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La crisi del debito sovrano nell’Eurozona
da un dibattito sulla lista "Marxiana"
a cura di Francesco Macheda
Quali margini possiede la banca entrale europea (BCE) per arginare la crisi del debito sovrano che sta mettendo in serio pericolo l’esistenza stessa dell’eurozona? Che efficacia potrà avere un ipotetico ‘fondo europeo’ volto a garantire gli investimenti degli acquirenti dei titoli a rischio dei paesi maggiormente indebitati? Inoltre, quali potrebbero essere le possibili conseguenze di una politica maggiormente orientata a frenare la speculazione da parte della Bce e quali sono le resistenze politiche che ne frenano l’azione? In ultima istanza, il comportamento della banca entrale europea è minato da una pura cecità politica, oppure vi sono limiti strutturali che ne frenano l’azione?
Il dibattito sottostante svoltosi sulla lista “Marxiana” tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre 2011 cerca di fare luce su queste problematiche.
Incipit del dibattito: articolo del Wall Street Italia dal titolo “Citigroup: senza l’intervento della Bce, l’Europa rischia il collasso” - 17 novembre
Se la Bce non mette mano al portafoglio, si rischia la catastrofe finanziaria. Potrebbe essere una questione di settimane o addirittura di pochi giorni, ma molto presto rischiamo di assistere inermi al default di Spagna e Italia.
E’ lo scenario delineato da Willem Buiter, capo-economista di Citi, in un’intervista concessa a Bloomberg Tv. “La Bce deve agire in fretta, ignorando le pressioni della Germania. Farsi carico dei debiti sovrani è l’unica strada per evitare un terremoto finanziario che finirebbe per trascinare nel baratro il sistema bancario europeo e, insieme, quello americano”.
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Freud, Marcuse e il disagio della civiltà
Written by Franco Toscani
1. Freud, il perdurare del disagio e l’enciclopedia delle scienze
Il Sigmund Freud che nel 1929 s’interroga sulla barbarie avanzante e sul “disagio della civiltà” (Das Unbehagen in der Kultur è il titolo definitivo dell’opera che ebbe come primo titolo Das Unglück in der Kultur, L’infelicità nella civiltà) - in anni che stavano preparando una delle tragedie più spaventose del XX secolo - costituisce uno stimolo potentissimo, anche per noi oggi, a porre domande essenziali sul radicamento forte del male nella costituzione psichica dell’uomo odierno, sul disagio grave del nostro tempo, sull’inciviltà di tanti aspetti della nostra civiltà.
Anche noi, infatti, in questo inizio del XXI secolo, in un’età così diversa da quella della prima metà del 1900, viviamo un peculiare disagio, un malessere, una insoddisfazione profonda, tensioni e contraddizioni che ci rodono continuamente, crisi aspre ed emergenze su cui torneremo alla fine di questo percorso.
Ciò che potremmo chiamare il perdurare del disagio è l’aspetto per noi più rilevante e significativo che è da pensare e che dà da pensare.
Cominciamo qui col raccogliere qualche spunto prezioso da questo grande saggio freudiano del 1929 - per la cui comprensione piena dovremmo riferirci pure ad altri scritti del suo pensiero più maturo, come soprattutto Die kulturelle’ Sexualmoral und die moderne Nervosität (1908), la conferenza Wir und der Tod (1915), Zeitgemässes über Krieg und Tod (1915), Jenseits des Lustprinzips (1920), Massenpsychologie und Ich-Analyse (1921), Die Zukunft einer Illusion (1927), il carteggio con Albert Einstein Warum Krieg? (1932), senza alcuna pretesa di analisi sistematica (che qui intenzionalmente non svolgeremo) e sottolineando pure l’apertura dell’approccio freudiano ad una tematica necessariamente multi e interdisciplinare, che rinvia il sapere della psicoanalisi, della psicologia sociale (la cui idea, come notò Herbert Marcuse, fu prospettata dallo stesso Freud in Massenpsycologie und Ich-Analyse), dell’antropologia, del diritto, della filosofia, della sociologia, dell’economia, della storia, etc; a un’ottica fruttuosa di enciclopedia delle scienze - ad una “enciclopedia fenomenologica delle scienze”(1)- pensò acutamente e suggestivamente in Italia, negli anni Sessanta e Settanta del XX secolo, il filosofo Enzo Paci, il cui tentativo meriterebbe oggi di essere ripreso criticamente e approfondito, finalizzata ad una comprensione unitaria e profonda della civiltà umana nel suo complesso o dell’“uomo planetario”, come direbbe Ernesto Balducci (2).
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Per capire la crisi più lunga
di Ernesto Screpanti
Sei lezioni di economia (Imprimatur, Reggio Emilia, 2016, 17 Euro) di Sergio Cesaratto è un libro importante che esce in un momento di grande confusione d’idee e di grande incertezza economica e politica. La lunga ondata di egemonia neoliberista che ha devastato il mondo negli ultimi 40 anni lo ha infine fatto naufragare nella grande crisi da cui non siamo ancora usciti. E ora il cittadino disorientato si guarda intorno in cerca di nuovi strumenti di comprensione della realtà. Questo libro di Cesaratto gli può essere d’aiuto, sia perché fornisce un’analisi approfondita della crisi in corso, sia perché lo fa usando strumenti teorici alternativi a quelli su cui si fonda l’egemonia liberista.
Il libro si divide in due parti. I primi tre capitoli presentano la ricostruzione storica di un sistema teorico di grande prestigio, che la teoria economica dominante però ha cercato di relegare nel sottomondo dell’eterodossia. Il primo capitolo espone l’approccio del sovrappiù sviluppato da Smith, Ricardo e Marx. Il secondo tratta della teoria neoclassica, versione raffinata di quella che Marx chiamava “economia volgare”. Il terzo si concentra sulla rivoluzione keynesiana. Ma non è un libro di storia del pensiero. Cesaratto presenta l’oggetto della sua ricostruzione come materia viva. Rilegge quella storia con gli occhiali di Marx, Keynes e Sraffa, e approda all’esposizione di un sistema teorico che è “se non del tutto giusto quasi per niente sbagliato”. In questo sistema i redditi non di lavoro sono spiegati non come remunerazioni dei contributi produttivi di fantomatici fattori di produzione, ma come un sovrappiù prodotto dai lavoratori.
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Due o tre cose che vanno dette su Toni Negri
di Francesco Piccioni
E’ tradizione soprattutto mediterranea, almeno a far data dall’Eneide, quella del parce sepulto, ossia l’invito a non parlar male dei defunti, anche se hanno avuto delle colpe.
L’invito è rispettabile sotto molti aspetti, ma non può essere esteso oltre misura, fino a cancellare ogni critica per quanto fatto o detto o scritto dal dipartito. Altrimenti ogni progresso storico specifico sarebbe congelato come le lapidi di un cimitero.
Nel caso di Toni Negri, in questi giorni, abbiamo visto molte “dimenticanze” da parte dei vecchi o seminuovi protagonisti della stagione dei “movimenti”, i soliti insulti da parte della destra trinariciuta, qualche ricordo non demonizzante anche su alcuni media mainstream.
Ci sta. I ricordi di gioventù sono sempre più dolci che non i sentimenti in tempo reale. E l’odio da parte del nemico spinge a mettere da parte le critiche, a suggerire “compattezza” anche quando questa non c’è stata, neanche in pieno conflitto.
Ma onestà intellettuale vuole che il parce sepulto, nel suo caso, non sia applicabile almeno per quanto riguarda le due principali influenze che a Negri vengono riconosciute: quella sul pensiero politico e sulle pratiche politiche “di movimento”.
Perché la sua influenza è stata – sì – decisamente importante, ma altrettanto decisamente negativa.
E mi sembra necessario che quel poco o tanto di nuova mobilitazione antagonista sia perlomeno informata sugli aspetti più critici, in modo da decidere liberamente su come e se farci i conti. Non c’è infatti nulla di meno rivoluzionario dell’accodarsi a una “narrazione” edulcorata, priva di rilievi critici, accomodante… Inevitabilmente fasulla.
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“Contro la sinistra liberale" di Sahra Wagenknecht. Quali insegnamenti per l'Italia?
di Domenico Moro
“Contro la sinistra liberale” di Sahra Wagenknecht è senza dubbio uno dei più importanti libri di critica delle società del capitalismo cosiddetto avanzato, specialmente di quelle dell’Europa occidentale, usciti negli ultimi anni. Non è un caso se in Germania il libro, il cui titolo originale è Die Selbstgerechten, ossia i Presuntuosi, è stato in cima alle classifiche di vendita per molto tempo.
Il testo è scritto, infatti, in modo molto semplice, in grado di essere recepito da parte di un vasto pubblico anche se i temi trattati sono complessi. L’interesse principale del libro consiste nel fatto che l’autrice svolge una critica alla sinistra oggi dominante, sviluppando una analisi delle società a capitalismo avanzato, della ideologia di sinistra e soprattutto della composizione sociale delle classi sociali derivata dalle modificazioni dovute alla modernizzazione capitalistica degli ultimi decenni.
A incuriosire alla lettura di questo libro è, però, anche il fatto che l’autrice non è una semplice intellettuale, bensì una politica molto nota in Germania, che ha raccolto risultati positivi con la sua forza politica di recente costituzione. BSW (Bündnis Sahra Wagenknecht – Vernunft und Gerechtigkeit, in italiano Alleanza Sahra Wagenknecht – Ragione e Giustizia) è una scissione dal partito Die Linke ed è stata fondata il 26 settembre 2023 come associazione e l’8 gennaio 2024 come partito. Nel giro di soli sei mesi BSW ha dimostrato inaspettatamente di essere un partito capace di raggiungere risultati lusinghieri. Alle elezioni europee di giugno 2024 è risultato essere il quinto partito con il 6,2% dei voti, mentre Die Linke scivolava al 2,7%. Le roccaforti di BSW sono nella ex Germania est, la zona più povera del Paese, dove alle europee era il terzo partito con il 13,8%. Il risultato positivo nella ex Germania est si è ripetuto alle regionali tenutesi a settembre in Turingia (15,8%) e in Sassonia (11,8%), dove BSW si è confermata la terza forza politica.
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Alcune riflessioni sul Green Pass
di Andrea Zhok
E' di ieri la notizia dell'obbligatorietà del Green Pass per l'accesso ad un'ampia serie di attività, non solo voluttuarie, e per tutti i soggetti di età superiore ai 12 anni.
Ci potevano essere forme in cui un'operazione simile poteva avere senso, ma non sono quelle che identificano le caratteristiche attuali del Green Pass, che si presenta come francamente inaccettabile.
Quest'iniziativa ha molti padri.
E' frutto dell'indecoroso livello dell'informazione, della propaganda battente da parte di portatori d'interesse non chiaramente identificabili, ma assai ascoltati, della confusione concettuale prodotta dalle passerelle di 'esperti' in cerca di gloria, e dell'arroganza dogmatica di parte influente dei nostri gruppi dirigenti.
Proviamo a fissare le idee per punti.
1) Un breve passato e le sue indicazioni
Partiamo da questa domanda: I vaccini anti-covid sono "vaccini sperimentali"?
Questa domanda è stata posta l'altro giorno da Concita De Gregorio ad un virologo di corvée in televisione. Come d'uso, la forma presa dalla domanda non era neanche un po' suggestiva: "Dunque non è vero che i vaccini attuali siano - come dicono alcuni - 'vaccini sperimentali'?" Una volta alzata così graziosamente la palla, all''esperto' non restava che schiacciare, affermando che "No, assolutamente, si tratta di vaccini ampiamente e attentamente sperimentati."
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Perseverare è diabolico
Dialettica del postmodernismo
Maurizio Ferraris
Se guardiamo al cuore filosofico del postmoderno ci troviamo di fronte a un paradosso istitutivo. L’idea di fondo era quella di una grandissima istanza emancipativa, che affondava le sue radici in Nietzsche (che a giusto titolo Habermas, nel Discorso filosofico della modernità, ha definito la «piattaforma girevole» che traghetta la filosofia verso il postmoderno) e ovviamente nella Dialettica dell’Illuminismo di Horkheimer e Adorno. La richiesta di emancipazione, che si appoggia sulle forze della ragione, del sapere e della verità che si oppongono al mito, al miracolo e alla tradizione, giunge a un punto di radicalizzazione estrema e si ritorce contro sé stessa. Dopo avere adoperato il logos per criticare il mito, e il sapere per smascherare la fede, le forze decostruttive della ragione si rivolgono contro il logos e contro il sapere, e inizia il lungo lavoro della genealogia della morale, che svela nel sapere l’azione della volontà di potenza. Il risultato è che ogni forma di sapere deve essere guardata con sospetto, appunto in quanto espressione di una qualche forma di potere. Di qui una impasse: se il sapere è potere, l’istanza che deve produrre emancipazione, cioè il sapere, è al tempo stesso l’istanza che produce subordinazione e dominio. Ed è per questo che, con un ennesimo salto mortale (quello espresso lucidamente da Vattimo nel Soggetto e la maschera, che esce nel 1974 e che reca il sottotitolo emblematico Nietzsche e il problema della liberazione) l’emancipazione radicale si può avere solo nel non-sapere, nel ritorno al mito e alla favola, e in ultima istanza in ciò che Vattimo, molti anni dopo, definirà apertamente come un «addio alla verità». L’emancipazione girava a vuoto. Per amore della verità e della realtà, si rinuncia alla verità e alla realtà, ecco il senso della «crisi dei grandi racconti» di legittimazione del sapere con cui, nel 1979, Lyotard ha caratterizzato il postmodernismo filosofico. Il problema di questa dialettica è però, semplicemente, che lascia tutta l’iniziativa ad altre istanze, e l’emancipazione si trasforma nel suo contrario, come risulta evidente da quanto è accaduto dopo.
Questa dialettica infatti non ha semplicemente un versante storico-ideale, ma comporta delle precise attuazioni pratiche. Si incomincia appunto con le affermazioni decostruttive, tipicamente con tesi che mettono in dubbio la possibilità di un accesso al reale che non sia mediato culturalmente, e che, insieme, relativizzano il valore conoscitivo della scienza, seguendo un filo conduttore che da Nietzsche e Heidegger porta a Feyerabend e Foucault. Tolto il caso di Heidegger, dove l’elemento conservatore e tradizionalista è largamente prevalente, la decostruzione della scienza e l’affermazione del relativismo degli schemi concettuali fanno parte precisamente del bagaglio emancipativo che sta alla base dell’impulso originario del postmoderno, ma il loro risultato è diametralmente opposto. In particolare, le critiche alla scienza come apparato di potere e come libero gioco di schemi concettuali hanno dato vita a quello che potremmo chiamare un «postmodernismo conservatore».
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Un prospettiva sulle mobilitazioni contro il Green Pass a Trieste
di alcune compagne e compagni di Trieste
Riceviamo e diffondiamo:
Premessa
Scriviamo questo contributo per provare a mettere nero su bianco l’esperienza che stiamo facendo da aprile, ed in particolare nell’ultimo mese e mezzo, all’interno del movimento contro il Green Pass a Trieste, sperando possa essere utile per il dibattito.
Si tratta di un percorso che, per quanto ci è noto, ha acquisito una serie di specificità che lo differenziano da alcune altre piazze calde nel resto d’Italia, o che perlomeno lo smarcano da una lettura univoca, soprattutto adottando un punto di vista militante. Dopo i recenti fatti romani, infatti, è ritornata ad imporsi su tutto il movimento contro il lasciapassare verde l’ombra di un’egemonia fascista o comunque la sua interpretazione come un fenomeno piccolo borghese, assimilabile alle piazze dei commercianti per le riaperture, organizzate nell’ultimo anno e mezzo.
Qua a Trieste, invece, abbiamo intravisto e attraversato delle potenzialità nuove, che danno forma ad un movimento per certi versi assimilabile ai gilet jaunes francesi, con una forte connotazione di classe e ben distante dalle derive destrorse che dominano la narrazione mediatica. Non si tratta di negare l’esistenza – in potenza – anche di queste derive, ma al contrario di aprire la complessità di questo movimento, senza ridurla ad un ammasso confuso di pulsioni egoiste, facile preda di gruppi neofascisti e della destra aperturista.
Nascita
Dalla primavera del 2021, e per tutta l’estate, si sono susseguite a Trieste diverse piazze che hanno messo in discussione la “verità sui vaccini” e finanche l’esistenza stessa – o la nocività – del virus Sars-Cov2. Diffuse prevalentemente tramite messaggi nelle chat, queste manifestazioni sono state organizzate, di volta in volta, da gruppi come il Movimento 3v (partito nato per opporsi agli obblighi vaccinali che proprio qua a Trieste ha visto il miglior risultato alle recenti elezioni comunali, guadagnando il 4,5 % dei voti – anche se con affluenza bassissima del 45%), o dall’Associazione Alister, storico presidio locale impegnato nella critica ai vaccini.
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‘‘Proletarizzati di tutto il mondo unitevi... contro la bêtise!’’
Intervista a Bernard Stiegler
Bernard Stiegler, professore al Goldsmiths College di Londra, all'Université de Technologie di Compiègne e visiting professor alla Cambridge University, nonché Direttore dell'Institut de Recherche et d'Innovation du Centre Georges Pompidou di Parigi, è sicuramente uno dei filosofi più attenti alle trasformazioni della società contemporanea, come dimostrano i suoi numerosi libri pubblicati negli ultimi anni. A dispetto di alcuni titoli ''apocalittici'' delle sue pubblicazioni – come La misère symbolique o Mécréance et miscrédit – e delle analisi fortemente critiche per le quali è conosciuto anche in Italia (sebbene ancora poco tradotto), Stiegler si distingue sicuramente per la serena volontà di trasformazione sociale, economica, politica e culturale dello stato attuale delle cose, prendendo come bersaglio critico l'ignoranza in quanto fenomeno socialmente prodotto dall'ideologia e dalle tecnologie del consumo. Da questa volontà, condivisa con altri pensatori e studiosi, nasce il progetto di Ars Industrialis, l'associazione di cui Stiegler è presidente e uno dei fondatori. In particolare, l'ambizione di Ars Industrialis, è quella di essere “un'associazione internazionale per l'ecologia industriale dello spirito”, che sappia coniugare critica teorica e proposta programmatica su tutti i piani del sapere, a incominciare dalle scienze umane.
Stiegler ha inoltre pubblicato, qualche anno fa, un libro intitolato La télécratie contre la démocratie, offrendoci così un buon movente per accogliere le sue parole, attraverso un'intervista, in questo numero di Kainos.
1) Nel 2006 lei ha pubblicato La télécratie contre la démocratie, un libro che è ancora molto attuale rispetto alla situazione italiana. Se è lecito pensare che i dibattiti politici in Italia oggi risentano del «regno dell’ignoranza» di cui lei ha parlato, come si può fare per uscirne, al di là di un cambiamento istituzionale del potere?
STIEGLER: Si tratta di un’enorme questione, che mi pongo tutti i giorni. Penso però che vi sia un problema di traduzione, perché ciò che lei chiama il ‘‘regno dell’ignoranza’’, in quel libro è definito principalmente come il ‘‘regno della bêtise’’.
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Gli effetti perversi della privatizzazione del welfare
di Guglielmo Forges Davanzati
A dispetto di luoghi comuni molto in voga il settore pubblico italiano non è né sovradimensionato né improduttivo. Così come non è vero che le politiche di "privatizzazione del welfare" contribuiscono a generare crescita: ciò che riescono a fare davvero bene è redistribuire il reddito dal lavoro al capitale.
L’Italia è un Paese corporativo, con una incidenza eccessiva del settore pubblico: un Paese nel quale il “merito” non viene premiato e che, per questa ragione, non riesce a riprendere un percorso di crescita economica. Un settore pubblico sovradimensionato è la principale causa del declino dell’economia italiana. E’ questa l’opinione dominante, ed è sulla base di questa convinzione che si è attuato – e si sta attuando – il progressivo smantellamento delle residue reti di protezione sociale derivanti dal residuo di welfare rimasto in Italia. In parte l’obiettivo è stato raggiunto: nell’ultimo Rapporto Eurostat, si legge che il blocco del turnover nel pubblico impiego, combinato con una consistente ondata di pensionamenti, ha prodotto, nel solo 2012, una riduzione del numero di dipendenti pubblici nell’ordine del 4%. La riduzione della spesa corrente nel settore pubblico è un fenomeno che si accentua progressivamente a decorrere dall’inizio degli anni Duemila (v. Fig.1)[1].
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Reddito di cittadinanza: una critica marxista
di Giulio Palermo1
Riceviamo dalla Federazione del PCI di Brescia e pubblichiamo quale contributo alla discussione. Da comunistibrescia.org
Il successo elettorale del Movimento 5 stelle ha portato il tema del “reddito di cittadinanza” (RdC) al centro del dibattito politico. Tecnicamente, la proposta pentastellata non è veramente un’applicazione del RdC ma è piuttosto una forma di “reddito minimo garantito”, uno strumento di sostegno finanziario simile al RdC, senza tuttavia gli stessi tratti di universalità. Ma non importa: mentre la crisi incalza, l’idea di aumentare i redditi, invece che di stringere la cinghia, piace un po’ a tutti. In effetti, le prime critiche che si sono levate contro il RdC non riguardano veramente i suoi limiti teorici bensì la sua mancata attuazione: in Italia, il RdC non ha veri oppositori, il problema è che i grillini non lo vogliono applicare veramente.
Sul piano teorico, il RdC, nella sua versione ideale, è difeso in particolare dagli economisti della scuola keyensiana. Secondo loro, questo strumento sostiene la domanda aggregata, la crescita e l’occupazione. I più radical, quelli che strizzano l’occhio a Marx, aggiungono che favorisce anche l’emancipazione dal lavoro salariato.
In questo articolo sostengo invece che il RdC non solo non può realizzare questi obiettivi ma finisce in realtà per andare in direzione opposta: aggravando la crisi, sviluppando il liberismo e accelerando i processi di precarizzazione del lavoro e di mercificazione della società.
Inizio inquadrando la proposta del Movimento 5 stelle nel dibattito teorico e mostrando i veri obiettivi perseguiti da questa forza politica. Contrariamente ai difensori dell’universalismo, argomento che le differenze tra la proposta di Di Maio & co e il modello ideale di RdC non depongono veramente a favore del secondo.
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La finanza è il segnale dell’“autunno”
di Giorgio Gattei*
1. Lo scambio capitalistico D–M–D’ (con D’>D) può presentarsi in tre modi: come capitale commerciale con cui si comperano merci a buon mercato per rivenderle più care giusto uno scambio a valori non equivalenti (quello che uno guadagna, l’altro lo perde): D<M<D’; come capitale industriale con cui si comperano mezzi di produzione e forza-lavoro per produrre merci poi vendute ad un valore superiore del valore anticipato per l’aggiunta del plusvalore ottenuto mediante lo sfruttamento del lavoro salariato: D=M...Produzione...M’=D’; infine come capitale finanziario, con cui si prestano denari per riceverli alla scadenza, senza nemmeno bisogno di transitare per le merci, maggiorati dell’interesse, così che lo scambio è di nuovo a valori non equivalenti: D<D’. Come si vede è soltanto il capitale industriale a rispettare la regola dell’equivalenza degli scambi, il che vuol dire che entrambe le parti implicate ci guadagnano perchè nuova ricchezza è creata, mentre nel capitale commerciale e finanziario ci scambi appena la ricchezza esistente.
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La rottura strutturale del capitale e il ruolo della critica categoriale
Intervista a Robert Kurz della rivista online "Shift", Zion Ediçoes
Come si inquadra l’attuale crisi finanziaria nel contesto dello sviluppo della crisi strutturale del capitale?
É teoricamente sbagliato parlare di una crisi finanziaria indipendente, la cui «ripercussione» sulla cosiddetta economia reale sarebbe incerta ed eventualmente moderata. Espressa nei termini della teoria di Marx, la crisi finanziaria può essere solo una manifestazione della caduta delle condizioni della valorizzazione reale del capitale. Il sistema finanziario e del credito non é un settore autonomo, ma una componente integrante della riproduzione ampliata del capitale totale. Qui sorge una contraddizione che progressivamente si aggrava. L’espansione del sistema del credito in sé non è nuova, ha già percorso un processo secolare. Ciò riflette un meccanismo descritto da Marx come «aumento della composizione organica del capitale». Con l’aumento della scientificizzazione della produzione, cresce la proporzione di capitale costante (macchine, equipaggiamento tecnologico di controllo, comunicazioni e infrastrutture, etc.) in relazione al capitale variabile (forza di lavoro produttivo di valore). Corrispondentemente, crescono i costi preliminari per poter applicare in forma redditizia la forza lavoro, l’unica fonte di plusvalore. I costi preliminari crescenti esigono un anticipo del plusvalore futuro nella forma del credito per mantenere in corso l’attuale produzione di plusvalore, sempre più differito nel futuro.
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L'aspetto criminale dell'austerità pensionistica
di Leonardo Mazzei
La nuova beffa firmata Renzi: volete la pensione? Pagatevela. E pure con gli interessi...
Si torna a parlare di pensioni. Stavolta per annunciare "flessibilità", nome in codice che significa fregatura. L'ennesima.
Lorsignori hanno scoperto l'acqua calda: aumentare a dismisura l'età pensionabile porta ad un aumento della disoccupazione giovanile. Strano, avremmo detto tutti il contrario...
Quattro notizie in tre giorni hanno riportato il tema previdenziale alla ribalta. La prima: secondo il presidente dell'Inps Boeri i nati nel 1980 rischiano di andare in pensione a 75 (settantacinque) anni. La seconda: a causa dei nuovi scalini scattati per le donne (legge Fornero) e dei calcoli Istat sulla "speranza di vita" (legge Dini), nel primo trimestre 2016 i pensionamenti sono diminuiti (rispetto allo stesso periodo del 2015) del 34,5%. La terza: nello stesso trimestre il valore medio mensile delle pensioni dei lavoratori dipendenti è sceso di ben 72 euro, passando dai 1.236 euro (ovviamente lordi) del 2015 agli attuali 1.164. La quarta, di cui ci occuperemo in questo articolo, è che il governo sta studiando la cosiddetta "flessibilità" in materia pensionistica.
Insomma, si va in pensione sempre più tardi e con un assegni previdenziali sempre più poveri. Dov'è la notizia? Non sapevamo tutti che è esattamente questo il futuro disegnato per gli anziani da un ventennio di controriforme, diciamo da Amato a Monti?
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Ma che cos'è questa crisi
di Marcello De Cecco
Da dove origina e dove rischia di condurci la crisi che da sei anni affligge i principali paesi sviluppati? Che cosa accadrà dell'Europa e dell'euro? Pubblichiamo l'introduzione dell'ultimo libro di Marcello De Cecco, Ma che cos'è questa crisi, edito da Donzelli
La crisi affligge da sei anni i principali paesi sviluppati. Essa ha colpito il cuore dell’economia mondiale dopo avere investito, nel 1997-98, i paesi emergenti, specie quelli asiatici. Ora, secondo tradizione, pare voler abbracciare nella sua stretta mortale anche loro, che nell’attuale convulsione sembravano essere stati risparmiati e mostrare anzi un’invidiabile capacità di crescere e prosperare, malgrado le traversie del centro.
Da questa enorme convulsione l’economia ma anche gli assetti politici mondiali usciranno completamente cambiati. Non sappiamo cosa accadrà dell’Europa e dell’euro e nemmeno sappiamo quanto del cosiddetto modello europeo di organizzazione economica e politica sopravvivrà. Sappiamo che gli equilibri mondiali ne usciranno profondamente mutati, con l’ascesa che sembra inarrestabile della Cina e con il certo declino relativo dei paesi del centro: Europa, Stati Uniti e Giappone.
Che una grande crisi si stesse scatenando si poteva prevedere certamente nel 2007. Affermai che eravamo alla vigilia di un enorme sommovimento mondiale, nel maggio di quell’anno, a conclusione di una lezione che tenni all’Università di Waterloo, in Canada. C’era già stata qualche avvisaglia nelle difficoltà annunciate in febbraio da un paio di istituzioni finanziarie americane, che dichiaravano di avere problemi nel settore dei mutui subprime, una categoria della quale tutti sarebbero venuti a conoscenza di lì a qualche mese, ma che suonava ancora assolutamente sconosciuta ai non addetti ai lavori e anche a parecchi degli addetti.
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La fabbrica del falso e la guerra in Libia
di Vladimiro Giacché
“Attraverso la ripetizione, ciò che inizialmente appariva solo come accidentale e possibile, diventa qualcosa di reale e consolidato”
G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie del Geschichte, in Sämtliche Werke, Frommann, Stuttgart-Bad Cannstatt, 1971, Bd. 11, p. 403.
L’attacco della Nato contro la Libia iniziato il 19 marzo 2011 rappresenta un caso emblematico a più riguardi. In primo luogo, conferma in modo eclatante una verità più generale: nel mondo contemporaneo la propaganda, la guerra delle parole e delle immagini è ormai parte della guerra stessa. In secondo luogo, evidenzia la confusione che regna in una sinistra che – anche quando si pretende “radicale” e conseguente – in Italia come in tutti i paesi occidentali, ha dimostrato una sorprendente arrendevolezza e subalternità rispetto alla propaganda e all’informazione ufficiale. Si tratta di un fenomeno tanto più significativo in quanto anche in questo caso – come già era accaduto per l’Iraq – gli stessi Paesi aderenti alla Nato si sono presentati all’appuntamento divisi: l’astensione della Germania già in sede Onu si è trasformata in decisa presa di distanza dalle operazioni, e la stessa Turchia ha manifestato il proprio dissenso rispetto alla conduzione della guerra. Ma mentre ai tempi della guerra di Bush le divisioni nel campo imperialista avevano grandemente giovato al movimento per la pace, in questo caso nulla di questo è avvenuto. Lo stesso gruppo parlamentare della GUE al Parlamento Europeo si è spaccato, e nel nostro Paese si è assistito al grottesco spettacolo di un PD assai più guerrafondaio degli stessi partiti di governo, mentre SEL ha tenuto un atteggiamento inizialmente ondivago (con una parte della base favorevole all’intervento) e soltanto la Federazione della Sinistra ha avuto da subito posizioni intransigenti sull’argomento.
In questo articolo esaminerò i principali dispositivi che la fabbrica del falso ha posto in essere nel caso della guerra di Libia, e proverò ad individuare i motivi di fondo che hanno indotto molti, anche a sinistra, a cedere alla propaganda di guerra. Nel mio argomentare metterò in gioco lo schema interpretativo che ho esposto più diffusamente nel mio libro La fabbrica del falso. Strategie della menzogna nella politica contemporanea (DeriveApprodi, 20112). In questo testo proponevo un insieme di strategie di attacco alla verità non assimilabili alla menzogna pura e semplice. Vediamo come queste strategie sono entrate in gioco nel caso libico.
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Marx e il marxismo-leninismo
Autore: a cura di Marcello Musto
I. INCOMPIUTEZZA VERSUS SISTEMATIZZAZIONE
Pochi uomini hanno scosso il mondo come Karl Marx.
Alla sua scomparsa, passata pressoché inosservata, fece immediatamente seguito, con una rapidità che nella storia ha rari esempi ai quali poter essere confrontata, l’eco della fama. Ben presto, il nome di Marx fu sulle bocche dei lavoratori di Chicago e Detroit, così come su quelle dei primi socialisti indiani a Calcutta. La sua immagine fece da sfondo al congresso dei bolscevichi a Mosca dopo la rivoluzione. Il suo pensiero ispirò programmi e statuti di tutte le organizzazioni politiche e sindacali del movimento operaio, dall’intera Europa sino a Shanghai. Le sue idee hanno irreversibilmente stravolto la filosofia, la storia, l’economia. Eppure, nonostante l’affermazione delle sue teorie, trasformate nel XX secolo in ideologia dominante e dottrina di Stato per una gran parte del genere umano e l’enorme diffusione dei suoi scritti, egli rimane, ancora oggi, privo di un’edizione integrale e scientifica delle proprie opere. Tra i più grandi autori, questa sorte è toccata esclusivamente a lui.
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“L’ho sempre saputo”
Un viaggio ai confini del tempo e della storia
di Vincenzo Morvillo
È in uso, tra i grandi giornalisti bellamente accomodati alla mensa del potere, recensire, con lodi sperticate, mediocri libercoli scritti da potenti politici, ricchi signori del mondo o importanti “intellettuali” di regime, dai quali ottenere, in comodato d’uso, il diritto di parola, subordinato alla vendita della propria coscienza, della propria dignità, della propria libertà.
Noi ci pregiamo, invece, di recensire, da queste pagine, L’ho sempre saputo – ultima fatica letteraria di Barbara Balzerani, edita da DeriveApprodi – e di accomodarci accanto a questa donna che, insieme ai suoi compagni delle Brigate Rosse, quei potenti, quei signori e quegli intellettuali – tutti pateticamente rinserrati nella celebrazione narcisistica del proprio Ego smisurato – ha fatto tremare, per oltre un decennio, mettendone a ferro e fuoco le ragioni e, con esse, il sistema di rapporti di produzione e conoscenza, su cui si fondava – e ahimè, purtroppo, continua a fondarsi – il loro arrogante privilegio di comando.
Una donna forte, caparbia, finanche dura, ma non certo priva di quella tenerezza di sguardo e predisposizione alla fratellanza – sociale, mai clericale – con i reietti ammassati nelle periferie delle megalopoli, con i deportati delle banlieue, con i plebei delle baraccopoli di tutti i Sud del pianeta, che ne hanno fatto, ieri, una guerrigliera comunista; oggi, una scrittrice dalla sensibilità lacerante e crudele, dal tratto realistico e magico, dallo stile scarno e spigoloso, seppur ricercato nell’uso di una parola dai profondi echi simbolici e di costrutti densi di coltissime risonanze; e dall’impronta inequivocabilmente marxista.
Fratellanza e tenerezza, dunque, si diceva, alimentate nel silenzio sofferto delle ingiustizie del mondo. Un mondo oppresso dal furore distruttivo del capitale e del profitto, e di cui a pagare dazio sono, da sempre, proprio i dannati della terra.
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“Se salta la moneta unica, potrebbe saltare anche il mercato unico”
Manuele Bonaccorsi intervista Emiliano Brancaccio
Siamo a un passo dal baratro: la recessione, la fine dell’euro e forse persino il default dell’Italia. Secondo Emiliano Brancaccio, docente di Economia politica all’università del Sannio, tra i più noti esponenti del pensiero economico “critico”, occorre capire se in Germania i favorevoli all’euro prevarranno su chi vorrebbe ormai sbarazzarsi della moneta unica. E bisogna pure valutare il ruolo dei partiti socialisti europei, i quali si stanno rendendo conto della situazione e hanno avanzato proposte di riforma che vanno nella giusta direzione. Ma il rischio è che si stiano muovendo in ritardo.
Brancaccio, Berlusconi risponde alle sollecitazioni dell’Ue sostenendo che la libertà di licenziamento è una via per la crescita. È vero?
No. Le ricerche dell’ultimo decennio ci dicono che la precarizzazione del lavoro non riduce la disoccupazione e non fa crescere la produttività. Inoltre, agevolando i licenziamenti nei periodi di crisi, la flessibilità aggrava le recessioni. E’ vero peraltro che rendere i contratti ancora più precari indebolisce i lavoratori e può favorire la riduzione dei salari. Secondo alcuni economisti questo potrebbe accrescere la competitività dell’Italia. Il problema è che questa strada l’abbiamo già praticata, dagli anni ‘90, provocando una compressione salariale senza precedenti. Ciò nonostante la nostra posizione competitiva non è migliorata, anzi il disavanzo commerciale si è accentuato. È una politica fallimentare. Che non risolve le contraddizioni alla base della crisi, ma le amplia.
Per quale motivo?
Perché lo stesso fenomeno è avvenuto in tutta Europa. In particolare in Germania, dove nell’ultimo decennio i salari reali sono rimasti al palo, nonostante un forte aumento della produttività. Se il Paese leader dell’Ue insiste con una politica restrittiva e di competizione salariale, gli squilibri strutturali della zona euro sono destinati ad accentuarsi. In questo modo, infatti, la Germania contiene le importazioni, accresce le esportazioni e aumenta il suo surplus verso l’estero. Di conseguenza, l’Italia, la Grecia, la Spagna, il Portogallo e la stessa Francia aumentano i loro deficit verso l’estero. La politica restrittiva e competitiva del Paese leader genera dunque uno squilibrio insostenibile.
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Il comune in rivolta
di Judith Revel e Toni Negri
Non ci voleva molta immaginazione per « strologare » rivolte urbane nella forma delle jacqueries, una volta che l’analisi della crisi economica attuale fosse stata ricondotta alle sue cause ed ai suoi effetti sociali. In Commonwealth, fin dal 2009, era stato infatti previsto. Quello che non ci saremmo mai attesi, all’incontrario, è che in Italia, nel movimento, questa previsione fosse rifiutata. Sembrava infatti, ci fu detto, antica; si disse invece: ora è il momento di ricostruire fronti larghi contro la crisi, di stabilire nei movimenti forme di organizzazione-comunicazione-riconoscimento che tocchino la rappresentanza politica.
Bene, adesso ci si trova tuttavia di fronte a movimenti che si esprimono in forme insurrezionali più o meno classiche, ma che si danno ovunque, sradicando così la vecchia grammatica geopolitica nella quale alcuni continuavano ostinatamente a voler pensare. Si danno cioè:
1) laddove un proletariato nuovo – fatto di precari et di disoccupati – si congiunge a classi medie in crisi: soggetti diversi che si unificano in modo inedito nella lotta, come nei paesi del sud-mediterraneo, per chiedere nuove forme di governo, più democratiche.
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Le tre missioni di Nietzsche
di Sossio Giametta
È vero che Nietzsche non si può e non si deve capire? Chi era e che cosa ha fatto? A fronte delle tre crisi: della filosofia, della civiltà cristiano-europea e della religione, ha compiuto tre missioni: distruzione della filosofia concettuale a favore del moralismo; trasfigurazione del tramonto dell’Occidente in poesia e filosofia tragica e d’altra parte legittimazione e accelerazione della crisi; fondazione della religione laica, meta della modernità
“Ho letto come sempre con piacere il Suo saggio sul Crepuscolo degli idoli di Nietzsche, che non conosco o non ricordo. La Sua scrittura chiara ed efficace mi aiuta, come sempre, a capire. Ma, una volta che ho capito, il pensiero complessivo di Nietzsche mi sfugge. Mi appassiona, mi avvince, ma alla fine mi sfugge.” Così mi scrisse, il 30 aprile 1997, Norberto Bobbio, un faro della cultura italiana, che mi onorava della sua amicizia.
La difficoltà di comprendere Nietzsche è così diffusa, che in Italia è finita in una canzone di un noto cantante pop, “Zucchero” Fornaciari. La canzone si domanda e ripete: “Nietzsche, che dice? Boh, boh!”
Lo strano è che questa difficoltà c’è con Nietzsche, che scrive in modo chiaro, e non con pensatori che scrivono in modo oscuro, come Heidegger, Hegel, Schleiermacher ecc. Si può allora dire anche di lui ciò che egli ha detto dei filosofi tedeschi, che sarebbero tutti degli “Schleiermacher”, cioè facitori di veli? oscuratori?
Certo, questa non era la sua intenzione. Anzi, la sua intenzione era esattamente il contrario. Egli voleva essere un portatore di luce.
Ma allora, dove sta la difficoltà?
La difficoltà sta sia dalla parte degli interpreti, sia dalla parte delle molteplici e intricate missioni di Nietzsche.
Per quanto riguarda gli interpreti, io parlo di solito del “bue squartato”.
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Marx sulla Russia
di Pier Paolo Poggio
Marx è considerato il principale studioso e teorico del proletariato di fabbrica, cosa indubbiamente vera ma molto più complessa di quanto si pensi ordinariamente. Lo studio delle comunità contadine occupa un posto rilevante nei suoi lavori, per certi aspetti è un tema che attraversa tutta la sua opera, venendo a trovare nelle riflessioni sulla Russia un esito sorprendente e sconcertante. Il procedimento che adotta è storico e teorico, la spinta a concettualizzare attraverso quadri sintetici che abbracciano intere epoche è costantemente sorvegliata da verifiche puntuali, perché – come dirà ai suoi interlocutori russi – eventi di sorprendente analogia ma che si verificano in contesti diversi producono esiti del tutto differenti. L’intera ricerca è ispirata dalla ricostruzione della genealogia del capitale, del suo sviluppo e presa sulla società. In tale percorso si registra una dislocazione, un cambiamento non privo di contraddizioni e ripensamenti, nella posizione di Marx sul capitalismo e la rivoluzione.
In una prima fase, esemplificata dal Manifesto, Marx e Engels si esprimono per il più rapido sviluppo del capitalismo inteso come passaggio necessario e precondizione della rivoluzione proletaria (un certo marxismo condivide anche oggi analogo atteggiamento).
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Le politiche di austerità: un'analisi critica
di Guglielmo Forges Davanzati*
1 – Alle origini della crisi
Nei principali media nazionali e internazionali, la crisi scoppiata nel 2007 è stata raccontata così. La crisi è crisi finanziaria, deriva da una deregolamentazione eccessiva dei mercati finanziari ed è, in ultima analisi, imputabile all’eccessiva avidità degli speculatori e degli operatori finanziari. Ciò che nella terminologia corrente viene definito il greed. La si risolve, o la si attenua, conseguentemente, ponendo un freno all’espansione non controllata della sfera finanziaria e riducendo gli stipendi dei manager delle grandi imprese. La gran parte degli economisti liberisti fa propria questa interpretazione e i principali provvedimenti di politica economica attuati a seguito dei numerosi vertici internazionali dell’ultimo biennio si sono coerentemente mossi lungo questa strada.
La radicale debolezza di questa tesi sta nel fatto che essa presuppone una sfera finanziaria totalmente autonoma rispetto all’economia reale, ovvero che l’economia reale possa risentire dell’instabilità finanziaria ma non generarla. A ben vedere, tuttavia, i nessi di causa-effetto si verificano semmai esattamente in senso contrario.
La crisi è stata causata da un’enorme e crescente disuguaglianza distributiva, sia all’interno dell’economia statunitense, sia su scala globale.
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Complessità, scienza e democrazia
Paolo Bartolini intervista Giuseppe Longo
Prof. Longo, quali limiti intravede nell'utilizzo massivo delle metafore provenienti dall'informatica per spiegare il vivente e la complessità della natura umana?
Ho scritto molto su questo, in particolare in collaborazioni con biologi del cancro cui devo molto nei tentativi di esplorazione del vivente - questa tremenda malattia si può capire forse solo analizzando il rapporto triangolare tessuto-organismo-ecosistema, quindi con una buona teoria dell'organismo, in primis. Vediamo di sintetizzare una critica sviluppata altrove (mi permetterò di inserire riferimenti ad alcuni miei testi, talvolta in italiano, dove si può trovare la bibliografia, inevitabilmente molto ampia).
La nozione di informazione si è specificata in almeno due teorie scientifiche rigorose ed importanti: l'elaborazione dell'informazione, a partire da Turing, diciamo, e la trasmissione dell'informazione (Shannon). Entrambe hanno individuano fondamentali invarianti matematici, ovvero nozioni e strutture che possono esser trasformate da un contesto ad un altro, conservando quel che conta. Le caratteristiche dell'informazione, in entrambi i casi, non dipendono dalla codifica (se non per piccoli costi di trascrizione: 0 ed 1, o 0-9 od altri segni qualsiasi) e, soprattutto, non dipende dal supporto materiale: si possono elaborare segni in valvole, chips, silicio... o trasmettere segnali su cavi, tamburi, fumate... Questa grande ed antica invenzione, formalizzata da Turing nel 1936, ma poi essenziale anche a Shannon, ha permesso di distinguere il software dallo hardware e di proporre quindi una autonoma teoria della programmazione o della trasmissione indipendente dal supporto materiale (grande ricchezza della pratica informatica).
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L’economista in tuta da lavoro. Federico Caffè e il capitalismo in crisi
Postfazione ad Economia senza profeti
di Riccardo Bellofiore
Premessa
Sono passati ormai ventisei anni da quando Federico Caffè ha deciso di scomparire: riformista solitario e sempre combattivo, ma forse anche uomo per cui i dolori privati e l’infelicità pubblica avevano superato la soglia della sopportabilità. Non è facile parlarne in modo misurato. Come recita il titolo di un libro di qualche decennio fa, sopprimere la distanza uccide. Forte la tentazione di sovrapporre le proprie preferenze e i propri giudizi su una figura che ha sempre brillato per equilibrio dottrinale nella passione conoscitiva, per volontà determinata nella battaglia riformista, per approfondimento concettuale nella costante tensione all’intervento. Un economista che non ha mai voluto farsi profeta, e che ha però saputo essere un maestro.
Ha detto Mario Draghi, nella giornata in ricordo di Caffè svoltasi a Roma il 24 maggio 2012: «Ai suoi allievi ha insegnato a pensare con la propria testa, non ha trasmesso un credo vincolante. Ha aiutato i suoi studenti – scienziati dell’economia, pensatori, servitori dello Stato e delle Istituzioni, cittadini consapevoli – a scoprire se stessi». Le due raccolte di articoli per le edizioni Studium – questo Economia senza profeti: Contributi di bibliografia economica (1977; d’ora in poi ESP, tutti i riferimenti sono da considerarsi infra e riguardanti questa edizione) e L’economia contemporanea. I protagonisti e altri saggi (1981, d’ora in poi EC, citato nella nuova edizione curata da Stefano Zamagni e uscita in questa stessa collana nel 2013): due libri che vanno letti e valutati assieme, e che congiuntamente danno un accesso privilegiato a questo economista – possono aiutarci ad andare oltre la celebrazione, e consentirci di intavolare un dialogo con Caffè una generazione dopo.
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Si può uscire dall'euro: ecco come
di Leonardo Mazzei
Un formidabile saggio di Leonardo Mazzei. Una guida pratica che spiega, a chi abbia già capito i perché, i COME si possa e si debba uscire dalla gabbia della moneta unica e riconquistare sovranità monetaria. "Non sarà una passeggiata ma l'Italia ha tutto da guadagnare". Cinque , in risposta agli euroinomani ed ai seguaci di T.I.N.A., i temi sviscerati: 1) la svalutazione, 2) l'inflazione, 3) la fuga dei capitali, 4) la ridenominazione del debito, 5) il presunto isolamento dell'Italia e le sue dimensioni ritenute troppo piccole per ritornare alla sovranità monetaria. Buona lettura.*
Quelli che... ormai è troppo tardi
Che l'euro sia un grave problema per l'economia italiana viene ormai riconosciuto con sempre maggior frequenza. Ma mentre la platea degli ultras della moneta unica si va pian piano svuotando, viene invece a riempiersi quella di chi, pur ammettendo i danni prodotti, sa solo concludere che ormai è troppo tardi per uscirne.
Insomma, se fino a qualche tempo fa si doveva assolutamente restare nell'eurozona per i presunti benefici di questa collocazione - moneta "forte", aggancio a sistemi produttivi considerati più avanzati, tutela del risparmio, eccetera - oggi si tende ad evidenziare i problemi connessi all'uscita. Segno dei tempi, senza dubbio, ma anche della manifesta impossibilità di continuare a sostenere la bontà di una scelta che ha fatto sprofondare l'Italia nella crisi più grave degli ultimi ottant'anni.
Certo, la recessione scoppiata nel 2008 ha avuto una dimensione non solo europea, ma il fatto che si sia rivelata più profonda e prolungata proprio nell'Unione, ed ancor più nell'eurozona, qualcosa dovrà pur dirci. Tanto più che tra i benefici dell'euro doveva esserci pure quello di attenuare i cosiddetti shock esterni. E' avvenuto invece il contrario, come dimostrato da tutti gli indicatori economici: da un lato l'Unione Europea è l'area dove la crisi ha picchiato più duro, dall'altro l'euro ha aumentato le asimmetrie tra le varie economie nazionali che la compongono. Detto in altri termini, la moneta unica ha innescato un meccanismo di redistribuzione della ricchezza al contrario, avvantaggiando i paesi più ricchi (Germania in primis) a danno di quelli considerati "periferici". Tra questi l'Italia.
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L'inquietante fiuto dei pazzi
di Commonware
Il complottismo è il sintomo della fine di un’epoca, della perdita di senso, della percezione che il domani non sarà migliore di oggi, che la promessa del progresso è andata a farsi fottere
«È il lato cattivo a produrre il movimento che fa la storia, determinando la lotta».
K. Marx, Miseria della filosofia
«Conquistare può solo colui che conosce la sua preda meglio di quanto questa conosca se stessa».
C. Schmitt, Ex captivitate salus
«Sono bei tempi quelli in cui si distrugge».
M. Tronti, La politica al tramonto
Per amor di chiarezza, tagliamo il discorso con l’accetta. In questa fase vediamo due tipologie di mobilitazioni politiche che, su scala internazionale, stanno raccogliendo una composizione che travalica l’esausto ceto politico delle sinistre e delle destre, movimentiste o meno: da una parte le mobilitazioni che vengono rubricate – in modo spesso riduttivo e talora addirittura fuorviante – sotto l’etichetta della identity politics, ovvero antirazziste (esemplificate ma secondo noi niente affatto contenute dal logo Black Lives Matter), ecologiste (Fridays for future), femministe (Non una di meno), dall’altra quelle che, sintetizzando, sono state definite – con un’accezione perlopiù negativa – complottiste, ovvero mobilitazioni contro la cosiddetta «dittatura sanitaria», vaccini, tecnologia 5G e più in generale contro i sordidi progetti dell’«élite globalista», visibile o occulta che sia. Se le prime, a queste latitudini (e, precisiamo, con significative differenze ad altre latitudini), sono le mobilitazioni che attraggono l’attenzione di una sinistra che si vuole illuminata, le seconde sono espressione di quella che si può chiamare deep society. Entrambe le tipologie, crediamo, sono in buona misura sintomo e manifestazione, per quanto superficiale e in modo tutt’altro che univoco, oltre che nei loro non infrequenti intrecci o scontri, di un processo ben più profondo e strutturale: la crisi dei ceti medi. Dentro questo fenomeno, ormai ben più di una semplice tendenza, occorre porsi strategicamente.
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Fondi pensione e welfare contrattuale: affare o trappola?
di Punto Critico
Lo chiamano ‘welfare contrattuale’ e sta diventando la strategia prediletta dalle aziende per pagare i dipendenti, in particolare alcune voci presenti in busta paga come gli aumenti contrattuali e i premi di produttività, riducendo il costo del lavoro. In che modo? Invece di versarle direttamente ai propri dipendenti quelle somme vengono erogate a fondi che forniscono previdenza, sanità e altri servizi integrativi rispetto al welfare pubblico oppure vengono ‘pagati’ ai lavoratori offrendo loro pacchetti di servizi che vanno dall’asilo dei bambini alla palestra fino addirittura ai ticket per la benzina. Le aziende ci guadagnano perché su quelle somme non pagano le tasse. Ma i lavoratori?
PuntoCritico ha raccolto dati e testimonianze per provare a capire questo nuovo scenario e le conseguenze di questa trasformazione.
* * * *
A giudicare dai dati sull’adesione ‘volontaria’ (si tenga presente questo termine) al welfare contrattuale i lavoratori non ne sembrano entusiasti. Tanto che le organizzazioni di categoria degli imprenditori e il sindacato stanno utilizzando il grimaldello della contrattazione nazionale per finanziare fondi pensione e mutue integrative prelevando i soldi alla fonte, cioè direttamente dalle buste paga. Ma non è solo una questione economica. Per il sindacato fondi pensione, mutue integrative ed enti bilaterali stanno diventando, insieme a CAF e patronati, il volano di un nuovo modello organizzativo e un’alternativa alla crisi che lo sta investendo. Un sindacato che si sposta dalla rappresentanza e dalla contrattazione verso la gestione di pezzi di sanità, di previdenza, di ammortizzatori sociali, ma non solo.
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Le lezioni del capitale
Che cosa ci rivelano l’assassinio di Gheddafi e l’osceno tripudio della Clinton
di Franco Soldani
Solo chi nuota controcorrente può sperare di risalire alla fonte.
Lao Tze
Premessa
A partire dall’11 settembre 2001, la data chiave con cui si apre veramente, e non solo sul piano cronologico, il nuovo secolo, le diverse amministrazioni statunitensi, coadiuvate in questo da tutto l’Occidente di cui sono la superpotenza dominante, ci hanno fatto precipitare in un mondo alla rovescia in cui viviamo ancora oggi. In particolare oggi direi, dopo dieci lunghi anni di rodaggio della nuova macchina della propaganda. E un decennio di stress collettivo a seguito della “war on terror” seguita a quell’avvenimento cruciale. Non a caso. Come ci spiega infatti Edward Hunter, <<la gente è molto più impressionabile dalla propaganda quando è già in un intenso stato di tensione>>. È per questo che tendono a tenerci permanentemente sulla corda. Con tutti i mezzi. Soprattutto, è appena il caso di dirlo, tanto è manifesta la cosa, con le varie forme di terrorismo che sanno orchestrare così bene.
Indipendentemente dalla nostra volontà e persino contro di essa, siamo ormai entrati in un lungo viaggio come quello di Alice, senza alcuno specchio però da attraversare. La sua superficie, anzi, ci rimanda nuovamente le immagini più consuete e ordinarie della realtà, e ci ripete di non aver nient’altro da mostrarci. Questo è tutto quello che c’è. E tu uomo più non dimandare.
Da questo punto di vista, la megamacchina in questione funziona ormai perfettamente e l’attuale presidente degli Stati Uniti, che ne ha preso formalmente il volante o, se si vuole, si è impadronito del suo joy stick, può con confidenza affidarsi al regno metaorwelliano che gli odierni Megamedia, con tutto il tenebroso fascino di una creazione dal nulla, hanno disegnato appositamente per noi. In questo reame delle loro brame finalmente realizzato si assiste ormai ad una inedita pièce postnovecentesca:
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L’OCSE e la diseguaglianza: a che punto è la notte?
Stefano Perri
1. Dopo la ricerca del 2008 Growing Unequal[1], veramente utile nell’evidenziare come lo sviluppo economico nei paesi sviluppati sia stato negli ultimi decenni caratterizzato da un crescere delle diseguaglianze, l’OCSE è ritornata recentemente su questo problema con il Forum tenuto a Parigi il 2 Maggio del 2011[2].
Purtroppo i dati aggiornati sullo stato delle diseguaglianze non sono ancora disponibili nel sito dell’OCSE. Tuttavia alcune interessanti considerazioni possono essere già svolte.
L’OCSE conferma che i dati fino al 2008, cioè prima che gli effetti della crisi fossero evidenti, mostrano un trend di crescita delle diseguaglianze nella distribuzione del reddito nella maggior parte dei paesi sviluppati.
Ad esempio 19 paesi dell’OCSE hanno visto dalla metà degli anni ottanta fino al 2008 il reddito reale disponibile del decile più povero della popolazione crescere ad un tasso molto inferiore rispetto al decile più ricco (in due paesi, Israele e Giappone, il reddito del decile più povero addirittura diminuisce in termini reali). Solo in 8 paesi, tra cui la Francia, il reddito del decile più povero è cresciuto ad un tasso più alto di quello più ricco. Impressionante in questa classifica è la performance di paesi in cui la distribuzione del reddito è tradizionalmente meno sperequata: in Svezia il tasso di crescita del reddito del decile più ricco è stato in questo arco di tempo 6 volte più alto del tasso di crescita del decile più povero (2,4 % contro lo 0,4%) in Germania addirittura 16 volte più alto (1,6% contro lo 0,1%). Anche l’Italia non brilla in questo confronto: i più ricchi hanno infatti visto i loro redditi crescere ad un tasso 5,5 volte più alto di quello relativo ai redditi dei più poveri (1,1% contro lo 0,2%). In questa triste classifica l’Italia giunge quindi terza dopo la Germania e la Svezia, se si escludono i due paesi in cui il reddito reale del decile più povero diminuisce. Occorre però ricordare che, in contrasto con la Germania e la Svezia, la diseguaglianza nella distribuzione del reddito di partenza era molto più alta in Italia.
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