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La nostra distopia culturale
L’immaginario italiano come spazio concentrazionario
Christian Caliandro
Nel 1961 Kurt Vonnegut pubblicò quello che è ancora oggi uno dei migliori racconti distopici di sempre. Harrison Bergeron tratteggia in poche, dense pagine una società paralizzata (in un’America «senza tempo»), in cui viene tecnicamente impedito a tutti di pensare: la gente guarda orribili e inutili programmi in tv, e per quelli un pochino più intelligenti l’Handicapper General – che tutto vigila e controlla attraverso i suoi agenti – ha predisposto un dispositivo radiofonico nelle orecchie che a intervalli regolari trasmette allarmi, campane, esplosioni che impediscono a persone come George, il padre di Harrison, di «trarre un indebito vantaggi dal proprio cervello». Il presupposto è che la cultura sia intrinsecamente pericolosa dal momento che esaspera le contraddizioni invece di comporle e impedisce il conseguimento di un’agghiacciante «uguaglianza», basata sullo spegnimento delle funzioni intellettuali e critiche. Sulla stupidità programmata.
Ecco, l’Italia degli ultimi trent’anni ha funzionato più o meno così. Nel 1982 – agli albori cioè di questa dinamica – Antonio Porta consegnò a «Nuovi Argomenti» alcune riflessioni illuminanti, chiamando esplicitamente «schizofrenia» l’incipiente e costante dissociazione italiana dalla realtà: «Italiani significa essere esposti a continue e improvvise lacerazioni, essere quasi inermi di fronte al pericolo di una schizofrenia costante. L’essere dell’italiano è fatto di sostanza schizoide. Ciò accade senza alcun sovraccarico di patetismo; nulla di meno straziante o intimo di questa schizofrenia: essa accade come a “un altro”, e di fatto molti italiani vivono esattamente come se accadesse sempre a “un altro”. Il metafisico “altro” di lacaniana memoria è utilizzato dall’essere italiano per scaricare “fuori” ogni possibile disturbo privato, conseguenza dello stato di schizofrenia costante» (Schizofrenia italiana, in «Nuovi Argomenti», n. 4, terza serie, ottobre-dicembre 1982, anche in: http://www.alfabeta2.it/2011/02/10/schizofrenia-italiana/).
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Massimo Recalcati e la psicopatologia della politica italiana
Massimo Recalcati nel libro-intervista, a cura di Christian Raimo, Patria senza padri. Psicopatologia della politica italiana ci spiega perché «siamo in un tempo di precarietà». Oggi Recalcati è stato ospite di Concita De Gregorio a Pane quotidiano, la nuova trasmissione di Rai Tre. Questa sera alle 20.15 andrà in onda la replica della puntata. (Immagine: Pietro Manzoni.)
Precarietà è un termine plastico, che negli ultimi anni ha significato o ha alluso alle cose più disparate. Partendo dal lessico lavorativo sembra aver dato nome a una condizione contemporanea di indeterminatezza e insieme di fragilità, di mancanza: ma una mancanza, una fragilità senza apertura, mentre il significato latino della parola pre-carius era «disposto in preghiera». In qualche modo una condizione di speranza, se non altro trasformativa. Precarietà ti sembra una parola diversa da disagio?
La parola precarietà non esiste nel lessico freudiano mentre credo sia centrale nell’interpretazione del nostro tempo. Siamo in un tempo di precarietà. Precarietà non è sinonimo di Disagio della civiltà perché quest’ultimo è, in ultima istanza, l’espressione instabile di un conflitto strutturale tra l’istanza del desiderio e l’istanza del principio di realtà. Non è l’inferno, ma è la condizione umana; dove c’è una comunità umana c’è istanza del desiderio e c’è programma della civiltà che tende a disciplinare quest’istanza sovversiva e questi due movimenti non sono conciliabili armonicamente; generano sempre delle dissonanze, delle conflittualità inevitabili.
Ai tempi di Freud, l’elemento che aggravava il Disagio della civiltà era la guerra ed era il totalitarismo, cioè il fatto che gli esseri umani evitavano la dissonanza tra questi due programmi – il programma del desiderio e quello della civiltà – rifugiandosi nel grande corpo della massa totalitaria, nel grande corpo del totalitarismo.
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Ciò che è vivo e ciò che è morto
Il paradosso situazionista
Mario Perniola
Che cos’è il movimento situazionista?
Occorre innanzitutto precisare che cosa s’intende per «movimento situazionista» e per «situazionismo». Si possono intendere tre cose differenti.
La prima è l’Internazionale situazionista, un gruppo d’avanguardia artistico-politica che si è costituito in Italia a Cosio d’Aroscia (Cuneo) nel luglio 1957 e si è dissolto nell’aprile 1972. Questa è stata un’associazione chiusa, cui hanno partecipato complessivamente nei quindici anni della sua esistenza 70 persone (63 uomini e 7 donne). La pratica delle esclusioni e delle dimissioni fece sì che nel gruppo fossero contemporaneamente presenti non più di una decina di membri. Il leader del gruppo è stato il francese, di origine italiana per parte di madre, Guy Debord (1931-1994) che ha svolto un ruolo egemonico per tutto il periodo della sua esistenza. La frequenza delle espulsioni (45 membri su 70 furono espulsi), unitamente alla pratica delle «rotture a catena» e al dogmatismo esasperato per cui le affermazioni di ognuno impegnavano anche tutti gli altri, conferì a questo gruppo quel carattere settario cui sono sempre stato refrattario: perciò nel periodo in cui fui in stretto rapporto con loro (tra il 1966 e il ’69) non entrai a farvi parte. Il gruppo produsse tra il giugno 1958 e il settembre ’69 dodici numeri di una rivista, il cui direttore fu sempre Guy Debord. L’Internazionale situazionista ha fin dall’inizio rifiutato di riconoscersi nel termine «situazionismo», attribuendo a questa parola un significato negativo: essa, infatti, sarebbe stata connessa col ricupero da parte del mercato artistico delle produzioni dei membri del movimento.
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Non di soli desideri vivono le masse*
Osservazioni e obiezioni a Guido Mazzoni
Ennio Abate
ch'i' non posso tacere; e voi non gravi
perch'io un poco a ragionar m'inveschi.
(Inferno – Canto XIII)
Pur riconoscendo al saggio di Guido Mazzoni chiarezza di esposizione, capacità di spaziare su un dibattito culturale di grande interesse e descrivere con puntualità una sensibilità oggi diffusa in vasti strati intellettuali, non riesco ad accogliere buona parte della sua analisi e soprattutto la sua conclusione, che a me è parsa non una «forma profonda di saggezza», ma politicamente rassegnata e nichilista. Esprimo qui di seguito – spero rispettosamente ma con fermezza – il mio dissenso.
1.
È vero che Guido Mazzoni parla di un oggetto specifico (la cosiddetta vita psichica delle masse occidentali). E che prudentemente mette le mani avanti: «il volto di cui parleremo copre solo una parte del fenomeno: l’aspetto che più spesso si mostra nell’esperienza quotidiana delle masse europee e americane, o delle masse che imitano la forma di vita occidentale». Se però vuole considerarne la «metamorfosi senza precedenti» in un consistente arco di tempo ( l’ultimo quarantennio), come non accennare alle metamorfosi politiche; e dunque alle scelte di quanti hanno avuto il potere di compierle interferendo pesantemente sulla vita materiale e psichica delle masse.
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I desideri e le masse. Una riflessione sul presente*
di Guido Mazzoni
Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio
in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni.
(Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo)
Ringrazio gli organizzatori del convegno per l’invito, che accolgo molto volentieri. L’occasione di oggi mi costringe a dar forma ad alcune cose che penso confusamente da molto tempo e che forse non ho ancora pensato fino in fondo. Proverò a esporle nello stato in cui si trovano, approfittando del diritto alla semplificazione che le tavole rotonde consentono.
Negli ultimi quarantacinque anni la vita psichica delle masse occidentali ha subito una metamorfosi senza precedenti; noi tutti ne siamo stati trasformati e travolti. Fedele a un’idea eroica e maschile dell’accadere e dell’esperienza, all’idea che le rotture epocali si manifestino sotto forma di guerre e rivoluzioni, una parte della cultura contemporanea continua a sottovalutare la portata di quanto è avvenuto. E’ una miopia che si manifesta talvolta in forma esplicita e più spesso in forma implicita, come accade ogni volta che applichiamo alla nostra epoca concetti, parole e miti che non reggono più. Molte delle categorie con cui giudichiamo il presente, con cui prendiamo una posizione etico-politica sui problemi della nostra epoca, danno l’impressione di scivolare sulla realtà senza afferrarla, o perché fanno riferimento a un futuro che, non rimandando più a un progetto politico, rappresenta solo la proiezione di un desiderio, o perché fanno riferimento a un passato che non ritornerà. Quali sono i tratti più vistosi della metamorfosi? Che cosa è accaduto?
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La lotta di classe c’è ancora
Michele Smargiassi intervista Mario Tronti
Intervistato da Michele Smargiassi parla il fondatore dei “Quaderni Rossi” e dell’operaismo teorico che oggi si definisce “intellettuale comunista senza un partito comunista”: «Limitarsi a difendere un certo elenco di diritti civili presentandoli come valori generali significa fare un consolatorio scambio al ribasso»
Dalla finestra dello studio del senatore Mario Tronti si sbircia il Borromini: la sua cupola di Sant’Ivo, tutta una controcurva, è un’antinomia barocca, una stravaganza, eppure sta in piedi. Un po’ come la sinistra. «Strana e affascinante», la osserva appoggiato al davanzale il filosofo, teorico dell’operaismo, che a 82 anni è la personificazione del pensiero critico della sinistra italiana. Di sé ha scritto, autoironico: «Sono anch’io un’antichità del moderno », non si vergogna della sua nostalgia per il «magnifico Novecento», ma osserva le controcurve del nuovo millennio.
Ha mai detto di se stesso "«sono un uomo di sinistra"? Qualcosa mi fa supporre di no...
Ha indovinato. Non lo direi mai, mi sembra banale. Penso che “sinistra” sia qualcosa di cui c’è necessità forse più che in passato, per quel che ha significato e può significare ancora. Ma vede, io sono un teorico della forza e non posso non vedere la debolezza della parola».
È sopravvissuta a parole che sembravano eterne, una sua forza l’avrà pure...
«Sì, quella che dovrebbe avere. Metodologicamente sono contrario ad abbandonare una definizione vecchia prima di trovarne una nuova che la sostituisca. Mantengo questa, allora, consapevole dei limiti, perché per adesso non ne ho un’altra. La vado cercando».
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Mercificazione, consumismo, desublimazione repressiva
Il viaggio di Woody Allen nella terra di Machiavelli, Leopardi e Gramsci
di Salvatore Cingari*
Fra le varie critiche mosse al film di Woody Allen ambientato a Roma, To Rome with love, c’è quella di non reggersi su un “nucleo centrale”. Parto da qui per cercare di sovvertire il giudizio maggioritario di critica e pubblico su questa che invece ritengo essere una delle opere più “impegnate” del regista di Manhattan. Il nucleo centrale è infatti l’incessante processo di mercificazione del mondo della vita, il progressivo dominio di una pratica consumistica e l’esito estremo della massificazione culturale rappresentato dalla logica del reality. Questi sono i motivi che tengono assieme i quattro episodi. Che l’Italia fosse il luogo storico in cui ambientare la deriva non è strano: essa, con il berlusconismo, è stata laboratorio delle dinamiche globali, così come, fra i grandi paesi dell’Occidente, ha espresso punte di massima resistenza, rideclinando con i movimenti popolari il “pensiero vivente” della sua tradizione civile (R. Esposito, Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Torino, Einaudi, 2012). Il Bel paese – lo notavano del resto Leopardi e Gramsci (S.Cingari, Appunti per uno studio sulla storia dell’industrializzazione della cultura nell’ideologia italiana, in “Bollettino della Domus mazziniana”, Pisa, anno LIV, 2009, num.1-2, pp.191-202) – è caratterizzato da una particolare tendenza a restringere lo spazio pubblico in un perimetro “estetico-spettacolare”. Ciò fa si che se da un lato, quindi, essa può esprimere uno scarto massimo con la commercializzazione della vita, si trova su un crinale in cui massimo è anche il rischio dell’estetizzazione della politica e del dominio dell’economia attraverso lo spettacolo.
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Gioco e teologia del denaro
di Mario Pezzella*
Nessuno dei personaggi del Giocatore[1] che non sia indebitato con qualcun altro: già dalle prime pagine, apprendiamo che il generale ha ricevuto, da poco, un prestito, che egli stesso deve soldi al protagonista (e gli dà un acconto di 120 rubli), che Polina ha urgente bisogno di danaro per pagare un creditore – “altrimenti sono perduta”. La catena del debito, nel corso del romanzo, diventerà universale, soffocante e minacciosa. Essa è ben lungi dall’essere una semplice sequela di transazioni economiche, anche perché nessuno si aspetta veramente di essere pagato, anzi tutto il contrario. Il credito viene concesso nell’aspettativa che il beneficiario non possa mai estinguerlo e così si trasformi da debitore in servo: il dominio su Polina è il vero scopo che ha spinto De Grieux a prestare danaro al generale (mentre lui stesso, probabilmente, deve restituirlo ad altri): “Voleva semplicemente dire che lui la dominava, che la teneva come incatenata”(58). Il possesso del danaro concede la libertà, la sua mancanza inchioda alla schiavitù. La relazione servo padrone di Hegel si è completamente finanziarizzata. Il motore profondo delle vicende del romanzo è la totale ipoteca concessa dal generale a De Grieux, che potrebbe essere sanata solo con la morte della ricca zia, di cui dunque tutti si augurano senza alcuno scrupolo la dipartita.
La catena del debito non si impone solo sul piano economico e morale, stimola anche un profondo e perverso impulso erotico ed anzi al di fuori del legame che esso istituisce non si può concepire nessuna relazione d’amore o d’amicizia.
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The RS Interview: incontro con Walter Siti
di Christian Raimo
Una lunghissima intervista di uno dei rubrichisti di punta di “RS” al magnifico scrittore recente Premio Strega. Mettetevi comodi
Allora, scusami c’è del rumore, perché sta arrivando il monsone qui a Roma.
“Sento un bambino”.
No, è una povera gatta che ha paura dei tuoni. Io partirei più che da una domanda, da una meta-domanda. Questa sarà l’ennesima intervista che subisci prima dello Strega, dopo lo Strega… Ti chiedevo se non hai paura di diventare banale. Probabilmente in quest’ultimo mese hai rilasciato una quantità di interviste che ti basteranno per dieci anni. Io stesso ne ho lette molte. E sicuramente quello che non ti manca è un deficit di consapevolezza sul perché scrivi, su come scrivi, quali sono i tuoi temi, etc… Una delle cose che ho notato, anche, è che – come molto spesso capita – quando bisogna fare un’intervista a una persona la cui opera non si può riassumere in un gesto, in una sintesi da titolo, vengono fuori domande un po’ vaghe.
“Il problema è che il grosso delle interviste sono per la radio o la televisione, dove uno è assolutamente sicuro di dire delle banalità perché ti chiedono di rispondere in 50 secondi a cose che richiederebbero molto più di tempo, dove dialoghi con persone che non sanno minimamente che cos’è la letteratura, a cui importa – semmai, se va bene – giusto dei temi di cui parli nel tuo libro. E da una parte ti dispiace di scontentare degli sconosciuti, quindi finisci per dare delle risposte banalissime e anche troppo perbene.
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La "rimozione" di Massimo Recalcati
Sebastiano Isaia
Le categorie e i concetti elaborati dal pensiero psicoanalitico vanno maneggiati con estrema cura, alla stregua di materiale esplosivo ad alto potenziale distruttivo. Questa regola appare tanto più sensata, quando quei concetti e quelle categorie vengono usati come griglie concettuali attraverso cui leggere la realtà sociale in generale, e la sfera del Politico in particolare. Facilmente lo psicoanalista si muove in questi ambiti come il metaforico elefante che, sognando di avere acquisito le fattezze di una splendida libellula, decide di danzare in una stanza piena di preziosi cristalli. Il disastro e pressoché inevitabile.
Insomma, sto parlando di Massimo Recalcati, noto psicoanalista «di scuola lacaniana» e uno dei massimi teorici dell’antiberlusconismo militante. Nell’articolo pubblicato ieri da Repubblica, Recalcati ha preso di mira la strategia del PDL tesa ad accreditare «Berlusconi come statista ponderato», una strategia che secondo il nostro si fonda «su quello che in termini strettamente psicoanalitici si chiama “rimozione della realtà”».
«Di cosa si tratta quando in psicoanalisi parliamo di “rimozione della realtà”? Accade esemplarmente nella psicosi. Prendiamo una storia clinica narrata da Freud: una madre colpita dalla tragedia della perdita prematura di una figlia la sostituisce con un pezzo di legno che avvolge in una coperta che tiene amorevolmente in braccio sussurrandogli tutte quelle parole dolci e affettuose che la figlia morta non potrà più sentire. Questa sostituzione implica la negazione delirante di una realtà troppo dolorosa per essere riconosciuta come tale».
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Il caldo fa male
Mario Tronti e l’enciclica Lumen fidei
di Maria Turchetto
Che dire dell’entusiastica accoglienza che Mario Tronti riserva all’enciclica Lumen fidei (L’Enciclica e la critica dell’individualismo)?
Da un certo punto di vista lo capisco. A noi anziani il caldo fa male, tanto male. Ci frigge quei pochi neuroni che restano e qualche volta non ce la facciamo proprio più a pensare come si deve. Quando capita a me, mi ficco sotto il ventilatore con la Settimana enigmistica – che richiede solo una parvenza di pensiero. Tronti si è ficcato sotto il ventilatore a fare il giochino “quale pezzo dell’enciclica è stato scritto da papa Ratzinger e quale da papa Bergoglio?”.
Il quiz è suggerito da Rino Fisichella nell’introduzione all’edizione paolina di Lumen fidei. Suggerito in modo per l’appunto enigmistico, imbrogliando le carte in perfetto stile pretesco: “Papa Francesco con Lumen fidei si pone in continuità con il magistero di Benedetto XVI”, anzi riconosce esplicitamente “che ha ricevuto dal suo predecessore del materiale che ha voluto poi rielaborare”, insomma il grosso l’ha scritto Ratzinger, eppure “è pienamente un testo di Papa Francesco”, “può essere ritenuta l’ultima enciclica di Benedetto e la prima di Francesco”. Ragazzi! Sembra il mistero della trinità, Dio è uno, ma anche trino, è trino, ma anche uno, ecc. finché il cervello va in pappa. Tronti però a questo punto della lettura era ancora abbastanza lucido e ha tagliato corto: è un testo scritto a quattro mani e il giochino per l’estate è indovinare l’attribuzione delle varie parti all’uno o all’altro papa. Divertente!
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Il nuovo realismo è un totalitarismo
di Fabio Milazzo
Apologia della doxa.
Il “nuovo realismo” è letteralmente una trovata geniale. Il paradigma, reso recentemente famoso da Maurizio Ferraris, che ne è il promotore in Italia, e da quella fucina di idee progressiste che è il gruppo La Repubblica[1], è riuscito a ritagliarsi un posto nelle asfittiche e claustrofobiche chiacchierate della filosofia italiana. Ma cos’è questa postura intellettuale che tanto credito sembra ottenere da personalità quali Umberto Eco – che, a dir la verità, già dai tempi de I limiti dell’interpretazione ha operato una svolta anti-ermeneutica – e dalle tante teste pensanti riunitein convegni quali quello di Bonn[2]?
Fondamentalmente è un ritorno ai fasti della doxa (δόξα), l’opinione comune, ciò contro cui si erge il pensiero filosofico fin dalle sue origini pre-socratiche[3]. Detta in maniera brutale, ma forse anche efficace, il nuovo realismo afferma la consistenza oggettiva della realtà, al di là di ogni fenomeno interpretativo. Il suo principale avversario non può che essere il Nietzsche che nel noto frammento postumo dichiarava profeticamente:
«Contro il positivismo, che si ferma ai fenomeni: “ci sono soltanto fatti”‘, direi: no, proprio i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni. Noi non possiamo constatare nessun fatto “in sé”; è forse un’assurdità volere qualcosa del genere. “Tutto è soggettivo”, dite voi; ma già questa è un’interpretazione, il “soggetto” non è niente di dato, è solo qualcosa di aggiunto con l’immaginazione, qualcosa di appiccicato dopo.
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Maitre-à -penser. Sulla fine degli intellettuali
di Benedetto Vecchi
Un sentiero di lettura sulla produzione culturale. Dai saggi dello storico Eric Hobsbawm al «forte» relativismo culturale di Rino Genovese, allo sciame dell'intelligenza collettiva in Rete. Gramsci, Sartre, Roosevelt Benda e il movimento 5Stelle. Il manifesto, 18 giugno 2013
La sua morte è stata annunciata più volte, per essere in seguito altrettanto repentinamente smentita. Il primo che ne ha stilato un obituary, attraverso un libro segnato da una malcelata nostalgia per il passato alle sue spalle, la cui popolarità è inversamente proporzionale alla conoscenza delle tesi lì espresse, è Julien Benda, che ne Il tradimento dei chierici denunciava la scomparsa dell'intellettuale custode di valori universali a favore di un personaggio pubblico impegnato nell'agone politico. Il tradimento, stava nella rinuncia alla sua separatezza dalla mondanità: separatezza tanto importante quanto indispensabile per continuare a illuminare la caverna dove uomini e donne vivono, diradando così le ombre che impediscono la ricerca della verità. Tempo un decennio - il Tradimento dei chierici fu pubblicato nel 1927 - e gli intellettuali diventarono una presenza abituale nella sfera pubblica, grazie alle loro prese di posizione contro il fascismo e il nazismo, ma anche per l'impegno, al di là dell'Oceano, nel New Deal del presidente Franklin Delano Roosevelt. Sempre negli anni Trenta, dal carcere Antonio Gramsci scriveva le note sull'intellettuale organico come una conseguenza della modernità capitalistica. La partecipazione dell'intellettuale alla vita pubblica, più che decretarne la morte, segnalava il potere che esercitava nell'arena politica.
La gabbia della parcellizzazione
È stato dunque l'intellettuale organico la figura che, nel bene e nel male, si è imposta nel Novecento. Anche il maître-à-penser caro a Jean-Paul Sartre era un intellettuale che si incamminava sulla strada dell'impegno politico, rivendicando un'autonomia di giudizio dal partito che doveva rappresentare la classe, ma si considerava tuttavia organico a un progetto di trasformazione radicale della società.
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Elvio Fachinelli. Su Freud
Mario Porro
Elvio Fachinelli (1928-1989) riconosceva a Freud il merito indiscusso di avere aperto il campo di una ricerca sui rapporti interindividuali, una “nexologia” umana (da nexus, legame, intreccio). Adelphi - che di Fachinelli aveva edito gran parte degli scritti – ne ha ora raccolto in Su Freud alcuni saggi dispersi: si va da una nitida presentazione del fondatore della psicanalisi per “I Protagonisti della Storia universale” nel ’66, a riletture di temi freudiani (la caducità e Rilke, il senso della gratitudine e la fobia del dono) apparse su “il manifesto” nell’anno della morte. Sono scritti che confermano la radicale libertà di giudizio con cui Fachinelli si confrontò con il “maestro”, di cui tradusse e curò molti scritti, ma di cui mise in evidenza anche chiusure e cecità. Già nel ’69 egli prendeva le distanze da una psicanalisi “della risposta”: prima ancora della domanda viene l’ascolto ed è dal concreto della pratica clinica, dal colloquio sempre singolare fra due persone, che emerge la verità. La psicanalisi, rileva lo scritto del ’66, è in tal senso l’esito di un percorso di liberazione dai valori culturali e dai criteri scientifici che Freud aveva recepito nel suo noviziato di fisiologo ed anatomista. Ma nel “chiaroscuro freudiano” non sarà del tutto scalfita la corazza materialista ed antivitalista tardo-ottocentesca, che impone la ricerca di forze fisiche come uniche cause dei fenomeni, nella speranza della conquista della verità come oggettività impersonale.
L’ultimo saggio raccolto in Su Freud, “Imprevisto e sorpresa in analisi”, è un invito ad “accogliere” le novità che emergono dalle parole dell’altro nella conversazione, soprattutto quando faticano a rinchiudersi nelle maglie dell’ortodossia.
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Una testa ben piena o una testa ben fatta?
Il terzo istruito di Michel Serres
di Marco Dotti
Nel ventiseiesimo capitolo del primo libro dei Saggi, Michel de Montaigne scriveva: «Non c’è ragazzo delle classi medie che non possa dirsi più sapiente di me, che non so nemmeno quanto basta a interrogarlo sulla sua prima lezione». Che cosa accadrebbe, si chiedeva Montaigne, se a quella lezione si fosse in qualche modo costretti? Non ci si troverebbe – «assai scioccamente», puntualizzava – vincolati a una costrizione ancora più grande? Non saremmo costretti a servirci di «qualche argomento di discorso più generale, in base al quale esaminare l’ingegno naturale dei ragazzi: lezione sconosciuta tanto a loro quanto a me»? Il saggio che Montaigne pone al centro della sua idea di educazione è ricordato soprattutto per un’altra affermazione, che ha assunto il ruolo di massima e come ogni massima ha subito il non sempre fausto destino di essere più citata, che compresa. Montaigne affermava, infatti, che è meglio una testa ben fatta, che una testa ben piena.
Parlando di «tête bien faite» e contrapponendola alla «tête bien pleine» intendeva riferirsi prima di tutti al precettore, all’insegnante e, per estensione, anche al ragazzo che dovrebbe essere assecondato nel desiderio. Altrimenti, scrive, concludendo la propria dissertazione, «non si fanno che asini carichi di libri».
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