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Nessuna speranza
di Vittorio Giacopini
Eugenio Scalfari parla di “speranza” e già provi un vago senso di sconcerto. In una delle sue omelie domenicali, più o meno a fine settembre, già in autunno, il padre della “Repubblica” sorprende con una lenzuolata di ottimismo. Mentre il suo giornale si avvita, inutilmente, in un corpo a corpo ostinato col regime – di cui denuncia e incarna molti vizi – il canuto e loquace fondatore intravede la luce alla fine del tunnel o, quantomeno, alcuni primi segnali incoraggianti. In un paese che è già un eufemismo dire “devastato” (Scalfari cita Crainz, e cita bene), si colgono bagliori di resistenza inaspettati, esempi confortanti di riscossa. Buono a sapersi.
Davvero – nel mondo delle cultura, nelle arti – sta nascendo qualcosa di nuovo, un’energia, capace di criticare – e superare – gli anni del berlusconismo, questo sfacelo, e le loro premesse di lungo periodo (ancora citando Crainz: “il carico di demagogia, qualunquismo, populismo, vittimismo” che sono l’identità più autentica d’Italia)? Secondo Scalfari sì, et pour cause. I “giusti” d’Italia stanno ridestandosi, e dalla cultura soffia un vento nuovo.
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Nuovo cinema paraculo
di Alessandro Bertante
L’occasione è di quelle da non farsi sfuggire. Due biglietti per la faraonica anteprima di Barbarossa, il kolossal padano che narra l’epico scontro fra i comuni lombardi, capitanati da Alberto da Giussano, e l’imperatore tedesco Federico I Hohenstaufen. Tanto più che negli ultimi mesi si è fatto un gran parlare di questo film, fortemente voluto da Umberto Bossi – che grazie alla mitologia di Pontida ha costruito parte della sua fortuna politica – coprodotto da Rai Fiction e Rai Cinema, girato da Renzo Martinelli e costato circa 30 milioni di dollari, una cifra enorme per una produzione italiana.
La sede scelta per l’anteprima è niente meno che il Castello Sforzesco di Milano, addobbato a festa come un panettone medievale. C’è polizia ovunque perché si vocifera che si presenti anche il premier. Con il mio amico scrittore che mi accompagna in questa escursione “lumbard”, noialtri si arriva nello stesso momento di Bobo Maroni.
Seguiamo ordinati il codazzo del ministro, passando il ponte levatoio per imbatterci subito nel garrulo Borghezio che intona una marcetta padana, accompagnato da una banda di cornamuse bergamasche. L’inizio sembra molto promettente. Ci mettiamo in un angolo ad osservare questo strano popolo formato da quadri leghisti locali e nazionali, qualche esponente PDL, un buon numero di quella che un tempo era la borghesia milanese colta e che adesso è solo la borghesia milanese stanca, più qualche giornalista di costume. Non intravedo nessun uomo di cinema e neanche una starlet o velina (tira un brutta aria). Andiamo avanti. La sala della proiezione è nello splendido Cortile della Rocchetta e mentre mi compiaccio della magnificenza del posto penso a quanto possa essere costato questo scherzetto al Comune: la cifra come minimo si aggira sulle centinaia di migliaia di euro.
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Mike Bongiorno fa spot anche da morto
Carla Benedetti
E' inutile chiedersi cosa abbia fatto di tanto importante per il paese e per la collettività Mike Buongiorno da meritarsi i Funerali di Stato, e da essere compianto nel Duomo di Milano dal primo ministro e da una folla commossa di italiani. Lo sappiamo già: non ha fatto assolutamente nulla.
Non è stato presidente della Repubblica, non ha ricoperto una delle massime cariche dello stato come Nilde Jotti, non ha inventato un sistema di telegrafia senza fili come Guglielmo Marconi, non ha combattuto la mafia come il generale Dalla Chiesa, non è morto eroicamente in Irak come Nicola Calipari, non ha prodotto opere d'arte memorabili come Giuseppe Verdi, Federico Fellini o Alberto Sordi. Non è stato vittima di attentati o calamità come i Caduti di Nassiriya, le vittime del terremoto d'Abruzzo o i morti dell'incidente ferroviario di Viareggio.
Ha solo lavorato per 50 anni in televisione facendo (bene o male non è qui in discussione) il suo mestiere di presentatore e poi di testimonial di noti marchi. Ha fatto, come tanti italiani longevi, il suo lavoro oltre l'età della pensione. Solo che lo ha fatto sugli schermi, così che il suo volto si è impresso tante volte sulle retine di tantissimi telespettatori. Per questo Mike Buongiorno viene definito un personaggio pubblico. Ma di pubblico c'è ben poco.
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“Videocracy” o del fascismo estetico (1)
di Andrea Inglese
La negligenza, e quasi la cecità, della sinistra e della sua intellighentsia dinanzi a questo fenomeno deriva dalla situazione con cui hanno guardato alla cultura delle masse, che è stata considerata sempre marginale rispetto al potere presunto vero, cioè alla dimensione politica ed economica. Raffaele Simone
Essere spettatori di Videocracy è un’esperienza profondamente sgradevole. Durante la proiezione del documentario è percepibile un diffuso imbarazzo, che ogni tanto è rotto da qualche risata liberatoria. Ma quelle risate, appena risuonano, più che liberare incatenano maggiormente alla propria vergogna. Poi c’è lo schifo. Uno schifo da tagliare col coltello. E quindi la nausea di nervi, veri e propri crampi. E quando ti alzi e vedi gli altri spettatori come te, e sai già fin d’ora che se ne andranno come se niente fosse, come si esce ogni sera da un cinema, un po’ stralunati e un po’ eccitati, ti piomba di nuovo addosso la vergogna, quasi fossimo tutti quanti testimoni passivi e docili di un crimine detestabile, concluso il quale ognuno se ne va solitario, omertoso e impotente a casa propria. Strano effetto, davvero. Ma come? Non avevo io letto Anders, Debord, Baudrillard, Bauman? Non avevo letto Barbaceto, Travaglio, Perniola, la Benedetti, Luperini? Non conoscevo già tutta questa vicenda a memoria? Non avrei dovuto essere immune dallo shock? Non ho forse letto analisi e ascoltato dibattiti sul genocidio culturale, sulla rivoluzione mediatica degli anni Ottanta? Sul grande smottamento antropologico, cominciato con Drive in?
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I tecnocrati europei assaltano la rete
di Ilvio Pannullo
Il nuovo testo sulla regolamentazione delle telecomunicazioni sta prendendo vita in questi giorni nelle stanze segrete di quelle che vengono definite, impropriamente, “istituzioni europee”. Tra emendamenti e votazioni, dibattiti ed aggiustamenti, diversi soggetti, tutti privi di una reale e diretta attribuzione di sovranità da parte dei popoli sovrani di Europa, si apprestano a ridefinire un nuovo concetto di rete. La rete dei padroni. Nonostante il testo non sia stato ancora votato dal Parlamento e non abbia ancora, quindi, forza vincolante nei confronti degli stati membri, è certo che quelli che ora sembrano punti fermi - osservano infatti già in molti - potrebbero irreggimentare la rete, trasformarla in un servizio controllato dall'industria dei contenuti, privandola così della sua neutralità. Dopo la radio e la televisione è ora la rete ad essere entrata nel mirino di quanti, in questo mondo globalizzato, sognano di governare i propri affari riempiendo dei giusti contenuti la vita della maggioranza più uno delle libere popolazioni europee. Ma andiamo con ordine. Nel novembre 2007 la Commissione presentò alcune proposte di riforma della normativa sulle telecomunicazioni dell’Unione Europea, intese a creare un mercato unico delle telecomunicazioni che consentisse di migliorare i diritti dei consumatori e delle imprese e di aumentare la concorrenza e gli investimenti, oltre a promuovere la prestazione di servizi transfrontalieri e la banda larga senza filo ad alta velocità per tutti.
I nuovi testi presentati il 7 novembre 2008 dalla Commissione furono discussi nel quadro del Consiglio dei ministri delle telecomunicazioni. Al centro dei testi, frutto del compromesso, si trovava un nuovo, piccolo ufficio indipendente per i regolatori europei delle telecomunicazioni che avrebbe dovuto aiutare la Commissione a garantire una maggiore coerenza delle misure regolamentari.
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Animal spirits
Matteo Pasquinelli, Animal spirits: a bestiary of the commons, Rotterdam, Nai Publishers/Institut of Network Cultures, pp. 240, euro 23,50
Se nel passato il dominio mondiale si giocava nel controllo dei mari e del commercio internazionale, oggi la chiave dei rapporti di potere ruota attorno al controllo dello spazio e del yberspazio, ovvero dei commons globali: questa è una delle tesi del Project for the New American Century del 2000. I neocon non hanno compreso, però, che nessuna linea di continuità può essere istituita: il «capitalismo 3.0», per citare il volume dell'uomo d'affari Peter Barnes recentemente tradotto dalla casa editrice Egea, si alimenta non dell'organizzazione, bensì della cattura della produzione del comune. Qui prende corpo il parassita, una delle «bestie» cui allude il sottotitolo del prezioso libro di Matteo Pasquinelli.
Spostare il focus della critica alla knowledge economy dalla proprietà intellettuale ai rapporti di produzione: questa è la riuscita scommessa dall'autore. Muovendosi agilmente tra Bataille e Serres, tra le distopie di Ballard e Agamben, Pasquinelli passa al filo di un'analisi intelligentemente acuminata vari obiettivi polemici, tra cui Baudrillard, Zizek o Florida, nonché i troppo facili entusiasmi che suscitano nei movimenti concetti come «classe creativa» o le retoriche della rete. Tra queste spiccano il movimento Free Culture e il «digitalismo», che dipingono la comunicazione come uno spazio per natura orizzontale, libero dallo sfruttamento e dai rapporti capitalistici.
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L'uomo artigiano
Giuliano Battiston intervista Richard Sennett
Un'intervista con lo studioso statunitense, in Italia per presentare il suo libro su «L'uomo artigiano». La necessità di organizzare la vità politica in base alle virtù e al network di conoscenze e competenze maturate nello svolgere bene il proprio lavoro
Autore dalla mentalità filosofica radicata nel pragmatismo americano e dall'atteggiamento critico proprio degli etnografi - perché «un'idea deve confrontarsi con l'esperienza reale, altrimenti diventa una pura astrazione» -, Richard Sennett è il sociologo contemporaneo che ha offerto strumenti indispensabili per comprendere le conseguenze del capitalismo sulla vita quotidiana e i deficit sociali prodotti dall'erosione del «capitalismo sociale», dimostrando che il capitalismo flessibile conduce al disordine, dando vita a «forme culturali che celebrano il cambiamento personale ma non il progresso collettivo» e, allo stesso tempo, a forme di potere ancora più opache. Di fronte a questa opacità, suggerisce Sennett, non dovremmo mai stancarci di elaborare strategie per rendere leggibile e visibile la figura che incarna l'autorità pubblica, smascherando le sue illusioni attraverso l'uso dell'immaginazione. Dopo tutto, «il difficile, scomodo, e spesso amaro compito della democrazia» è proprio questo: introdurre un «disordine intenzionale dentro l'edificio del potere».
Nato a Chicago nel 1943, dopo aver abbandonato una promettente carriera di musicista Richard Sennett si è dedicato alla sociologia, formandosi nelle Università di Chicago e Harvard. Negli anni Settanta insieme a Susan Sontag ha fondato (e poi diretto) il «New York Institute for the Humanieties». Già consigliere dell'Unesco e presidente dell'«American Council on Work», si divide tra l'insegnamento alla New York University e alla London School of Economics. È autore di tre romanzi e di diversi testi. In Italia sono stati pubblicati L'uomo flessibile (Feltrinelli), Rispetto (il Mulino), La cultura del nuovo capitalismo (il Mulino), Autorità (Bruno Mondadori), Il declino dell'uomo pubblico (Bruno Mondadori). Lo abbiamo incontrato a Milano, dove ha presentato il suo ultimo libro, L'uomo artigiano (Feltrinelli, traduzione di Adriana Bottini, pp, 311, euro 25), di cui il manifesto ha già parlato il 27 novembre.
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Recensione a Lo Stato dei diritti di Luigi Cavallaro
Luigi Cavallaro, Lo Stato dei diritti. Politica economica e rivoluzione passiva in occidente, prefazione di Giorgio Lunghini, Napoli, Vivarium, 2005, pp. 280, € 32,00. Isbn: 88-85239-92-7.
Fin dal 1859 Marx caratterizzò la società nella quale predomina il modo di produzione capitalistico come una “enorme raccolta di merci”, e la merce singola quale forma nella quale, in tale società, si presenta il prodotto del lavoro. Il concetto di merce all’interno della sistematica marxiana ha un significato fondamentale, dal quale attraverso l’iniziale opposizione di cui essa è sinolo, – valore d’uso e valore – si sviluppa l’intero sistema della critica dell’economia politica.
Proprio prendendo le mosse dalla forma semplice assunta dal prodotto del lavoro, Cavallaro argomenta la necessità di pensare la forma di società, quale si è costituita nei paesi occidentali dal secondo dopoguerra fino verso la fine degli anni settanta, come una società nella quale hanno convissuto conflittualmente due differenti modi di produzione, quello capitalistico della produzione di merci e quello statuale della produzione di diritti.
L’idea forte che sottende tutto il libro è quella
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Hannah, Elfride e Martin
Rossana Rossanda
Chi di noi, lettrici e lettori di Hannah Arendt non ha provato un moto di antipatia per Elfride, la moglie di Martin Heidegger, nazista e antisemita, che gli impedì di vivere apertamente la sua passione per la giovane studentessa ebrea, lui così brutto ma affascinante maestro, lei così bella e indifesa che ne beveva le parole? E' lui che l'ha afferrata e baciata durante una passeggiata nel bosco, e mandato subito dopo una lettera di scuse ma ardente. Ne seguiranno altre in una relazione che durerà per qualche anno. Come tutte le lettere d'amore, quelle di Martin non valgono granché se non si è poeti, e ancora. Martin non lo è, anche se si lascia andare a effusioni liriche e talvolta si prova nei versi, mentre le lettere di Hannah sono di un giovane cuore e di una giovane mente alle loro prime passioni. Loro essendo - lei pensa - persone speciali, Hannah accetta di essere l'amante segreta di una commedia borghese, di trovarsi altrove, di nascosto, in qualche città vicina dove egli deve andare per questo o quel seminario, prendendo treni diversi, incontrandosi in alberghi fuori mano. A Friburgo intanto lui suggerisce che lei passi ogni sera alle dieci davanti alla sua casa e se vede accesa la tal finestra, vuol dire che Martin può filarsela per un'ora e lei non ha che da aspettarlo su una certa panchina. Se luce non s'è, pazienza, si vedranno il giorno dopo, o due, o tre. Martin è sposato e ha due figli, non intende mettersi a rischio e Hannah non vuole altro che esserne amata, non è donna che farebbe mai storie, e sa che Elfride è, come tutte le mogli, necessaria, non geniale, esigente, gelosa.
In questa storia tutta la nostra simpatia è per Hannah, unita a una certa compassione per la viltà del genio innamorato, e alla persuasione che Elfride sia la solita megera. Dopo qualche anno però Hannah ne ha abbastanza, rompe senza scene e se ne va. Avrà prima con Guenther Anders, poi con Bluecher una vita coniugale libera, una casa per gli amici. Partirà in tempo per gli Stati Uniti, assisterà da lontano alla compromissione di Heidegger con il Partito nazional socialista, cui si iscrive nel 1933 assieme alla moglie, e poi al suo diventare rettore e al famoso discorso e alle interdizioni agli ebrei fra i quali Husserl che gli aveva dato la cattedra, di frequentare la biblioteca. Poi al suo abbandono dell'incarico, i nazisti sono troppo ignoranti - unico vizio che egli nota - e il dedicarsi a pensare e a scrivere, convinto della sua superiore missione. Per la quale Elfride ha costruito una capanna in alto tra i boschi, dove il filosofo avrà il necessario raccogliemento, oltre alla comodità cui lei provvede.
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L'estetica di Superciuk
di Franco Ricciardiello
La semplificazione non è una scorciatoia per rappresentare un’idea in maniera sintetica: è un processo di riduzione che elimina tutte le sfumature, per arrivare a un contrasto bianco/nero, uno/zero, inutile per una vera comprensione. La semplificazione riduce la capacità di pensiero. Per tentare una comprensione del mondo, la complessità è indispensabile: abbiamo bisogno di una mappa efficace per descrivere un territorio di complicazione tale da risultare irriducibile. La semplificazione imbarbarisce il senso estetico, la percezione della complessità invece ne favorisce lo sviluppo.
Fatta questa premessa, se dovessi scegliere un modello per rappresentare l’italiano di oggi — con la debita prevenzione intellettuale per la semplificazione — la prima figura che mi verrebbe in mente è Superciuk, l’anti-patico anti-eroe del fumetto di Max Bunker, Alan Ford/Gruppo TNT, il Robin Hood alla rovescia che ruba ai poveri per donare ai ricchi.
Anzi, persino questa è una semplificazione: Superciuk trafuga, per esempio, elettrodomestici acquistati a rate pluriennali da famiglie proletarie per regalarli a capitani d’industria che li sistemeranno nella villa al mare, dove magari soggiornano una volta all’anno per pochi giorni.
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Uno scandalo bipartisan: i ricchi, gli arricchiti
di Goffredo Fofi
Gli economisti sanno bene che le disuguaglianze tra i ceti sociali e le persone vanno crescendo a vista d’occhio (cominciano a rendersene conto anche in Italia, anche se i più, e non importa di che schieramento, fingono di non vedere o elaborano effimere ricette destinate a scontrarsi con l’avidità e la amoralità della classe dirigente, di cui peraltro sono parte integrante). Per consolarsi, dicono che però diminuiscono quelle tra i popoli, e fanno l’esempio della Cina e dell’India ma tacciono di tanti altri paesi e del continente africano. Nel quadro complessivo il peso centrale dell’impoverimento dei più è dato certamente dal predominio della finanza sulla produzione: la dimensione finanzaria sopravanza quella prettamente economica e cioè la realtà, ed è questo a permettere gli arricchimenti più facili e improvvisi di chi con la finanza sa giocare e di chi sta loro attorno.
Se aggiungiamo a questo quadro l’assenza di una funzione ridimensionante del sistema fiscale, di cui la politica si serve con molta disinvoltura, attentissima a farsi amici coloro che i soldi sanno farli e maneggiarli, non c’è da stare allegri e certamente non si può essere ottimisti sul nostro futuro. Sul futuro delle maggioranze.
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André Gorz scrive a D.
Rossana Rossanda
Verso la fine del 2006 usciva a Parigi Lettre à D. di André Gorz. Sottotitolo: «Récit», racconto o rendiconto. D. era la sua compagna, Dorine. Ci sorprese di Gorz, che veniva da Les Temps Modernes di Sartre, del quale avevamo conosciuto sempre libri e saggi filosofici o politici, ma questa era una lettera d'amore. Di più, un lungo domandare perdono a lei, tanto più forte. Dopo cinquantotto anni di vita passati assieme, era sempre così «bella e aggraziata e desiderabile» che egli «di recente (era) tornato a innamorarsene».
Da quando si erano incontrati a Losanna nel 1947, ancora frastornati dalla guerra, non si erano più lasciati, lei la sua sola donna, lui il suo solo uomo. Lui un allampanato ebreo austriaco - cioè niente, aveva detto qualcuno - lei un'affascinante ragazza inglese, la pelle trasparente e la capigliatura rosso miele. Che cosa avrebbe potuto vedere in lui quello splendore?
Invece lo splendore lo aveva visto e si erano consegnati l'uno all'altra. Per la vita, aveva deciso lei; lui dubitava di tutto, e in specie di ogni istituzionalizzazione, ma lei aveva tagliato corto: un progetto di vita è cosa che si sceglie e sarebbe stato, e sarebbero stati, quel che ne avrebbero fatto. Quasi Sartre. Che avevano in comune due esseri così differenti? Una ferita originaria. Quella di coloro al cui venire alla luce la madre non aveva sorriso. Una non infanzia. Il non avere un proprio posto. Tutti e due avevano lasciato l'approssimativa famiglia e il loro paese per farsi uno spazio da soli, senza radici, in un altrove. Lei era a Losanna per fare teatro, lui lavoricchiava per scrivere.
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Anestetizzati
di Goffredo Fofi
In Italia, si ha da tempo l’impressione di un intero paese, di un’intera cultura anestetizzati. Dalle anestesie, si sa, ci si può risvegliare molto male – con la possibilità di trovarsi di fronte, per esempio, realtà nuove e terribili, come il “figlio di Iorio” di una rivista di Totò che si ridestava nella Roma dell’occupazione tedesca. Ma capita anche che non ci si risvegli affatto, precipitando direttamente nel nulla della morte o nelle nebbie di un coma profondo, irreversibile. Il “ritorno alla vita” è sempre traumatico, anche quando è quello di Lazzaro: se ci sarà, non sarà semplice e a scontarlo maggiormente saranno proprio gli ignavi che si sono lasciati addormentare (fuor di metafora: che si sono lasciati ammazzare la coscienza, cioè la capacità di ragionare sulla propria condizione, nel quadro dello stato del mondo ).
Ad anestetizzarci sono stati – e lo hanno fatto, bisogna dirlo, con molta abilità – giornalisti politici preti insegnanti intrattenitori (ce ne sono che vengono detti animatori, quando il loro lavoro è di disanimare, distraendo da ciò che conta), e nel caso dei giovani lo hanno semplicemente fatto gli adulti, e i mercanti e pubblicitari che stanno alle loro spalle. I mercanti, soprattutto. Mercanti di tutto, perfino del trascendente e del sacro. Le colpe variano, ma sono colpe e vanno chiamate con il loro nome. Si presume di solito che gli alienati abbiano meno colpe degli alienanti, ma anche questo si può ormai metterlo in discussione: non vediamo all’intorno innocenti, nel presente stato delle cose tutti hanno – tutti abbiamo – le nostre responsabilità.
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Parliamo di donne
di Rossana Rossanda
Siamo davanti a elezioni che si autodefiniscono costituenti, e di donne non si parla. Sono metà del paese, anzi un poco di più e in politica contano meno che in qualsiasi altro campo. Ci sono donne capi di stato e di governo nei paesi d'occidente e nei paesi terzi. Che in questi siano perlopiù moglie o figlia, orfana o vedova di un illustre defunto è un arcaismo ma, rispetto a una tradizione che non ammetteva donne al comando, è una frattura. Negli Usa l'avvocata Hillary Rodham corre anch'essa con il nome del marito, perché è l'ex presidente Clinton.
In Italia non siamo neanche a questo, e arrivarci non sembra urgente né alle destre né alle sinistre. In Francia Nicolas Sarkozy ha composto il suo governo metà di uomini e metà di donne. Più abile delle nostre maschie mummie, con tre di esse ha preso due piccioni con una fava: la maghrebina e la senegalese sono, socialmente parlando, due belve, la femminista non ha più seguito. E' vero che Sarkozy interviene su tutto e tutti, maschi o femmine che siano, ma in quanto monarca è più avvertito dei nostri.
I quali non riescono a fare fifty-fifty non dico un governo, ma le liste, lasciando al sessismo ordinario dell'elettorato di scremare le presenze femminili. Per cui sarei a proporre - non per la prima volta e come recentemente l'Udi - che le Camere siano composte metà di uomini e metà di donne. Almeno finché esiste in Italia, e non si schioda da oltre mezzo secolo, una democrazia che discrimina il genere.
Insomma il maschio politico italiano è ancora un bel passo indietro rispetto alla semplice emancipazione. E le donne italiane come sono?
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Il sogno del nomade. Appunti dalla terra estrema.
di Francesca Matteoni
“In una certa stagione della nostra vita, noi siamo soliti considerare ogni pezzo di terra come possibile luogo
di dimora”.
HENRY D. THOREAU
“Per quale diavolo di motivo volete tornare là? Non è che un vecchio autobus”.
BUTCH KILLIAN, uno dei cacciatori d’alce che trovò il
corpo di Chris McCandless a Stampede Trail, in Alaska nel
Settembre 1992
Ricordare la propria ignoranza
Quando tra il 1845 ed il 1847 il filosofo americano Henry David Thoreau si trasferì a vivere in una capanna nei boschi presso il lago Walden nel Massachussetts, non lontano dalla sua città natale, non compiva una fuga dalla civiltà moderna, ma, parafrasandolo, “recuperava la sua ignoranza” - seguiva un’attitudine primigenia nell’uomo di scoperta e indagine del mondo, che viene inesorabilmente repressa dall’aderenza a modelli prestabiliti (il lavoro, la famiglia, la reputazione) con l’età adulta.
Era il suo un atto profondamente etico, teso a dimostrare che conformandosi senza riserve al modello sociale consolidato si finisce spesso con il disobbedire alla nostra indole più intima, azzittendo quel particolare “genio” che dà all’individuo la sua singolarità.
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