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A qualcuno piace freddo
Giorgio Salerno
Due consumati democristiani, Franco Marini e Pierferdinando Casini, hanno dato di Matteo Renzi, anch’egli di provenienza democristiana, un giudizio alquanto sprezzante; di valore il primo, di metodo il secondo. Marini ha definito il giovane sindaco di Firenze un ambizioso, il secondo un abile parlatore che usa molti fuochi d’artificio verbali. Ricorda un po’, il giudizio del segretario dell’UDC, quello che l’allora giornalista de l’Espresso Giampaolo Pansa affibbiò a Fausto Bertinotti, il 'parolaio rosso'. Siamo ora di fronte ad un parolaio ‘bianco’?
Cerchiamo di capire Renzi partendo da ciò che egli stesso dice, scrive, dichiara e proclama; Renzi attraverso Renzi, leggendo le sue interviste e consultando i suoi ultimi libri.
Che Renzi sia un abile parlatore è fuori di dubbio ma quali sarebbero i fuochi d’artificio che evoca Casini? Renzi usa nei suoi discorsi molte figure della poesia e della retorica quali l’assonanza, la rima, l’ossimoro, l’anagramma, il gioco di parole, il calembour, battute ad effetto, a volte ironiche, a volte irridenti.
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Chicken game: ancora sull’eurocrisi1
Raffaele Sciortino
A partire dalla scorsa estate la crisi globale ha investito pesantemente i debiti sovrani europei e l’Italia. Tra gli avvertimenti “performativi” dei soliti noti sul rischio (reale) di disfacimento della moneta unica e il delinearsi di una strategia di risposta di Berlino, si è iniziato a intravedere lo scontro in atto tra i centri finanziari anglosassoni e l’Europa. Ma il dito è rimasto puntato contro una generica “speculazione” e al tempo stesso, con il procedere incalzante delle politiche di austerity “consigliate” da Ue e Bce e portate avanti da “sobri” governi di tecnici, l’attitudine anti-tedesca è andata facendosi quasi senso comune.2
Si tratta di posizioni confuse e ancora fluide nello spettro politico, trasversali alle embrionali dinamiche sociali. E’ su questo sfondo, destinato a rapidi slittamenti, che si tratta di fare il punto sull’eurocrisi provando a individuare una logica specifica dietro gli eventi e quelle linee di tendenza che condizionano aspettative e umori delle classi sociali.3
Boccata d’ossigeno nell’empasse globale?
Dopo alcuni mesi di fuoco, con i cambi politici in Grecia Spagna e Italia e il declassamento finale dei debiti sovrani di mezza Europa, a inizio 2012 le prospettive per l’euro e l’Unione Europea sembrano a molti meno buie. Che i mercati permettano di tirare un po’ il fiato è dovuto in prima battuta all’operazione Draghi di fine dicembre grazie alla quale la Bce ha elargito alle traballanti banche europee quasi 500 miliardi di euro di finanziamenti a tre anni a tasso simbolico in cambio di collaterali svalutati o emessi ad hoc purchè, attenzione, garantiti dagli stati4 .
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Orientarsi nel labirinto della lotta di classe
A proposito di un libro di Domenico Losurdo
Elena Maria Fabrizio
Non è stato l’Occidente a essere colpito dal mondo; è stato il mondo che è rimasto colpito - e duramente colpito - dall’Occidente
A. Toynbee, Il mondo e l’Occidente
Domenico Losurdo, La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza, Roma-Bari 2013, pp. 387
L’assenza cronica di visioni globali della storia è il più grave colpo inflitto dall’umore postmoderno alla contemporaneità. Di questa assenza soffre anche certa cultura marxista, spesso retrocessa a visioni che hanno rimosso dall’orizzonte storico la portata universalistica del conflitto di classe, qualche volta ridotto a semplice stagione del più ampio processo moderno di emancipazione, qualche altra a progetto fallimentare di cui solo la tradizione liberal-riformista avrebbe saputo tesaurizzare gli aspetti propulsivi.
In questa situazione culturale e politica analizzare i processi storici attraverso la categoria della lotta di classe è un’operazione coraggiosa perché tocca questioni ideologiche e etico-politiche che dal crollo del comunismo sovietico è politicamente scorretto, se non scandaloso, evocare. La critica dell’ideologia però resiste, in uno studioso che ne è tra i più illustri e forse ortodossi rappresentanti e di cui ci sono noti i meticolosi controcanti all’edificante apologia di quella storia che l’Occidente proclama come progressiva e propria. Con questo libro, Losurdo riprende il filo di una ben nota narrazione che si vuole far passare per fallita o passé, ma che forse non si conosce ancora abbastanza. Ne scandaglia l’interna complessità e senza riduzionismi di sorta ci restituisce una visione globale della storia nella quale la lotta di classe riceve il ruolo di spinta che le spetta nel processo di emancipazione e costruzione di unità del genere umano.
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La BCE deve agire
intervista a Vladimiro Giacchè
Secondo la tesi prevalente nelle istituzioni europee per uscire dalla crisi del debito sovrano in Europa sono essenziali rigorose manovre di austerity. E’ vero?
No. “Il momento giusto per effettuare manovre di austerity sono i periodi di espansione, non quelli di recessione”. Queste parole di buon senso, scritte da John Maynard Keynes nel 1937, sono valide ancora oggi. Le manovre di austerity hanno adesso, come unico effetto certo, quello di deprimere la domanda e dunque di rallentare la crescita del prodotto interno lordo o addirittura di portarlo in negativo. E quindi quello di peggiorare il rapporto debito/pil. È la lezione della Grecia, che dopo misure draconiane ha visto crescere il rapporto debito/pil di oltre il 20% in un solo anno.
Il Fondo Europeo salva Stati può essere la soluzione?
No. Sono gli stessi ritardi nell’approntare questo Fondo che lo rendono ormai del tutto inservibile. Avrebbe potuto funzionare quando in crisi era soltanto la Grecia, ma ormai la sua dimensione (440 miliardi di euro) è insufficiente per coprire i vari fronti di crisi, e lo sarebbe anche una dotazione molto superiore. Oltretutto il Fondo, essendo finanziato dagli stessi Stati europei, finisce per rappresentare una gigantesca partita di giro.
Gli Eurobond possono essere la soluzione?
Gli Eurobond sono titoli di Stato emessi a livello europeo e garantiti congiuntamente dai diversi paesi che fanno parte della zona dell’euro. Quindi essi avrebbero un rating (ossia un merito di credito) superiore a quello degli Stati in difficoltà, e di conseguenza potrebbero rendere meno oneroso il servizio del debito (ossia il pagamento degli interessi) per gli Stati in crisi.
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L'industria della menzogna, parte integrante della macchina di guerra dell'imperialismo
di Domenico Losurdo
Nella storia dell’industria della menzogna quale parte integrante dell’apparato industriale-militare dell’imperialismo il 1989 è un anno di svolta. Nicolae Ceausescu è ancora al potere in Romania. Come rovesciarlo? I mass media occidentali diffondono in modo massiccio tra la popolazione romena le informazioni e le immagini del «genocidio» consumato a Timisoara dalla polizia per l’appunto di Ceausescu.
1. I cadaveri mutilati
Cos’era avvenuto in realtà? Avvalendosi dell’analisi di Debord relativa alla «società dello spettacolo», un illustre filosofo italiano (Giorgio Agamben) ha sintetizzato in modo magistrale la vicenda di cui qui si tratta:
«Per la prima volta nella storia dell’umanità, dei cadaveri appena sepolti o allineati sui tavoli delle morgues [degli obitori] sono stati dissepolti in fretta e torturati per simulare davanti alle telecamere il genocidio che doveva legittimare il nuovo regime.
Ciò che tutto il mondo vedeva in diretta come la verità vera sugli schermi televisivi, era l’assoluta non-verità; e, benché la falsificazione fosse a tratti evidente, essa era tuttavia autentificata come vera dal sistema mondiale dei media, perché fosse chiaro che il vero non era ormai che un momento del movimento necessario del falso. Così verità e falsità diventavano indiscernibili e lo spettacolo si legittimava unicamente mediante lo spettacolo.
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La prospettiva di default del debito USA e l'imperialismo valutario
di Domenico Moro
Recentemente sulla prima pagina del Sole24ore è stata messa in dubbio la sostenibilità del debito pubblico statunitense, ossia la capacità del governo di onorare i pagamenti dei titoli di debito emessi dal Tesoro[i]. La notizia viene da una indagine rivolta a 40 Banche centrali di tutto il mondo, la UBS Asset Management’s Reserve Manager Survey. Più precisamente, il 47% dei rispondenti ritiene possibile, in futuro, uno scenario di ristrutturazione del debito pubblico americano. Per ristrutturazione si intende la più o meno ampia insolvenza sul debito pubblico.
Non si tratta di una notizia da poco. Secondo le parole del Sole24ore sarebbe “un evento catastrofico, senza precedenti, che avrebbe ripercussioni devastanti per il mondo intero”[ii]. Perché sarebbe così grave? Per rispondere dobbiamo ricordare che il dollaro è la valuta di scambio commerciale e soprattutto di riserva mondiale. Il debito pubblico statunitense, essendo in dollari, assume un ruolo centrale nell’economia mondiale, dal momento che è usato come riserva da organismi ufficiali, come le banche centrali di tutto il mondo, ma anche da organismi quasi e non ufficiali. Se il debito non venisse onorato, anche solo in parte, verrebbe meno la fiducia negli Usa e quindi verrebbe minato lo status di riserva del dollaro. Questo creerebbe una grave instabilità a livello finanziario mondiale e finanche una grave crisi generale.
Il debito americano, cioè i suoi titoli di stato, è da lungo tempo considerato un investimento sicuro, anzi l’investimento sicuro per eccellenza, specie nei periodi di crisi. Sulla capacità degli Usa di onorare il loro debito si fonda non solo la stabilità finanziaria mondiale, ma anche il dominio economico e soprattutto valutario degli Usa. Grazie al fatto che il dollaro è valuta di riserva mondiale gli Usa fino a oggi hanno potuto finanziare un sempre più grande debito pubblico.
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L'uomo artigiano
Giuliano Battiston intervista Richard Sennett
Un'intervista con lo studioso statunitense, in Italia per presentare il suo libro su «L'uomo artigiano». La necessità di organizzare la vità politica in base alle virtù e al network di conoscenze e competenze maturate nello svolgere bene il proprio lavoro
Autore dalla mentalità filosofica radicata nel pragmatismo americano e dall'atteggiamento critico proprio degli etnografi - perché «un'idea deve confrontarsi con l'esperienza reale, altrimenti diventa una pura astrazione» -, Richard Sennett è il sociologo contemporaneo che ha offerto strumenti indispensabili per comprendere le conseguenze del capitalismo sulla vita quotidiana e i deficit sociali prodotti dall'erosione del «capitalismo sociale», dimostrando che il capitalismo flessibile conduce al disordine, dando vita a «forme culturali che celebrano il cambiamento personale ma non il progresso collettivo» e, allo stesso tempo, a forme di potere ancora più opache. Di fronte a questa opacità, suggerisce Sennett, non dovremmo mai stancarci di elaborare strategie per rendere leggibile e visibile la figura che incarna l'autorità pubblica, smascherando le sue illusioni attraverso l'uso dell'immaginazione. Dopo tutto, «il difficile, scomodo, e spesso amaro compito della democrazia» è proprio questo: introdurre un «disordine intenzionale dentro l'edificio del potere».
Nato a Chicago nel 1943, dopo aver abbandonato una promettente carriera di musicista Richard Sennett si è dedicato alla sociologia, formandosi nelle Università di Chicago e Harvard. Negli anni Settanta insieme a Susan Sontag ha fondato (e poi diretto) il «New York Institute for the Humanieties». Già consigliere dell'Unesco e presidente dell'«American Council on Work», si divide tra l'insegnamento alla New York University e alla London School of Economics. È autore di tre romanzi e di diversi testi. In Italia sono stati pubblicati L'uomo flessibile (Feltrinelli), Rispetto (il Mulino), La cultura del nuovo capitalismo (il Mulino), Autorità (Bruno Mondadori), Il declino dell'uomo pubblico (Bruno Mondadori). Lo abbiamo incontrato a Milano, dove ha presentato il suo ultimo libro, L'uomo artigiano (Feltrinelli, traduzione di Adriana Bottini, pp, 311, euro 25), di cui il manifesto ha già parlato il 27 novembre.
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Baffi e la crisi di oggi
di Pasquale Cicalese
Kaiserstrasse, 10, Frankfurt. E’ questo l’indirizzo della Banca Centrale Europea, sede del vero governo comunitario, da cui si diramano le direttive per i 17 paesi dell’eurozona.
Mutuata dall’esperienza del dopoguerra della Bundesbank, la Bce ha come scopo statutario unicamente la stabilità dei prezzi, in altri termini la deflazione reale.
Del resto era questo lo scopo dell’asse franco-tedesco quando nel 1972, a seguito della svalutazione del dollaro e del conseguente distacco della divisa americana dall’oro, decisione presa da Nixon nella notte del 14 agosto del 1971, avviò il processo di unificazione monetaria con il Piano Werner.
Lo stesso “asse” franco-tedesco è comunque una boutade storica dacché tutte le decisioni successive al 1972 furono prese dalla Bundesbank, con i francesi illusi di imbrigliare la forza teutonica.
Non fu affatto entusiasta del Piano Werner e del successivo serpente monetario il futuro governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi, il quale aveva due preoccupazioni: assorbire la disoccupazione giovanile degli anni settanta stimolando la crescita e sopire la ribellione di massa del proletariato italiano.
La deflazione monetaria insita nei piani egemonici tedeschi sarebbe stata, a detta di Baffi, deleteria per l’economia italiana per un motivo fondamentale. Da Palazzo Koch il governatore assisteva alla deflagrazione dell’apparato produttivo italiano con il progressivo smantellamento delle grandi imprese: il nano capitalismo, trionfante in quegli anni unicamente grazie alla svalutazione e all’evasione fiscale di milioni di “operatori economici”, non avrebbe resistito né alla rigidità monetaria della Bundesbank, né, tantomeno, alla solidità industriale tedesca, se non in una posizione subalterna, unicamente quale subfornitura.
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Crolla il ponte, muore una città, cade un sistema
di Simone Lombardini
Il crollo del “Ponte Morandi” nella mia Genova non è stato un incidente fortuito. Non è stato un fulmine. Non è stata un po’ di pioggia. La caduta di quel ponte ha un’origine molto più profonda, nel tempo e nello spazio; non è stato solo un cedimento strutturale quanto più un cedimento morale. Costruito in pieno boom economico, quando l’Italia investiva in grandi opere pubbliche infrastrutturali, era diventato uno dei simboli della rinascita italiana, riscattata dal ventennio fascista e proiettata verso lo sviluppo economico; oggi il ponte del boom è diventato il ponte della morte, dell’incuria e della corruzione, ed è per questo che la sua caduta assume il valore simbolico della triste decadenza in cui versa il nostro paese. Un paese che ha rinunciato al proprio futuro avendo smesso di investire in infrastrutture, un paese senza un piano industriale ma che esporta i suoi talenti umani migliori a centinaia di migliaia ogni anno; un paese dove gli abitanti non fanno più figli, un paese che invecchia soltanto, immobilista e demoralizzato.
La catastrofe del 14 agosto non è ascrivibile a un evento fortuito ma nemmeno a responsabilità meramente individuali indirizzabili a un manipolo di malfattori, sarebbe troppo facile in questo caso: migliaia tra operai, tecnici, ingeneri, geometri e architetti monitoravano il ponte ogni istante di ogni giorno fino al minuto prima del suo crollo, eppure il ponte è caduto comunque. Il fatto è parecchio nebuloso e non aiuta di certo la secretazione da parte del tribunale del filmato ufficiale di Autostrade per l’Italia che riprende per intero la dinamica del crollo (che nessuno ha visto). Tuttavia alcune osservazioni del sistema si possono già fare. Dal 2016 poi è nota alle autorità l’audizione parlamentare dell’architetto Mauro Coletta che denunciava le condizioni di lavoro della Vigilanza sulle concessioni: i dipendenti devono anticipare le trasferte di tasca loro attendendo 4-5 mesi prima di vedere il rimborso (e infatti dal 2011 al 2015 sono passate da 1400 a 850) ma cosa ancor più grave non hanno alcuna assicurazione legale contro i contenziosi giuridici che le concessionarie aprono quando essi segnalano irregolarità.
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Pitagora, Platone e Aristotele: inizia il “triello”
di Roberto Sidoli, Daniele Burgio, Lorenzo Leoni
Capitolo primo dal volume Pitagora, Marx e i filosofi rossi in via di pubblicazione (Qui l'Introduzione)
Asia Minore, area del mar Ionio durante l’ultimo terzo del settimo secolo a.C./inizio del sesto secolo: una serie di città-stato greche, indipendenti e in via di rigoglio economico, iniziano ad utilizzare il nuovo strumento economico effettuato in Lidia della moneta e sviluppano i loro commerci.
I processi di riproduzione socio-politici delle colonie ioniche dell’Asia minore-Mileto Colofone, Clazomene, Efeso, tutte affacciate sul Mar Mediterraneo, oltre alle isole di Samo e di Chio si organizzano in forme politiche controllate da ristretti gruppi aristocratici mentre la loro economia registra un accentuato sviluppo, favorito dall’intensificarsi dei traffici marittimi. Mileto diventa la principale delle città ioniche, per la ricchezza dei suoi palazzi e dei suoi templi, per il fervore delle iniziative commerciali e della ricerca tecnico-scientifica che favorisce la crescita delle condizioni economiche, della cultura e del numero dei cittadini che si dedicano ad attività produttive; aumenta pertanto il numero degli artigiani e dei commercianti e diminuisce simultaneamente quello dei contadini mentre la schiavitù rimane ancora un fenomeno limitato, sebbene proprio in quel periodo a Chio inizia a fiorire il primo mercato internazionale di forza lavoro servile.
Proprio in questo particolare contesto socioproduttivo e politico-sociale sorse la filosofia occidentale e via via si affermò una cultura “laica” che pose a proprio fondamento il giudizio e l’elaborazione razionale, ossia dottrine filosofiche e non mitologie, poetiche e religiose.
Nella ricerca dell’“archè” e nel corso del processo di studio dell’universo, nell’indagine (utilizzando un metodo razionale e a-religioso, a-mitico) del principio unificante e fondante della natura – ivi compresi gli esseri umani – si impegnarono via via i primi filosofi, da Talete a Anassimene, da Anassimandro fino all’agrigentino Empedocle. Essi produssero una sorta di protomaterialismo, nel quale il principio unificante di tutti i processi esistenti era individuato in un particolare elemento materiale (l’acqua per Talete, l’aria per Anassimene, ecc.) che vivificava tutte le cose esistenti: l’ilozoismo diventò per quasi un secolo la corrente egemonica all’interno del neonato pensiero filosofico occidentale.
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Comunismo fra Idea e Storia
Riflessioni a partire da Alain Badiou, Michael Hardt, Toni Negri e Gianfranco La Grassa
di Costanzo Preve
1. Anziché perderci nel “piccolo cabotaggio” di piccole formazioni che si auto-certificano soggettivamente come “comuniste” (ma anche i matti si auto-certificano soggettivamente come reincarnazioni di Napoleone), ma devono mettere in primo piano le compatibilità delle leggi elettorali e l'identità pregressa dei loro potenziali militanti e simpatizzanti, che non devono essere in nessun caso “scandalizzati” con novità irricevibili (novità, come è noto, di cui si nutrono esclusivamente la scienza e la filosofia), conviene invece tornare ai “fondamentali”. Ed i “fondamentali”, per un comunista, sono l'idea e la pratica del comunismo.
In proposito partirò da due soli libri recenti. Il primo (AAVV, L' idea di comunismo, Derive e Approdi, d'ora in poi IDC) contiene molti con tributi, ma per brevità mi limiterò a quelli di Alain Badiou (Badiou, IDC), Michael Hardt (Hardt, IDC) e Toni Negri (Negri, IDC). Ce ne sarebbero anche altri di meritevoli e rilevanti, ma voglio concentrare la mia attenzione su pochi nodi tematici. Il secondo (cfr. Gianfranco La Grassa, Oltre l'orizzonte. Verso una nuova teoria dei Capitalismi, Besa, d'ora in poi GLG) concerne invece solo l'ultima opera di questo prolifico autore (da più di trent'anni mio amico personale al di là di divergenze radicali sullo statuto filosofico “umanistico” o meno della teoria di Marx), che però riassume mirabilmente un serissimo processo di pensiero.
2. E' bene partire dai “fondamentali” per non perderci in due tipi di chiacchericcio, il solo che trova spazio nei giornaletti di “estrema sinistra” (Manifesto, Liberazione, eccetera), sedimentati dall'onda lunga della risacca del Sessantotto (da non confondere con l'anno solare 1968). Il Sessantotto vede in Europa Occidentale l'affermarsi incontrastato dell'incorporazione post-moderna del ceto intellettuale nelle strutture flessibili di un nuovo capitalismo “speculativo”, post-borghese, post-proletario e nello stesso tempo ultra-capitalistico, ed il pensare che l'idea di comunismo possa essere rilanciata all'interno di questa cultura di “sinistra” è forse l'impedimento più grande allo sviluppo di questo progetto.
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I demolitori del 15 ottobre e il futuro del movimento
Intervista a Emiliano Brancaccio
Dalle piazze di Madrid, dove tutto è cominciato lo scorso 15 maggio, la protesta si è estesa nel resto del mondo. Sabato 15 ottobre gli “indignati” hanno sfilato per le strade di 950 città – da Honk Kong a Boston, da San Paolo a Kuala Lumpur, da Sidney a Tokyo – denunciando i drammatici effetti sociali della crisi economica scoppiata nel 2007/2008 e l'assenza di risposte all'altezza della gravità della situazione da parte della politica e dei governi. Non è un caso se le file di “indignados” sono composte sopratutto da giovani, i più colpiti dalla disoccupazione di massa legata alla brusca contrazione di produzione e reddito che si è registrata quando la crisi finanziaria si è scaricata sull'economia reale.
A Roma una grande manifestazione cui hanno preso parte oltre centomila persone è degenerata in violentissimi scontri. Il bilancio provvisorio è di 70 feriti (tre gravi), 12 arrestati, una città messa a ferro e fuoco per diverse ore e il solito, inevitabile, strascico di polemiche. Ancora una volta queste discussioni hanno oscurato le ragioni di una protesta che, come ha scritto Guido Rossi sul Sole 24 Ore, “nasce da mille, troppi disagi e merita di essere esplorata con spirito analitico”. Ne abbiamo parlato con Emiliano Brancaccio, economista dell'Università del Sannio assai critico con quelle politiche di austerità varate dai governi europei che, insieme alla Bce e al mondo della finanza, erano il bersaglio privilegiato degli slogan dei cortei di sabato. Brancaccio segue da anni le vicende dei movimenti e nel 2002 è stato relatore della proposta di legge di iniziativa popolare promossa da Attac per l’istituzione della Tobin tax.
Partiamo dalla giornata di sabato. Che idea si è fatto di ciò che è accaduto a Roma?
In tutta franchezza non intendo accodarmi alla consueta discussione etico-normativa su “violenza” e “non violenza”.
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Il ritorno dell’insicurezza sociale
di Robert Castel
(cfr. l'introduzione di Gianvito Brindisi)
Vivere l’insicurezza sociale equivale a trovarsi alla mercé di ogni minimo rischio dell’esistenza: una malattia, un incidente, un’interruzione del lavoro, un imprevisto nel corso della vita possono spezzare il fragile equilibrio della quotidianità e far precipitare nella disgrazia, se non addirittura nella rovina. Su scala storica, questa insicurezza sociale è stata la condizione ordinaria di quello che un tempo era detto il popolo. «Vivere alla giornata», dispiegare sforzi costanti per arrivare a «sbarcare il lunario», sfiancarsi al fine di «guadagnarsi il pane»… Sono stati questi, nel corso dei secoli, i problemi quotidiani di quanti non avevano che il frutto del proprio lavoro per vivere o per sopravvivere. Nessuna provvista, nessuna proprietà, nessun gruzzoletto: tutti i giorni la domanda imperiosa su come si presenterà il domani. L’insicurezza sociale è questa impossibilità di securizzare l’avvenire, poiché la padronanza di questo avvenire dipende da condizioni che ci sfuggono.
Tale insicurezza sociale, che per lungo tempo ha tessuto di una trama nera la storia popolare, è stata infine combattuta e sconfitta grazie alla costituzione di uno zoccolo di risorse, di uno zoccolo che dà consistenza al presente e consente di prendere in carico l’avvenire: si tratta della sicurezza sociale. Questo zoccolo di risorse è stato in origine predisposto fondamentalmente in relazione al mondo del lavoro, poiché era la vulnerabilità della condizione del lavoratore ad alimentare principalmente l’insicurezza sociale. Ma da quando abbiamo fatto il nostro ingresso nella cosiddetta «crisi», vale a dire dai primi anni Settanta, l’insicurezza sociale è tornata.
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iFu. L’ambivalenza rimossa di Steve Jobs
Diradatasi parzialmente la cortina di incenso attorno alla morte di Steve Jobs, ed il cordoglio unanime ed ovattato, occorre fermarsi a riflettere criticamente sulla sua parabola e sul suo lascito nel nostro presente, e trarne le opportune lezioni.
Steve Jobs è stato un capitalista nell’accezione più classica di questo termine: ha saputo appropriarsi della ricchezza creativa della controcultura e della cooperazione degli anni ’70 ed ’80 statunitensi e servirsene per creare e veicolare bisogni e tendenze di mercato. Destreggiandosi, con abilità da riconoscere, tra cyber-èlite e masse, contribuendo alla perdita d’aureola delle prime ed alla messa a lavoro generalizzata dell’intelligenza delle seconde, tramite interfacce sempre più semplificate.
In particolare, l’attraversamento della scena dell’Homebrew Computer Club, fucina di numi dell’ICT da Richard Stallman a Lee Felsenstein è stata un prerequisito indispensabile per Jobs per agire pienamente nella successiva fase di socializzazione del web. Molti attacchi vengono rivolti a Steve Jobs da parte del mondo hacker, che lo accusa di aver svenduto al grande business l’innocenza della comunità amatoriale – profittando egli stesso del decisivo apporto tecnico del cofondatore di Apple Steve Wozniak.
Il che è vero, tanto più inserendosi in un graduale e generalizzato processo di cattura e massificazione del desiderio degli informatici presso il grande pubblico che porterà al declino dell’autonomia dei cosiddetti cybersoviet.
Ma ci si deve anche chiedere: si potevano socializzare diversamente queste spinte? Cosa ha portato a non farlo?
Per ironia della sorte, il gran ritorno di Jobs alla guida di Apple avviene a fine anni ’90, in concomitanza con l’ascesa dell’open source come strategia di sviluppo e commercializzazione del software libero; un processo storico che non lascia indifferente l’uomo di Cupertino, come prova l’implementazione di Mac OS X. Ma mentre l’open source facilita la circolazione del codice – pur certamente in maniera interessata ed ambigua – la nuova Apple con l’avvento dei nuovi device di consumo di beni digitali fa presto a trincerarsi nell’approccio closed.
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La filosofia di Putin
di Pierluigi Fagan
La Russia è un continente culturale, per me, di difficile decifrazione. Ammetto prioritariamente la mia ignoranza sostanziale epperò, proprio questa ignoranza mi muove a cercar di colmare almeno i vuoti più gravi. E’ come sempre, una sollecitazione esterna a muovere la curiosità di comprensione.
Sono stato abbonato a Foreign Affairs, la rivista di geopolitica e relazioni internazionali che fa da riferimento a gli ambienti di Washington. Mi mandano perciò una newsletter ed ho accesso libero ad un articolo a numero. Questa settimana (oggi 26.09.15) mi ha colpito il titolo di un articolo su “Il filosofo di Putin”, Ivan Ilyn e l’ideologia di Mosca, di A. Barbashin e H.Thoburn. Poiché mi incuriosiva il fatto che Putin avesse un filosofo di riferimento e non conoscendo affatto Ivan Ilyn, ho fatto un po’ di ricerca. Il secondo scatto di curiosità che mi ha spinto poi più in là nella ricerca, ampliandola, è stato un articolo del New York Times del 03.03.14 a firma David Brooks in cui si dava notizia (riprendendo Maria Snegovaya dal Washington Post) del fatto che Putin aveva inviato in dono ai governatori regionali, una trilogia di titoli che comprendeva, oltre al “I nostri compiti” di Ilyn, la “Filosofia della diseguaglianza” di Berdjaev e la “Giustificazione del Bene” di Soloviev (o Solove’v, Solovyov). Beh, l’idea che il capo di un sistema così forte e potente avesse inviato tre libri di filosofia al secondo livello di gestione territoriale del sistema, era intrigante assai. Di primo acchito, la faccenda si configurava come l’invio di una linea ideologica il che era interessante, soprattutto per un modestissimo “pensatore in proprio” come il sottoscritto. Interessante perché qui da noi sembrerebbe strano che Obama o Cameron o più modestamente Renzi, inviassero tre libri in dono ad una struttura di secondo livello. Peggio ancora, di filosofia. Interessante anche il fatto che non si trattasse di un documento di Putin ma di tre libri, di altrettanti autori, del XIX° e XX° secolo (Solovyov nasce nel 1853 e Ilyn muore nel 1954, Berdjaev sta in mezzo) noti e pubblici, tra le colonne portanti della tradizione culturale russa, almeno i primi due (Soloviev e Berdajev). Cosa voleva dire a livello di contenuto? Qual’era l’idea che voleva trasmettere Putin? Cosa dicono questi tre autori e come sono tra loro correlabili in un unico discorso che dovrebbe rivelarci qual è l’idea che Putin ha del destino russo?
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La retorica del potere. Critica dell’universalismo europeo
Immanuel Wallerstein
Sociologo statunitense con cattedra a Yale ma appartenente alla sinistra radicale, Immanuel Wallerstein è stato tra i primi in America a recepire e poi attualizzare la lezione di Braudel (come fondatore e direttore del Ferdinand Braudel Center alla State University di New York): i suoi lavori di sociologia economica e di storia delle idee applicano il concetto di lunga-durata ai processi del capitalismo, ed introducono definitivamente nelle scienze sociali la categoria di sistema-mondo1.
Quello di Wallerstein è dunque un sano storicismo metodologico: non consiste nell’immettere e così sciogliere tutti gli eventi nel flusso del tempo, ma nel fornire una visione sistemica e di lungo periodo dei processi culturali, economici, sociali e politici, in una parola della struttura storica della civiltà occidentale (cfr. p. 108: “tutti i sistemi sono storici e tutta la storia è sistemica”); ciò gli consente di avere uno sguardo critico analogo a quello di un altro grande sociologo di sinistra, Pierre Bourdieu, uno sguardo capace di decostruire riflessivamente i valori della nostra civiltà, di cogliere l’insufficienza o meglio l’obsolescenza delle vecchie categorie della politica europea e americana2 , e di comprendere che ci troviamo in una fase di transizione, di passaggio da un sistema-mondo ad un altro, i cui tratti non sono ancora definiti ma dipenderanno sicuramente dalle nostre scelte culturali, economiche e politiche.
Tale storicizzazione radicale permette inoltre a Wallerstein di affermare che ogni universalismo, ed in particolare quello elaborato dalla moderna civiltà occidentale, nasconde un particolarismo. In Chi ha il diritto a intervenire? Valori universali contro barbarie, prima delle tre conferenze tenute alla British Columbia University nel 2004 e qui raccolte in volume con l’aggiunta di un saggio conclusivo, egli va alla radice del problema per eccellenza, generato dalla costituzione concettualmente e concretamente ‘universalistica’ del sistema-mondo moderno a partire dalle scoperte geografiche del XVI secolo: lo statuto giuridico (quindi etico, politico, ontologico, problematicamente umano) dell’‘altro’3 .
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Tra due rive
di Karla
A ogni onda di movimento - internazionale o nazionale - riemergono i "cattivi pensatori" che sembrano incaricati da decenni di provare a deviarne il flusso verso lidi più rassicuranti per il potere. Due interventi apparsi nei giorni scorsi sulla stampa di sinistra ripropongono, opportunamente "attualizzata", questa vecchia e consolidata ricetta.
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Era tanto prevedibile quanto inevitabile: tutti i cani da guardia (di sinistra) della borghesia imperialista si sono sentiti in dovere di dire la loro. Lo hanno fatto Alessandro Dal Lago su Liberazione del 12 agosto, Judith Revel e Toni Negri su Uninomade il 13 agosto.
Due prese di posizione apparentemente agli antipodi ma, a uno sguardo solo un poco più attento, non poco affini. Decostruire la posizione di Dal Lago è sin troppo semplice. Da buon riformista e opportunista si guarda bene dal legare la condizione di crisi attuale al modo di produzione capitalista, che non si sogna minimamente di tirare in mezzo, preferendo accanirsi sul solo “liberismo”; come se questo involucro ideologico non fosse l’armamentario elaborato ad hoc dalle borghesie imperialiste per l’attuale fase imperialista, ma quasi il parto malefico di qualche mente rozza e plebea.
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La crisi perpetua come strumento di potere
intervista a Giorgio Agamben
Lo scorso marzo lei ha proposto l’idea di un “impero latino” contro il dominio tedesco in Europa. Il suo intervento è stato tradotto in diverse lingue e discusso con molta passione. Aveva previsto tutta questa eco?
Vorrei innanzitutto precisare che il modo in cui “Die Zeit” ha presentato il mio articolo su “Libération”, non ne rispecchia né lo spirito né la lettera. A cominciare dal titolo (Das lateinische Reich soll einen Gegenangriff starten) che ovviamente, come un giornalista dovrebbe sapere, non è mio, ma della redazione. E come potrei voler contrapporre la cultura latina a quella tedesca, quando ogni europeo intelligente sa che la cultura italiana del Rinascimento o quella greca classica appartengono di pieno diritto anche alla cultura tedesca, che le ha pensate e riscoperte? Questo è l’Europa, questa assoluta specificità che scavalca tuttavia ogni volta i confini nazionali e culturali. L’obiettivo delle mie critiche non era la Germania, ma il modo in cui l’Unione Europea è stata concepita, su ragioni unicamente economiche che ignorano non solo quelle spirituali e culturali, ma anche quelle politiche e giuridiche. Se vi era una critica per la Germania, ciò era solo perché la Germania, che si trova in qualche modo in una posizione di leadership, malgrado la sua straordinaria tradizione filosofica sembra incapace di pensare una Europa che non sia quella della moneta e dell’economia.
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L'assenza della "lotta di classe" e i disastri che ne derivano
di Sandro Moiso
L'opportunità delle riflessioni che seguono mi è stata dettata in parte dall'intervento di Valerio Evangelisti sul tema del nazional-bolscevismo “de noantri” (di cui condivido pienamente i contenuti) e in parte dall'affaire Saviano – Dal Lago (che invece puzza su più fronti).
La lotta di classe di cui intendo pertanto parlare non è quella reale (che come avrò modo di affermare in altra parte di questo testo non viene mai a mancare nella storia delle società umane), ma piuttosto quella ormai del tutto assente sia nel dibattito politico contemporaneo che in gran parte della rappresentazione che la letteratura, o sarebbe forse meglio dire il mondo delle lettere, trasmette della realtà contemporanea o delle epoche passate. Con quest'ultima affermazione non si intende però affatto riproporre qui alcun ritorno al realismo naturalistico o, peggio ancora, a quello di stampo proletario o tardo-sovietico, quanto piuttosto sottolineare un rumoroso silenzio di fondo.
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L’affare Covid. Tra Emergenza spettacolare ed epidemia dolosa
di Un amico di Winston Smith
Un anno di emergenza. Stato e tecnocrati sono riusciti finora a creare una sorta di “cerchio perfetto”: se la curva dei contagi cala, è merito del governo; se cresce, è per l’allentamento delle restrizioni e lo scarso senso di responsabilità della gente (e vai con i servizi mediatici sempre-uguali sui Navigli, sullo shopping, sulla movida…). Nel caso in cui fossero minimamente organizzate le cure domiciliari per i malati di Covid, il merito verrebbe probabilmente attribuito alle vaccinazioni; se queste ultime risultassero ampiamente inefficaci, la colpa sarebbe comunque del virus con le sue “diaboliche” e imprevedibili mutazioni. Anche la denuncia delle inefficienze della Sanità e la rivendicazione di misure governative sganciate dalla logica del profitto rientrano perfettamente nel cerchio.
Se tanti aspetti di ciò che è successo e che segnerà a lungo le nostre vite sono stati affrontati – cause strutturali del “salto di specie” dei virus, incompatibilità tra tecno-industria e salute, accelerazione verso una società digitalizzata, militarizzazione, sperimentazione biomedica di massa …– non avevamo ancora preso di petto l’“affare Covid”. Si è analizzato, cioè, ciò che Stato e tecnocrati hanno realizzato a partire dall’epidemia come dato di fatto, non le scelte politico-sanitarie ben precise che hanno fatto di quel dato una Emergenza.
È ciò che si propone questa piccola, ma densa e approfondita, “contro-inchiesta arrabbiata” realizzata da un compagno. Si tratta di un testo “mostruoso”. L’idea di una Emergenza “costruita ad arte” è un pensiero che facciamo fatica a far nostro, ma che non possiamo evitare di prendere in considerazione. Una tesi che potrebbe scandalizzare persone a noi vicine e risultare fin troppo familiare a persone che vogliamo invece tenere lontane.
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“Guerra cognitiva”: la NATO sta pianificando una guerra per le menti delle persone
di Jonas Tögel
Dal 2020, la NATO ha portato avanti i piani per una guerra psicologica che deve stare su un piano di parità con le cinque precedenti aree operative dell’alleanza militare (terra, acqua, aria, spazio, cyberspazio). È il campo di battaglia dell’opinione pubblica. I documenti della NATO parlano di “guerra cognitiva” – guerra mentale. Quanto è concreto il progetto, quali passi sono stati compiuti finora e a chi è rivolto?
Per essere vittoriosi in guerra, bisogna vincere anche la battaglia per l’opinione pubblica. Questo viene svolto da oltre 100 anni con strumenti sempre più moderni, le cosiddette tecniche di soft power. Questi descrivono tutti quegli strumenti psicologici di influenza con cui le persone possono essere guidate in modo tale che esse stesse non si accorgano di questo controllo. Il politologo americano Joseph Nye definisce quindi il soft power come “la capacità di convincere gli altri a fare ciò che si vuole senza usare la violenza o la coercizione”.(1)
La sfiducia nei governi e nei militari sta aumentando , mentre la NATO sta intensificando i suoi sforzi per usare una guerra psicologica sempre più sofisticata nella battaglia per le menti e i cuori delle persone. Il programma principale per questo è “Cognitive Warfare” . Con le armi psicologiche di questo programma, l’uomo stesso deve essere dichiarato il nuovo teatro di guerra, il cosiddetto “Dominio Umano” (sfera umana).
Uno dei primi documenti della NATO su questi piani è il saggio del settembre 2020 “NATO’s Sixth Domain of Operations” , scritto per conto del NATO Innovation Hub (abbreviato: IHub ). Gli autori sono l’americano August Cole , ex giornalista del Wall Street Journal specializzato nell’industria della difesa che da diversi anni lavora per il think tank transatlantico Atlantic Council, e il francese Hervé le Guyader.
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La Dialettica della natura di Engels
Tra metodo e sistema, filosofia e scienza
di Eros Barone
Ad ogni passo ci vien ricordato che noi non dominiamo la natura come un conquistatore domina un popolo straniero soggiogato, che non la dominiamo come chi è estraneo ad essa, ma che noi le apparteniamo con carne e sangue e cervello e viviamo nel suo grembo: tutto il nostro dominio sulla natura consiste nella capacità, che ci eleva al di sopra delle altre creature, di conoscere le sue leggi e di impiegarle nel modo più appropriato.
Friedrich Engels, Dialettica della natura.
1. Significato e costruzione di una “dialettica della natura”
Per valutare il significato storico e teorico del modo in cui Engels ha esteso la dialettica dal campo delle scienze storico-sociali a quello delle scienze fisico-naturali occorre considerare nel suo significato complessivo la elaborazione teorica da lui sviluppata, che comprende la scienza, la dialettica e il materialismo, e individuare nel contempo lo sfondo storico-culturale di tale elaborazione. Né si può prescindere, per un verso, dai limiti storici inerenti allo stadio di sviluppo delle scienze che offrono ad Engels la base di appoggio per la sua costruzione di una “dialettica della natura” e, per un altro verso, dal fine che egli in generale attribuisce a tale dialettica, quindi alla funzione che essa svolge nella prospettiva del comunismo. Questo duplice aspetto è stato al centro dell’attenzione critica e della ricerca teoretica che, nell’àmbito del marxismo italiano, hanno contraddistinto i contributi forniti da Ludovico Geymonat e dalla sua scuola.
La feconda vitalità del pensiero di Geymonat nasce da una riflessione originale sul materialismo dialettico. Tale concezione, oltre ad occupare un posto centrale e prioritario nelle indagini svolte dal pensatore torinese sulla storia del pensiero filosofico e scientifico, chiarisce anche in quale senso si muova la stessa battaglia culturale condotta da Geymonat per affermare il valore conoscitivo della scienza e contrastare le molteplici forme di irrazionalismo e di “reazione romantica contro la scienza”.
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[Libia: due interventi sul Manifesto contro l'assenza di memoria]
Libia un anno fa: memoria corta
di Manlio Dinucci
Uno degli effetti delle armi di distrazione di massa è quello di cancellare la memoria di fatti anche recenti, facendone perdere le tracce. È passato così sotto silenzio il fatto che un anno fa, il 19 marzo, iniziava il bombardamento aeronavale della Libia, formalmente «per proteggere i civili». In sette mesi, l'aviazione Usa/Nato effettuava 30mila missioni, di cui 10mila di attacco, con impiego di oltre 40mila bombe e missili. Venivano inoltre infiltrate in Libia forze speciali, tra cui migliaia di commandos qatariani facilmente camuffabili. Venivano finanziati e armati i settori tribali ostili al governo di Tripoli e anche gruppi islamici, fino a pochi mesi prima definiti terroristi. L'intera operazione, ha chiarito l'ambasciatore Usa presso la Nato, è stata diretta dagli Stati uniti: prima tramite il Comando Africa, quindi tramite la Nato sotto comando Usa. È stato così demolito lo stato libico e assassinato lo stesso Gheddafi, attribuendo l'impresa a una «rivoluzione ispiratrice» - come l'ha definita il segretario alla difesa Leon Panetta - che gli Usa sono fieri di aver sostenuto, creando «una alleanza senza eguali contro la tirannia e per la libertà». Se ne vedono ora i risultati. Lo stato unitario si sta disgregando. La Cirenaica - dove si trovano i due terzi del petrolio libico - si è autoproclamata di fatto indipendente e, a capo, è stato messo Ahmed al-Zubair al Senussi. Scelta emblematica: è il pronipote di re Idris che, messo sul trono da Gran Bretagna e Stati uniti, concesse loro, negli anni '50 e '60, basi militari e giacimenti petroliferi. Privilegi cancellati quando re Idris venne deposto nel 1969. Ci penserà il pronipote a restituirli. E vuol essere indipendente anche il Fezzan, dove sono altri importanti giacimenti. Alla Tripolitania resterebbero solo quelli davanti alle coste della capitale.
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La nuova scuola premia i signorsì senza spirito critico
Due menzogne: competenze e meritocrazia
Christian Raimo
Quando si parla del mondo del lavoro e del mondo della scuola sembra sempre che si parli di due questioni totalmente distinte. E invece, nell’Italia con il Pil che crolla, nel mare magnum delle fugacissime questioni estive, ci sono un paio di notizie che si accoppiano per farci capire come dobbiamo immaginarci il futuro prossimo.
La prima è la disfida modello western tra Fiom e Fiat, simboleggiata al meglio dal duello in pieno sole tra Marchionne e Landini: il contenzioso nello specifico è la sentenza della Cassazione che obbligherebbe la Fiat a dare spazio ai delegati della Fiom, mobbizzati e licenziati senza nemmeno quegli ultimi scrupoli che sono gli articoli della Costituzione. Dalla parte di Marchionne stanno quelli che invocano un modello d’industria nuovo, senza i laccioli di un sindacato-reliquia. Dalla parte di Landini i difensori di diritti lesi da una globalizzazione che è tale solo nella deregulation.
La seconda è che il concorso per docenti che ha coinvolto milioni di persone in Italia sta volgendo al termine: entro l’estate ci saranno i vincitori.
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Colonizzazione dell'immaginario e controllo sociale
di Renato Curcio
Incontro-dibattito sul libro L’Impero virtuale. Colonizzazione dell’immaginario e controllo sociale, Renato Curcio (Sensibili alle foglie, 2015) presso La casa in Movimento, Cologno Monzese (MI), 14 febbraio 2016
L’Impero virtuale, nonostante il titolo, non è un lavoro su internet; internet è solo lo sfondo, è un territorio che oggi fa parte dello spazio in cui viviamo e quindi in qualche modo, parlando di questo libro, lo attraverseremo. Non è neanche un sermone contro le tecnologie, che esistono fin da quando un uomo ha preso in mano una clava, ossia uno strumento, e che quindi accompagnano l’intera storia dell’umanità. Non si tratta dunque di essere né pro né contro, ma di mantenere vivo un pensiero critico – che in quest’epoca fa un po’ difetto – anche sugli strumenti, soprattutto quelli che non sono né secondari né trascurabili per il fatto che investono la nostra vita, sia lavorativa che relazionale. Intendo la nostra vita di specie, cioè una vita che è trasversale e ci mette sullo stesso piano di un cittadino cinese, spagnolo, del Sudafrica ecc. È una riflessione necessaria perché queste nuove tecnologie, a differenza di quelle precedenti della società industriale, si implementano a una velocità straordinaria, per cui abbiamo di fronte a noi un percorso di trasformazione sociale che va talmente veloce che la nostra capacità di coglierne il senso dello sviluppo, il significato e le implicazioni, come singoli cittadini e anche ricercatori e soprattutto come lavoratori che vivono in vario modo questi territori, è disorientata. Un disorientamento che assume due facce: quella dell’accettazione, spesso acritica, di queste tecnologie, come se fossero ormai una normalità; oppure un’accettazione molto dolorosa, perché chi deve fare i conti con un bracciale che monitorizza la sua vita lavorativa per ogni secondo di spazio e di tempo, ha certamente una relazione diversa con questi dispositivi rispetto a una persona che li utilizza in maniera acritica o superficiale.
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Liberalprogressismo, liberalconservatorismo e “sovranismo” nella crisi della democrazia moderna
di Stefano G. Azzarà
Il 9 gennaio interverrò alla Rosa-Luxemburg-Konferenz - appuntamento di dibattito teorico ormai divenuto istituzionale per i comunisti e la sinistra europea e dedicato quest'anno al confronto tra razionalismo e irrazionalismo - presentando una sintesi del mio libro "Il virus dell'Occidente".
Nel frattempo, Junge Welt (11.12.2020) ha tradotto e pubblicato un estratto, nel quale parlo del concetto di "popolo", della genesi della democrazia moderna e della sua attuale crisi, caratterizzata dall'involuzione in chiave imperiale dell'universalismo, dalla reazione particolarista (populismo e sovranismo) e dell'imminente riconciliazione tra queste due varianti del liberalismo. Nel link in fondo la versione tedesca, qui di seguito il testo in italiano. Seguirà presto il programma della Konferenz.
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I rapporti di forza politico-sociali sono il segreto della democrazia moderna nella sua lunga storia. E sono, alla stessa stregua, il mistero della sua crisi nella sua più rapida agonia. Dal momento in cui e fino a quando i rapporti di forza tra le classi in lotta si sono mossi verso un maggiore equilibrio, si sono prodotte le condizioni per la fioritura di imponenti processi di democratizzazione. Finché le classi subalterne sono riuscite a difendersi e poi a farsi rispettare, conquistando il riconoscimento attraverso la loro capacità di agire il conflitto in maniera consapevole e organizzata, si è innescato un grandioso meccanismo di redistribuzione dello status, della ricchezza materiale e immateriale, del potere e della cultura che non ha certamente realizzato l’eguaglianza ma che sulla strada dell’eguaglianza si è quantomeno incamminato. E che ha dato vita alla democrazia moderna, arrivando per certi tratti e in certi momenti particolarmente felici anche a mettere in discussione i rapporti di proprietà e il controllo della produzione stessa.
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Il fenomeno Bitcoin
Moneta alternativa o moneta speculativa?
Gianluca Giannelli e Andrea Fumagalli
Negli ultimi mesi, una bolla seculativa ha interessato il Bitcoin, la moneta digitale lanciata dalla galassia hacker alternativa nel 2009 come possibile nuovo strumento monetario per realizzare scambi privati, al di fuori del controllo dei potentati creditizi-finanziari. E’ stato scritto che il Bitcoin potrebbe rappresentare una minaccia al sistema della moneta “fiat”, quella emessa dalle Banche Centrali. Ma è proprio così? E’ possibile pensare a circuiti finanziari alternativi?
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Arricchimento, clamore, volatilità. Queste le parole associate, di recente, al fenomeno “Bitcoin” (BTC) e, in generale, delle monete virtuali o criptomonete, come vengono definite.
Molti, anche in Italia, soprattutto nell’ultimo mese, ne hanno sentito parlare. Pochi ancora sanno cosa sono. Tutti però le associano a possibilità di ricchezza improvvisa.
Il BTC e le altre circa 40 monete nate in sua emulazione, sono semplicemente file criptati ovvero sequenze alfanumeriche (numeri e lettere) generate da computer – a seguito della esecuzione e risoluzione di un determinato algoritmo - collocati all’interno di una rete “peer to peer”.
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L’illusione di essere élite
di Anna Momigliano
Ritratto della classe aspirazionale, tra meccanismi di compensazione, negazione e lotta di classe anagrafica
Quando mia figlia ha finito la prima elementare, un genitore della classe ha proposto di fare la cena di fine anno in un all you can eat: che bella idea, ho risposto, non avendo io mai messo piedi in un all you can eat. Poi, però, giunta al ristorante, mi sono bastati pochi minuti per sentirmi fuori posto: tutto mi sembrava triste e pacchiano e insensato. Abbiamo mangiato del pessimo sushi e ogni adulto ha sborsato trenta euro, più o meno la stessa cifra che spendo per mangiare decentemente. Prima, quando uscivamo con qualche compagno di classe, andavamo in qualche hamburgheria nobilitata (nella nostra zona ce ne sono tre, di cui due in aree pedonali dove si possono sguinzagliare i bambini) oppure a farci un brunch domenicale, tutte operazioni altrettanto economiche e meno alienanti. Il fatto è che nell’ultimo anno abbiamo cambiato scuola, spostandoci molto più lontano dal centro di Milano, ed è stato un cambiamento antropologico prima ancora che geografico.
Nella materna all’interno della cerchia dei navigli che frequentavamo, le mamme giovani vestivano Muji e Petit Bateau, le tate dispensavano gallette di riso e frutta biologica, e all’uscita si affollavano curatissime nonne in bicicletta. Nella nuova scuola il tasso di babysitter è calato, i bambini fanno merenda con le Camille del Mulino Bianco, le mamme più curate sfoggiano fondotinta opachi e bauletti firmati. È cambiato il contesto socio-economico, ma non è soltanto una questione di reddito: certo, le famiglie del centro tendono a essere più benestanti, però non è sempre così.
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Antonio Negri, un uomo che voleva assaltare il cielo alzandosi sulle punte dei piedi
di Carlo Formenti
Nel momento in cui l'intero patrimonio di idee, teorie, tradizioni e pratiche politiche del marxismo sembra evaporare nei Paesi Occidentali, mentre rinasce in forme inedite in Asia e America Latina, due eventi distanziati di pochi mesi l'uno dall'altro accentuano la sensazione di vivere la fine di un ciclo storico: mi riferisco alle morti dei due "grandi vecchi" dell'operaismo italiano, il novantaduenne Mario Tronti, deceduto lo scorso agosto, e il novantenne Toni Negri, spentosi poche settimane fa. Commentando la prima su queste pagine (https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2023/08/che-cosa-ho-imparato-da-mario-tronti.html) titolavo "Che cosa ho imparato da Mario Tronti", per commentare la seconda ho scelto, per ragioni che chiarirò più avanti, di titolare "Un uomo che voleva assaltare il cielo alzandosi sulla punta dei piedi". Qui non troverete parola in merito al disgustoso luogo comune su Negri "cattivo maestro", che i media di regime hanno prevedibilmente rilanciato, perché le critiche che potrei fare alle sue scelte degli anni Settanta sono marginali rispetto a quelle che intendo rivolgergli qui, riferite piuttosto al suo ruolo - per citare un azzeccato titolo del "Manifesto" - di "attivo maestro". Non troverete nemmeno i ricordi di un rapporto di amicizia ormai lontano nel tempo (negli ultimi decenni ci siamo incontrati in rarissime occasioni). Non troverete nemmeno valutazioni relative alla sua opera strettamente filosofica, compito che delego agli accademici. Qui discuterò solo del Negri teorico del conflitto sociopolitico e dell'influenza che ha esercitato sulle sinistre radicali post comuniste.
Parto con una affermazione provocatoria: contrariamente a quanto da lui rivendicato (1), penso che Toni Negri non sia stato un comunista (nel senso storicamente riconosciuto del termine).
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Una spiegazione dell'inflazione e della disoccupazione: una sfida alla teoria economica liberale
di Anwar Shaikh
Introduzione
Per la maggior parte del dopoguerra, i problemi connessi con l'inflazione e la disoccupazione sono stati all'ordine del giorno sia nel campo economico che politico. La politica economica neoliberale sorge come una risposta della classe capitalista alla crisi economica mondiale degli ultimi venticinque anni, ed è per questo motivo che risultano abbastanza facili da spiegare gli attacchi che tale politica ha portato avanti nei confronti dei lavoratori e delle loro istituzioni, provocando l’aumento di fallimenti e bancarotte, la spaventosa tendenza alla concentrazione ed alle centralizzazioni, la ricerca ostinata di nuove aree di mercato e di nuove risorse destinate al potere selvaggio dei capitali che dominano la sfera mondiale (Shaikh 1987).
Ma la teoria economica neoliberale è venuta alla ribalta poichè quella keynesiana si è rivelata incapace di dare una spiegazione adeguata alla "stagflazione" prodotta dalle crisi economiche e ciò appare particolarmente ironico dato che la stessa teoria economica keynesiana divenne predominante per l'incapacità da parte della teoria economica tradizionale, che sta alla base dell'economia neoliberale, di dare una spiegazione della gigantesca e persistente disoccupazione caratteristica della Grande Depressione.
La moderna macroeconomia eterodossa è stata coinvolta in tale conflitto poiché a partire dagli anni 70 buona parte di essa è stata inglobata all'interno del keynesismo, tanto che nell’economia radicale e postkeynesiana prendono il via alcune varianti della teoria keynesiana-kalechiana della domanda effettiva; un quadro di equilibrio generalmente statico in cui la fissazione dei prezzi attraverso il "mark-up"* li rende indipendenti dalla domanda, spostando così ogni aggiustamento sul versante della produzione e dell'occupazione - per lo meno fino ai limiti del "pieno impiego".
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