L’invenzione della proprietà privata
di Leo Essen
La volontà libera – sapersi nell’assoluto – può volere solo in quanto partecipa di quella verità, è sussunta sotto di essa, e ne consegue. L’eticità è lo spirito divino in quanto dimorante nell’autocoscienza, nella sua presenza effettiva. Se la volontà è pensata come il contenuto della libertà, e si parla pertanto di volontà libera, questa volontà non può essere considerata come esterna, come proveniente da fuori. Se così fosse, e il volere venisse dall’esterno, la volontà non potrebbe pensarsi come volontà libera, ma sempre e soltanto dipendente da questo fuori. Dunque, tra il contenuto e la forma deve esserci comunione, identità – auto-coscienza. Questa comunione, dice Hegel (Enciclopedia, Spirito oggettivo §552), si riscontra nel seno stesso della religione cristiana, nella quale non è l’elemento naturale a costituire il contenuto di Dio, o a entrare in tale contenuto come suo momento: il contenuto è Dio, saputo in spirito e verità.
Nella religione cristiana è Dio che si fa uomo. È Dio stesso che si conosce come uomo – o è l’uomo che, in Gesù, si conosce come Dio stesso, che si fa Universale Concreto (concreto, cioè cresciuto insieme, unito nello stesso). Il Finito – l’uomo empirico – è unito (è la stessa identica cosa) dell’Infinito – l’uomo logico. In Gesù la libertà – ovvero l’essere sciolto da ogni dipendenza, l’assoluto, l’infinito, la sovranità – proviene da sé stesso, perché è egli stesso a essere Dio.
Non è un oggetto esterno, un feticcio, un’immagine, un totem a dettare la legge, a dire cosa è vero e giusto. La verità sgorga direttamente dal cuore – la verità è la verità del cuore, e al centro del cuore c’è Dio.
L’uomo può ora specchiarsi in Gesù, in quanto Gesù è Dio che si fa uomo, vive, si fa esperienza. Ognuno può esperire l’assoluto, specchiarsi in Gesù e apprendere di essere anche lui figlio di Dio, di avere un cuore e di avere al centro del cuore questa verità, la verità di essere, come tutti gli altri uomini, figlio di Dio. Non ha bisogno di ricevere dal di fuori, dal padre, dalla natura, delle condizioni economiche e sociali esterne, dal feudatario, dalla corporazione, dalla famiglia, dal re, dal principe, eccetera; non ha bisogno che un potere esterno gli dica chi è veramente e quale è il suo rapporto rispetto agli altri, in quale struttura è collocato e può agire.



È difficile parlare di un tema così divisivo e spiegare il perché del mio rifiuto di ə asterischi e compagnia cantante, senza per questo avere il timore di essere tacciato di poca inclusione e/o di intolleranza. Dopo le serie sul “caso del caso Moro” e delle avventure nella Gallipoli degli anni ’90, saltando volutamente di palo in frasca sento ormai il bisogno di affrontare il tema, nonostante sia trito e ritrito e più volte rigirato in mille salse. Spero comunque di contribuire alla discussione in maniera proficua.
Le scienze naturali non sono altro che edifici di concetti falsi. Offrono concetti elaborati per ragioni pratiche. Dove la pratica è ridotta alle questioni del mangiare, bere, vestire e abitare, dimenticando che l’uomo non vive di solo pane.
Nel paragrafo “Il proletariato come classe dirigente” Lukács ripercorre tutto il lavoro compiuto da Lenin all’interno del movimento rivoluzionario dell’epoca per far emergere il proletariato come classe dirigente dentro la rivoluzione russa. Sulla scia di quanto argomentato in precedenza, l’attualità della rivoluzione, Lenin combatte una battaglia teorica, politica e organizzativa per costruire l’autonomia politica del proletariato in quanto classe dirigente del processo rivoluzionario. È bene ricordare che ciò non avviene nel corso delle giornate insurrezionali del 1905 e, tanto meno, dopo il febbraio del ’17, ma piuttosto in anni apparentemente cupi come quelli che caratterizzano la fine dell’ottocento e il primo novecento russo. Anni in cui, per un verso, si osserva lo sviluppo industriale e agrario del capitalismo all’interno del sistema feudale russo, dall’altro la crisi politica del populismo e l’affermarsi di un movimento borghese che, nel contesto, userà il marxismo come ideologia del capitalismo. In contemporanea a ciò si assiste alla nascita delle prime forme di organizzazione operaia.
Con l'avvento del globalismo neoliberista, la democrazia, come mezzo per l'intervento politico egualitario nell'economia, è caduta in discredito. Su entrambe le sponde dell'Atlantico, sono state le élite ad aprire la strada a questo processo. Vedevano la democrazia, tecnocraticamente, come "poco complessa" a fronte della "accresciuta complessità" del mondo; propensa com'era a sovraccaricare lo Stato e l'economia, oltre a essere politicamente corrotta a causa della sua riluttanza a insegnare ai cittadini "le leggi dell'economia". Secondo tale linea di pensiero, la crescita non proviene dalla redistribuzione dall'alto verso il basso: da incentivi più forti al lavoro, ma dal basso verso l'alto: in quella che è l'estremità inferiore della distribuzione del reddito, attraverso l'abolizione dei salari minimi e la riduzione delle prestazioni di sicurezza sociale; e nella fascia più alta, per contro, attraverso migliori opportunità di profitto e di guadagno, sostenute da una minore tassazione. Il processo che sottendeva a tutto questo era una transizione verso un nuovo modello di crescita, hayekiano, destinato a sostituire il suo predecessore keynesiano, nell'ambito della rivoluzione neoliberista. Come avviene per ogni dottrina economica, queste idee devono essere intese come rappresentazioni camuffate di vincoli e opportunità politiche derivanti da una distribuzione storicamente contingente del potere, travestite da manifestazioni di leggi "naturali". La differenza è che nel mondo hayekiano la democrazia non appare più come una forza produttiva, ma come una macina al collo del progresso economico. Per questo motivo, l'attività distributiva spontanea del mercato deve essere protetta dall'interferenza democratica di ogni tipo di muraglia cinese o, meglio ancora, sostituendo la democrazia con la "governance globale". La disintegrazione del modello standard del capitalismo democratico nel bel mezzo dell'avanzare della globalizzazione, è stata molto analizzata. Nel corso di circa due decenni, dalla scomparsa del comunismo sovietico, il neoliberismo ha fatto un ritorno sorprendente: Hayek, a lungo ridicolizzato e deriso in quanto leader di un culto settario, ha eclissato figure importanti degli affari mondiali, come Keynes e Lenin.
1. La vecchia critica della statualità propria di un certo pensiero marxiano e radical-libertario del Novecento non ha in gran parte più senso nell’evo della globalizzazione dei grandi oligopoli del capitale transnazionale in assetto di guerra permanente.
1. Una carenza della cultura politica italiana 
Se decliniamo, infatti, il tema della alienazione dentro l’ambito coloniale avremo la netta sensazione di come le argomentazioni lukácsiane abbiano ben poco di datato, e ancor meno di erudito, ma colgano esattamente la questione essenziale di un’epoca. Ciò apre qualcosa di più che un semplice ponte tra Lukács e Fanon poiché, tra i due, le affinità non sembrano essere secondarie. Il fatto che, nei nostri mondi, questa affinità non sia stata colta mostra, più che una disattenzione, la diffidenza che la stessa intellettualità radicale, con un occhio però sempre attento ai dispositivi posti in campo dall’ortodossia, abbia continuato a nutrire verso tutto ciò che continuava a essere in odor di eresia e, aspetto forse ancora più significativo, verso quella teoria politica, come nel caso di Fanon, che nel marxismo ortodosso individuava un non secondario tratto colonialista. Mentre l’oggettivismo imperante dentro il mondo comunista non poteva che essere un elemento di rafforzamento dello status quo, tanto a ovest come a est, l’umanesimo marxiano di Lukács apriva verso quel mondo colonizzato il quale, proprio nei suoi aspetti più radicali e rivoluzionari, si appropriava interamente della sovversione marxiana giovanile. Va da sé che, in un simile contesto, l’attualità della rivoluzione non può che essere l’attualità di una prassi. La riscoperta di Lukács coincide con la riscoperta della attualità della rivoluzione e di quel passaggio dalla preistoria alla storia che sempre fa da sfondo all’insorgenza dei subalterni. In fondo quel tratto escatologico che aveva contrassegnato la rivista eretica “Kommunismus” è proprio di tutte le ere rivoluzionarie, il riscatto è sempre alla fonte della lotta di classe. Ma torniamo al nostro pamphlet.
La tragedia a cui sembra essersi consegnato il Politico negli stati europei negli ultimi trent’anni – tragedia egualmente composta tanto di impotenza verso i problemi strutturali posti dalla vittoria temporanea della globalizzazione, quanto afasia per l’incapacità di tematizzare, e persino di nominare, i suddetti problemi – sembra avere origini ben precedenti al crollo del muro di Berlino e l’affermazione, apparentemente assoluta, di un capitalismo anomico e di un individualismo sfrenato, entro cui sembra confinata ogni risposta possibile e ogni caduco tentativo di insorgenza. In effetti, il nichilismo del postmoderno sembra trovare luogo già in alcune figure teoriche della modernità. È quindi impreteribile urgenza capire che l’origine di questi mali è da identificare negli strumenti della cattiva metafisica. E, senza che questo sia un momento speculativo separato o consecutivo, pensare e nominare quelle nuove categorie che costituiranno non solo lo spazio teorico, ma anche, e soprattutto, lo spazio di agibilità politica per la prassi del XXI secolo.
Dopo essersi dilaniata in lotte intestine e altre follie durante la prima metà del XX secolo, l’Europa, che pure, nella seconda metà dello stesso secolo, sembrava dare segni di ripresa e di risveglio, appare con tutta evidenza essere diventata completamente demente in questa prima metà del XXI secolo.

Ragionare di teoria politica in Italia incontra un primo grande scoglio: non siamo una nazione sovrana, per cui non esiste un reale dibattito politico su quelle che dovrebbero essere le scelte nazionali, poiché qualsiasi argomentazione razionale in merito viene annullata dalla dipendenza italiana dagli Usa, dall'Unione Europea, e dai «mercati». Ciò vale soprattutto per la politica estera, ma non siamo sovrani neanche in scelte che in teoria non dovrebbero con essa interferire, come le politiche sull'immigrazione, poiché l'oligarchia occidentale dominante ha deciso che dobbiamo importare massicciamente «risorse umane», per il calo della natalità, per avere manodopera più a buon mercato rispetto a quella autoctona «viziata», e magari un domani, per disporre di carne da cannone da impiegare nei numerosi teatri di guerra che si prevedono nel futuro prossimo. E non importa se, in una nazione come l'Italia, poco coesa ed economicamente in crisi, un'immigrazione massiccia, concentrata nel tempo, rischia di provocare il caos interno. Ragion per cui anche le forze politiche che hanno sollevato demagogicamente la questione finiscono per adottare le stesse scelte di quelle pro-immigrazione. A parte la demenzialità di essere pro o contro l'immigrazione a priori, per partito preso, bisognerebbe invece ragionare su immigrazione in che misura, per quali fini, in quali condizioni, con quali conseguenze, ma non voglio dilungarmi ciò che ci interessa è la mancanza di sovranità dell'Italia che rende la democrazia una farsa.
1. In un articolo pubblicato su Substack, Glenn Diesen, un pungente professore norvegese (dell’Università Sud-Orientale del suo paese) e acuto esponente della scuola realista delle Relazioni Internazionali – cui appartiene anche il più noto John Mearsheimer dell’Università di Chicago – sfida con argomentato coraggio la narrativa convenzionale occidentale, manifestamente costruita dai sistemi di comunicazione di massa – che l’operazione militare speciale decisa da Mosca il 24 febbraio 2024 sia stata una derivata non-provocata dell’intento russo di riproiettarsi sul quadrante esteuropeo un tempo occupato/presidiato dall’Unione Sovietica.
Per poter ricostruire la possibilità di un progetto comune è necessario decodificare in profondità le cause della decadenza occidentale, e in particolare europea, che sembra inarrestabile. Non si tratta di mettere in atto una giaculatoria dagli esiti infausti, ma di liberarsi dalle sovrastrutture pregiudiziali che impediscono di cogliere la “verità storica” e di pensarla. Emmanuel Todd, bisogna riconoscerlo, ha avuto il coraggio etico nella sua analisi sulla sconfitta dell’Occidente di individuare una delle macro cause all’origine della disintegrazione europea. Ogni civiltà è viva e creante, se ha una identità dialettica. L’identità è il collante valoriale che consente di organizzarsi intorno ad assi assiologici e politici. L’identità non è un monolite, ma è tale se contempla al suo interno opposizioni, resistenze e alternative con le quali ci si raffronta. L’identità dev’essere sottoposta a una continua revisione razionale nello spazio pubblico della politica. L’Occidente ha raso al suolo, e non solo in senso metaforico, ogni identità e ogni modello etico. La liberazione da ogni “da”, è oggi nichilismo realizzato. Solo il mercato con le sue oscillazioni domina; la legge del più forte ha instaurato il più feroce degli individualismi capace di attuare solo i personali interessi economici immediati. Tale logica trasversale a ogni classe sociale rende l’Occidente incapace di comprendere le identità e ciò lo espone al disastro e alla sconfitta. Le azioni militari non valutano la variabile identità, ma si limitano a misurare i soli rapporti di forza quantitativi, per cui la sconfitta è sempre dietro l’angolo. L’identità dona forza plastica e dinamicità; l’Occidente mutilo dell’identità, ne ha un vero terrore-orrore e finisce per calcolare le contrapposizioni secondo paradigmi militari e di forza. Si dilegua, così, la componente motivazionale e spirituale che rende un sistema attivo.
§1. Il marxismo italiano tra forma e teologia politica

































