L’Antropocene e l’insostenibilità del capitalismo
di Collettivo Legauche
1. Introduzione
Ian Angus nel libro Anthropocene. Capitalismo fossile e crisi del sistema Terra, tradotto in italiano da Alessandro Cocuzza, Vincenzo Riccio e Giuseppe Sottile, tenta di far dialogare le innovazioni delle Scienze della Terra che indagano la nuova fase in cui è entrato il sistema terrestre, l’Antropocene, e le teorie ecosocialiste della frattura metabolica prodotta dal capitalismo che porta a crisi ecologiche. L’autore offre agli scienziati del sistema terrestre l’analisi socio-economica del marxismo ecologico e a quest’ultimi la centralità del concetto di Antropocene nel XXI secolo. Come fecero Marx ed Engels con L’origine delle specie di Darwin, dobbiamo gettare ponti tra scienze naturali e sociali, integrando le scoperte degli scienziati nella teoria marxista.
2. L’Antropocene secondo gli scienziati
A portare alla ribalta il termine Antropocene fu il chimico atmosferico Paul J. Crutzen nel 2000 a partire dalla constatazione che le attività umane erano diventate talmente rilevanti da interferire con i processi naturali. Il risultato è l’abbandono della sua naturale epoca geologica, l’Olocene, con le attività umane capaci di rivaleggiare con le forze della natura, spingendo il pianeta verso una terra incognita, con molto più caldo e molta meno vegetazione e biodiversità. Ciò è possibile perché la Terra è un sistema planetario integrato dove la biosfera si comporta come una componente essenziale e attiva e le attività umane influenzano la Terra su scala globale in maniera sempre più rapida, interattiva e complessa finendo per alterare il sistema terrestre, minacciando processi ed elementi biotici e abiotici da cui dipende lo stesso uomo.



Bisogni, consumo, surplus
Non dovremmo più considerare 





Per alcuni viviamo in una fase storica radicalmente nuova – cosa di cui era fortemente convinto, come si vedrà, l’autorevole Zbigniew Brzezinski - che ha scavato un abisso con la fase storica precedente, caratterizzata dalla presenza consistente nei paesi occidentali dello Stato del benessere, dalla crescita economica, dalla forte presenza della grande industria anche di Stato, dall’esistenza di ben radicate organizzazioni di massa (partiti e sindacati).
Giovanni Arrighi non è un pensatore sufficientemente valorizzato nel panorama italiano e sono pochi i luoghi che dedicano un qualche spazio a riflessioni su questo storico ed economista. Eppure Arrighi è importante nel dibattito internazionale a proposito del capitalismo e della sua storia; esempio ne sia il suo ruolo nella discussione seguita alla pubblicazione di Impero di Toni Negri e Michael Hardt. Dai post-operaisti Arrighi era considerato, pur nel forte disaccordo, un interlocutore di prim’ordine.
Macchine desideranti


Il dizionario politico è un genere che l’editoria specializzata in Scienze Sociali ha proposto con una certa frequenza negli ultimi decenni, un fenomeno che può essere interpretato anche come reazione all’horror vacui generato dalla progressiva rimozione della politica - intesa come prassi orientata a cambiare lo stato presente delle cose - dall’orizzonte della realtà postmoderna, a mano a mano che viene surclassata da altre sfere dell’agire umano, a partire all’economia. Si tratta di un genere che non amo particolarmente, perché praticato perlopiù da accademici – filosofi, sociologi e politologi – che tendono a neutralizzare il carattere antagonistico del politico, “inscatolandolo” in lemmi infarciti di categorie astratte e trans-storiche (se non anti-storiche).
La recente edizione critica del breve testo di Walter Benjamin intitolato Die Aufgabe des Übersetzers, ovvero 
Secondo Marx ed Engels il socialismo – come fase intermedia tra capitalismo e comunismo – può affermarsi soltanto in virtù di un alto sviluppo economico del capitalismo che crei la base materiale per la sua instaurazione. Senza questo sviluppo, non si potrebbe procedere all’abbattimento della proprietà privata dei mezzi di produzione e alla affermazione della proprietà collettiva. Oggi siamo arrivati a una crescita immane della produzione capitalistica, grazie allo sviluppo esponenziale della scienza e della tecnologia. Nonostante ciò il movimento socialista, nei paesi dell’Occidente capitalista e avanzato, non è mai stato così debole e arretrato. Sorge a questo punto una domanda che non può essere elusa: perché, a fronte del prodursi delle condizioni oggettive della rivoluzione, la coscienza e l’organizzazione delle classi lavoratrici che dovrebbe guidarla è così poco diffusa? L’altra domanda che, giocoforza, dovremmo porci è la seguente: oggi nelle condizioni date che cosa possiamo fare?
L’autorevole interprete di Karl Marx e studioso marxista Roberto Fineschi ha scritto il 24 maggio su Facebook
Quest’anno ricorrono quarant’anni dalla pubblicazione di uno degli articoli di maggior successo di Norberto Bobbio: Il futuro della democrazia, un lavoro importante dal momento che «alcune grandi questioni del nostro tempo possono utilmente essere inquadrate e affrontate a partire dal pensiero di Bobbio» nonostante egli abbia «sempre avuto verso il futuro un atteggiamento di preoccupata diffidenza» (Bovero 2011, Introduzione). Il filosofo torinese in questo che è «il suo libro forse più famoso» (Bovero 2011, Introduzione) approfondisce l’analisi degli esiti strutturali della teoria democratica, mettendo alla prova i fatti, cioè valutando se nella pratica la democrazia abbia o meno rispettato i suoi presupposti teorici. Egli individua quindi sei promesse non mantenute, che permettono di riflettere efficacemente «sul divario tra gli ideali democratici e la democrazia reale» (Bobbio 1995, 8) vale a dire quel divario tra la metafisica astratta dove abitano i nostri concetti, e la materia grezza di cui è fatto il mondo.

































