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Èidola: il crepuscolo degli idoli nel cyberspazio
di Vincenzo Morvillo
Quando nel 1927 Werner Heisenberg formula il principio di indeterminazione – cardine teorico della meccanica quantistica – sancendo una radicale rottura rispetto alla meccanica classica, pone le basi di uno stravolgimento radicale nell’osservazione e nello studio non solo delle leggi della fisica ma anche, conseguentemente, della natura e della realtà stessa.
Il principio d’indeterminazione esprime infatti, com’è noto, l’impossibilità a priori di determinare con precisione illimitata i valori di due variabili incompatibili (quantità di moto e velocità di una particella) per cui l’osservatore dovrà scegliere quale misura privilegiare predisponendo gli strumenti di misura conseguenti. In altri e più semplici termini, equivale a dire che il soggetto osservatore cambia la realtà.
Da quel momento dunque la natura e le sue leggi, lungi dall’essere qualcosa di obiettivo e quindi da scoprire, diventano piuttosto condizionate dall’osservazione soggettiva di colui che ne fa oggetto di studio. Il che, forzando un po’ la mano, non è molto distante dall’affermare che sono una nostra invenzione.
Insomma, con il principio di indeterminazione Heisenberg insieme ad altri fisici – a partire dall’amico e collega Niels Bohr – elaborano quel probabilismo ontologico che, nelle posizioni della cosiddetta Interpretazione di Copenaghen, darà vita a quell’antirealismo scientifico che tanto influenzerà il ‘900 anche in altri e diversi campi di studio. Dalla filosofia all’arte, dalla letteratura alla psicoanalisi, dalla politica all’economia.
Una vera e propria svolta epistemologica, che elimina la nozione di certezza sostituendole quella di probabilità e in virtù della quale siamo costretti a ripensare il concetto di causa-effetto in termini diversi rispetto al senso riduttivamente deterministico tipico del meccanicismo newtoniano.
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Omini di burro. Scuole e università al Paese dei Balocchi dell’IA generativa
di Daniela Tafani
Come l’omino di burro del romanzo di Collodi, chi introduca nelle scuole e nelle università strumenti di “intelligenza artificiale generativa” promette agli studenti un Paese dei Balocchi in cui potranno scrivere senza aver pensato. I sistemi neoliberali – nei quali si ritiene che la didattica sia un addestramento ai test e che la valutazione delle opere dei ricercatori non ne richieda la lettura – sono già pronti a un simile annientamento dell’istruzione pubblica e alla sua sostituzione con qualche software proprietario.
Volentieri la redazione ripubblica il contributo di Daniela Tafani apparso sul Bollettino telematico di filosofia politica
1. Macchine per scrivere frasi probabili
A un programma informatico si assegna talvolta il nome della facoltà umana che si desidera implementare; così, osservava nel 1976 Drew McDermott, si ingannano molte persone, tra le quali in primo luogo se stessi, riguardo a ciò che il programma è effettivamente in grado di fare: “un programma chiamato ‘PENSARE’” – scriveva McDermott – “tende ad acquisire inesorabilmente strutture di dati chiamate ‘PENSIERI’”. L”espressione “intelligenza artificiale generativa” è un esempio di tale “mnemotecnica dei desideri”: induce infatti a dimenticare che si tratta di software che gira su computer e che generare output a partire da input è ciò che i software normalmente fanno.
I generatori di linguaggio sono sistemi informatici di natura statistica, basati su grandi modelli del linguaggio naturale (Large Language Models): producono stringhe di testo, sulla base di una rappresentazione probabilistica del modo in cui le sequenze di forme linguistiche si combinano nei testi di partenza e sulla base della valutazione, formulata da esseri umani, dei gradi di preferibilità delle risposte.
L’interazione con tali sistemi non ha nulla a che vedere con l’interlocuzione con un essere umano. Quando immettiamo, quale input, una domanda – ad esempio, “Chi ha scritto I promessi sposi?” –, la domanda che stiamo effettivamente ponendo è un’altra: nel caso di questo esempio, è: “Data la distribuzione statistica delle parole nel corpus iniziale di testi, quali sono le parole – che gli utenti e i valutatori approverebbero maggiormente – che è più probabile seguano la sequenza “Chi ha scritto I promessi sposi?“”.
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Fachinelli e/o Fortini?
di Ennio Abate
Prima parte
Elvio Fachinelli, il desiderio dissidente (Quaderni Piacentini n. 33 - febbraio 1968)
Dietro front. Torno al 1968. In quell’anno lessi pure «Il desiderio dissidente» sul n.33 – febbraio 1968 dei «quaderni piacentini». Un saggio calato – oggi direi: quasi affogato – in un presente che allora ribolliva. Fachinelli parlava di «movimenti di dissidenza giovanile del nostro e degli altri paesi ad alto sviluppo industriale». Li diceva fragili nei «contenuti programmatici» e nei «comportamenti», ma tenaci: non si facevano riassorbire dal Sistema, dal Potere. Diceva. Ma chi era per me, che partecipavo all’occupazione della Statale di Milano (qui), Elvio Fachinelli e che effetti ebbe su di me quella lettura? Un nome che sentivo per la prima volta, uno psicanalista. Visto appena – una sola volta, mi pare nel 1988 – vent’anni dopo tra il pubblico della Casa della Cultura di Via Borgogna. E, quando lessi quel suo saggio, sulla psicanalisi avevo al massimo curiosità, sospetti o idee libresche e incerte. Forse, se non fosse stato pubblicato sui «quaderni piacentini», neppure l’avrei notato. Perché l’ideologismo della politica al primo posto, impostosi per tutti gli anni Settanta, mi aveva raggiunto e preso in ostaggio.
La prima reazione fu di simpatia. Nelle parole di Fachinelli ritrovavo, espresso su un piano intellettuale autorevole e argomentato, quel desiderio di libertà e di cambiamento, che sentivo attorno a me. Ma il ghiaccio sociale sembrava rotto anche per me. Uscivo dall’isolamento dell’immigrato, che in una Milano a lui sconosciuta era riuscito a stabilire fino ad allora poche e limitate relazioni, mi ritrovavo di botto tra compagni e compagne e ascoltavo con piacere discorsi di denuncia, svecchiamento e rivolta. Eppure impacci e dubbi restavano; e si svelarono anche in quella mia lettura.
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“I meme e Mark Fisher”
Un estratto dal libro di Mike Watson
Pubblichiamo, ringraziando l’autore e l’editore, l’introduzione di Mike Watson all’edizione italiana del suo “I meme e Mark Fisher: Realismo capitalista e scuola di Francoforte nell’era digitale” pubblicato da Meltemi con la traduzione di Mariaenrica Giannuzzi e una di Nello Barile
I meme e Mark Fisher è stato scritto alla fine del 2020 in Finlandia, in un clima di paura e di attesa a livello globale, quando il lockdown per il Covid sembrava volgere definitivamente al termine. La sensazione prevalente era che, comunque fosse andata, il periodo successivo alla pandemia avrebbe rappresentato un cambiamento epocale. Per molti di noi a sinistra, abituati a successivi fallimenti elettorali e a una rapida ascesa dell’estrema destra in tutto l’Occidente, questo significava vivere nell’attesa di un disastro imminente. Persino la sconfitta di Donald Trump nel 2020 non era stata d’aiuto, poiché gli eventi del 6 gennaio avevano dimostrato che l’odio della destra si era talmente radicato nella psiche nazionale statunitense da minacciare di esplodere spontaneamente e mettere fuori gioco la democrazia in qualsiasi momento. Quattro anni dopo, questa possibilità è ancora un rischio molto concreto negli Stati Uniti. Nel Regno Unito, i primi ministri Tory che si sono succeduti hanno spostato il dibattito politico a destra, mentre in Italia l’estrema destra di Giorgia Meloni guida un governo di coalizione.
È naturale che in un momento così cupo ci si rivolga alla teoria politica e sociale del passato per cercare una via d’uscita, per dare forma a un contromovimento o, semplicemente, per imparare in che modo i nostri predecessori a sinistra hanno affrontato difficoltà che sembravano insormontabili. Così, alla fine del 2020, stremato da diciotto mesi di isolamento che mi avevano allontanato da quasi tutte le persone che conoscevo sia nel Regno Unito (dove ero nato), sia in Italia (dove avevo vissuto per dieci anni prima di trasferirmi in Finlandia), ho guardato al lavoro di Mark Fisher, recentemente scomparso, e anche alla seconda generazione della Scuola di Francoforte.
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Cheng Enfu. “Dialettica dell’economia cinese”
di * * * e Vladimiro Giacché
Cheng Enfu, tra i maggiori esponenti del marxismo cinese e internazionale, promotore e animatore, con riviste e forum internazionali, della più importante comunità marxista mondiale, raccoglie diversi saggi scritti negli ultimi decenni, nei quali la Cina ha compiuto – non in rottura ma in continuità dialettica con il trentennio di costruzione delle basi del socialismo dopo la conquista del potere politico (1949-1978) – uno straordinario percorso di sviluppo economico che per durata (pochi decenni) e popolazione coinvolta (oltre 1,4 miliardi di persone) non ha eguali in tutta la storia mondiale.
Preceduto da un importante saggio su Dieci punti di vista sul marxismo, questo corposo libro si snoda attraverso 7 capitoli a loro volta suddivisi in diverse sezioni: 1. Il moderno sistema economico della Cina; 2. L’economia cinese nel quadro di una Nuova Normalità; 3. I cinque nuovi concetti di sviluppo della Cina; 4. La riforma del sistema di distribuzione cinese; 5. Riforma del rapporto tra mercato e governo in Cina; 6. L’apertura graduale del mercato finanziario interno in Cina; 7. L’apertura dell’economia cinese.
Ognuna delle rilevantissime questioni inerenti l’“economia socialista di mercato” cinese viene affrontata, con approccio critico-dialettico, con analisi concreta della situazione concreta, “cogliendo la verità dai fatti”, combinando sempre rilevazione empirica e analisi teorica, senza cedimenti ad affermazioni propagandistiche o autocelebrative.
I lavori di Cheng e della sua scuola prendono le mosse dalla realtà, esaminano i caratteri di fondo e le ragioni del successo complessivo della “via cinese”, denunciano altresì limiti e rischi di alcune tendenze, proponendo correttivi, o cambiamenti di rotta.
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Cos’è la scienza?
Luca Busca intervista Carlo Rovelli
Non ha ormai più bisogno di presentazioni il professor Carlo Rovelli, assurto all’Olimpo della fisica teorica con la teoria della “gravità quantistica a loop”. Oltre agli articoli scientifici che gli hanno dato lustro in ambito accademico, il fisico ha scritto libri di divulgazione in grado di spiegare i complessi meccanismi della meccanica quantistica, e non solo, anche a chi è privo delle conoscenze necessarie.  
Questa sua grande capacità esplicativa ha fatto sì che la rivista Foreign Policy lo inserisse tra i 100 «Global Thinkers» più influenti nel 2019. La sua vena “poetica” gli ha fatto valicare spesso le alte vette della scienza portandogli in dote innumerevoli premi letterari. Tra questi spiccano il Premio Galileo per la divulgazione scientifica vinto nel 2015 con il libro “La realtà non è come ci appare” e l’ultimo, nel 2024, il Premio Lewis Thomas per la “scrittura creativa”, istituto nel ‘93 dal Consiglio della Fondazione David Rockefeller.
* * * *
L.B. Una sfida quasi impossibile anche per te: in poche parole, cos’è la scienza?
C.R. La scienza…? Direi che è una cosa che fanno gli esseri umani, per cercare di capire meglio il mondo in cui sono. È una attività cresciuta lentamente, nei secoli, imparando una serie di metodi utili, come per esempio rimettere spesso in discussione le cose che crediamo di sapere, discutere, mettere le idee alla prova dei fatti, e altri.
L.B. Che rapporto hai con la fantascienza, ovviamente non mi riferisco a improbabili supereroi ma a scrittori come l’ultimo George Orwell, Isaac Asimov, Philip K. Dick, Ray Bradbury e J.B. Ballard?
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Jean Luc Nancy e il non finito della democrazia
di Alessandro Simoncini
La democrazia neoliberale di cui oggi sperimentiamo l’ormai lunga crisi, non è mai stata la democrazia trionfante e compiuta che si sarebbe dovuta affermare sulla spinta della vittoria epocale del mercato. Dopo quella che in modo hegelianamente perverso Francis Fukuyama definì la fine della storia, la sconfitta del “socialismo reale” e di ogni comunismo inteso come possibile alternativa politica, economica e sociale, non ha portato a una felice fine della democrazia[1]. Al contrario – sopravvissuta come uno zombie alla “fine della fine della storia” – più che realizzare una democrazia senza fine, almeno a partire dalla crisi degli anni ’70 la democrazia neoliberale ha covato a lungo in seno tutte le contraddizioni che rischiano oggi di condurre a una fine della democrazia di segno del tutto opposto a quella gaudente ed espansiva auspicata da Fukuyama[2]. Di tutto ciò era pienamente consapevole Jean-Luc Nancy, quando nel 2019 scriveva: “trent’anni dopo la caduta del muro di Berlino e della cortina di ferro i conti con i sogni sull’estensione mondiale della democrazia non tornano”[3]. A fare i conti con quei sogni, del resto, Nancy ha dedicato una parte significativa sua riflessione politica e testi molto rilevanti. Le pagine che seguono prendono in esame solo una piccola parte dell’una e degli altri.
- Critica dello spettacolo e della democrazia “gestionale”
 
Già alla metà degli anni ’90, nel suo Essere singolare plurale, un libro che non trattava ancora direttamente il tema della democrazia, Nancy sosteneva che le società democratiche capitalistiche realmente esistenti erano svuotate di ogni “«sociazione», di ogni «mettersi in società», per non parlare – aggiungeva senza nostalgie –, delle «comunità» e delle «fratellanze» con cui si forgiavano un tempo le scene primordiali”[4].
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La rivoluzione culturale
di Alain Badiou
Tratto da Alain Badiou, Pietrogrado, Shangai. Le due rivoluzioni del XX secolo, Mimesis, 2023, Titolo originale: Petrograd, Shanghai, La Fabrique Éditions, 2018. Traduzione italiana di Linda Valle
1. Perché?
Perché parlare della “Rivoluzione culturale” – il nome ufficiale di un lungo periodo di gravi disordini nella Cina comunista tra il 1965 e il 1976? Per almeno tre motivi.
Primo motivo. La Rivoluzione culturale è stata un riferimento costante e vivo per l’azione militante in tutto il mondo, e in particolare in Francia, almeno tra il 1967 e il 1976. Fa parte della nostra storia politica, ha fondato l’esistenza della corrente maoista, l’unica vera creazione degli anni Sessanta e Settanta. Posso dire “noi”, io c’ero e in un certo senso, per citare Rimbaud, “sono qui, sono sempre qui”. Nell’instancabile inventiva dei rivoluzionari cinesi, ogni genere di traiettoria soggettiva e pratica ha trovato la sua nominazione. Già cambiare la soggettività, vivere in modo diverso, pensare in modo diverso, i cinesi – e poi noi – lo chiamavano “rivoluzionamento”. Dicevano: “cambiare l’uomo in ciò che ha di più profondo”. Ci hanno insegnato che nella pratica politica bisogna essere sia “l’arciere che il bersaglio”, poiché la vecchia visione del mondo è ancora molto presente in noi. Alla fine degli anni Sessanta siamo andati ovunque, nelle fabbriche, nelle case popolari, nelle campagne. Decine di migliaia di studenti diventavano proletari o vivevano in ostelli operai. Anche per questo c’erano le parole della Rivoluzione culturale: “grandi scambi di esperienze”, “servire il popolo” e, ancora fondamentale, “legame di massa”. Combattevamo contro la brutale inerzia del Partito comunista francese, il suo violento conservatorismo. Anche in Cina veniva attaccato il burocratismo del Partito, per cui si utilizzava l’espressione “lotta al revisionismo”. Anche le scissioni, gli scontri tra rivoluzionari di diverso orientamento, si dicevano alla cinese: “stanare la banda nera”, sbarazzarsi di coloro che “sembrano di sinistra e in realtà sono di destra”.
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Se due secoli vi sembran pochi
La storia della rivoluzione secondo Traverso
di Carlo Formenti
A mo' di premessa
A volte succede di adocchiare il titolo di un libro appena uscito e dirsi “questo lo devo leggere”. Così mi è capitato con il libro di Enzo Traverso, Rivoluzione 1789-1989. Un’altra storia (Feltrinelli). Dopodiché l’incombere di altre priorità di lettura, associate a un lavoro impegnativo di cui stavo per licenziare la versione definitiva (1), ma soprattutto l’esauriente presentazione del saggio di Traverso che ho potuto consultare sul blog dell’amico Alessandro Visalli (2), mi hanno fatto rimandare l’acquisto e poi dimenticare il proposito di effettuarlo. Tuttavia questa estate, mentre traducevo il libro di Kevin Ochieng Okoth, Red Africa (l’edizione italiana sarà in libreria per i tipi di Meltemi il prossimo novembre, con una mia postfazione), mi sono imbattuto in una citazione dell’edizione inglese del testo di Traverso, e il mio interesse si è riacceso, soprattutto perché la citazione si inserisce nel contesto di una critica – condivisa da chi scrive - nei confronti di un movimento comunista occidentale che ha pressoché ignorato il contributo delle lotte di liberazione del Sud del mondo al rinnovamento del marxismo. Dal momento che mi è parso di ricordare che anche Visalli attribuisce a Traverso interessanti spunti di riflessione sul tema, ho rimediato al mancato acquisto di un paio d’anni fa, ed eccomi dunque qui a ragionare sul contributo dell’autore all’analisi di due secoli di esperienze rivoluzionarie.
Prima di avviare il discorso, faccio un paio di premesse per facilitare al lettore tanto la comprensione del punto di vista di chi scrive, quanto la decisione di acquistare o meno il libro. In primo luogo, devo confessare che sono rimasto piacevolmente sorpreso nel verificare che Traverso ha pubblicato un lavoro che può (anche) essere considerato una approfondita ricerca iconografica sulla produzione di simboli, immagini e figure (quadri, opere d’arte, fotografie, bandiere, manifesti, divise, ecc.) associati ai vari eventi rivoluzionari dei secoli XVIII, XIX e XX. Uno straordinario repertorio visivo che, a mio avviso, vale da solo l’acquisto del volume.
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Il dibattito teorico-politico su Gramsci negli anni Settanta
di Guido Liguori*
1. Cagliari 1967
Per la comprensione del dibattito su Gramsci in Italia negli anni Settanta, conviene probabilmente dividere il decennio in due parti. Una prima parte, che arriva fino alla pubblicazione nel 1975 dell’edizione critica dei Quaderni del carcere a cura di Valentino Gerratana, è contraddistinta da una serie di studi per il tempo innovativi, che reagivano per alcuni aspetti al convegno gramsciano di Cagliari del 1967 (di cui dirò) e che fecero compiere alla conoscenza di Gramsci e soprattutto del suo pensiero un vero e proprio salto di qualità. Una seconda parte del decennio, invece, che è più rilevante dal punto di vista politico, ovvero del dibattito pubblico, e si interseca: a) con la cosiddetta “questione comunista”, cioè con la speranza di un sorpasso elettorale del Pci sulla Dc, e poi con i governi di solidarietà nazionale e le polemiche che ne derivarono; b) con la crescente polemica tra comunisti e socialisti del tempo, a partire dal “nuovo corso” craxiano, una polemica a tutto campo, in cui fu coinvolto anche Gramsci.
Alle spalle degli anni Settanta vi era l’onda lunga del secondo biennio rosso 1968-1969, che determinò in Italia una inedita e prolungata fortuna di tutti o quasi gli autori della tradizione marxista, e con essi anche di Gramsci. Sul piano degli studi gramsciani propriamente detti, l’antecedente più immediato era il convegno di Cagliari del 1967, i cui atti vennero pubblicati due anni dopo1. Un convegno che, benché non fosse stato in realtà univoco, fin dal titolo – Gramsci e la cultura contemporanea – rischiava di incasellare Gramsci in quel ruolo di “grande intellettuale” che gli era stato assegnato dopo la guerra e fino a metà degli anni Cinquanta, quando sia la pubblicazione degli scritti del Biennio rosso, sia le novità del XX Congresso avevano concorso a far ritornare sulla scena, giustamente e inevitabilmente, il Gramsci militante, dirigente e pensatore politico.
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Vulnerabili all’allucinazione. Dalla tv ai social sulle orme di Neil Postman
di Andrea Sartori
Nell’agosto dello scorso anno, Luiss University Press ha opportunamente ripubblicato la traduzione in italiano del saggio del 1985 del sociologo e teorico dei media americano Neil Postman (1931-2003), dal titolo Divertirsi da morire. Il discorso pubblico nell’era dello spettacolo (Prefazione di Matteo Bittanti).
Quaranta anni fa, all’epoca dell’uscita per Viking (Penguin Random House) di Amusing Ourselves to Death: Public Discourse in the Age of Show Business, Postman faceva sedere la televisione al banco degli imputati della critica dei media. Questo non significa che rileggere il suo lavoro oggi equivalga a una mera operazione archeologica sui mezzi della comunicazione. Divertirsi da morire, infatti, ci fornisce obliquamente delle indicazioni anche circa quel che sta accadendo nella nostra contemporaneità, segnata dal predominio dei social media, dei relativi codici comunicativi, e dei poteri economici che li alimentano (a partire da quelli di Mark Zuckerberg ed Elon Musk).
La tesi sostenuta in queste righe, ricavata da alcune riflessioni che Postman svolge su un testo di Northrop Frye (Il grande codice. Bibbia e letteratura [1981], Vita e Pensiero, 2018), è che i socialintensificano fino al parossismo una predisposizione o affordance che è propria della TV e già della parola scritta, benché in quest’ultimo caso essa sia sviluppata in misura minore.
Frye, come riporta Postman (p. 27), sostiene che «la parola scritta è molto più potente che non il semplice ricordare: essa ricrea il passato nel presente, e ci dà, non solo la cosa ricordata, ma l’intensità eccitante di un’allucinazione» (The Great Code: The Bible and Literature, Academic Press, 1981, p. 227).
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Persistenze e metamorfosi della questione ebraica
Una rilettura di Abraham Léon
di Il Lato Cattivo
«Ma in realtà la vita ci mostra a ogni passo, nella natura e nella società,
che vestigia del passato sopravvivono nel presente».
(Lenin, Stato e rivoluzione)
La presente nota mira a presentare e attualizzare il contenuto dell'opera di Abraham Léon, La concezione materialistica della questione ebraica (scritta nel 1942, pubblicata postuma nel 1946, e meglio nota in Italia con il titolo: Il marxismo e la questione ebraica1), in un'ottica non slegata dalla congiuntura internazionale attuale e, più specificatamente, dai rivolgimenti che hanno caratterizzato il contesto mediorientale dopo il 7 ottobre 2023. L'interrogativo soggiacente a cui ci si propone non già di rispondere, ma di fornire un impianto concettuale, concerne nientemeno che la perennità dello Stato di Israele. Con gli occhi incollati alle immagini dei massacri e delle vessazioni inflitte ai palestinesi, rischiamo di non vedere il dispiegarsi di macro-processi al tempo stesso più sotterranei e più potenti. Il contrattacco iraniano della notte fra il 13 e il 14 aprile 2024 in risposta al bombardamento del consolato d'Iran a Damasco, non è che il più eclatante, e senz'altro non l'ultimo, di una serie di episodi recenti che stanno via via svelando le numerose fragilità di Israele – fragilità che non sfuggono ai commentatori delle più varie estrazioni, israeliani compresi. Alcuni titoli apparsi recentemente, provenienti da voci anche eminenti, sono perlomeno sintomatici in questo senso: Israel is losing this war2; Israel's Self-Destruction3; The Collapse of Zionism4; Hamas is winning5. Nonostante la loro diversità, queste analisi trovano un terreno d'incontro nel constatare che la supremazia su cui Israele può far leva, sia in termini di alleanze internazionali che di autonoma force de frappe, non basta a dissolvere il grande punto interrogativo che ha cominciato ad aleggiare sul suo futuro.
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Che cos’è la transizione al socialismo?
L’esperienza cinese secondo Deng-yuan Hsu e Pao-yu Ching
di Collettivo Le Gauche
1. Introduzione
“Rethinking Socialism: What is Socialist Transition?” di Deng-yuan Hsu e Pao-yu Ching è un pamphlet che racchiude un articolo scritto alla fine degli anni ‘90 sulla transizione al socialismo. Con le due rivoluzioni più importanti del XX secolo, quella russa e quella cinese, centinaia di milioni di persone accettarono di intraprendere la strada del socialismo con le sue molti sfide, lasciandoci, dopo la loro sconfitta, concetto che Ching preferisce a quello di fallimento, in eredità delle lezioni da apprendere per il futuro. Queste due rivoluzioni ci hanno mostrato come sia possibile costruire una società senza sfruttamento e come la borghesia potesse strappare il potere politico con la forza al proletariato e interrompere bruscamente lo sviluppo di rapporti di produzione socialisti. Questo modo di inquadrare il problema è possibile a partire dall’individuazione della contraddizione principale, ovvero focalizzarsi sulle cause della sconfitta e non del suo fallimento che porta, ad esempio, a indagare gli elementi capitalistici durante la transizione del socialismo in Cina.
2. La transizione al socialismo
La transizione al socialismo è il periodo di tempo in cui una società non comunista si trasforma in una società comunista. Non esiste un percorso predeterminato da applicare durante la transizione socialista con cui giudicare la bontà della transizione socialista. L’analisi deve essere fatta sulla sua direzione generale e un singolo evento non può determinare se la transizione sarà verso il comunismo o il capitalismo.
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Per il 60° anniversario della morte di Palmiro Togliatti
di Eros Barone
«Ogni cosa si trasforma. Ogni cosa si trasforma secondo le sue proprie leggi. Anche noi siamo oggetti e soggetti delle trasformazioni, ne siamo parte passiva e parte attiva, consapevole, con nostri obiettivi e piani.
Ogni cosa si trasforma in un’altra e questa in un’altra ancora e poi ancora, costituendo gli anelli di una catena. Se prendiamo un anello della catena, esso è attaccato al primo, ma solo attraverso gli anelli intermedi. Se vogliamo comprendere il legame che unisce una cosa a un’altra da cui proviene, se vogliamo comprendere come sta trasformandosi una cosa, dobbiamo ricostruire nella nostra mente le fasi intermedie attraverso le quali la prima si è trasformata in quella che stiamo esaminando.
Ogni cosa diviene secondo le sue leggi e tramite le circostanze esterne e accidentali che incontra. Se vogliamo comprendere come mai una cosa si è trasformata proprio in quest’altra e non in qualcosa di diverso, dobbiamo non solo conoscere le leggi proprie di quella trasformazione, ma anche ricostruire nella nostra mente le circostanze esterne e accidentali che hanno determinato passo dopo passo quel percorso.
Si dice che una cosa è divenuta un’altra attraverso la mediazione degli anelli intermedi e delle circostanze esterne. La mediazione è un aspetto universale della trasformazione.
Chi non riconosce la mediazione, in campo politico cade nell’opportunismo di sinistra o di destra. La lotta contro gli opportunisti di sinistra (gli estremisti di sinistra) è una lotta interna alle nostre fila. Anche la lotta contro gli opportunisti di destra è una lotta interna alle nostre fila, ma solo fino ad un certo punto. Dove sta la differenza tra i due fronti?
Gli opportunisti di sinistra negano le mediazioni (le fasi, i passaggi, i processi) attraverso cui si svolge ogni trasformazione reale. Essi politicamente sono ostili all’imperialismo e alla borghesia, ma in campo culturale, dell’orientamento e della concezione del mondo si limitano a negare le posizioni della borghesia, non le superano, le conservano rovesciate, vedono il mondo come la borghesia solo dal lato opposto.
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Aporie dell'utopia comunitaria
Il Marx di Preve fra Hegel e Aristotele
di Carlo Formenti
Premessa
Il secondo volume delle Opere (Inschibbolleth Editore, a cura di Alessandro Monchietto) di Costanzo Preve raccoglie due testi, il primo postumo e parzialmente incompleto (Manifesto filosofico del comunismo comunitario), il secondo (Elogio del comunitarismo) originariamente editato da Controcorrente (2006). Il tutto è preceduto da una Introduzione ("Comunità e comunismo nell’ultimo Preve") di Mimmo Porcaro, alla quale rinvio per tutti gli argomenti che non riuscirò a trattare nel presente articolo, dato che i problemi sollevati da questi due scritti sono numerosi e complessi, tanto da non poter essere esaurientemente affrontati in un articolo che deve rispettare gli standard di lunghezza che mi sono autoimposto per i materiali di questa pagina.
Gli obiettivi che Preve si è posto in questi lavori sono a dir poco ambiziosi: si tratta, fra le altre cose, di abbozzare un bilancio storico-critico della teoria marxista e dei tentativi, condotti dai partiti comunisti novecenteschi, di metterne in atto i principi per realizzare formazioni sociali postcapitaliste; di riscattare dalla damnatio memoriae questi grandiosi esperimenti, evitando di buttare il bambino con l'acqua sporca, evitando, cioè, di liquidare quello che Preve - pur considerando la velleità di restaurare il “vero” pensiero di Marx impresa al tempo stesso vana e impossibile (1) - considera il progetto marxiano originario, vale a dire il sogno di realizzare non uno stato socialista, bensì una comunità di individui liberi e uguali; di contestare il dogma che inchioda Marx al ruolo di filosofo “materialista”, di colui che ha “rimesso con i piedi per terra” la dialettica di Hegel, e di descriverlo invece come il punto più alto di una linea di pensiero che si dipana da Aristotele a Hegel per culminare appunto con il maestro di Treviri;
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