 aprile del 1945, allorché l’entusiasmo repubblicano ha pervaso ogni aspetto della rinata società politica e «civile». Indubbio è stato l’avanzamento che l’Italia ha conseguito e che ha trovato massima e nobile espressione nella Carta costituzionale.
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L’attualità inattuale di Elvio Fachinelli*
di Lea Melandri
Il 21 dicembre 1989 moriva Elvio Fachinelli. Per ricordarlo e per ricordare a quanti lo hanno conosciuto, letto e stimato, che la pubblicazione delle sue Opere, già in stampa presso Bollati Boringhieri, è stata bloccata dall’opposizione dell’editore Adelphi e dalle eredi dei diritti d’autore, desidero mandare a minima&moralia questo saggio inedito, destinato a fare da prefazione al secondo volume, una raccolta di scritti giornalistici e di saggi di grande interesse, che copre trent’anni di storia italiana analizzati da un osservatore acuto quale era Fachinelli, capace di intrecciare in modo originalissimo psicanalisi e politica. Nell’impossibilità di pubblicare anche solo alcuni degli scritti che compongono il secondo volume, ho chiesto a intellettuali, psicanalisti, amici di Elvio di mandarmi brevi saggi su di lui. Ne è uscito un libretto – di cui farebbe parte anche questo mio scritto – che spero incontri l’interesse di un editore.
Una delle ragioni dell’oblio che è caduto sulla figura di Elvio Fachinelli, nonostante le sue analisi sulla modificazione dei confini tra individuo e società, natura e cultura, inconscio e coscienza, siano oggi più attuali che negli anni ’70 e ’80, va cercata proprio nell’originalità di una ricerca che ha contrapposto fin dall’inizio “prospettive impensate” alla “tragica necessità del dualismo”.
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L’Altro Lacan. Dalla struttura alla scrittura
di Pietro Bianchi
[È uscita da poco la traduzione italiana degli Altri scritti di Jacques Lacan (testi riuniti da Jacques-Alain Miller, edizione italiana a cura di Antonio Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2013, pp. 624, € 34,00)]
Freud l’aveva definita una talking cure, e forse è per questo che la psicoanalisi ha sempre avuto una relazione così difficile con la parola scritta. Questo fatto è ancora più evidente quando si parla di Lacan che infatti scrisse relativamente poco durante la sua vita. Non è un caso che solitamente si identifichi lo psicoanalista francese con un seminario più che con un corpus di opere vere e proprie; o che i suoi articoli siano per lo più sbobinature di conferenze, testi pensati per presentazioni orali, o appunti di interventi; e che persino i suoi allievi ancora oggi si riferiscano alla sua esperienza intellettuale chiamandola insegnamento, sottolineandone l’aspetto orale e di formazione degli allievi. E infatti l’unica vera pubblicazione della sua vita, quella che diede una svolta alla sua fama intellettuale – il volume appunto degli Scritti, pubblicato da Seuil nel 1966 – fu reso possibile dalla volontà e dalla perseveranza di un esterno: François Wahl, che riuscì a convincere Lacan con mille sforzi della bontà del progetto. In particolare Wahl riuscì a persuaderlo del fatto che avrebbe avuto bisogno di un proprio “libro” per potersi elevare alla dignità di intellettuale pubblico. Per essere finalmente legittimato come un grande pensatore del proprio tempo.
La storia diede ragione a Wahl, e infatti gli Scritti del 1966 segnarono il definitivo successo pubblico di Jacques Lacan.
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La cultura delle destre
Un contributo alla storia degli intellettuali
di Pietro Piro
«I politici devono farsi dire dove conduce la strada di cui non
conoscono il tracciato e la meta – e devono farselo dire da quelli
che a loro volta non lo sanno, e i cui interessi si orientano a ben
altre cose, che diventeranno in tal modo anch’esse realizzabili». Ulrich Beck, La società del rischio.
«Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro
piagnisteo da eterni innocenti». Antonio Gramsci, Gli indifferenti.
1. Il mondo neutro degli indifferenti
Il libro dello storico Gabriele Turi, La Cultura delle destre [1] è un libro di parte. Indiscutibilmente. La sua colpa più grande è di proporre un’interpretazione che non sia asservita all’ordine del discorso imposto da una cultura che, oltre ad essere chiaramente dominante, non accetta e non tollera nessuna messa in discussione del proprio potere realizzato. Nulla di nuovo sotto il sole. Dove il potere si consolida, nessuna critica – per quanto profonda e argomentata – può essere accettata, discussa, dialettizzata.Quando ci si renderà conto che il padrone non ama essere criticato dal suo servo, forse s’imparerà a comprendere il senso profondo e demoniaco del potere. Turi, con questo libro partigiano, esce dalla folta e compatta schiera degli indifferenti, quella massa amorfa che costantemente abdica alla propria volontà e che «lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare» [2]. Che la ricerca storica sia uno dei luoghi in cui si combattono le battaglie più cruente [3], sembra essere un fatto del tutto estraneo ai critici di Turi che gli rimproverano una mancanza di «oggettività» [4] di cui – ovviamente – essi sarebbero i portatori. Polemica asfittica e insensata. Né Turi né i suoi critici possiedono «la ben rotonda verità» della Storia.
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Proust e Freud: una rivoluzione copernicana
di Mario Lavagetto
[Cent’anni fa, il 14 novembre 1913, l’editore Bernard Grasset pubblicava, a spese dell’autore, Du côté de chez Swann di Marcel Proust, il primo volume di un’opera che avrebbe cambiato la storia del romanzo e della cultura. Pubblichiamo le pagine finali di Quel Marcel! Frammenti dalla biografia di Proust, di Mario Lavagetto, uscito per Einaudi nel 2011 (il titolo originale del capitolo è Rivoluzione copernicana). Ringraziamo l'autore e l'editore (gm)]
Non è, io credo, un arbitrio cogliere nella parabola creativa di Marcel Proust quello che con una terminologia forse desueta, ma funzionale e cara a Thomas Stearn Eliot, potremmo definire un “correlativo oggettivo” del radicale sovvertimento a cui, negli stessi anni, Freud sottoponeva la concezione pre-analitica dell’io sostituendo ad essa una nozione tanto sconvolgente da meritare, ha detto Lacan, “che si introduca a suo riguardo l’espressione di rivoluzione copernicana…”[1]
Quella nozione o quella funzione era certo stata messa in crisi dalla filosofia con Locke, Kant e – dice ancora Lacan – soprattutto con gli psico-fisici i quali avevano cercato di ridurre a un puro miraggio e di screditare l’idea che l’io fosse una sostanza a cui venissero trasmesse le prerogative (in specie l’immortalità) che, nella visione religiosa, competevano all’anima. E tuttavia il colpo definitivo, destinato a pregiudicare in modo irreparabile quello che potremmo chiamare il primato, o la centralità, dell’io, fu inferto da Freud:
Abbiamo usato il termine di rivoluzione copernicana per qualificare la scoperta di Freud. Non che ciò che non è copernicano sia assolutamente univoco. Gli uomini non hanno sempre creduto che la Terra fosse una specie di piano infinito, le hanno imputato anche dei limiti, delle forme diverse, a volte quella di un cappello da signora. Ma tutto sommato avevano l’idea che vi fossero cose che stavano in basso, al centro diciamo, e che il resto del mondo si edificasse sopra.
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Ricordo di Marshall Berman
Vittorio Giacopini
Il faut être absolutement moderne e tutta l’opera di Marshall Berman ruota attorno al perno di questa contraddizione micidiale. L’imperativo di Rimbaud esplode in una fantasmagoria di dilemmi, paradossi, segni erranti. “Essere moderni significa sentire, a livello personale e sociale, la vita come un vortice, scoprire di essere, insieme al nostro mondo, in continuo disgregamento e rinnovamento, immersi perennemente nelle difficoltà e nell’angoscia, nell’ambiguità e nella contraddizione: essere parte di un universo in cui tutto ciò che vi era di solido si dissolve nell’aria”.
L’esperienza della modernità (un libro stupendo) è del 1982 (edizione italiana Il Mulino, ristampato di recente), e la data conta. Potevano essere anni di resa e perplessità; di diserzione. Non era un bel momento, poco ma vero. La morte del sogno dei sixties – un congedo forse rinviato troppo a lungo – la fine della stagione dei Movimenti. In Europa il dibattito culturale si perdeva nelle gore astratte dello strutturalismo, in America prevaleva – velata dal disincanto – la Reazione. Bisognava reagire, oppure piegarsi. L’altro grande libro americano di quegli anni, La cultura del narcisismo di Christopher Lasch, per dire, è una scelta di campo anti-moderna. Figlio degli anni sessanta, e marxista a modo suo, piuttosto atipico, Berman di fronte al disastro invece si azzarda a rilanciare, riapre i giochi.
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“Dopo il futuro: Dal Futurismo al Cyberpunk”
di Tiziana Terranova
Franco Berardi (Bifo), Dopo il futuro: Dal Futurismo al Cyberpunk. L’esaurimento della Modernità, DeriveApprodi, Roma 2013, pp. 136, € 14.00
In una delle sue lezioni al Collège de France, Michel Foucault offre questa spiegazione del rapporto tra il sapere dell’intellettuale e la lotta. Non spetta all’intellettuale esortare il popolo alla lotta (‘battetevi contro questo in tale o talaltro modo’), piuttosto quello che il sapere dovrebbe fare è dire, rivolgendosi a coloro che vogliono lottare, ‘se volete lottare, ecco dei punti chiave, delle linee di forza, delle zone di chiusura e di blocco’1. È chiaro che nonostante il titolo del nuovo libro di Franco Berardi sia carico di parole quale ‘dopo il futuro’ e ‘esaurimento’, esso non può fare a meno o non intende dissaduere dalla lotta, dalla ricreazione del futuro, non è un libro cioè che ci dissuade da quell’atto fondamentale per qualsiasi pratica politica costituente che è credere nel mondo. E tuttavia, da schizoanalista qual è, si tratta di un libro che pone pesantemente l’accento sui blocchi del desiderio e quindi delle lotte, o nei termini del libro, esso pone la centralità della questione della sensibilità, dell’empatia e dell’etica. Si tratta di un libro che pratica l’arte schizoanalitica della diagnosi, mettendo in evidenza tutta una serie di sintomi, culturali e sociali, che mostrano l’evoluzione e l’esaurimento di quella idea di futuro che ha giocato un ruolo fondamentale nei movimenti politici del novecento, e le conseguenze oggi del suo esaurimento.
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La nave del capitalismo
In Melville parla il futuro anteriore
di Sandro Chignola
Scritto tra il `52 e il `53, mentre Cyril Lionel Robert James si trovava rinchiuso a Ellis Island come "undesiderable alien" in attesa di espulsione dagli Usa, il libro su Melville (Marinai, rinnegati e reietti. La storia di Herman Melville e il mondo in cui viviamo, con postfazioni di Bruno Cartosio e Gianni Mariani e una nota biografica di Enzo Traverso, Ombre Corte, € 14,50), si inserisce a pieno titolo nella discussione inaugurata qualche anno prima da F. O. Matthiessen, che in American Renaissance (1941) aveva rintracciato il tratto distintivo dei grandi scrittori americani nella loro adesione alle idee di democrazia e di libertà, dando così l'avvio a una febbrile attività interpretativa dalle non troppo dissimulate intenzioni politiche.
Per C. L. R. James, scrittore nero, militante panafricanista e teorico diventato marxista, a suo dire, grazie alla contemporanea influenza di due libri, La storia della rivoluzione russa di Trotzkij e Il tramonto dell'Occidente di Spengler, e quindi non facilmente permeabile da suggestioni sull'immediata espansività del sogno americano, Moby Dick travalicava ampiamente, per la sua grandezza, i limiti del romanzo moderno. E poiché proponeva la tragedia di un intero ordine sociale e culturale - non quella di un singolo individuo - poteva essere posto sullo stesso piano dell'Orestea o del Re Lear. Il viaggio sugli oceani del Pequod è il viaggio della civiltà moderna "alla ricerca del suo destino". E' questa dimensione propriamente tragica a fare del microcosmo del Pequod il nostro stesso mondo, "the world we live in", come recita il sottotitolo del libro.
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