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György Lukács, Emilio Quadrelli e Lenin: tre eretici dell’ortodossia marxista
di Sandro Moiso
György Lukács, Lenin, con un saggio introduttivo di Emilio Quadrelli e una lezione di Mario Tronti, DeriveApprodi, Bologna 2025, pp. 190, 18 euro
La recente ripubblicazione da parte di DeriveApprodi del testo su Lenin di György Lukács (1885-1971), accompagnato da una corposa introduzione di Emilio Quadrelli (1956-2024) oltre che da un’appendice contenente una lezione di Mario Tronti, permette, tra le tante altre cose, di riflettere approfonditamente sui temi dell’eresia e dell’ortodossia nell’ambito della teoria marxista.
In questo contesto, secondo chi qui scrive, si possono rivelare di grande acume le riflessioni di Lukács e Quadrelli sul significato rivestito dall’imperialismo all’interno del pensiero di Lenin, all’epoca fenomeno, appena definito nelle sue linee essenziali dal testo del liberale inglese John A. Hobson del 1902 (Imperialism), che aveva contribuito a dare vita a una “prima globalizzazione” del mercato e dell’economia mondiale grazie anche a comunicazioni più rapide ed efficienti e all’integrazione dei paesi non industrializzati nell’orbita dei processi industriali, come fornitori di materie prime. Motivo per cui continenti interi e vaste regioni del globo furono stravolte per adattare l’ambiente e la popolazione all’estrazione di metalli o altre materie prime oppure per avviare monoculture estese (cotone, caffè, tè, caucciù, cacao) destinate a rifornire le industrie di trasformazione e i mercati europei, ma servendo anche come mercati in cui riversare il surplus di merci e manufatti prodotti dalle fabbriche europee.
Anche se l’espansione imperiale inglese risaliva a ben prima, preceduta da quella coloniale portoghese, spagnola e olandese, sarebbe stato il Congresso di Berlino, svoltosi tra il 15 novembre del 1884 ed il 26 febbraio del 1885, a rendere visibili gli appetiti espansionistici dei governi ed degli imperi europei con la spartizione (con carte geografiche, righelli, squadre e squadrette “nautiche” alla mano) del continente africano. Una sorta di grande nulla o di carta geografica bianca e “muta” cui solo la volontà degli imperialismi europei avrebbe “potuto” dare un volto e un senso compiuto, secondo le logiche di quello che all’epoca veniva indicato come white man burden ovvero il compito dell’uomo bianco di civilizzare il resto del mondo.
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La deindustrializzazione
di Leo Essen
Nel modello neoclassico standard, il mercato del lavoro raggiunge spontaneamente un punto di equilibrio attraverso l’interazione tra domanda e offerta, senza necessità di interventi esterni. I lavoratori decidono quanto lavoro offrire in base al livello del salario reale: se il salario aumenta, cresce anche l’offerta di lavoro; se diminuisce, l’offerta si riduce. Dal lato delle imprese, all’aumentare del costo del lavoro si riduce la domanda di lavoro, e viceversa. L’intersezione tra queste due curve determina un equilibrio in cui non esiste disoccupazione involontaria: ogni lavoratore disposto a lavorare al salario di equilibrio trova occupazione.
Se, tuttavia, intervengono rigidità istituzionali – in particolare salariali – che impediscono l’aggiustamento dei prezzi dei fattori, l’equilibrio viene disturbato. In presenza di salari minimi imposti, contrattazione sindacale rigida o altre barriere alla flessibilità salariale, il salario reale può mantenersi sopra il livello di equilibrio. In questo caso, una parte della forza lavoro rimane disoccupata non per scelta, ma per effetto di un prezzo del lavoro non compatibile con la domanda delle imprese.
Questo modello, posto che abbia mai funzionate perfettamente (automaticamente), riflette una società ottocentesca, nella quale le imprese assumono (domandano lavoro) entro i limiti della produttività marginale del lavoro. Assumono finché la produttività del lavoro è maggiore o eguale al salario. Se la produttività aumenta, aumenta anche la domanda di lavoro. Un calo della produttività riduce l’incentivo ad assumere.
All’inizio del Novecento, con il Fordismo, si osserva un marcato aumento della produttività marginale del lavoro. Le imprese riescono a produrre una quantità maggiore di output con lo stesso numero di lavoratori, oppure a mantenere lo stesso livello di produzione con un numero inferiore di occupati. Questa efficienza dovrebbe tradursi in una discesa dei prezzi e in un aumento del potere d’acquisto dei salari, ristabilendo un equilibrio dinamico.
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Per la critica della concezione borghese dell’eguaglianza
di Eros Barone
La rivendicazione dell'eguaglianza ha così, sulle labbra del proletariato, un duplice significato. O, ed è quanto avviene specialmente nei primi inizi, per es. nella guerra dei contadini, è la reazione naturale contro le stridenti disuguaglianze sociali, contro il contrasto di ricchi e poveri, di signori e servi, di crapuloni e affamati; e come tale è semplicemente espressione dell'istinto rivoluzionario, e trova la sua giustificazione in questo contrasto e solamente in esso. O invece è sorta dalla reazione contro la rivendicazione borghese dell'eguaglianza e da questa trae esigenze più o meno giuste che la oltrepassano e serve come mezzo di agitazione per eccitare i lavoratori contro i capitalisti con le affermazioni proprie dei capitalisti, e in questo caso essa si regge e cade con la stessa eguaglianza borghese. In entrambi i casi l'effettivo contenuto della rivendicazione proletaria dell'eguaglianza è la rivendicazione della soppressione delle classi. Ogni rivendicazione di eguaglianza che esce da questi limiti va necessariamente a finire nell'assurdo.
F. Engels, Anti-Dühring, Prima Parte, Cap. X: Morale e diritto. Eguaglianza.
- Razzismo e genetica
 
In un periodo di crescente “scontro delle civiltà” 1 e di risorgenti etnocentrismi, il razzismo sembra avere un grande futuro davanti a sé. Come è noto, si tratta del mito di una razza superiore, alla quale sarebbero dovuti tutti i vantaggi della civiltà, le creazioni della cultura, l’ordine morale e civile, e alla quale viene contrapposta una razza inferiore incapace di tutto questo, vivente da parassita a spese dell’altra, quindi indegna di partecipare ai benefici e ai diritti, e destinata a vivere nell’isolamento dei ghetti. Ridotto in forma pseudoscientifica in uno scritto di Alfred Rosenberg del
1930, 2 questo mito divenne l’insegna del nazismo hitleriano, che si avvalse di esso per giustificare sia la sua pretesa di dominare il mondo sia lo sterminio degli ebrei. 3
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Alcune questioni circa la Cina, confronto tra universalismi. Parte Seconda
di Alessandro Visalli
Scopo del testo e articolazione
Questo articolo è diviso in tre parti, di cui il presente rappresenta la seconda, la prima qui. Si tratta di una riflessione che attraversa e mette a confronto due diverse forme di universalismo, riassumibili (pur con le commistioni storiche che si sono date nel tempo) in “Occidentale” e “Orientale”. Prestando la dovuta attenzione al carattere politico e ricostruttivo di queste due etichette, come insegna Said[1], affrontare questo nodo richiede valutazioni sulla filosofia della storia, le diverse ontologie sottostanti e antropologie filosofiche, la teoria politica e culturale, la geopolitica e i diversi pensieri critici che nel tempo sono stati prodotti intorno a due centri tematici, quello marxista e quello decoloniale.
Naturalmente sullo sfondo di tutto ciò è da considerare il conflitto ibrido in corso tra i due principali egemoni dei due campi, gli Stati Uniti e la Cina. E’ utile a tal fine la lettura di un recente intervento in tre parti di Giacomo Gabellini, alla cui lettura rimando[2]. In sostanza Giacomo racconta, con l'usuale abbondanza di fonti e particolari, la storia degli ultimi venti anni durante i quali si è manifestata (dalla Presidenza Obama) la sempre crescente divaricazione strategica tra l'economia debitrice e quella creditrice, la prima impegnata a consumare e la seconda a produrre, rispettivamente americana e cinese. Parte da lontano, dalle ragioni della rottura di Bretton Woods da parte di Nixon (1971) e della crisi degli anni Settanta, risolta dalla cosiddetta “globalizzazione” e dalla caduta dell'Urss; parte essenziale di questo processo, durato un trentennio, è stata l'estensione alla Cina delle filiere produttive in uno scambio per il quale le merci a buon mercato contenevano la perdita di capacità d'acquisto interna americana e il riciclo via finanza dei surplus (da parte di Cina, Giappone e paesi arabi) consentiva l'indebitamento. Questo meccanismo alla lunga non era e non è stato sostenibile, gli Usa sono passati da creditori netti nel 1983 a debitori oggi.
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In ricordo di Michel Aglietta
di Andrea Fumagalli e Stefano Lucarelli
E così se ne è andato anche Michel Aglietta, a 87 anni, un altro degli scienziati sociali che più hanno segnato la nostra formazione.
Diplomato all’École polytechnique nel 1959, la sua sensibilità e il suo interesse per gli aspetti teorici del dibattito politico lo portano a scegliere l’ENSAE come scuola di formazione nel 1961.
Nell’ottobre 1974, Michel Aglietta ha difeso la sua tesi di dottorato all’Università di Parigi 1 Panthéon-Sorbonne, intitolata Régulation du mode de production capitaliste dans la longue période. Prendendo come esempio gli Stati Uniti (1870-1970). La commissione di laurea era composta da Raymond Barre, Hubert Brochier, Carlo Benetti, Joseph Weiller e Edmond Malinvaud.
Ha ricevuto l’agrégation (concorso pubblico nel sistema educativo francese) in economia nel 1976, primo passo per intraprendere la carriera accademica. Dopo aver conseguito il dottorato, Michel Aglietta ha tenuto seminari all’INSEE. Vengono discussi i sette capitoli della sua tesi. Ogni mese si tiene un incontro su uno dei capitoli. Si forma un gruppo di persone, tra cui Robert Boyer e Alain Lipietz, Pascal Petit provenienti dall’INSEE, dal CEPREMAP e dalle università. Sulla base di questi incontri, Aglietta scrisse il libro: Régulation et crises du capitalisme, Calmann-Lévy, 1976. Quando uscì, il libro ottenne una certa visibilità e fu tradotto abbastanza rapidamente in inglese (per Verso, Londra, 1979). Fu il battesimo della scuola francese della regolazione, che fu soprattutto portata avanti grazie al lavoro di Boyer, Lipietz, Coriat, Nadel e Petit. Aglietta ne fu l’ispiratore principale anche se non ha mai fatto parte del suo gruppo di ricerca. Di Aglietta, in italiano, sono stati tradotti solo due scritti: la postfazione alla terza edizione di Régulation et Crises du capitalisme nel 2001, accompagnata da un saggio sui compiti dello Stato di Giorgio Lunghini (Bollati Boringhieri), e Il dollaro e dopo: la fine delle monete chiave con una introduzione di Carlo Dadda, nel 1988 (Sansoni).
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Marxismo occidentale e imperialismo
di John Bellamy Foster e Gabriel Rockhill
Parte prima: un dialogo
Pubblichiamo la prima parte di un dialogo tra John Bellamy Foster e Gabriel Rockhill che esaminano la storia e l'influsso del "marxismo occidentale", definito non da caratteristiche geografiche, ma dal rifiuto del marxismo sviluppato in Unione Sovietica, nel Sud globale, e persino del marxismo classico. Questa corrente di pensiero marxista, nata nel nucleo imperialista, invece di fronteggiare i problemi urgenti che la società di oggi deve affrontare, rappresenta una concessione al predominio dell’ideologia statunitense.
Gabriel Rockhill: Vorrei iniziare questa discussione affrontando, prima di tutto, un equivoco sul marxismo occidentale che è di interesse reciproco. Marxismo occidentale non equivale a marxismo in Occidente. È invece una versione particolare del marxismo che, per ragioni molto materiali, si è sviluppata nel cuore dell'impero dove c'è una significativa pressione ideologica per conformarsi ai suoi dettami e che condiziona le vite di coloro che vi lavorano. Tutto questo vale, in pratica, per gli stati capitalisti di tutto il mondo, ma non determina in modo rigoroso la ricerca e l'organizzazione marxista in queste aree. La prova più semplice di tutto ciò è il fatto che noi non ci identifichiamo come marxisti occidentali, anche se siamo marxisti che lavorano in Occidente, proprio come per il filosofo italiano Domenico Losurdo, il cui Western Marxism è stato recentemente pubblicato da Monthly Review Press.[*] Cosa pensi della relazione tra "marxismo occidentale" e "marxismo in Occidente"?
John Bellamy Foster: Non mi piace il termine "marxismo occidentale", in parte perché è stato adottato come forma di auto-identificazione da pensatori che rifiutano non solo il marxismo sovietico, ma anche gran parte del marxismo classico di Karl Marx e di Friedrich Engels, così come il marxismo del Sud globale. Contemporaneamente, gran parte del marxismo in Occidente, e le analisi più materialiste, politico-economiche e storiche, sono tendenzialmente esclusi da questo tipo di marxismo occidentale auto-identificato, che tuttavia si è posto come arbitro del pensiero marxista e ha dominato la marxologia. Di solito, nell'affrontare la questione del marxismo occidentale dal punto di vista teorico, io sottolineo che ciò con cui abbiamo a che fare è una specifica tradizione filosofica. Questa è iniziata con Maurice Merleau-Ponty (e non con György Lukács, come comunemente si suppone), ed è stata caratterizzata dall'abbandono del concetto di dialettica della natura associato a Engels (ma anche a Marx). Ciò significa che la nozione di marxismo occidentale si allontana sistematicamente da un materialismo ontologico in termini marxisti, e gravita verso l'idealismo, che ben si adatta alla rimozione della dialettica della natura.
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Neoliberalismo, neo-populismo, neo-autoritarismo. Nuova personalità autoritaria e collasso della democrazia
di Alessandro Simoncini
Questo testo indaga il rapporto che intercorre tra i tre concetti che compaiono nel titolo, mettendoli in tensione. Nella prima parte fornisce una definizione del neoliberalismo, per poi mostrare come esso abbia prodotto le condizioni di possibilità dell’affermazione di un neo-populismo sorto sulle rovine del neoliberalismo stesso. Nella seconda parte si sofferma sul neo-populismo di destra sostenendo che esso non è un’alternativa politica al neoliberalismo, come spesso si tende a credere, ma il suo rovescio osceno. La terza e ultima parte del testo sostiene che il neoliberalismo contiene da sempre un elemento strutturale di autoritarismo su cui, nel tempo presente, si innesta un autoritarismo neo-populista che accelera il collasso della democrazia rappresentativa.
1, Nascita del neo-populismo dalle rovine del neoliberalismo
Con “neoliberalismo” non si intende qui soltanto il neoliberismo economico. Il neoliberalismo non è stato solo la risposta alle lotte sociali e alle politiche economiche keynesiane con cui negli ultimi decenni, a partire dalla crisi degli anni ’70, le classi capitaliste hanno realizzato un’enorme “concentrazione della ricchezza” – come ha scritto David Harvey –, ristabilendo e consolidando nel mondo il loro potere[1]. Certo, il neoliberalismo è stato naturalmente globalizzazione finanziaria, delocalizzazione produttiva, libera circolazione dei capitali e delle merci, privatizzazioni, riduzione del carico fiscale per i ceti abbienti, tagli alla spesa pubblica, smantellamento progressivo dello Stato sociale, precarizzazione del lavoro: tutte componenti di una vincente “lotta di classe dall’alto”, per dirla con Luciano Gallino[2]. Il neoliberalismo, però, è stato anche (ed è) una razionalità politica capace di modellare la società e le soggettività in base alle esigenze del mercato: una “nuova ragione del mondo” – per citare il titolo di un libro ormai classico – in base a cui un po’ ovunque gli Stati hanno adottato politiche capaci di estendere la logica aziendale e l’assiomatica concorrenziale ben oltre l’ambito economico: nell’amministrazione pubblica, nella giustizia, nell’Università, nella scuola, nella sanità, nelle relazioni sociali[3].
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Sul Filo Rosso del Tempo
di Paolo Crocchiolo*
Nel suo libro “Sul filo rosso del tempo” (Multimage Editrice, Firenze, 2024) l’autrice Alessandra Ciattini intraprende un percorso di analisi della condizione umana focalizzando la sua attenzione sui tre assi portanti dell’ideologia, della religione e della femminilità, visti nel loro dialettico intrecciarsi e compenetrarsi. Ciascuno dei tre temi poi è sviluppato sotto un triplice profilo, a partire dalle sue radici naturalistiche, passando per la sua evoluzione storica, per giungere ai suoi rapporti d’interdipendenza con l’attuale fase tardo-capitalistica e col suo corrispettivo ideologico, il post-modernismo, descritto nelle sue varie sfaccettature.
Le tesi esposte da Marx ed Engels nell’”Ideologia tedesca” già precorrono nelle loro linee fondamentali le attuali concezioni neuroscientifiche riguardanti lo sviluppo evolutivo dell’autocoscienza razionale in quanto tratto caratteristico della specie umana.
Quando i due autori parlano infatti dei bisogni materiali che condizionano e su cui è costruito il pensiero, il quale poi a sua volta si rovescia nella prassi del lavoro produttivo che trasforma l’ambiente naturale, colgono quell’aspetto fondamentale dell’evoluzione che vede nella manualità, frutto della stazione eretta dei nostri antenati confinati nella savana, come il presupposto dello sviluppo cerebrale che poi retroagisce dialetticamente sulla manualità stessa, affinandola e indirizzandola verso modi di produzione sempre più aderenti nel loro succedersi storico alle condizioni ambientali man mano emergenti.
L’ideologia, dunque, non può essere vista riduzionisticamente come un mero prodotto delle condizioni materiali (economicismo), ma neppure come un processo immateriale staccato dalla realtà corporea e sociale dell’essere umano (culturalismo).
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Il soggetto moderno tra Kant e Sacher-Masoch
di Carlo Di Mascio
L’esistenza della schiavitù nell’antica Roma non impedì a Seneca di convincersi che «se il corpo può non essere libero e può appartenere a un padrone, l’anima resta sempre sui juris». Kant, in sostanza, non fece un gran passo avanti rispetto a questa formula, giacché in lui l’autonomia della persona si combina con le concezioni prettamente feudali del rapporto padroni-servi.
E.B. Pasukanis, La Teoria generale del diritto e il marxismo
1. Venus im Pelz come sintesi della filosofia politica e giuridica moderna. Kant e la transizione alla modernità
Leggere Kant attraverso Venus im Pelz di Leopold Sacher-Masoch, può costituire un utile esercizio di ripasso sulle modalità di costruzione del soggetto moderno, ma soprattutto sulle ragioni di una articolata produzione concettuale che nell’epoca moderna è stata essenzialmente diretta a razionalizzare l’ordine quale elemento connaturato a ciascun individuo. Se si prova a prescindere da alcuni stereotipi legati a questo testo - pellicce, fruste, amanti violenti, corde, arazzi, camini rinascimentali, ecc. - quali risaputi elementi funzionali all’appagamento di un desiderio più o meno perverso del protagonista Severin e delle sue strategie di convincimento, in grado di indurre una donna (Wanda) a diventare suo carnefice - l’occasione diventa allora quella di esplorare inevitabilmente il tema del potere, dell’autorità, del controllo, ma soprattutto della filosofia e della sua storia, da sempre indirizzate a mettere in riga il soggetto, a protocollare il suo desiderio nell’ambito di un dominio prestabilito.
Il romanzo, come è noto per chi lo ha letto, attiva in effetti una sostanziale operazione di cattura nell’ordine generale, e che, nel caso del protagonista Severin, consiste nell’impedirgli, al termine di quella «crudele catastrofe della mia vita»1, di intervenire follemente sull’oggetto (del proprio desiderio), atteso che l’ordine oramai è diventato capace di dispiegarsi automaticamente su di lui, assorbendolo completamente, senza bisogno di un impulso esterno. In tale ottica il percorso di Severin che ha inizio con un contratto (di schiavitù), al pari di quel suddito che per conservarsi la vita (da servus, servare, con-servare) cede tutti i propri i diritti a un potere sovrano, e termina con la sua risoluzione, sembra proprio illustrare l’intero tragitto effettuato dalla filosofia politica e giuridica moderna, la quale inizialmente ha operato sul lato della rappresentazione pattizia e razionale della sovranità, per poi rivolgersi su quello dei soggetti, modellando corpi da assoggettare, creando cioè una soggettività attrezzata a obbedire e a farsi disciplinare.
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Considerazioni intermedie su tempi complessi
di Alessandro Visalli
I tempi di cambiamento sono sempre tempi confusi. Il mio amico Pierluigi Fagan direbbe che sono tempi complessi[1], ma io penso nella sostanza che tutti i tempi lo siano e che questi sono diversi perché gli schemi di interpretazione sono scossi. Ne avevamo uno comodo, il ‘dolce commercio’[2] avrebbe necessariamente e per propria dinamica interna portato con sé attraverso la spinta del consumo l'allineamento del mondo agli standard dell'Occidente. L’idea era di considerare la “modernizzazione”[3] compiuta storicamente, e in innumerevoli conflitti, dalle società europee nel torno di anni tra il XV e il XIX secolo come una “tappa”[4], storicamente necessaria, dei “progressi”[5] della “Ragione”[6] che porta con sé il necessario -biunivocamente connesso- sviluppo delle forze produttive. Nessuno sviluppo autentico è quindi considerato possibile, né civile e morale, né produttivo e autosostenuto, senza che si aderisca a questo movimento ineluttabile e progressivo, irreversibile, scritto nella “Storia”[7], e del quale l’Occidente rappresenta il modello e l’alfiere.
Questo mito fu scosso nella prima metà del XX secolo dall’esperienza della distruzione della tecnica (le mitragliatrici ed il gas nella Prima Guerra mondiale, i bombardamenti ad alta quota, le macchine di sterminio, le atomiche nella Seconda), ed è oggi sfidato dalla direzione che stanno prendendo i fatti. La mente di ogni buon cittadino occidentale, democratico e progressista, incastonata da questo giro di idee e sicuro della propria superiorità e del destino manifesto che aspetta il mondo intero, non appena giungerà a riconoscerlo, è scossa e confusa dalla indisponibilità russa ad arrendersi, dalla nascita dei Brics e la sua espansione, l’irresistibile crescita della Cina e la sua dirompente ascesa nella catena del valore e tecnologica, la crescita di movimenti politici non liberali nei santuari occidentali.
Si possono leggere questi eventi come anomalie in una storia, inserendoli ostinatamente entro una narrazione teleologica normalmente intessuta di principi morali, si possono quindi leggere come incidenti, perturbazioni nel normale sviluppo; oppure come manifestazione di una sorta di ritorno ciclico.
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La conoscenza della storia, l’Occidente e il libero arbitrio
di Algamica*
Convinti con Marx che la coscienza degli uomini sia il risultato del processo determinato e impersonale del rapporto degli uomini con i mezzi della produzione e con la natura. Allo stesso riteniamo così sia per lo sviluppo di tutte le scienze, tra le quali vi è la storiografia e il ruolo dello storico che ne discende. Contestiamo, perciò, tutte quelle concezioni che ritengono che il motore della storia sia il risultato della volontà degli uomini e della capacità di far uso della ragione. Sarebbe, perciò, il libero arbitrio degli uomini a guidare la storia. Solo che anche la concezione del libero arbitrio altro non è che un costrutto materiale e il risultato di precisi processi storici. E’ chiaro che seguendo la forza storica di questa concezione – che si impone dal Rinascimento e raggiunge la piena maturazione nell’Illuminismo e nella formulazione del “sapere aude”, tutto quanto ne consegue è giustificato. Si rimane senza argomenti di fronte all’arringa finale dell’ex “comunista” Rampini: «[...] e va bene, noi Occidentali abbiamo insanguinato l’Africa, eppure ora la durata della vita media in Africa è superiore rispetto al passato grazie a noi. Grazie a noi in Africa quasi tutti posseggono un telefono cellulare e si connettono al mondo ».
Ci viene rinfacciato, che ci piaccia oppure no, che l’Occidente anche saccheggiando il mondo e passando di genocidio in genocidio, epperò ha consentito lo sviluppo o il progresso universale.
Parafrasando Immanuel Kant, i liberisti alla Rampini o alla Ernesto Galli della Loggia, sostengono che gli uomini europei e Occidentali seppero superare l’ignoranza e lo stato di minorità nei confronti delle relazioni con il mondo esterno. Seppero, cioè, far prevalere e precedere l’idea all’istinto dando impulso all’azione razionale, che a sua volta diviene intrapresa.
Lo storico del liberismo non può che sottolineare alla prova dei fatti che l’uomo europeo e Occidentale anche attraverso le sue nefandezze sia stato proprio lui a mettere in comunicazione il mondo.
Seguendo questo modo di indagare i fatti aggiunge che questa virtù di concepire una idea in sé e a priori è “sbocciata” in Occidente, e dunque, anche tutte le idee di progresso sociale sono nate qui in Occidente, ivi inclusa, come dice Ernesto Galli della Loggia, quella concezione particolare e “profetica” della «rivoluzione sociale da cui è nata la più variegata ideologia rivoluzionaria ».
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Totalitarismo democratico
Il testamento politico di Mario Tronti
di Ida Dominijanni*
Si vive in tanti modi, si muore in tanti modi. Dare forma alla propria fine è un modo per ricomporre la forma della propria vita, e per consentire a chi resta di ereditarla senza sfigurarla. Non è da tutti: ci vuole del talento, e il dono del tempo necessario per poterlo fare. Mario Tronti, uno degli intellettuali comunisti più originali e influenti del Novecento italiano ed europeo, è morto il 7 agosto 2023 a novantadue anni, dopo una malattia abbastanza veloce da sottrarcelo senza che noi – le sue “amicizie politiche”, come gli piaceva chiamarci – ce ne rendessimo conto, ma abbastanza lunga da fargli licenziare il libro a cui stava lavorando. “Questo è pronto”, aveva detto consegnandolo a sua figlia Antonia pochi giorni prima di andarsene. Il testo è ora in libreria per il Saggiatore, a cura di Giulia Dettori, titolo (hegeliano) Il proprio tempo appreso col pensiero, sottotitolo (scarno) “libro politico postumo”. La copertina bianca con sopra il tronco di un albero rosso riproduce la ginestra essiccata che Tronti aveva fatto verniciare nel giardino della sua casa di Ferentillo dove si rifugiava a scrivere, ma funziona anche come citazione cromatica del quadro di El Lissitzky del 1920 sulla rivoluzione bolscevica, Spezza i Bianchi col cuneo rosso, di cui Tronti teneva sempre una copia bene in vista sulla scrivania e che ricorre anche in quest’ultimo scritto.
1.
Si tratta di un testo intenzionalmente, non accidentalmente, postumo, come prova un appunto dell’agosto 2021, risalente a ben prima della malattia, ritrovato per caso in uno dei tanti quaderni su cui Tronti annotava di tutto e posto ora in esergo al testo: “Un libro volutamente postumo, lasciato forse non finito. Scrivo non alcune pagine, ma alcune righe al giorno, e non tutti i giorni… un distillato di pensiero”. Un lascito ereditario dunque, affidato performativamente a un testo che (anche) sul tema dell’eredità ruota.
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La politica dopo il tramonto
Riflessione sul saggio di Anton Jäger
di Andrea Rinaldi
Se la politica moderna si è esaurita, cosa ci ha consegnato la postmodernità? È su questa domanda che s'interroga Andrea Rinaldi nella recensione a Iperpolitica (Not Nero Editions) di Anton Jäger. Invece di crogiolarci nei rimpianti, ci dice l'autore, è fondamentale indagare la nostra società e pensare a un esperimento di politica alternativa
Il sonno della ragione, è risaputo, genera mostri. Il sonno della ragione politica ci ha recentemente consegnato l’uomo più ricco del mondo che saluta il suo pubblico con un braccio teso, in un'esplicita posa nazi-fascista.
A sonnecchiare non è una supposta razionalità assoluta dei buoni, ma la politica per come l’abbiamo intesa nel Novecento. È difatti auto-evidente che il miliardario sotto acidi non sia simile neanche un po’ ai noti dittatori europei a cui fa riferimento. L'avvento del potere di Hitler e Mussolini è avvenuto nel contesto della politica di massa e di una stratificazione sociale meno rigida, cosa che ha permesso a due «ignoti» di arrivare a governare due imperi. Oggi è invero impossibile pensare a uomini di simile influenza che nascono dal nulla della classe lavoratrice: la politica degli attuali anni Venti è legata indissolubilmente al potere economico, alla sua riproduzione e alla sua idolatria. Musk è difatti il figlio dello sfruttamento, della speculazione e del peggior colonialismo occidentale, da cui ha ereditato non solo un capitale senza limiti e un’istruzione d’élite, ma anche la posizione privilegiata da uomo bianco naturalizzato statunitense. E questa posizione la vediamo plasticamente nella sua idea di mondo: razzista, repressiva, liberista, anti-statale, imperialista. Un'idea funzionale ai suoi affari, che confeziona per il grande pubblico richiamando categorie della vecchia politica, come il fascismo.
Riprendendo il saluto romano, l’altro aspetto da sottolineare – di questa iconografia politica dei nostri tempi – è che se Mussolini e poi Hitler avevano costruito il loro saluto su una storia, una simbologia, un’organizzazione, un’ideologia politica, Musk costruisce il suo gesto sul nulla, sull’impeto lisergico di un momento, come un semplice meme, una battuta tra amici: la provocazione di un ragazzino edgy che vuole irritare il professore di sinistra.
È tutto qui, in questa orrenda immagine, il nostro problema. Il nazi-fascismo ci disgusta e ci fa orrore e in questa fase sottolinea ancora, una volta, la morte di una politica fatta di organizzazione, progetto, conflitto, classe, lotta.
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Unicità dell'Olocausto e aberrazione nazista
Ovvero: come rimuovere gli ordinari crimini occidentali e la memoria dei genocidi coloniali
di Carlo Formenti
I.
Le violente reazioni polemiche con cui politici, intellettuali e giornalisti occidentali di ogni colore ideologico (ad eccezione di qualche minoranza) hanno replicato alle accuse di genocidio allo stato israeliano, sono la conferma che tali accuse – più che fondate – toccano un nervo scoperto, in quanto mettono in questione un mito alimentato e condiviso da tutti i regimi liberal-democratici euroatlantici. Per inciso, che le accuse siano più che fondate non è testimoniato solo dal numero spaventoso di vittime di ogni età e sesso provocate dal terrorismo aereo praticato dal governo di estrema destra di Netanyahu, ma da quei rari intellettuali israeliani che, come Ilan Pappé (1), denunciano da tempo le pratiche criminali del regime sionista.
Di più: lo conferma il significato originario – prima che venisse mistificato da decenni di propaganda ideologica – del termine genocidio, coniato, come ricorda lo storico Leonardo Pegoraro (2), dal giurista polacco di origine ebraica Raphael Lemkin negli anni della Seconda Guerra mondiale. Costui definì genocidio la distruzione di una nazione o di un gruppo etnico, non riferendosi solo all’annientamento fisico delle vittime, ma anche alla soppressione delle istituzioni di autogoverno, alla distruzione della struttura sociale e della classe dirigente, al divieto di usare la propria lingua, alla privazione dei mezzi di sussistenza, alla criminalizzazione di una determinata fede religiosa, all’umiliazione e la degradazione morale. Mi pare chiaro che molti, se non tutti, questi criteri si applicano ai crimini che vengono quotidianamente perpetrati contro la popolazione palestinese.
Partendo da tale definizione, Pegoraro contesta la testi “unicista” che attribuisce alla Shoah l’attributo di unico evento storico suscettibile di essere definito genocidio. La cultura e la prassi genocidaria, argomenta, esistono fin dalla più lontana antichità, come testimoniato dall’Iliade e (lupus in fabula) dall’agghiacciante invito divino del Deuteronomio che recita: “Soltanto nelle città di questi popoli che il Signore tuo Dio ti dà in eredità, non lascerai in vita alcun essere che respiri, ma li voterai allo sterminio: cioè gli Hittiti, gli Amorrei, i Cananei, i Perizziti, gli Evei e i Gebusei” (20:16-17).
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Città-merce e lotta di classe in Walter Benjamin
di Jacques Bonhomme
Elles ont pâli, merveglieuses,
 Au grand soleil d’amour chargé,
 Sur le bronze des mitrailleuses
 Ā travers Paris insurgé!
 
 Sono impallidite, meravigliose,
 nel gran sole carico d’amore,
 sul bronzo delle mitragliatrici 
 attraverso Parigi insorta!
Arthur Rimbaud, Le mani di Jeanne Marie
Nel XIX secolo, le città occidentali divengono lo spazio di amplificazione e di espressione della grande industria capitalistica, il contesto sociale in cui essa raduna e distribuisce i proletari e in cui forgia, attraverso le merci e il consumo, un mondo sociale per i diversi strati della borghesia, modellandone costumi, gusti e ambizioni, e spartendo le tipologie di questi, nonché i mezzi di accesso alle loro condizioni, secondo le gerarchie, più o meno fluide, delle ricchezze e del prestigio. La cosiddetta agglomerazione fece grandi balzi, accrescendo una migrazione rurale che già nel secolo precedente aveva mutato l’aspetto delle città attraverso l’ingrossamento dei sobborghi. Nel XIX secolo la fabbrica segnò il cupo avvenire delle città che, per concomitanti circostanze ambientali e legislative, erano precocemente divenute centri industriali, ma l’irruzione delle fabbriche nelle aree urbane non si limitò ai luoghi che avevano già subito le sconvolgenti alterazioni della contiguità tra miniera e opificio, passato dall’energia idrica al carbone. Tutto il secolo è risucchiato da questa tendenza, e la moltiplicazione degli slums ne è una manifestazione ricorrente e massiccia. Infatti, la fabbrica riduce l’ambiente urbano a un materiale da produzione, facendo ruotare uomini e cose intorno ai suoi scambi con la società che la circonda e che, nei giochi prospettici del panoptismo, si fonde con essa. Fabbriche, ferrovie e slums si avvolgono, allora, in un’unica trama.
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