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scenari

Il sé mutante. L’estrusione della politica in Kafka

di Fabrizio Sciacca

Cosa sappiamo davvero di Kafka a cento anni dalla sua morte? Qual è il vero significato della metamorfosi di Gregor Samsa? E in che modo si relaziona con i concetti di libertà e pace? In occasione del centenario della morte di Kafka, un estratto di Franz Kafka e la sfinge del potere di Fabrizio Sciacca, per indagare sempre più a fondo i labirinti del pensiero kafkiano.

Screenshot 2024 05 27 alle 15.30.08 1160x480.pngNur dein Nichts ist die Erfarung,
Die sie von dir haben darf.
Solo il tuo nulla è l’esperienza
che il tempo può avere di te. [1]

 

«Mutando riposa»

In Kafka, come tra Kafka e il K. del Processo o del Castello, non si ha una dicotomia soggetto/oggetto [2]. Non un linguaggio narrativo; non una scrittura descrittiva, ma espressiva [3]. La negazione di questa dicotomia trova conferma in una prosa priva di psicologismi. L’esempio più chiaro è nella Metamorfosi: «Gregorio Samsa, svegliandosi una mattina da sonni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo [zu einem ungeheueren Ungeziefer verwandelt]. Riposava sulla schiena, dura come una corazza, e sollevando a poco a poco il capo vedeva il suo ventre arcuato, bruno e diviso in tanti segmenti ricurvi, in cima a cui la coperta del letto, vicina a scivolar giù tutta, si manteneva a fatica. Le gambe, numerose e sottili da far pietà, rispetto alla sua corporatura normale, tremolavano senza tregua in un confuso luccichio dinanzi ai suoi occhi» [4].

Sappiamo innanzitutto dallo stesso Kafka che l’idea del racconto e il racconto stesso scaturiscono davvero da penose notti insonni. A Felice riferisce: «dovrò […] scrivere un breve racconto che mi è venuto in mente a letto nella mia pena [in dem Jammer] e incalza dentro di me [mich innerlichst bedrängt]» [5].

L’esempio della Metamorfosi è emblematico per l’assenza della dicotomia tra soggetto narrante e oggetto narrato. Leggere di questo corpo troppo grande e inutile di Samsa-insetto, è come rileggere di Kafka-figlio quando, nella Lettera al padre, parla esplicitamente di sé stesso: così come, attraverso Samsa, Kafka ne parla implicitamente. ‘Samsa’ e ‘Kafka’ presentano due elementi paronimici, s/k e m/f.

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economiaepolitica

Complessità e ambiente. Perché non siamo all’altezza della sfida

di Riccardo Leoncini

intelligenza artificiale.jpgAbstract. Viviamo in un mondo non lineare, ma pensiamo in modo lineare. L’esistenza di una retroazione negativa dovrebbe garantire che un sistema, di fronte a una perturbazione, si stabilizzi in maniera endogena grazie alle forze che innesca. In questo modo, comportamenti prevedibili sono il risultato “naturale” di ogni possibile perturbazione che colpisce il sistema. Tuttavia, l’esistenza di retroazioni positive, lungi dal costringere il sistema a gravitare intorno all’equilibrio, è più probabile che porti in disequilibrio il sistema e contribuisca a tenerlo lontano da esso.

Le seul véritable voyage […] ce ne serait pas d’aller vers de
nouveaux paysages, mais d’avoir d’autres yeux, de voir
l’univers avec les yeux d’un autre, de cent autres, de voir les
cent univers que chacun d’eux voit, que chacun d’eux est
Marcel Proust, La Prisonnière
El hombre es disipación […] y el miedo a la disipación
Juan Carlos Onetti, Juntacadaveres

Introduzione

Viviamo in un mondo non lineare, ma pensiamo in modo lineare. Non riusciamo a capire che per percorrere 100 km, aumentare la velocità della nostra automobile da 60 a 80 km/h consentirà un risparmio di 25 minuti di tempo di viaggio, mentre aumentando di altri 20 km/h fino a 100 km/h non otterremo la stessa riduzione del tempo di viaggio, ma una riduzione minore.[1]

Viviamo in un mondo non lineare, ma pensiamo in modo lineare. Se oggi il bilancio della Covid-19 fosse di 1.000 persone infette, domani ci aspetteremmo poco più di 1.000 persone, perché non siamo in grado di pensare in termini esponenziali.[2]

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frontiere

Ordine dal Caos

di Aaron Wilson

Relazione del professor Aaron Wolfson, Isaac Goldstein Chair, Computational Mathematic, Institute for Advanced Studies, Princeton. Convegno annuale della Fondazione Prometeus, Forum Grimaldi, Monte Carlo, 16 giugno 2000.

ww agriculture 1200x520.jpgIl mondo sta diventando disordinato, in una parola: ingovernabile, perché il disordine, ineluttabilmente, conduce al caos.

Orbene, io non ho nulla contro il caos, di per sé, ma solo se è una condizione temporanea, il cui scopo sia quello di condurre a un ordine diverso da quello precedente.

Se mi è consentita quest’espressione: un ordine migliore, più compiuto, più coerente.

Il sistema nel quale viviamo, che si suole definire “democratico” e “liberale” è, per sua natura, un sistema entropico.

Il luogo comune vuole che esso si autoequilibri…consentitemi di ridere: questa è una colossale sciocchezza, inventata dai quegli imbecilli dei neoclassici.

Diciamo che, apparentemente, tende a riequilibrarsi prima di uscire troppo dai binari, ma non si riequilibra da solo e, soprattutto, questo apparente equilibrio si situa a un livello entropico diverso da quello precedente, un livello nel quale la distanza dall’equilibrio è molto più accentuata, nel quale il sistema si allontana sempre di più dall’equilibrio.

Anche se, in apparenza, sembra che il sistema abbia “assorbito il colpo”, in realtà è solo riuscito a trasferire il disordine a un livello più elevato.

Un sistema come quello in cui viviamo, è caotico per natura, perché non è guidato da alcun principio, da nessuna assiologia: non marcia verso alcuna direzione ma, semplicemente, procede.

D’altra parte, non è più possibile tenerlo a bada, guidarlo, disciplinarlo, con un’autorità conferita dall’alto, come quella di un pontefice o di una monarca, e neanche col pugno di ferro di una dittatura; tanto meno con l’aspirazione alla virtù o con la paura del peccato.

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gasparenevola

La politica e il mondo guasto. O dell’eresia della ragionevolezza*

di Gaspare Nevola

eresia massimo citro della riva libro.jpgL’uomo è uno zoon politikon. La sfera politica è quella sfera della vita sociale che si occupa della gestione della convivenza tra diversi. Tale sfera è qualificata da una peculiare logica dell’agire umano imperniata sul governo dell’ostilità tra gli uomini. Conflitto e regolazione del conflitto sono due facce della medesima medaglia: due facce della convivenza tra diversi. A dispetto di come solitamente viene intesa e immaginata, la politica non è riducibile a quell’“insieme di attività politiche” che si svolgono all’interno delle istituzioni politiche. La politica, cioè, non si esaurisce in un complesso di processi, organizzazioni, attori e luoghi specializzati (ad esempio, parlamenti, governi, ministeri, partiti) a cui formalmente compete la funzione che un influente politologo novecentesco ha chiamato assegnazione autoritativa dei valori in una società[1]. E tuttavia, tanto in ambito colto e accademico, quanto nell’opinione pubblica e nel senso comune, quando ci si riferisce alla politica si tende a pensare e a parlare proprio di questi luoghi specializzati e di coloro che vi operano come professionisti e/o detentori di cariche pubbliche e formalmente riconosciute. Perciò, quando consideriamo la politica non è sensato prescindere dall’immagine della politica come “quella serie di cose che fanno loro, i politici”, ovvero le istituzioni in cui essi operano (partiti, parlamenti, governi, ecc.). D’altra parte, la politica circoscritta in questo modo è la politica la cui credibilità risulta oggi piuttosto malmessa, sia agli occhi del cittadino comune che a quelli dell’esperto della materia. E così, alla fine, quella “cosa” che porta il “nome” di politica è ridotta a un barcone che naviga a vista, tra scogli e secche, impegnato in acrobatiche manovre per stare a galla e andare, bene o male, avanti. Di questa immagine corrente della politica, sebbene essa sia fuorviante e limitativa, non possiamo non tenere conto.

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kriticaeconomica

Non c'è spazio per il pluralismo

Ritagliarsi nicchie per sopravvivere o promuovere un cambio di paradigma?

di Steve Keen

In un'accademia dominata dai neoclassici, il pluralismo è una semplice tattica di sopravvivenza, non una chiamata a "far fiorire mille fiori". Secondo Steve Keen, questo è un approccio troppo timido

Justus Sustermans Portrait of Galileo Galilei Uffizi 1024x745.jpgUn ritornello frequente tra gli economisti non ortodossi è che l'insegnamento dell'economia dovrebbe essere “pluralista”. Cioè, dovrebbe presentare agli studenti varie scuole di pensiero economico, e non solo l'economia neoclassica. Questo è presentato dai suoi sostenitori come un obiettivo nobile. Per citare il sito web “Promoting Economic Pluralism”:

Il termine pluralismo è in genere usato in contrapposizione all'insegnamento dell'economia cosiddetta “mainstream”, che di solito si concentra solo su una scuola di pensiero economico, chiamata economia neoclassica.

Quest'ultima è basata su una serie di ipotesi chiave, centrali nel suo approccio, come il fatto che gli agenti economici cerchino di massimizzare la loro felicità individuale e che i mercati tendano all'equilibrio, portando generalmente a risultati efficienti.

Il pluralismo, invece, riconosce e insegna un ventaglio di approcci differenti per comprendere l'economia e la sua interazione all'interno dei sistemi sociali e ambientali in modo interattivo, riflessivo e coinvolgente.

A dire il vero, però, il pluralismo è una concessione al fatto che l'economia neoclassica domina l'insegnamento accademico dell'economia, è ostile a qualsiasi altro approccio, controlla i cordoni della borsa per i finanziamenti alla ricerca e agisce come guardiano contro l'adozione di paradigmi alternativi in tutte le università, tranne quelle di rango più basso. Quindi, l'unico modo in cui l'insegnamento e la ricerca non neoclassici possono sopravvivere nelle università sarebbe quello di chiedere pluralismo. Ciò si traduce nel chiedere ai dipartimenti neoclassici di non perseguitare gli studiosi non neoclassici, e di tollerare che alcuni corsi non siano strettamente neoclassici.

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linterferenza

Fra natura e cultura, conservazione e cambiamento. Una riflessione sulla tecnica e i suoi possibili esiti

di Armando Ermini

438171786 745760501046207 1865951663505210919 n.jpgRitengo che la relazione introduttiva di Fabrizio Marchi al Convegno per il decennale de L’Interferenza https://www.linterferenza.info/editoriali/di-bolina-contro-un-vento-gelido-e-sferzante/ meriti qualche riflessione suppletiva nell’ambito di un suo sostanziale e forte apprezzamento.

Per prima cosa credo sia giusto sottolineare questo passaggio su cui concordo in pieno.

Che l’attuale capitalismo sia “patriarcale” è una sciocchezza enorme, sia perché il concetto di “patriarcato” è stato ed è travisato totalmente nel suo significato autentico (non essendoci qui tempo e spazio per argomentare mi limito a rimandare chi fosse interessato al numero 587 di www.ilcovile.it), sia perché è ormai del tutto evidente che gli antichi “privilegi” maschili (uso le virgolette sia perché quelle vecchie prerogative erano bilanciate da un gran numero di obblighi personali e sociali, sia perché quei “privilegi” non riguardavano in nessun modo gli uomini delle classi basse, operai, contadini, piccoli commercianti ecc., ossia la stragrande maggioranza della popolazione).

Detto questo, credo sia importante soffermarsi sulla questione della Tecnica e della scienza, e della loro supposta neutralità, da cui discenderebbe la conseguenza che la partita si gioca tutta sul loro uso giusto o sbagliato, cioè indirizzato o meno verso il bene della collettività.

Circa la scienza, premessa la mia incompetenza, mi limito a osservare, a) che le verità scientifiche non possono essere considerate universalmente valide, ma occorre sempre delimitarne il campo di applicazione. Così è, per esempio, per la fisica newtoniana. b) che, quando una ricerca è finanziata da un ente privato (ad esempio una casa farmaceutica), gli interessi e gli scopi del finanziatore hanno un ruolo molto importante, tale che quella ricerca non può essere considerata “neutra” e fatta solo per amore di conoscenza.

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lanatra di vaucan

La critica radicale del lavoro e la sua incompatibilità strutturale con il principio spettacolare

di Benoît Bohy-Bunel

societa feudale.jpgPresentiamo uno scritto del 2016 di Benoît Bohy-Bunel1(originale francese qui) che ci sembra inquadri la questione del lavoro in modo appropriato, cioè come dispositivo che si caratterizza storicamente, e non come fattore trans-storico e naturale sic et simpliciter – lettura, quest’ultima, che comporta un’irreversibile ontologizzazione della categoria “lavoro”, rendendo dunque ogni idea sulla sua abolizione semplicemente folle2.

Sulla questione del lavoro la corrente internazionale della Critica del Valore, riprendendo il famoso Marx “esoterico”3, afferma chiaramente e – a nostro avviso – giustamente, come si tratti di una problematica che sorge in un determinato momento (e contesto) storico, quello in cui prende forma il sistema sociale conosciuto come “capitalismo”. Soltanto nel modo di produzione capitalistico, infatti, la categoria “lavoro” appiattisce e generalizza a sé le ampie, varie e ben più complesse sfere dell’attività umana. Soltanto nel modo di produzione capitalistico tutta la “sintesi sociale” è uniformata nel “lavoro”. Lavoro e capitalismo, lungi da essere veramente antagonisti, sono due facce di una stessa medaglia, e non potranno che estinguersi insieme. Detto ancora altrimenti, finché ci sarà “lavoro”, ci sarà anche capitalismo. La persistenza del “lavoro” va dunque interpretata come un segnale inequivocabile della “resilienza” (per usare un termine alla moda) del sistema del capitale.

Si tratta di capire, oggi, che fine abbia fatto il lavoro, quello “astratto” e produttivo per il capitalismo di cui parla l’articolo. Se, cioè, oggi questo tipo di lavoro esista ancora in misura sufficiente da soddisfare le brame capitalistiche, oppure – a causa della produttività a traino “microelettronico”, per dirla con Kurz – non sia di fatto stato “superato” dallo stesso sistema a cui appartiene, e ciò che ne resta sia un simulacro, tenuto in vita con inalazioni forzate di ossigeno sempre più rarefatto.

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coku

Plusvalore che grida allo scandalo. Deleuze e Derrida, empiristi raffinati

di Leo Essen

dd 2 1197x600.jpgI

Nel 1967 Suzanne de Brunhoff scrive un libricino su Marx e la moneta che cade sotto lo sguardo di Deleuze, il quale ne fa il perno della sua lettura del tramonto dei Trente Glorieuses.

In Francia, negli stessi anni, alcuni economisti, riuniti sotto l’etichetta Circuitistes, cercano di inquadrare in una teoria monetaria moderna l’uso da parte dei governi della leva monetaria e valutaria per sostenere un industrialismo che arranca.

L’inflazione rende obsoleta ogni analisi che ritiene la moneta uno strumento neutro. La moneta ha un potere. Essa non ha solo il ruolo di misurare e quantificare il volare di scambio, ma ha anche un potere performativo.

La moneta non misura allo stesso modo se spesa dal proletario o se spesa dal capitalista, non ha lo stesso potere (d’acquisto), e non lo ha in virtù del fatto che non acquista la stessa merce. Il segno che misura il quanto di merci che posso acquistare non è neutro, non è stabile. Non è un mero metro che funziona allo stesso modo se usato da me o se usato dal mio vicino di casa. Quando si dice che l’inflazione in Italia è al 2%, oppure che lo spread è del 3% si parla come se l’effetto di questo aumento fosse uniforme per tutte le persone. E invece non è così. E lo sappiamo bene.

È l’ingresso del potere – della lotta di classe – nell’analisi della moneta.

Queste analisi, lo dico per inciso, si muovono sul terreno di un raffinato empirismo. Considerano la moneta come oggetto parziale. Non considerano la moneta ideale, la moneta senza corpo (ammesso che una cosa del genere possa darsi), la moneta usata in quanto unità di conto, moneta scritturale dei ragionieri (scontata l’evidenza lampante che anche la moneta scritturale ha una empiricità irriducibile), ma la moneta empirica, individuale, che tengo in tasca, e che nelle mie mani ha un potere diverso da quello che ha nelle mani di un altro individuo.

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pierluigifagan

Democrazia o barbarie: perché una prospettiva di democrazia radicale è indispensabile (3/3)

di Pierluigi Fagan

Diritto o barbarie 10.jpgTutti gli uomini sono intellettuali, si potrebbe dire perciò;
ma non tutti gli uomini hanno nella società la funzione degli intellettuali.
A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Quaderno 12 (XXIX) § (1)

Noi esseri umani viviamo su un pianeta. Negli ultimi settanta anni, ci siamo triplicati e lo abbiamo fatto partendo già dalla ragguardevole cifra di 2,5 miliardi di persone. Un evento del genere non è mai avvenuto nella storia umana, per dimensione e velocità del fenomeno. Nel 2050 ci saremo quadruplicati e quindi il fenomeno sarà ancora più denso e veloce, un solo secolo per quadruplicarci.

Dentro la definizione collettiva di umanità, ci sono le civiltà. La nostra, la civiltà occidentale ed europea in particolare, è passata dal pesare circa un terzo dell’umanità di inizio XX secolo, a un sesto. Ha cambiato in suoi pesi interni visto che gli europei si sono maggiormente contratti in favore dell’area anglosassone. È precipitosamente invecchiata. Oggi il quarto dei duecento stati nei quali è ripartito il mondo in sistemi giuridico-politici statali, mostra indici di riproduzione men che dimezzati, sono tutti paesi sviluppati e ipersviluppati, c’è dentro tutta l’Europa, inclusa la parte orientale che mostra tali indici per ragioni diverse dall’ipersviluppo sebbene di pari intensità negativa.

La nostra metafisica influente si è molto concentrata sull’essere e gli enti, ma ogni ente è ontologicamente fatto e dedito a relazioni o -a due vie- interrelazioni. Ci è tornato utile semplificare e bloccare l’essere e gli enti come in uno scatto fotografico. Se avessimo considerato, come avremmo dovuto fare, l’essere in sé e l’essere in relazione, la questione si sarebbe di molto complicata. Oggi, realisticamente, non possiamo più fare a meno di non considerarlo.

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pierluigifagan

Democrazia o barbarie (2/3): La democrazia radicale

di Pierluigi Fagan

rivoluzione francese.jpgMa cosa significa autonomia?
Autos, sé stesso¸ nomos, legge.
È autonomo chi dà a sé stesso le proprie leggi.
C. Castoriadis, La rivoluzione democratica, Eleuthera, 2022

In Occidente, da tempo vige un sistema politico-giuridico detto “democrazia”. Riconosciuto ormai in crisi nel senso comune non meno che in quello esperto, terminale o meno non si sa, si presume esso abbia invece avuto una fondazione corretta e giusta rispetto al concetto. In Italia, ci si appella a spirito e lettera della Costituzione, ad esempio e se ne rimpiange la vigenza ormai corrotta.

Un democratico radicale, purtroppo, non riconosce neanche a quel tempo e forma piena di buona intenzione il crisma di “democrazia”, si trattava di repubblicanesimo e tra le due forme c’è differenza. Ecco allora che il democratico è radicale, semplicemente nel senso che intende la democrazia come significato alla radice “Essere radicale significa cogliere la cosa alla radice (Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione)”. Si tratta quindi di un problema di nome e cosa dove la cosa è la radice che dà crisma al nome. Qual è allora quella radice?

Semplicemente il sistema che in atto storico aveva quel nome anzi quel nome ha battezzato. Si tratta della democrazia dell’Antica Atene. Cornelius Castoriadis, più di ogni altro[i], può dirsi teorico della democrazia radicale ed ha più volte specificato che -ovviamente- nessuno si sogna di intendere quella esperienza politica come un “modello” da copia-incollare senza riguardo ai diversi contesti e tempi assai diversi.

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perunsocialismodelXXI 

Dodici provocazioni per un rinnovamento del marxismo

di Carlo Formenti

0e99dc b6bb11a3ef2d40568bcff65de5a39112mv2.jpgPremessa. Un bilancio critico e autocritico dopo 20 anni di ricerca di una casa politica

A cavallo del cambio di secolo, di fronte all’approfondirsi della crisi globale (il crollo dei titoli tecnologici al Nasdaq preannunciava la catastrofe finanziaria del 2007/2008), al precipitare del reddito e delle condizioni di vita dei lavoratori e all’acuirsi dei conflitti geopolitici, ho avvertito l’urgenza di riprendere la militanza politica attiva, dopo essermi a lungo impegnato esclusivamente nella ricerca teorica.

Alla fine dei Sessanta, dopo avere militato in alcuni gruppi maoisti e contribuito alla nascita del Gruppo Gramsci, ho intrapreso la carriera sindacale nella federazione unitaria dei meccanici, interrotta nel 1974. Nella seconda metà dei Settanta, dopo una breve esperienza in Autonomia, mi allontanai dalla politica attiva, demotivato dal riflusso delle lotte operaie e dall’evoluzione del PCI e dei partitini della sinistra extraparlamentare, i quali, pur seguendo traiettorie diverse, convergevano verso il postmodernismo liberale. Nei decenni seguenti mi sono limitato a svolgere la professione di giornalista, saggista e ricercatore universitario (caporedattore del mensile “Alfabeta”, autore di diversi libri dagli Ottanta ai primi del Duemila, infine ricercatore all’Università di Lecce).

Il primo passo verso la ripresa di un impegno politico diretto è stato un prudente tentativo di avvicinamento a Rifondazione Comunista tramite la mediazione dell’amico Piero Manni, editore leccese nonché consigliere regionale del Partito. Il rapporto si è interrotto nel 2013, dopo il coinvolgimento di Rifondazione nel cartello elettorale Rivoluzione Civile, che proponeva il giudice Ingroia come “front runner”. Nell’occasione spiegai ai compagni (che avevano adombrato una mia possibile candidatura) che consideravo indigesta l’ammucchiata con forze genericamente “progressiste”, incompatibili con il progetto di ricostruire un partito di classe in Italia.

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pierluigifagan

Democrazia o barbarie (1/3): critica della democrazia pervertita

di Pierluigi Fagan

La barbarie della guerra di Troia e1699552802927Il punto centrale della comparazione tra democrazia antica e moderna è nello spirito del tempo, solo dopo nelle forme giuridiche e procedurali. Semplicemente, ciò che diede il nome alla cosa democratica ateniese e greca era lo spirito forte di un tempo che voleva portare i cittadini a governarsi da sé, senza intermediari o strati superiori. Quella moderna invece, pone una funzione intermedia tra cittadini e potere. Essa ha due caratteristiche principali, richiede una delega basata su riconoscimenti di competenza nel portare avanti le istanze delegate; quindi, punta a limitare la partecipazione politica a un singolo atto di voto ogni quattro anni del delegante. Se la originaria democrazia attraeva la gente, la seconda la respinge. Questa seconda è di natura spettatoriale (e infatti ormai è un cardine della società dello spettacolo), la prima mobilita scopo, intento e fine, motivazione, coinvolgimento, azione, partecipazione. Tutte cose che si vogliono evitare dal fronte oligarchico.

La prima forma, la unica e originaria, oggi la diciamo “diretta” solo perché dopo abbiamo inventato la delegata, ma dire che la delegata merita comunque il nome di democrazia è nostro arbitrio. Cioè se si toglie l’essenza a una cosa, quella cosa cambia sostanza o si può continuare a trattarla della stessa sostanza nonostante la si sia devitalizzata? Non importa se ci sono o meno effettive cause di forza maggiore nel doverlo fare, in sé per sé la cosa senza essenza cambia di fatto sostanza. Una democrazia delegata è una variante light della forma oligarchica, non una variante light di democrazia propriamente detta. Salta ad altra categoria come bruco a farfalla, ghiaccio ad acqua a gas.

Al fondo di questa questione, c’è una contraddizione fondamentale.

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machina

Quando il polemos si fa prassi

Recensione a Lenin, il rivoluzionario assoluto di Guido Carpi

di Andrea Rinaldi

Schermata del 2024 04 21 13 31 05.png«Il cammino del rivoluzionario è pertanto un cammino anche solitario, o almeno non al centro del benvolere dell’opinione pubblica, spesso lontano dall’amicizia, sicuramente non benvisto dalla società civile, "la merda" come la chiamava Lenin. La storia di Lenin è quindi una storia di esilio, di critiche feroci, ma anche di carisma, di centralità politica da una posizione numericamente minoritaria e di coraggio tattico». Pubblichiamo oggi, nell'anniversario della scrittura delle Tesi d'Aprile, una recensione di Andrea Rinaldi a Lenin, il rivoluzionario assoluto (1870-1924) di Guido Carpi (Carocci, 2023). Sempre sulla figura del grande rivoluzionario, sarà presto disponibile per DeriveApprodi, Che fare con Lenin? curato dallo stesso Andrea Rinaldi, con contributi di Guido Carpi, Rita di Leo, Maurizio Lazzarato, Gigi Roggero, Damiano Palano, Mario Tronti. 

* * * *

Majakovsky aveva paura che «una corona» avrebbe potuto «nascondere la sua fronte così umana e geniale e così vera» e «che processioni e mausolei» avrebbero offuscato la «semplicità di Lenin». Guido Carpi, che di Majakovsky e di Lenin si intende, è riuscito nell’impresa, non banale, di togliere Lenin dalla sua teca nella piazza Rossa di Mosca, rimuovere la corona e darci un libro vivo: non una ricostruzione agiografica, come nel mito staliniano, né una noiosa critica umanitaria tipica della moderna storiografia liberal, ma un’attuale rappresentazione di Lenin, fusione inscindibile di teoria e prassi, di politica e rivoluzione.

Questi due poli della lettura classica della vita e delle opere di Lenin, mito e incubo, potrebbero sembrare opposti, ma sono in realtà strettamente complementari.

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fuoricollana

Intelligenza artificiale. O della “guerra all’umano”

di Antonio Cantaro

L’IA è sempre più una meta-tecnologia in guerra con l’umano che ci comanda di “Agere sine Intelligere”. L’uomo connesso è sempre meno un uomo relazionale. Nessun Dio ci salverà, solo una mobilitazione collettiva può farlo

oilbgtcv.jpgSostiene Luigi Alfieri che essere uomini è essere in relazione. L’uomo è un essere relazionale, ‘naturalmente relazionale’. Proverò ad aggiungere una postilla a questa, da me condivisa, tranchant contro-antropologia filosofica.

 

Naturalmente relazionale, naturalmente artificiale

Una postilla insita in un cruciale passaggio del suo discorso ‘empirico’: «L’origine immediata della mia vita è molto concreta, molto corporea, molto biochimica. Non un supremo atto creativo dell’Essere, ma l’unione sessuale di due corpi e un corpo materno dentro cui a poco a poco è maturato il mio come una sorta di parassita simbiotico. Poi una separazione dolorosa, atrocemente traumatica per entrambe le parti: un corpo emerge dall’altro, si strappa dall’altro. Ma la separazione non è totale, perché uno dei due corpi continua ad avere bisogno dell’altro, dall’altro ricava nutrimento, cura, protezione. Nessuno viene al mondo come soggetto razionale capace di libera autodeterminazione e responsabile di sé, ma come esserino inerme urlante e scalciante, capace a stento di respirare e bisognoso di tutto. Ma la cosa straordinaria è che il bisogno ottiene risposta, che qualcuno, in cambio di niente, è disposto a dare all’esserino urlante tutto ciò che gli consente di sopravvivere, di nutrirsi, di stare al caldo, di crescere, di imparare a parlare e a pensare».

L’uomo, dunque, “impara a parlare e a pensare” per il tramite di parole che non nascono da Lui, “ma che vengono da fuori”. Da un linguaggio, da un artificio che dà alle parole i suoni, un ordine grammaticale e sintattico, un senso. L’uomo è ab origine il suo linguaggio (da ultimo E. Dell’Atti, 2022), un essere naturalmente artificiale.

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ilcovile

Per una teoria minimale del capitale

Invito alla lettura e alla collaborazione

di Autori Vari

agave quadro moderno stile floreale dipinto a mano su tela 140x70 sfumature di fiori ag120077 sfumature di fiori dett2.jpgRiprendendone l’indice e la concisa presentazione segnaliamo ai lettori un lavoro, ancora in evoluzione ma già abbastanza maturo, prodotto da un gruppo di persone di varia provenienza tra le quali naturalmente alcune legate alla nostra rivista. Tratta di questioni, diciamolo francamente, intellettualmente complesse e tendenzialmente demoralizzanti: è noto l’aforisma nietzschiano che spiega come gli abissi non si possano guardare a lungo, ma qui vogliamo invece ricordare quello che — forse rendendosi conto di come stava raccontando sempre la storia di cose, belle e umane, andate perdute — ripeteva Ivan Illich: «Non dimentichiamo mai che tutto il tempo è benedetto, anche questo nostro tempo in cui ci è capitato di vivere». Come i curiosi vedranno si tratta di un’antologia in quattro lingue, c’è ancora molto lavoro da fare sia per le traduzioni sia per un controllo che vorremmo meticoloso. Altri apporti sarebbero benvenuti. (red)

 

Scopo e autori

È ormai disponibile una vasta letteratura che implicitamente contiene e fertilmente sviluppa un nucleo teorico veritativo (cioè pienamente confermato dal processo storico) che trova origine in una serie di intuizioni di Marx. Va tuttavia riconosciuto che, nella mole dei manoscritti e opere dello studioso, i testi seminali di quel nucleo sono dispersi e in netta minoranza rispetto a quelli che propongono tesi diverse e anche contrapposte (queste peraltro in gran parte confutate dalla critica dei fatti).