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Il capitalismo sotto la tenda a ossigeno
di Jean Paul Fitoussi
Il capitalismo sotto la «tenda a ossigeno». L’espressione è di Joseph Schumpeter, e sta a designare l’economia mista, le cui condizioni a suo parere non potevano che essere flebili. Fu contro quest’anomia che la cosiddetta rivoluzione conservatrice diede battaglia, alla svolta degli anni 1970-1980. A un dato momento (1984) c’è stato persino chi ha esclamato: «Viva la crisi!». Era«soltanto» l’insorgenza, in tempi di pace, di una disoccupazione di massa; una pura e semplice crisi occupazionale! Per parte mia, non sono disposto ad associarmi agli entusiasti della crisi finanziaria, precisamente in ragione dei suoi potenziali effetti sull’occupazione. Se ho fatto riferimento a quel periodo è perché il 1984 è stato l’anno della conversione (coincidenza o conseguenza?) della maggior parte dei Paesi europei, Francia in testa, alla deregulation finanziaria (lo smantellamento della tenda a ossigeno). Oggi, dopo più di due decenni, un’esigenza di segno diametralmente opposto è ribadita insistentemente in tutti i discorsi, e tradotta in fatti concreti. Chi avrebbe immaginato allora che la nazionalizzazione, sia pure parziale, si sarebbe rivelata la miglior via d’uscita da uno stato di crisi, persino nei Paesi anglosassoni? Come si è arrivati a questo punto? La storia, a un tempo banale e complessa, è ricca di insegnamenti.
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Il codice della continuità
La crisi tra passato e presente
Ugo Mattei
L'altalena delle borse non coincide con la fine del capitalismo, ma con un suo assestamento per riportare ordine e integrare così le periferie dell'impero. La crisi letta attraverso le tesi di Guy Debord sulle «società dello spettacolo»
Provare ad utilizzare le categorie di Guy Debord per riflettere sulle grandi trasformazioni in corso apre percorsi di ricerca che possono essere solo accennati in un articolo, ma sui quali occorrerà tornare in futuro. È noto come il «dottore in nulla» nella sua Società dello Spettacolo avesse introdotto due modelli contrapposti, lo «spettacolo concentrato» proprio delle società totalitarie e dittatoriali, e lo «spettacolo diffuso» proprio delle democrazie occidentali, dominate dal consumismo. Successivamente nei Commentari, scritti nel bel mezzo del terremoto che fece crollare la più spettacolare epifania dello spettacolo concentrato (l'Urss), Debord tracciò il percorso che avrebbe portato alla nascita di ciò che definì «spetacolo integrato». Il crollo del modello sovietico e l'apparente discioglimento dell'equilibrio del terrore avrebbero necessariamente trasformato le «democrazie occidentali», togliendo loro ogni incentivo alla virtù (o alla «moralità» per dirla con Laura Pennacchi). Il sistema si sarebbe così trasformato in una combinazione fra i due modelli precedenti, uno spettacolo integrato caratterizzato da cinque punti: «Il continuo rinnovamento tecnologico; la fusione economico-statale; il segreto generalizzato; il falso indiscutibile; un eterno presente».
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Perché ancora Marx
di Marcello Musto
Nel corso delle ultime settimane, da quando la crisi finanziaria internazionale si è sviluppata così violentemente da sradicare, con le furie dei propri venti, non solo alcune delle più grandi istituzioni del capitalismo americano, ma lo stesso modello neoliberale spacciato come pensiero unico fino a pochi mesi fa, tutti i principali quotidiani internazionali, non importa se di tendenza riformista o liberale, hanno reso omaggio a Karl Marx e alle sue tesi. Egli è ritornato a essere citato negli editoriali dei maggiori quotidiani finanziari mondiali e a essere ritratto sulle copertine di diffusissimi e autorevoli settimanali di Stati Uniti ed Europa.
Alcuni di questi hanno sostituito il viso della Statua della libertà con un profilo soddisfatto di Marx, mentre l'Economist di due settimane fa raffigurava il presidente francese François Sarkozy, in visita a New York, intento a leggere avidamente una copia de Il capitale mentre, sullo sfondo, i palazzi di Wall Street crollavano inesorabilmente.
In tutte le descrizioni e le immagini in cui ho visto ritratto Marx durante queste settimane, egli appariva sempre sorridente e, nonostante il passar degli anni, mi è sembrato piuttosto in forma, anche quando a fare i conti con le sue analisi erano giornalisti che non possono certo essere definiti suoi seguaci.
È per questo motivo che sono rimasto davvero perplesso quando ho letto, invece, proprio sul quotidiano di Rifondazione Comunista, in un articolo a firma del suo direttore Sansonetti sulla crisi del capitalismo e la manifestazione dell'11 di ottobre (che ha visto sfilare 300.000 partecipanti ed è stata definita da tutti a sinistra come un successo), le seguenti parole: “Non mi pare che ci sia altra via percorribile se non quella di ripartire da zero”; non bisogna “pensare per dogmi”, ma “capire che il marxismo, che è una gigantesca teoria politica, non è più sufficiente”.
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La grande crisi dei mutui spazzatura
di Giorgio Gattei
Nel 2001, quando al collasso della new economy si è aggiunto l'attentato terroristico dell'11 settembre, gli Stati Uniti se la sono vista brutta. Che potesse prendere piede una economia della paura capace di bloccare la crescita futura del PIL? A rimedio la scienza economica consiglia di aumentare i consumi delle famiglie mediante l'aumento dei salari (che vanno però a discapito dei profitti), di favorire gli investimenti delle imprese con l'abbassamento dei tassi di interesse, di aumentare la spesa pubblica anche in deficit spending, ossia senza copertura finanziaria.
E se in quest'ultimo caso i incontrano difficoltà politiche insormontabili, c'è sempre la spesa militare che non ha mai sofferto d'opposizione.
Sulla base di queste opzioni il governo di Bush «il piccolo» ha scelto da subito la via della guerra (prima in Afghanistan e poi in Irak), avendo per obiettivo il rilancio del PIL mediante le commesse belliche e la riduzione del prezzo del petrolio che si sarebbe guadagnata quando, a vittoria conseguita, sarebbero affluite sul mercato le ingenti riserve irakene. Ma pure la Federal Reserve ha fatto la sua parte abbassando il tasso di sconto dal 6,5% del gennaio 2001 all'1% del giugno 2003. Tuttavia qui è stata necessaria una modifica rispetto alla teoria, perché in epoca di globalizzazione non si poteva più fare tanto affidamento sugli investimenti delle imprese che, avendo delocalizzato all'estero dove il costo della manodopera è più basso, col credito concesso avrebbero investito sì, ma all'estero.
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Una storia impossibile: Gli Autonomi I, II e III. Aspettando il IV volume...
di Marcello Tarì
E parlavano di lui, scrivevano di lui / lo facevano più bamba che bambino / e parlavano di lui, scrivevano di lui / sì ma lui rimane sempre clandestino.
Gianfranco Manfredi, Dagli Appennini alle bande
Vi è un trito luogo comune delle scienze storico-antropologiche in cui si sostiene che solo una volta messe a distanza (in senso temporale o spaziale, innanzitutto, ma anche soggettivamente) si è in grado di indagare le vicende umane, ovvero riproducendole in quanto altro da noi. La Storia, indubbiamente, è uno dei più potenti dispositivi di produzione dell'alterità, nella sua capacità di separare ciò che è stato da ciò che è proiettandolo in un altro tempo, in un altro spazio, in un altro mondo. Ma l'alterità è una finzione, un trucco epistemologico tramite il quale lo storico e l'antropologo occidentale hanno provato nella modernità a collocare nello spazio dei saperi dominanti ciò che era ai margini dello sviluppo, ai bordi della norma, fuori dalla governabilità. In realtà non c'è mai nessun altro così come non vi è identità, se non in quanto produzioni di una epistemologia che nel moderno è stata quella del capitale armato. Tutte le lotte e i conflitti che hanno attraversato la modernità sono stati in questo senso altrettanti squarci inferti a quel sistema dei saperi; almeno questo lo si è capito, da una parte e dall'altra. Gli Autonomi e le Autonome hanno rivendicato la possibilità di non essere più l'Altro del/nel potere, l'Altro del/nel capitale, l'Altro della/nella società, bensì una densa, presente, possibilità di vita dislocata nel fuori di ogni dentro. Comunismo ora, qui: adesso o mai più. E se proprio un Altro doveva esserci, ebbene che lo fosse il padrone.
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Scuola politica
Marco Bascetta
«Né di destra, né di sinistra». Di questa definizione, da tempo utilizzata a piene mani dalla destra e dalla sinistra appunto, abbiamo imparato a diffidare. È infatti attraverso questa pretesa di oggettività indiscutibile, divinamente ispirata dall'«interesse generale» che sono stati imposti fino a oggi contenuti di natura restauratrice e repressiva: il controllo pervasivo delle nostre vite, la sicurezza come puro e semplice ordine pubblico, la repressione dei comportamenti giovanili, la discriminazione dei migranti.
Accade ora che questa stessa espressione venga impiegata dall'imponente movimento di studenti, insegnanti e cittadini, che da settimane attraversa tutto il paese, per descrivere se stesso. Ma rovesciandone interamente il senso. È soprattutto questa novità che ha fatto saltare i nervi a Silvio Berlusconi e al suo governo. Che, non a caso, si sono sforzati in ogni modo e contro ogni evidenza di ricondurre questa tumultuosa ripresa dei movimenti all'«estrema sinistra» (che sarà mai?) e al mondo dei centri sociali. Il conflitto «né di destra né di sinistra» che ha invaso scuole, università e piazze di tutta Italia comincia a trasformarsi in un incubo tanto per la maggioranza di governo quanto per le ombre dell'opposizione parlamentare.
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Fine Corsa
di Giulietto Chiesa
Alcune note utili, forse, per affrontare il problema della transizione a un'altra società, che sia compatibile con la sopravvivenza del genere umano. Né più né meno. E non perché, stanti così le cose, come si dirà tra qualche riga, il nostro destino sia quello di essere eliminati dalla faccia del pianeta per manifesta incompatibilità con la natura di cui siamo parte impazzita, in quanto incapace di convivere con la sua entropia.
1) La prima considerazione-constatazione è che l'umanità ha già raggiunto, da oltre 25 anni, la situazione di "insostenibilità". Il termine usato dal Club di Roma, nel suo update del 2002, è "overshooting". Siamo in overshooting da 25 anni. E' una situazione che non si era mai verificata nella vicenda, lunga 5 miliardi di anni, della ecosfera.
Dal 1980 in avanti, circa, i popoli della Terra hanno utilizzato le risorse del pianeta, ogni anno, più di quanto esse siano in condizioni di rigenerarsi.
Cos'è esattamente l'overshooting? E' “andare oltre un limite”, anche senza volerlo. In primo luogo perché non lo si sa. Ciò avviene – dicono gli scienziati del Club di Roma - in condizione di crescita accelerata, oppure quando appare un limite o una barriera, oppure a causa di un errore di valutazione che impedisce di frenare, ovvero quando si vorrebbe frenare ma non ci sono più freni disponibili.
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La ricetta contro il «crack dei crack»? Un new deal europeo, puntato sul sociale
Riccardo Bellofiore, Joseph Halevi
La lezione più profonda del New Deal è un'altra rispetto a quella ripresa dal «keynesimo reale» o dall'attuale salvataggio di emergenza. E' la possibilità di cogliere l'occasione della nazionalizzazione della finanza per promuovere un intervento strutturale diretto dello Stato, mobilitando un «esercito del lavoro». Una sfida che ci piomba addosso, ma non è inattesa. Chi riteneva prematuro porsi i problemi di una più alta e produttiva spesa pubblica è costretto a ricredersi: ci obbliga la devastazione della crisi - sociale, ambientale, energetica. Dalla crisi non si esce se non si trova un nuovo traino di domanda effettiva, e una alternativa di politica economica richiede un diverso Stato, un diverso lavoro, la costruzione di contropoteri. Così fu, per quanto contraddittoriamente, con Roosevelt. Bisogna avere il coraggio di riprendere a pensare in grande: con i piedi per terra, e la testa ben alta, ricollocarsi a quel livello dello scontro, dentro una più netta rottura con la logica capitalistica.
Non potrà essere la svalutazione del dollaro a far ripartire la congiuntura mondiale. Si richiederebbe piuttosto una espansione coordinata della domanda interna nelle varie aree, il cui perno siano una spesa pubblica riqualificata e alti salari: il «ritorno dello Stato» va da un'altra parte. La ricerca parossistica di un «pavimento» alla crisi finanziaria non sta infatti rispondendo alla carenza di domanda. E le misure che eventualmente saranno prese arriveranno fuori tempo massimo per evitare una grave recessione, e il rischio concreto di una successiva prolungata stagnazione.
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Ti ricorda il '29?
di Riccardo Bellofiore e Joseph Halevi
Le risposte di Roosevelt alla crisi, terribilmente simili alle decisioni affannose di queste settimane
Possiamo oggi ripensare il New Deal di Roosevelt? Dipende dalle condizioni soggettive: dalla capacità di radicalizzazione della popolazione salariata, precaria, pensionata e via dicendo. Certamente, deve essere come minimo un'azione a livello europeo.
La crisi «finanziaria» del 1929, che toccò il fondo come crisi «reale» nel 1932-3 (la disoccupazione balzò dal 4,5% al 25%, il resto erano lavori «precari»), nasceva da tre problemi: alta concentrazione nel settore monopolistico, dunque elevati margini di profitto e bassi salari; spostamento della ricchezza verso il casinò di Wall Street; concorrenza sfrenata tra le piccole aziende, che comportò una pletora di capitali. La crisi fu aggravata dal legame del dollaro all'oro; dalla politica monetaria restrittiva della Federal Reserve, indifferente ai crolli bancari; dalla demonizzazione della spesa pubblica da parte di Hoover. Il primo New Deal scaturiva dalla forte spinta a sinistra del partito democratico, grazie anche ai lavoratori immigrati non anglosassoni. Le misure prese immediatamente comprendevano, oltre allo sganciamento dal vincolo aureo, una più elastica provvista di liquidità da parte della Fed e il salvataggio delle banche, soggette ad una più stretta regolazione.
Provvedimenti cruciali furono la Federal Deposit Insurance Corporation, cioè la protezione di conti bancari delle famiglie, che esiste tuttora, e il Glass-Stegall Act, cioè la separazione tra banche commerciali e banche di investimento, annullato da Bill Clinton (oggi le banche di investimento non scompaiono, né sono di nuovo separate dalle banche commerciali, semmai accedono ai depositi raccolti da queste ultime).
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La depressione globale
di Nouriel Roubini
Il sistema finanziario del mondo ricco è diretto verso l' implosione. I mercati finanziari non sono riusciti ad arrestare la loro caduta libera per diversi giorni, il mercato dei titoli a breve termine e quello del credito si sono trovati bloccati di fronte a un balzo dei loro spread sul tasso d' interesse ed è troppo presto per dire se la zattera delle misure adottate dagli Stati Uniti e dall' Europa sarà in grado di rimediare al dissanguamento oltre l' immediato futuro.
Per la prima volta in settant' anni, si è diffuso il timore di un effetto domino generalizzato ed esteso all' intero sistema bancario, mentre quello "ombra" - l' universo costituito da istituti di compravendita, agenzie di mutui non bancari, altri strumenti strutturati d' investimento come gli hedge fund, i fondi di titoli a breve termine e un certo tipo di fondi d' investimento - hanno davanti a sé il rischio di un collasso a partire dalle loro passività a breve termine. Per quanto riguarda l' economia reale, tutte le economie avanzate - che rappresentano il 55 per cento del prodotto interno lordo mondiale - erano già entrate in recessione prima dei devastanti shock finanziari cominciati verso la fine dell' estate. Ora quindi dobbiamo fare i conti con una recessione, con una grave crisi finanziaria e con una grave crisi del sistema bancario. I mercati dei paesi emergenti hanno cominciato a risentire di questa sofferenza soltanto quando gli investitori stranieri hanno iniziato a ritirare le proprie risorse.
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La rivoluzione berlusconiana
di Alessandro Leogrande
In questi mesi il governo Pdl-Lega porterà a termine la propria riforma della giustizia, realizzando uno dei capisaldi della “rivoluzione berlusconiana”, elaborato già nella prima metà del decennio passato quando Berlusconi decise di scendere in campo non solo per sbarrare la strada ai “comunisti”, ma anche, via via, alle toghe rosse, a Mani pulite, alla “casta delle procure” che avevano sovvertito e avrebbero continuato a sovvertire la democrazia italiana. Sanare questo tumore, ricondurlo all’ordine, cioè alla posizione che occupava prima di Tangentopoli, è da sempre uno degli obiettivi del berlusconismo. Chi ha pensato negli anni, e ultimamente fino all’approvazione del lodo Alfano, che Berlusconi si occupasse di giustizia solo per regolare e anestetizzare i processi che lo riguardavano, si è mostrato miope.
C’è sicuramente del “personale” in tutto questo, e il Cavaliere ha sempre gridato alla persecuzione giudiziaria, all’accanimento di alcune toghe nei suoi confronti. Ma c’è anche qualcosa di più, molto di più: ridurre l’autonomia della magistratura, farne un ente alle dipendenze dello strapotere governativo risponde a interessi più vasti che si riconoscono nel berlusconismo e da esso si sentono protetti. Tale mossa è in piena sintonia con le pretese del partito degli avvocati, trasversale a tutto il centrodestra, che in questi anni è diventato una potente lobby parlamentare. Non è solo una mossa difensiva, risponde a un preciso impianto ideologico. E qui la parola “ideologia” è usata nel senso più strettamente filosofico: visione del mondo e delle sue cose, ed elaborazione di una teoria politica che sia sulla stessa lunghezza d’onda.
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Operaismo, non confondiamo tutto
Ferruccio Gambino
"L'assalto al cielo" di Steve Wright, studioso australiano dei movimenti della seconda metà del '900
Dobbiamo a Steve Wright, noto studioso australiano dei movimenti della seconda metà del Novecento, questo volume che disegna la parabola di Classe Operaia (1964-67), Potere Operaio (1969-73) e dell'Autonomia operaia (1973-79): L'assalto al cielo. Per una storia dell'operaismo (postfazione di Riccardo Bellofiore e Massimiliano Tomba, Edizioni Alegre, Roma 2008, pp. 334, euro 20).
Alla prima edizione inglese del 2002 è seguita l'edizione tedesca del 2005 e adesso quella italiana, nella traduzione di Willer Montefusco, grazie al rinnovato interesse per l'operaismo, come osservano Bellofiore e Tomba nella loro postfazione. Steve Wright ricostruisce questa vicenda che troppo a lungo era rimasta affidata alle arringhe di vari magistrati, a parte il notevole contributo di Franco Berardi ( La nefasta utopia di Potere Operaio , Castelvecchi, 2003) e ci offre un'interpretazione documentata e originale del dibattito che ha segnato l'operaismo negli anni '60 e '70.
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Alla radice del «pubblico» perduto
Luigi Cavallaro
La crisi finanziaria esplosa in queste settimane rappresenta il culmine di un processo che ha avuto inizio sul finire degli anni '70 e che, dopo un primo crack nel 1987, ha vissuto un vero e proprio boom negli anni '90 e una sorta di superfetazione negli ultimi dieci anni. Si tratta di un processo nel corso del quale sono stati letteralmente rovesciati gli assunti su cui, nel trentennio precedente, si era costruito il senso comune in materia di politica economica. In quel periodo un po' tutti erano convinti che il buon funzionamento dell'economia necessitava di alcune regole. I settori guida dovevano essere socializzati. Una grossa quota di bisogni privati (trasporti, casa, scuola, sanità, pensioni) doveva essere soddisfatta attraverso consumi collettivi.
La tassazione dei redditi e della ricchezza doveva ridurre le disparità economiche. Ultimo, e non meno importante, i mercati finanziari dovevano essere limitati nella loro capacità di speculare sulle passività delle imprese e dello stato.
Non era una ricetta sbagliata, tant'è che tutte le economie occidentali, sul finire degli anni '60, avevano praticamente raggiunto la piena occupazione: nell'opinione di storici insigni come Hobsbawm, quel periodo viene designato non a caso col nome di «Età dell'oro».
Fu in quel torno di tempo (approssimativamente, tra il 1968 e il 1977) che a sinistra si consumò una cesura rilevante tra coloro che, fino a quel momento, si erano avvalsi del patrimonio di teorie e prassi del movimento operaio novecentesco per interpretare il mondo (e, bisogna aggiungere, anche per trasformarlo non poco) e coloro che, invece, erano cresciuti nel ferro e nel fuoco della critica a quel patrimonio di pratiche sociali e culturali.
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Oltre l'ossessione del berlusconismo
Guido Viale
L'uomo di Arcore è «solo» l'italica personificazione di un degrado mondiale. La versione specifica di una caduta umana, da cui bisogna tentare d'uscire con un «movimento dal basso» che diventi «fatto politico»
A cavallo tra gli anni '50 e '60 del secolo scorso, in Francia, il pensiero radicale di sinistra aveva dato vita a una rivista dal titolo profetico Socialisme ou barbarie. Mai analisi storica è stata più pregnante: il socialismo non si è realizzato - e forse non avrebbe potuto realizzarsi mai - ed è sopravvenuta la barbarie. Quella in cui tuttI noi, insieme all'intero pianeta, siamo ormai immersi.
Come La lettera rubata di Poe, la barbarie è lì davanti ai nostri occhi; ma proprio per questo non la vediamo; e quando qualcosa colpisce la nostra attenzione, come i conflitti di interesse del presidente del Consiglio, la pornografia eletta a sistema di selezione della classe di governo, la truffa mondiale della Parmalat, l'invasione dell'immondizia, le tifoserie scatenate o il razzismo della Lega, tendiamo ad attribuirla a una specificità nostrana, come se il resto del pianeta fosse immune da cose simili o anche peggiori. Invece, fatte le debite proporzioni, i conflitti di interesse che hanno portato in Iraq e in Afghanistan Bush e i suoi accoliti fanno impallidire quelli di Berlusconi (con l'aggravante che negli Stati uniti non c'è nemmeno una magistratura che, nel bene o nel male, li abbia messi sotto accusa); l'improvvisa ascesa di alcune soubrette al governo del nostro paese non sono che una versione sporcacciona dell'ascesa che potrebbe portare un «pitbull con il rossetto» a rovesciare un pronostico elettorale dato ormai per scontato; le truffe perpetrate dal sistema finanziario degli Stati uniti giganteggiano di fronte a quelle di Parmalat, Cirio, Banca di Lodi o Alitalia; la spettacolarizzazione che trasforma in successi gaffe e flop interni e internazionali di Berlusconi fanno scuola nel mondo.
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La grande crisi
Rossana Rossanda
Che deve pensare una cittadina come me, sprovveduta di teoria e pratica economica e perseguitata da vent'anni dal coro «meno stato più mercato», quando legge che la Camera dei rappresentanti e il Senato degli Usa stanno decidendo di stanziare 700 miliardi di dollari pubblici per coprire il gigantesco buco che banche e assicurazioni private hanno fatto? Prima di tutto, che vuol dire? Che con questi 700 miliardi di dollari lo stato federale si fa carico, cioè fa carico ai contribuenti, dell'immenso buco scavato da banchieri e assicuratori senza avere nulla in cambio, soltanto perché le macerie non precipitino su tutti, tipo 1929? Oppure che in cambio mette un guinzaglio su quelle proprietà, stabilendo quel che possono o non possono continuare a fare, alla faccia della libertà di impresa, sacra fino all'altro ieri? O che addirittura le hanno nazionalizzate, nel senso che sono diventati proprietari diretti di banche e assicurazioni?
Idem per l'Europa. Negli Stati uniti il congresso aveva emesso qualche lamento e prima di votare il Senato ha imposto degli emendamenti, mentre nel vecchio continente qualcuno ha deciso in meno di 24 ore di salvare Fortis e Texia e il presidente francese, nonché attualmente della Ue, Sarkozy, doveva annunciare ieri che la Ue istituiva un fondo di 300 miliardi di euro per salvare banche e assicurazioni europee in eventuale emergenza? Senonché Angela Merkel, che di questo non era stata informata, sta lanciando alte strida: «La Germania non ci metterà un soldo», per cui allo stato dei fatti Sarkozy rinunciava ad annunciare, e domani si vedrà.
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Il progetto per un nuovo secolo americano
di Ilvio Pannullo
La caduta agli inferi di alcuni tra i maggiori istituti di credito statunitensi, con il conseguente piano di recupero a spese della collettività, è stato definito da alcuni analisti come una sorta di 11 settembre dell’economia. E’ probabile infatti, che esso rappresenti la definitiva messa in crisi dell’impianto monetarista che aveva caratterizzato le politiche economiche dell’amministrazione Bush. I rovesci in Afganistan e Iraq e la destabilizzazione del Pakistan in questo momento sono solo lo sfondo della crisi politica che caratterizza la fine del mandato presidenziale. Che è in primo luogo la fine di quella lobby neocons che così in profondità ha attraversato i due mandati presidenziali di George W. Bush. Lo strettissimo legame tra le politiche economiche e militari del peggior presidente della storia Usa, hanno infatti avuto come centro ispiratore della sua aggressività internazionale proprio questa sorte di conventicola delinquenziale che tanto ha contribuito all’ascesa di Bush e alle guerre da lui scatenate in giro per il mondo.
Per conoscere meglio pensieri, parole e opere della lobby neocons, almeno sotto l’aspetto della regia occulta delle operazioni militari, basta leggere il Sunday Herald del 15 settembre 2002, che pubblicò il sunto di un documento, redatto due anni prima per conto di alcuni dei principali esponenti dell'attuale governo americano, che descriveva, in dettaglio, un progetto per la sottomissione militare del pianeta al dominio statunitense.
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Anatomia della crisi I
Dalle cartolarizzazioni ai toxic assets
di Emilio Barucci
La drammatica crisi del sistema finanziario sta suscitando molte considerazioni sulle colpe del libero mercato e i benefici della regolamentazione. Tuttavia se si cerca di analizzare, fuori da ogni ideologia, quanto è successo negli ultimi anni, le conclusioni appaiono meno ovvie. Tutti riconoscono che all’origine della crisi ci sia l’introduzione su scala macroscopica di derivati di credito quali i famigerati CDO nell’ambito della "securitization" ovvero la prassi di accorpare, impacchettare e rivendere agli investitori rischi finanziari di vario tipi, e in particolare il rischio mutui.
Questa idea non è nata a fini speculativi. Il suo primo motore è stata la reazione all’introduzione di una più stretta regolamentazione per le banche. Nell’analisi dell’origine di questo mercato fatta da Moody’s ben prima dell’inizio della crisi (Debuysscher, 2005), leggiamo che fondamentale per la nascita della securitization e in generale della finanza strutturata fu l’accordo di Basilea del 1988. In questo accordo, i regulators introdussero norme più rigide per garantire maggiore stabilità del sistema bancario, tra cui la norma secondo cui per un miliardo di euro investiti da una banca in un’attività rischiosa, ad esempio mutui, le banche dovessero mettere da parte in forma di capitale una frazione del miliardo, in cui la frazione era specifica per l’attività "mutui". Come può una norma così ragionevole essere la causa di una prassi che ha portato alla maggiore crisi del sistema bancario dal 1929?
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Crisi delle borse o crisi del capitalismo?
di Danilo Corradi
Coordinamento nazionale sinistra critica
Dodici banche americane fallite, la più grande nazionalizzazione a stelle e strisce dal ’29, fusioni “difensive” che cambiano il panorama mondiale della finanza, ultimi trimestri negativi per Usa e Ue e recessione tecnica per l’Inghilterra. A poco più di un anno dall’esplosione della “bolla speculativa” sui mutui subprime l’economia mondiale sembra tutt’altro che fuori dalla crisi.
In questa sede possiamo semplicemente elencare alcuni nodi analitici e alcune conseguenze socio-politiche che l’attuale crisi capitalistica ci obbligherà ad affrontare:
1) la teoria che più viene proposta dai guru dell’economia mondiale considera la crisi come conseguenza dei pochi controlli sui sofisticati strumenti finanziari (i derivati) che sono andati moltiplicandosi negli ultimi 15 anni fino a raggiungere un controvalore negli scambi trimestrali di oltre 600trilioni di dollari (oltre 12 volte il PIL mondiale). Pochi controlli e diverse mele marce che hanno “speculato” oltre i limiti della ragione economica. Una teoria che farebbe sorridere se non fosse la più accreditata. Qualcuno forse dimentica che tutto il sistema ha partecipato alla grandissima ascesa della finanza. Hanno partecipato le banche centrali fornendo denaro a costo zero per oltre un decennio, hanno partecipato tutte le grandi aziende che hanno investito in media oltre il 50% delle risorse in strumenti finanziari (nel ’79 il rapporto era 2% investimenti finanziari 79% produttivi ), hanno partecipato i governi sino agli enti locali che hanno acquistato direttamente derivati o promosso truffe come i fondi pensione integrativi.
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Il mercato in difficoltà e lo stato interventista
Riccardo Bellofiore
Nei commenti di queste settimane non ci è stata risparmiata la sequela di argomentazioni tranquillizzanti: crisi passeggera; non si può fare a meno della finanza; le banche europee sono al riparo; il vecchio continente, ancora manifatturiero, ne uscirà rafforzato; l'Italia può contare sulle medie imprese multinazionali. Peccato che questa finanza ci abbia portato sulle soglie di una nuova Grande Crisi. Che le banche europee abbiano aggirato la regolamentazione per garantirsi più elevati rendimenti. Che lo sganciamento dell'Europa dagli Usa si sia negli ultimi mesi sgonfiato come una favola. Che i pochi spezzoni vitali del nostro apparato produttivo siano fragilissimi e dipendenti dalla congiuntura. Certo, è finito un mondo. Il punto non è quello di capire il «perché» di breve periodo. Si tratta di capire come se ne esce. Meglio, come ne uscirà il capitale.
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Perché una sinistra senza aggettivi?
Alberto Burgio
Nei giorni scorsi (il 9 e il 17 settembre) Marcello Cini ha pubblicato su queste pagine un ampio intervento che mette a fuoco nodi teorici cruciali e dimostra come una riflessione autonoma e spregiudicata sia condizione necessaria affinché la sinistra torni capace di incidere sul piano politico e culturale. Si tratta di un contributo rilevante non soltanto per gli argomenti, esposti con la passione e la lucidità alle quali Cini ci ha da lungo tempo abituato, ma anche per l'implicito suggerimento che lo sottende.
O compiamo lo sforzo di cimentarci con le sfide della ricerca teorica, o non usciremo da questa gravissima crisi. O ci occupiamo, oltre che di cronaca, anche di storia, oppure verremo travolti da mutamenti che non saremo stati in grado di decifrare. La qualità di questo intervento raccomanda, credo, di non archiviare il discorso come una generica esortazione. Cini afferma cose impegnative e formula interrogativi pressanti, offrendo una preziosa occasione per avviare la riflessione, in effetti sempre più urgente, sui compiti della sinistra e sugli strumenti a sua disposizione. La tesi di fondo è incontrovertibile. Il capitalismo sta conducendo l'umanità e il pianeta verso la catastrofe.
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Il brevetto del nuovo capitale
«Appunti per cercare le ragioni a sinistra
Marcello Cini
Nuovo modo di produrre e nuovo ruolo della scienza, In un mondo messo a rischio nella sua esistenza materiale e nella sua ragione morale. Un contributo alla discussione per non rassegnarsi al declino, tra deriva moderata e resistenza testimoniale
Condivido tuttora, nonostante l'attuale diaspora della sinistra, la domanda che Claudio Fava aveva posto a Chianciano con chiarezza: «Abbiamo paura di impegnarci nella costruzione di una sinistra che sappia finalmente elaborare le culture del comunismo e del socialismo per proporne una sintesi originale? Qualcuno di noi è così miope da vivere questa sfida culturale e politica, che forse prenderà il tempo e lo spazio di una generazione, come un tradimento ai sacri luoghi delle nostre identità? O pensiamo davvero che tra dieci o vent'anni ci saranno ancora, in questo paese, una sinistra cosiddetta 'socialdemocratica' e una sinistra cosiddetta 'comunista', ciascuna gelosa custode delle proprie liturgie e della propria storia? Un nuovo soggetto politico di sinistra non soffocato dall'ornamento dei propri aggettivi è solo una favola ce ci raccontiamo o è realmente una sfida che ci mette tutti (tutti!) in discussione?». Penso ancora che il dibattito su come iniziare a costruire gli strumenti che possono contrastare l'offensiva travolgente che il capitalismo del XXI˚ secolo sta portando avanti contro i popoli della Terra dovrebbe avere la priorità.
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Crisi della finanza, trasformazioni della democrazia, critica della politica
La moneta e la finanza globale
di Christian Marazzi
Tutto ciò che sembrava delineare un funzionamento normale della finanza negli anni Settanta è oggi scomparso, e per questo le teorie economiche si dimostrano obsolete. Negli ultimi decenni, tutto si è trasformato all’interno della finanza e delle sue regole sia per quello che riguarda la gestione del debito pubblico e il finanziamento degli investimenti sia per quello che riguarda invece la gestione delle imprese e soprattutto la creazione di posti di lavoro. Il fatto più rilevante: la finanza ha ormai preso il posto della creazione monetaria, che era stata una costante nel corso dei famosi trenta gloriosi anni del dopo guerra. Durante questa fase di crescita generalizzata del capitalismo occidentale, grazie al legame tra il Ministero del Tesoro e la Banca centrale, le autorità monetarie disponevano del potere di creare liquidità di moneta. Le autorità monetarie avevano, in questo modo, la possibilità di coprire i debiti generati dalle politiche di deficit spending, prima di tutto attraverso una creazione di moneta ex ante che anticipava il divenire-capitale di questa moneta immessa nel circuito economico dalle autorità statali. La moneta così creata e immessa nelle reti bancarie per acquistare dei titoli - i buoni del Tesoro –costituiva una sorta di creazione di reddito ex ante
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Politica al lavoro
Mario Tronti
I lavoratori tra globalizzazione e territorializzazione. E la loro cancellazione come soggetto politico. Un convegno a Brescia, per riprendere l'inchiesta. Il 3 ottobre, organizzato da Crs, Associazione per il rinnovamento della sinistra e il manifesto
Appuntamento a Brescia, il 3 ottobre. Ne ha parlato già Paolo Ciofi sul manifesto del 18 settembre. Prende l'avvio il progetto di un impegno di ricerca di tipo nuovo. Il tema è: lavoro e politica. Sì, perché è una novità occuparsene. Questo dice molto della condizione in cui siamo. Quello che fino a qualche tempo fa era una vecchia convinzione è oggi una constatazione del tutto nuova: e cioè che o i lavoratori sono una forza politica o non esistono. E l'inesistenza politica dei lavoratori è il problema della sinistra certo, ma è anche il problema della società e dello Stato, è il tema vero della crisi di civiltà. Se non mettiamo la cosa così, non riusciamo a trovare la bussola che cerchiamo per orientarci nel mare aperto del capitalismo-mondo di nuovo in subbuglio per affari tutti suoi. E' questo che fa male oggi a vedere: che l'avversario di classe non se la passa bene e non riesce a far star bene la gran parte dei suoi subalterni, e tuttavia i suoi problemi sono tutti relativi ai rapporti tra le sue parti interne. In fondo anche la forza-lavoro era parte interna del capitale, ma quando smetteva i panni di produttrice di plusvalore e assumeva la veste di realizzatrice di valore politico, minacciava, come si diceva, l'ordine costituito e accennava a qualcosa d'altro e di oltre. Adesso invece le contraddizioni capitalistiche sono sempre e solo rese di conti tra pezzi delle forze dominanti, finanziarizzazione contro economia reale, liberalizzazione versus regolazione e viceversa, mercato e/o Stato, distribuzione mondiale delle risorse energetiche e quindi pezzi di mondo contro altri pezzi di mondo, dentro però un pensiero unico di rapporti sociali: comandano i padroni, privati o pubblici, e i lavoratori eseguono. Riportare il tema lavoro al centro dell'agenda politica.
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Africa. È in Sicilia la direzione strategica delle forze speciali “anti-terrorismo” Usa
di Antonio Mazzeo
A Stoccarda, l’1 ottobre 2008, s’insedia Africom, il comando delle forze armate Usa per l’Africa. La centrale d’intelligence per le operazioni di guerra nel continente è tuttavia presente da 5 anni nella base aeronavale di Sigonella. Nel più assoluto segreto, stazioni di telecomunicazioni e aerei P-3C Orion coordinano la “guerra al terrorismo” in un’area compresa tra il Golfo di Guinea e il Corno d’Africa. La raccolta e l’elaborazione d’informazioni sono necessarie per dirigere i bombardamenti contro popolazioni civili, i sequestri e le deportazioni illegali di persone “sospette”. I reparti ospitati a Sigonella sono pure coinvolti nell’addestramento e la fornitura di armamenti ad eserciti responsabili di gravi crimini contro l’umanità. E l’Us Air Force preannuncia l’arrivo di militari e mezzi in Sicilia…
“Joint Task Force JTF Aztec Silence” è il nome della forza speciale creata dal Dipartimento della difesa degli Stati Uniti per condurre missioni d’intelligence, sorveglianza terrestre, aerea e navale, nonché vere e proprie operazioni di combattimento in Africa settentrionale ed occidentale. Il primo ad illustrarne le finalità è stato il generale James L. Jones, comandante delle forze armate Usa in Europa (Eucom), in un’audizione davanti alla sottocommissione difesa del Senato, l’1 marzo 2005. “Eucom – ha dichiarato Jones - ha istituito nel dicembre 2003 JTF Aztec Silence, ponendola sotto il comando della VI Flotta Usa, per contrastare il terrorismo transnazionale nei paesi del nord Africa e costruire alleanze più strette con i governi locali”. Il generale statunitense si è poi soffermato sulle unità d’eccellenza prescelte per coordinarne le operazioni. “A sostegno di JTF Aztec Silence, le forze d’intelligence, sorveglianza e riconoscimento (ISR) della Us Navy basate a Sigonella, Sicilia, sono state utilizzate per raccogliere ed elaborare informazioni con le nazioni partner. Questo robusto sforzo cooperativo ISR è stato potenziato grazie all’utilizzo delle informazioni raccolte dalle forze nazionali locali”. Le unità aeree e navali della VI Flotta operanti nel Mediteranno, le differenti agenzie Usa d’intelligence e i partner Nato europei collaborano con la speciale task force nella raccolta d’informazioni.
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Parole scomode
Rossana Rossanda
Ci pesa chiedere soldi ogni due o tre anni a chi ci legge, ma siamo soffocati non soltanto dalla abolizione da parte del governo di ogni diritto della stampa scritta e dai nostri probabili errori (perché anche i poveracci ne fanno, per quanto stringano la cinghia). Da venti anni in qua siamo soffocati dal fastidio che provano i più nell'ascoltare una voce fuori dal coro. Fa impressione oggi sentir dire da Tremonti in Italia e da Sarkozy in Francia quel che fievolmente non abbiamo smesso di dire mai e cioè che deregulation e finanziarizzazione dell'economia avrebbero portato la medesima allo sfascio. A scriverlo, l'epiteto più gentile che si riceveva era: «siete arcaici». Simpatici ma fuori dal mondo. Il mondo, dicevano quelli che se ne intendono, era globalmente capitalistico, finalmente fuori dal controllo dell'inaffidabile politica, finalmente consegnata alla mano invisibile e giusta del mercato. Meno stato più mercato è stata la parola d'ordine della destra, della sinitra detta riformista, e della sinistra radicale, magari per opposte ragioni ma con il medesimo risultato. Persino uno Scalfari, che all'inizio metteva in guardia dall'economia del farwest s'è azzittito, per non dire della sufficienza con cui sono stati trattati gli Stiglitz e i Fitoussi o i Krugman che osavano aprir bocca davanti al monetarismo delle banche centrali e ai prodigiosi disastri del Fondo monetario internazionale. E il lavoro? Le imprese avevano giurato che, con il progresso della tecnologia era ormai una voce insignificante del loro bilancio. E invece da vent'anni è diventato il terreno della caccia più feroce dei padroni per strozzarlo ai minimi, e quando non ci sta, delocalizzano. L'Europa, solo continente in cui esso aveva conquistato dei diritti, s'è andata formando dando addosso alla sua «rigidità» e avanti con flessibilità e precariato, e basta con i contratti nazionali, negli applausi non dico dei Fassino, Veltroni, Epifani ma fin del meno azzardoso D'Alema. E noi, ne siamo usciti indenni?
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