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consecutiorerum

Alessandro Mazzone, per una teoria del conflitto

Recensione di Tommaso Redolfi Riva & Sebastiano Taccola

Alessandro Mazzone: Per una teoria del conflitto. Scritti 1999-2012, a cura di R. Fineschi, La città del sole, 2022

IMG 7576 scaledIl pensiero richiede i suoi tempi: solo la riflessione paziente, elaborata e critica può permettere di cogliere appieno l’articolazione profonda delle mediazioni che informano la realtà. È questa una delle lezioni di metodo (ma il metodo non è già di per sé strutturazione di un qualche contenuto?) lasciata da Alessandro Mazzone (1932-2012). Filosofo marxista formatosi sotto la guida di figure come Banfi, Geymonat e della Volpe, Mazzone ha insegnato per molti anni a Santiago de Cuba, Messina, Berlino e, soprat­tutto, Siena. E proprio a Siena, per iniziativa di un gruppo di ex-studenti, è recentemente nata l’associazione Laboratorio Critico, che, sotto la gui­da di Roberto Fineschi, si propone di ricordare e sviluppare l’importante contributo teorico di Mazzone. Il primo volume pubblicato da quest’as­sociazione (in collaborazione con la Rete dei Comunisti) è Per una teoria del conflitto, una raccolta di scritti risalenti all’ultimo decennio di vita di Mazzone.

Mazzone ha pubblicato relativamente poco, anzi pochissimo se faccia­mo un confronto con gli standard attuali della pubblicistica accademi­ca. Eppure, anche solo scorrendo la bibliografia dei suoi scritti raccolta in questo volume, ci troviamo di fronte a un intellettuale che ha analizzato autori e temi cruciali della modernità filosofica, o che ha tradotto ope­re assai importanti nel dibattito internazionale su questioni di economia, storia, filosofia (come, ad esempio, Problemi di storia del capitalismo di Maurice Dobb, Lezioni di sociologia di Adorno e Horkheimer, molti saggi di Lowith). In questo caso, dunque, la lentezza della scrittura è segno di grande modestia e onestà intellettuale, che trova il proprio precipitato pro­prio nella incredibile densità che caratterizza gli scritti di Mazzone, tutti definiti da un’architettonica puntuale e rigorosa

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lanatra di vaucan

La luce dell’Illuminismo

La simbolica della modernità e l’eliminazione della notte

di Robert Kurz

tramonto delloccidente 2048x1536Proponiamo qui un breve quanto intenso scritto di Robert Kurz, dal titolo La luce dell’illuminismo. Questo testo funge, per l’occasione, anche come sorta di “anticipazione” della prossima apparizione, per le edizioni Mimesis, del noto pamphlet Manifesto contro il lavoro del Gruppo Krisis, che viene ripubblicato a distanza di 20 anni dalla sua prima uscita in Italia. In questo libro, infatti, oltre al Manifesto vero e proprio, fanno da corollario altri testi, probabilmente altrettanto importanti, tra i quali La dittatura del tempo astratto, sempre di Robert Kurz, all’interno del quale si trova un capitoletto, anch’esso intitolato La luce dell’illuminismo, che riprende in modo sintetico proprio i temi di fondo presenti nell’articolo, più completo, che qui pubblichiamo.

Quest’ultimo risale al 2004 ed è inizialmente apparso sul numero 112 della rivista internazionale Archipel. È stato dapprima meritoriamente tradotto in italiano sul web, in modo forse un po’ sbrigativo e dalla versione francese, da qualcuno che non conosciamo ma che si firma con un simpatico nomignolo, Ario Libert. La versione che proponiamo adesso tiene conto di quella traduzione, ma rivista in base all’originale tedesco e si differenzia in più parti rispetto a quella (per esempio, Ario aveva lasciato il termine tedesco Aufklärung, come già nella traduzione francese, mentre noi, coerentemente con la tradizione delle traduzioni italiane dei testi kurziani, abbiamo deciso di riportarlo con un più netto “illuminismo”, così richiamando anche – come nelle intenzioni kurziane – un preciso momento storico, oltre che un determinato movimento di pensiero).

Questo breve testo può essere considerato come uno dei testi più “filosofici” di Robert Kurz, dove l’autore polemizza ancora una volta con il pensiero illuminista, in questo caso criticandone a fondo l’onnipervasiva metafisica della “luce”.

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consecutiorerum 

Contro l’idea di progresso

Raul Prebisch e la scuola dependentista latinoamericana

di Maria Turchetto*

2016031505352700ec53c4682d36f5c4359f4ae7bd7ba1Per due secoli buoni abbiamo pensato la temporalità e la storia attraverso l’idea di progresso. Forse siamo tuttora prigionieri di quest’idea, dura a mo­rire, diventata luogo comune e automatismo del pensare - anche perché è un’idea consolatoria. Ma mi piace datarla così, sull’arco di due secoli: par­tendo dalle prime formulazioni illuministe della metà del XVIII secolo per arrivare alle prime critiche profonde e sistematiche nell’ambito della teoria economica che si devono in gran parte alla scuola dependentista latinoame­ricana della metà del XX secolo. Certo, i precursori esistono sempre e farò in proposito qualche accenno.

 

  1. Le formulazioni illuministe

Quanto alle formulazioni illuministe, il pensiero corre subito a Condorcet e al suo Esquisse d’un tableau historique des progrès de l’esprit humain (1795), ma prima di lui l’idea è formulata già negli anni Cinquanta del secolo dagli économistes (la scuola di pensiero passata alla storia con il nome di “fisiocrazia), in particolare da Turgot. Per Turgot il progresso è la chiave di intelligibilità della storia:

I fenomeni della natura, assoggettati a leggi costanti, sono racchiusi in un cer­chio di rivoluzioni che sono sempre le stesse. Tutto rinasce, tutto perisce; e, in queste successive generazioni per cui i vegetali e gli animali si riproducono, il tempo non fa che rendere ad ogni istante l’immagine di ciò che ha fatto scomparire. Il succedersi degli uomini, al contrario, offre di secolo in secolo uno spettacolo mutevole. La ra­gione, le passioni, la libertà producono incessantemente nuovi eventi [...].

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pierluigifaganfacebook

Sistemi pensanti

di Pierluigi Fagan

351139557 214620344723476 343368159553849594 nCome testimonia la foto del settore cervello-mente (in senso letterale, psicologia o psicoanalisi o logica o altro attinente alle funzioni mentali stanno altrove) della mia biblioteca, sono anni che studio l’argomento. Pare ovvio che l’interesse per i prodotti della mente come, ad esempio, le immagini di mondo, chiami curiosità sugli organi che li producono. Vengo dalla lettura del saggio di uno tra i più noti neuroscienziati, S. Dehaene, francese, sulla coscienza [Coscienza e cervello, Cortina, 2014]. Il testo mi sollecita delle riflessioni.

Dovete sapere che sebbene tutte le cose importanti dell’essere propriamente umani provengano dal nostro cervello-mente, la scienza ha approcciato il tremendo argomento solo di molto recente. C’era un motivo tecnico ovvero che il cervello produce mente quando è vivo al pari del corpo di cui è parte. Ma un organo così complesso era impossibile da studiare in vivo, di solito la scienza biologica parte da dissezioni di cose morte. Solo negli ultimi decenni si sono prodotte tecnologie che riescono a farci sapere qualcosa del ciò che accade lì mentre funziona.

Ma c’era forse anche un motivo culturale aggiunto. Abbiamo prodotto talmente tanto pensato, a base di credenze di ogni tipo, tra cui alcune metafisiche rilevanti come la credenza dell’anima e della sua possibile eternità (l’eternità presuppone l’immaterialità, ovvio), che sembra noi si sia ritrosi ad andare a scoprire come funzionano le cose lì dove tutto questo origina.

Per dirne una, non c’è libro sul cervello-mente che non citi una o più volte Cartesio e la sua idea dualistica della cosa estesa (materia) e la cosa pensante (mente o anima), incluso il celebre “L’errore di Cartesio” influente best seller di A. Damasio.

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iltascabile

La metafora della diserzione

di Alessandro Lolli*

Una riflessione, a partire da Disertate di Franco “Bifo” Berardi, sulla tentazione di sottrarsi al dibattito pubblico

8 LOZAN32193 1Già nel 1978, Susan Sontag avvertiva dei rischi di usare la malattia come metafora. Concentrandosi sulle due malattie più metaforizzate dell’epoca, tubercolosi e cancro, Sontag spiegava che l’uso analogico di questi fenomeni non rendeva un buon servizio ai malati in carne e ossa e ci allontanava dalla comprensione dei fenomeni stessi. Ma non solo. A divenire meno comprensibili erano anche le situazioni che pretendevamo di descrivere per mezzo dell’analogia: il cancro metaforico si trasformava in un generico progressivo disfacimento del corpo sociale, perdendo molte delle sue caratteristiche specifiche.

Qualcosa del genere accade nell’ultimo libro di Franco “Bifo” Berardi sulla diserzione. Disertate, uscito nell’aprile del 2023 per i tipi di Time0, si apre con un imperativo alla seconda persona plurale che vorrei prendere sul serio, nonostante i numerosi inviti dell’autore a fare il contrario, a non starlo troppo a sentire perché non vuole convincere nessuno. Un po’ perché, se mi chiede di non ascoltarlo, come vuole il paradosso del mentitore scelgo di non ascoltarlo proprio mentre mi dice questa cosa, prendendo invece per buone le parti del suo discorso in cui esorta alla diserzione e la articola nell’arco di 260 pagine. Un po’ perché una coincidenza significativa mi ha spinto a considerare la diserzione un paradigma di lungo corso di una certa area politica, un paradigma magari sotterraneo ma in circolazione da almeno trent’anni e giunto forse a maturazione.

Insieme al nuovo saggio di Bifo, stavo leggendo un altro libro di recente uscita: Negli anni del nostro scontento, Diario della controrivoluzione, di Paolo Virno, pubblicato nel gennaio del 2022 da Deriveapprodi. Si tratta di una raccolta di articoli usciti su Il Manifesto tra il 1988 e il 1991, quando Virno era redattore della sezione cultura.

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resistenze1

John M. Keynes - una guida verso un vicolo cieco

di Tibor Zenker

Il 5 giugno 2023 ricorre il 140° compleanno dell'economista britannico John Maynard Keynes (1883-1946). La sua opera principale, "Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta" (1936) e il keynesianesimo da essa derivato hanno fortemente influenzato il capitalismo del XX secolo e l'antisocialismo nella politica economica - Riportiamo una riflessione di Tibor Zenker, leader del Partito del Lavoro dell'Austria (PdA), da lui scritta nel 2016 in occasione del 70° anniversario della morte di Keynes

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Nel quadro della macroeconomia borghese, l'opera di Keynes assume inizialmente una posizione di opposizione alle idee classiche e neoclassiche prevalenti nel primo quarto del XX secolo. Con esse, si attribuisce al "libero mercato" il merito di equilibrare domanda e offerta non solo nella produzione e nella vendita di beni, ma anche in termini di livello dei prezzi e soprattutto di disoccupazione. Si ipotizza quindi una tendenza alla piena occupazione. Keynes, invece, sosteneva l'idea di una tendenza all'equilibrio in presenza di sottoccupazione e attestava la teoria neoclassica come velleitaria e imprecisa quando affermava che "i postulati della teoria classica sono validi solo in un caso speciale, ma non in generale, perché la condizione che essa presuppone è solo un punto limite delle possibili situazioni di equilibrio "(1).

La disoccupazione involontaria, logicamente esclusa nel sistema neoclassico, è per Keynes il risultato di una mancanza di investimenti dovuta alle basse aspettative di profitto del capitale, per cui egli tiene conto anche di criteri decisionali soggettivi e psicologici oltre che oggettivi per quanto riguarda la disponibilità a investire. Keynes scrive: "Il rapporto tra il rendimento atteso di un bene capitale e il suo prezzo di fornitura o il suo costo di sostituzione, cioè il rapporto tra il rendimento atteso di un'ulteriore unità di quel tipo di capitale e i costi di produzione di quell'unità, ci fornisce l'efficienza marginale del capitale"(2).

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kamomodena

FOTTUTI! La formazione del rivoluzionario: Lenin e i bolscevichi

di Guido Carpi

la formazione del rivoluzionario1Non si fa la rivoluzione senza rivoluzionari e rivoluzionarie.

È la lezione, ancora oggi tutta da conquistare, dei bolscevichi, che con l’Ottobre sovietico incendiarono il Novecento. Lenin ha speso l’intera propria opera a formare questo tipo di nuovo militante politico. Ogni sua riga è rivolta ai militanti, anche quando essi erano ancora di là da venire. Ipocriti e professori, invece, li voleva fuori dai piedi.

È questo il Lenin di cui abbiamo voluto parlare, nel secondo incontro del ciclo MILITANTI: giovane e sovversivo, audace e sognatore, pieno di intelligenza e odio di parte, lucida rabbia e realismo rivoluzionario, dentro il proprio tempo ma contro di esso, con gli stessi problemi, errori e contraddizioni da affrontare dei militanti di oggi – tra guerra, sfruttamento, mancanza di un orizzonte di trasformazione e l’urgenza del “Che fare?”. Un Lenin quindi ancora vivo, perché non mummificato dalle tristi parrocchie (e spesso inquietanti sette) “marxiste-leniniste-trozkiste-maoiste-sinistre” e chi più ne ha più ne metta, che hanno finito per renderlo inoffensivo.

L’idea-prassi centrale di Volodja, il nucleo della sua forza, è infatti l’«attualità della rivoluzione», la sua declinazione e articolazione concreta in ogni passaggio, momento, sia tattico che strategico, della militanza comunista: dall’inchiesta in fabbrica all’insurrezione nelle strade, dalla stesura di un volantino alla guerra civile. Una rivoluzione che scoppia e vince in Russia non perché fossero mature le condizioni storiche ed economiche del suo capitalismo, ma perché lì era più forte la lotta di classe e l’organizzazione politica degli operai. La lezione leniniana ci dice insomma che c’è da cogliere l’occasione quando si presenta – non solo: l’occasione c’è da prepararla.

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between

L'Europa di Gramsci

di Luca Mozzachiodi

Lelio La Porta e Francesco Marola (eds.): L’Europa di Gramsci. Filosofia, letteratura, traducibilità - “Per Gramsci”, Roma, Bordeaux, 2022, 272 pp.

cover issue 214 en USIl volume L’Europa di Gramsci. Filosofia, letteratura e traducibilità, a cura di Lelio La Porta e Francesco Marola, è il primo volume della nuova serie della collana “Per Gramsci” della International Gramsci Society, che prosegue le sue pubblicazioni con l’editore Bordeaux, peraltro segnalatosi in questi anni per una robusta ripresa delle pubblicazioni di area marxista sia in campo politico che critico-letterario.

Quello degli studi gramsciani a livello mondiale (figurano del resto tra gli autori e autrici nomi di assoluto rilievo come Derek Boothman, Guido Liguori, Giuseppe Guida e Lelio La Porta) non è però il solo contesto in cui si inserisce questa raccolta. Esiste indubbiamente una filiazione diretta con un precedente volume di saggi ispirati al pensatore sardo: Il presente di Gramsci: letteratura e ideologia oggi, edito da Galaad nel 2018; ciò non solo perché nell’e­lenco degli autori ritroviamo, assieme al co-curatore Marola, Paolo Desogus, Lorenzo Mari, Mimmo Cangiano e Marco Gatto (ai contributi da parte dei due gruppi menzionati vanno aggiunti quelli di Pietro Maltese, Noemi Ghet­ti, Lavinia Mannelli e Fortunato Maria Cacciatore per comporre il ricco affre­sco di L’Europa di Gramsci), ma soprattutto perché del libro del 2018 il volume qui recensito fonda criticamente, arricchendole con varietà di riferimenti, una parte delle tesi allora date per presupposte. Se Il presente di Gramsci era nel suo intento un libro di posizionamento, non privo di qualche aspetto che lascia perplessità, inteso a riportare in auge uno sguardo di tipo estetico, critico e politico, questo è un volume scritto per saggiare e approfondire quei nessi politico-estetici e per radicare ulteriormente il pensiero gramsciano nel panorama critico contemporaneo.

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tempofertile

Carlo Formenti “Guerra e Rivoluzione”

di Alessandro Visalli

marxriveraSchema

Il libro di Carlo Formenti è diviso in due testi, la prima parte, “Le macerie dell’impero[1], introduce una profonda rilettura della tradizione marxista, in particolare guidata da una rilettura di autori come Costanzo Preve, Lukacs ed Ernst Bloch. Quindi ricostruisce sinteticamente quegli scenari di guerra di classe dall’alto che nel ventennio abbondante dagli anni Ottanta alla crisi finanziaria aperta (ma non chiusa) nel 2007-8 hanno profondamente ristrutturato il campo dei conflitti sociali in Occidente e nel mondo. Termina il secondo capitolo un bozzetto della ‘mobilitazione totale’ che chiude, per ora, il quindicennio della crisi di sistema degli anni Dieci con la rapida successione della mobilitazione pandemica, prima, e militare, poi. Il primo volume definisce, infine, i “nemici”: il liberalismo tutto, l’impero e le ‘sinistre de capitale’.

Il secondo volume, “Elogio dei socialismi imperfetti[2], parte con gli esempi (come il primo aveva chiuso con i ‘nemici’): la rivoluzione paziente cinese, il socialismo reale e la sua damnatio memoriae, il postneoliberalismo dell’America Latina. Nella seconda parte entra finalmente nel tema della costruzione di un partito di classe, muovendo dall’enorme problema di definire la composizione di questa e passando per una serrata discussione sui fenomeni morbosi del presente, il populismo e sovranismo, le tante facce della ‘libertà’.

Completano il testo una postfazione di Vladimiro Giacché, e alcune appendici affidate a Onofrio Romano (“Un’alternativa di civiltà”), Alessandro Somma (“Il mercato delle riforme. Come l’Europa è divenuta un dispositivo neoliberale irriformabile”), Alessandro Visalli (“Le teorie e la realtà della dipendenza. Una panoramica storica”).

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lantidiplomatico

“Il transumanesimo è erede dei progetti nazisti”

Giulia Bertotto intervista Paolo Ercolani

image 5be40f06a9e9bPaolo Ercolani insegna filosofia all’Università di Urbino. Fra i suoi ultimi saggi “The West Removed. Economics, Democracy, Freedom: A Counter-History of Our Civilization” (2016), “Contro le donne. Storia e critica del più antico pregiudizio” (2016), “Figli di un io minore. Dalla società aperta alla società ottusa” (2019), “Nietzsche l'iperborea. Il profeta della morte dell'uomo nell'epoca dell'intelligenza artificiale” (2022). Le sue riflessioni non restano “imbalsamate” nel mondo accademico, ma si calano nell'attualità per cercare di interpretare i cambiamenti della nostra società.

Ercolani si definisce portatore di “Un pensiero critico, rompipalle, contro”: proprio per questo lo abbiamo intervistato.

* * * *

Professore, parliamo di uno dei temi più complessi e destabilizzanti del nostro presente: L'intelligenza artificiale. Di recente lei ha scritto che questo potentissimo -e in fin dei conti sconosciuto mezzo- deve servire l’uomo, non distruggerlo: “La specie più evoluta comparsa su questo pianeta – rischia di estinguersi a causa di (...) un’intelligenza in grado di soppiantare quella umana”. Secondo il suo ultimo saggio “Nietzsche l'iperboreo” il filosofo che demolisce idoli con il martello è ancora tra noi e c'è il suo zampino se siamo passati dall'aspirazione alla vita eterna all'affidarla ad un dispositivo artificiale.

L'intelligenza artificiale, con la sua capacità di creare immagini fittizie e notizie totalmente false sembra realizzare quel concetto nietzschiano per cui “non esistono verità ma solo interpretazioni”.

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linterferenza

Esistono guerre “giuste”?

di Norberto Fragiacomo

346109413 190358737253133 6924456327154727611 nIspirato da recenti e buone letture torno su un tema che in un articolo di qualche mese fa (https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/24326-norberto-fragiacomo-la-difesa-e-sempre-legittima.html) avevo appena sfiorato senza debitamente approfondirlo: quello della guerra “giusta”. All’epoca mi soffermai, da un punto di vista sostanzialmente penalistico, sulla questione della difesa (contro un altro Stato) per chiedermi quando potesse dirsi legittima: oggi vorrei abbozzare un’indagine di carattere più generale per cercare di capire a quali condizioni la scelta estrema di usare le armi per risolvere una disputa (non solo) internazionale sia moralmente e giuridicamente accettabile.

Secondo il pacifismo più radicale la decisione di combattere sarebbe sempre condannabile: un paese aggredito da un altro dovrebbe subito arrendersi onde evitare inutili sofferenze al proprio popolo. Si tratta di una posizione meritevole di rispetto, perché applica l’insegnamento cristiano “porgi l’altra guancia”, ma che risulta inapplicabile in un mondo, quello reale plasmato dalla Storia, in cui le aggressioni sono eventi tutt’altro che eccezionali e manca un “supergoverno” in grado di rendere giustizia agli oppressi. Un popolo che rinunciasse a priori all’autodifesa farebbe meglio a non costituire un’entità statale e a sottomettersi liberamente al più minaccioso fra i propri vicini.

C’è poi la “provocazione” lanciata da Lenin alla vigilia della conferenza di Zimmerwald (che, come appureremo insieme, è tutt’altro che una boutade): l’unica guerra giusta è quella scatenata dagli oppressi contro i loro oppressori. Sappiamo che il grande rivoluzionario propose ai socialisti europei di adoperarsi in patria per trasformare il conflitto fra le nazioni capitaliste in un conflitto di classe “senza confini”: si tratta di un ottimo spunto per il prosieguo della nostra riflessione.

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pierluigifagan

Una civiltà in crisi

di Pierluigi Fagan

Riporto il testo di un intervento in due differenti post pubblicati sulla mia pagina fb dove ormai continuo il mio diario di ricerca che animò i primi anni di vita di questo blog, ultimamente, trascurato

romas fall2Rispetto al titolo dell’articolo, partiamo chiarendo prima il punto di vista del nostro discorso. Il nostro punto di vista è storico, osserviamo l’oggetto civiltà, quella occidentale nello specifico, dal punto di vista del corso storico. L’argomento è vasto e complesso e soffrirà della riduzione ad un paio di post.

Questa civiltà che si fa nascere coi Greci duemilasettecento anni fa, è stata per più dell’ottanta-per-cento del suo tempo, un sistema locale ed interno. Per il resto, dal XVI secolo in poi, a gli inizi del periodo che chiamiamo moderno, il sistema ha avuto un big bang inflattivo che si è esteso a livello planetario, non già assorbendo al suo interno spazio, popoli e natura, ma sottomettendoli e sfruttandoli. Va precisato che a noi qui non interessa proferire alcun giudizio morale, ci interessa solo l’analisi funzionale. In questi cinque secoli, la civiltà occidentale si è sovralimentata potendo alimentare il suo piccolo interno con un relativo dominio su un molto più grande esterno, ha potuto contare cioè su vaste e ricche condizioni di possibilità.

All’interno di questo frame temporale di cinque secoli, detto moderno, la civiltà occidentale è cambiata nel profondo. A livello di composizione, ha visto una migrazione interna del suo punto centrale che dal Mediterraneo greco e poi romano, è passato prima alla costa europea nordoccidentale, poi ha saltato la Manica ambientandosi in Inghilterra (poi Gran Bretagna, poi Regno Unito), poi ha saltato l’Atlantico ambientandosi nel Nord America. Si potrebbe anche dire che provenendo da una zona che per sua natura geografica è iperconnessa (Europa, Asia, Medio Oriente, Nord Africa), si sia progressivamente isolata prima continentalmente, poi insularmente, poi finendo addirittura in una terra al riparo di due vasti oceani.

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resistenze1

Marxismo e classe, parte 3

Analisi di classe o politica identitaria?

di Chris Nineham

Qui parte 1 e parte 2

Nel terzo articolo della serie dedicata alla classe, Chris Nineham spiega perché è necessaria un'analisi di classe per comprendere e combattere l'oppressione

1980 01 01 fiat workers 1Il marxismo concepisce la società come una totalità. Tenta di comprendere tutti gli aspetti del nostro mondo come interconnessi e plasmati dal sistema capitalista al cui interno tutti noi siamo nati. Dal momento che il capitalismo è guidato dall'incessante ricerca del profitto da parte di coloro che ci dominano, il marxismo pone la classe al centro della sua analisi. Per questa ragione, i marxisti vengono talvolta accusati di riduzionismo. Queste critiche, tuttavia, si fondano su un equivoco. Lungi dal sottovalutare le molteplici modalità in cui le persone sono oppresse nella società moderna, l'analisi di classe implica la comprensione delle specificità dell'oppressione e il tentativo di combattere ogni forma di discriminazione. Implica inoltre la capacità di integrare tutte queste specificità nel contesto complessivo della violenza e dello sfruttamento.

Per i marxisti la classe non è un'identità tra le tante. Anzi, nel contesto dell'enorme espansione dei beni di consumo, il fatto che la classe venisse considerata alla stregua di un'identità ha contribuito a oscurare le reali distinzioni di classe. I commentatori amano ripetere che la progressiva scomparsa di una caricaturale «vecchia classe operaia» in berretto di panno e cappotto ci avrebbe resi tutti quanti membri della classe media - oppure di nessuna classe. Il fatto che persone di ceto diverso indossino talvolta scarpe da ginnastica della stessa marca o utilizzino lo stesso tipo di cellulare ci viene additato come prova concreta del fatto che viviamo ormai in una società post-classista, in cui i modelli di consumo degli individui contano più della loro posizione nel mondo del lavoro.

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resistenze1

Marxismo e classe

di Chris Nineham

Parte 1: Perché non vogliono che parliamo di classe

s l1600Gli scioperi dell'estate scorsa in Gran Bretagna e l'annuncio da parte di Mick Lynch del RMT (il sindacato dei lavoratori ferroviari, navali e dei trasporti) che «La classe operaia è tornata» devono aver fatto correre un brivido lungo la schiena dell'establishment. Quest'ultimo sperava di aver seppellito definitivamente l'idea di una classe operaia combattiva. Uno dei grandi paradossi degli ultimi quarant'anni è che proprio mentre la società è diventata più diseguale di quanto lo sia stata da un secolo a questa parte, la classe è stata esclusa dal dibattito.

Questo è un risultato per il quale la classe dirigente britannica ha lavorato molto sodo sin dall'inizio del progetto Thatcher. Alfred Sherman, importante consulente dell'allora leader del Tories Margaret Thatcher, tenne una serie di lezioni nel corso degli anni Settanta con l'intento di dimostrare che la classe era «un termine marxista che è privo di significato in qualunque contesto non marxista». La Thatcher fece eco in seguito a queste affermazioni dichiarando che la classe era «un concetto comunista». E Keith Joseph, tra i più intimi confidenti della Thatcher, riteneva che il loro progetto fosse la creazione di una società in cui sarebbe stato possibile affermare «Oggi siamo tutti borghesi».1

Questi temi sono stati ripresi con entusiasmo dall'intero establishment. Nelle università i dipartimenti di studio delle relazioni industriali hanno chiuso i battenti, mentre i business studies sono fioriti. Ormai da molto tempo i giornali hanno licenziato i loro corrispondenti sindacali e si concentrano sulle quotazioni di borsa invece che sulle statistiche sugli scioperi. Ignorando le proprie radici all'interno della classe operaia, ovunque i partiti socialdemocratici hanno abbandonato ogni retorica di classe.

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SR

Storia e democrazia: alcuni nodi cruciali

di Luca Benedini

Spunti vitali per il presente e per il futuro a partire dai complessi rapporti tra antichità comunitaria e patriarcato, tra il democratico “socialismo scientifico” marx-engelsiano e i “marxismi” spessissimo fasulli e autoritari, tra l’attuale società ipercomplessa e lo sguardo di don Milani e del pensiero olistico, con alcune osservazioni di fondo sull’attuale drammatica crisi della “sinistra” e sulle vicende storiche e politico-culturali della filosofia dialettica

cop Quale democrazia Dorso 143 B page 0001I

La tensione storica tra democrazia e società patriarcale

In occasione della traduzione italiana di un’opera di Robert Eisler redatta nell’originale inglese a metà ’900 (Uomo diventa lupo, pubblicata da Adelphi nel 2019), Michelangelo Cianciosi sintetizzava nella rivista Il Senso della Repubblica dell’agosto 2020 una serie di considerazioni storico-antropologiche presentate appunto in quel testo dall’autore austriaco: in particolare, il fatto che sin dalla preistoria umana si trovano ampie ed ineludibili tracce sia di popolazioni pacifiche ed evidentemente ricche di spirito collaborativo sia di popolazioni violente e predatrici. In tal modo – concludeva Cianciosi – «Eisler ci pone in maniera quasi brutale nudi di fronte alla nostra libertà: far parte di una società di competizione spietata e di sopraffazione o costruirne una di rapporti armonici e pacifici è una scelta a portata dell’essere umano, non un destino» [1].

In pratica, quegli apporti di Robert Eisler riformulavano su altri piani osservazioni storiche precedenti come quelle esposte da Lewis Henry Morgan e da Friedrich Engels nella seconda metà dell’Ottocento e, a loro volta, sono stati approfonditi in seguito in varie direzioni soprattutto da autrici come Marija Gimbutas e Riane Eisler e più recentemente da David Reich [2]. Il fulcro della questione sta nel fatto che a partire dalla seconda metà del ’900 si sono moltiplicate le prove archeologiche (e indirettamente paleogenetiche) che indicano in un’ampia parte del continente eurasiatico l’antica presenza – fino solitamente intorno ai 5 millenni fa – di società pacifiche, solidali, non sessiste e non pesantemente classiste.