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Il comunismo della decrescita: l'ultima svolta di Marx
di Peter Boyle
Anche se il marxista giapponese Kohei Saito non avesse scritto Marx in the Anthropocene: Towards the Idea of Degrowth Communism, la sinistra oggi dovrebbe ancora prendere sul serio l'idea della decrescita.
Questo perché, spiega l'economista e antropologo Jason Hickel in Less is More, «Sebbene sia possibile passare al 100% di energia rinnovabile, non possiamo farlo abbastanza velocemente da rimanere sotto gli 1,5°C o i 2°C, se continuiamo a far crescere l'economia globale ai ritmi attuali».
Non è solo la dipendenza dai combustibili fossili a mettere in pericolo il pianeta, ma la ricerca cronica della crescita economica da parte del capitalismo. Crescita illimitata significa maggiore domanda di energia. E una maggiore domanda di energia rende più difficile sviluppare una capacità sufficiente per generare energia rinnovabile nel breve tempo rimasto per evitare un riscaldamento catastrofico.
Questo è il motivo per cui la rilettura di Saito dell'opera di una vita di Karl Marx è cruciale per i socialisti di oggi. Come egli sostiene, l'ecologia non era una considerazione secondaria per Marx, ma al centro della sua analisi del capitalismo. E mentre si avvicinava alla fine della sua vita, Marx si rivolse sempre più alle scienze naturali e si convinse profondamente che una crescita illimitata nel capitalismo non poteva essere sfruttata per scopi umani o ambientali. Piuttosto, come spiega Saito, Marx capì che il comunismo avrebbe portato sia abbondanza che decrescita.
Altro che riscaldamento globale
Oggi, gli attivisti ambientali in genere si concentrano sul riscaldamento globale.
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Minneapolis chiama Nanterre, la Francia risponde: il caos e l’onda
di Alessio Galluppi
Nanterre, sobborgo di 90 mila anime a Nord Ovest di Parigi, iper marginalizzata, povera, violenta, criminosa, precaria. Roccaforte per anni del Front National (ora Rassemblement National) di Le Pen. Sempre meno “Francia Europea” e sempre più Francia variegatamente Africana. Nanterre e la Francia in una mattina di fine giugno diventa improvvisamente Atlanta, Chicago, Ferguson, Minneapolis.
Nahel, 17 anni, viene ucciso con spietata freddezza a un posto di blocco della polizia. L’omicidio ha tutte le sembianze di una esecuzione: stop del veicolo da parte di poliziotti in motocicletta; pistola alla tempia di Nahel alla guida; le grida dei poliziotti; prima un colpo alla testa con il calcio della pistola; Nahel sbatte contro lo sterzo, il piede scivola via dalla frizione, l’auto già ferma si impenna di quel poco; un secondo colpo, ma dal lato della canna della pistola viene sparato per fermare la fuga del pericoloso ragazzo francese dalla faccia poco Europea e troppo Algerina; Nahel colpito al petto muore.
Nahel Francese figlio di discendenti Algerini, ammazzato come tanti giovani afroamericani dalla polizia in America. La Francia si infiamma e soprattutto si lacera profondamente come stiamo assistendo in questi giorni.
Il solo razzismo sistemico capitalista dell’Occidente colonialista e imperialista non basta a spiegare questa esecuzione a morte sul posto. Così come l’improvvisa ribellione che ne è seguita solo in parte trova la sua radice nella materialità di un futuro precario per le nuove generazioni di francesi figli della immigrazione extra europea.
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Gli individui e la storia
di Michele Castaldo
Dico in premessa che scrivo per chi è disposto a capire le leggi dinamiche del materialismo storico, e pazienza per chi volge le spalle alla rivoluzione in cammino.
In questi giorni sono tre i personaggi sotto i riflettori di cui si discute tanto e si interroga la palla di vetro sul futuro della guerra in Ucraina con riflessi su tutto il pianeta sia geografico che politico.
Qualche giorno prima della “rivolta” di Prigozhin “contro” Putin, giovedì 22 giugno 2023, compare sul Corriere della sera un articolo in prima pagina dal titolo poetico: L’omino in maglia militare, sul quale vale la pena appuntare l’inizio del nostro ragionamento, perché l’autore coglie un punto d’analisi teorico degno di nota, ovvero il rapporto tra chi evoca i fantasmi e il loro ruolo che sfugge di mano agli evocatori. L’autore parla di Zelensky e rivolgendosi agli addetti ai lavori sostiene una tesi nient’affatto peregrina: si, il personaggio avrà anche agito su stimolo delle alte sfere d’oltreatlantico (e dello Stato d’Israele, aggiungiamo noi) ma poi ha incominciato a giocare in proprio, ovvero a voler divenire l’eroe della guerra di liberazione contro la Russia e non è disposto perciò a giocare il ruolo dell’utile idiota trattato come un servo che serve finché serve per essere poi buttato nel cestino quando il suo ruolo è giunto a compimento. La conclusione di Buccini è da segnalare a quanti si affannano a leggere la storia non per le forze impersonali che la muovono, ma nel vedere sempre il complotto di super uomini, preferiamo perciò riferirlo con le parole di Buccini «Sempre e solo “influenze” in attrito sul planisfero. Sempre e solo entità imperiali in eterno dissidio tra loro come permalose divinità dell’Olimpo. Dimenticando i cittadini e il loro sogni, le loro voci, i loro voti.
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Diario della crisi | La borsa sulla vita. Crisi della riproduzione sociale e reinvenzione del quotidiano
di Cristina Morini
In questo dodicesimo contributo per il Diario della crisi (pubblicato congiuntamente su Effimera, Machina e El Salto), Cristina Morini riflette sul significato della riproduzione sociale e della sua crisi. Nel capitalismo contemporanee, dove piattaforme tecnologiche e app organizzano la messa a valore della vita, la riproduzione sociale va oltre la famiglia e la cura di partner e figli. Essa definisce nuovi legami produttivi ai quali ci viene chiesto di adattarci, posti tra il biologico e il sociale, tra i corpi e la relazione che intrattengono tra loro e il mondo circostante. Ma proprio la centralità che oggi assume, nell’essere perno della valorizzazione contemporanea, la pone in costante crisi. Più gli atti della vita (cura, linguaggio, relazione) si avvicinano a diventare una merce qualunque, oggetto di mercificazione e di scambio economico, diretto o indiretto, più essi perdono di significato nella rete delle relazioni sociali, erotiche, nei collegamenti solidali tra viventi. La svalorizzazione si manifesta su tre livelli in particolare: crisi dei sistemi sanitari nazionali (la dismissione del corpo malato); crisi della riproduzione biologica (crisi demografica); crisi della riproduzione ambientale. La crisi della riproduzione sociale rappresenta la summa delle crisi di fronte alle quali oggi ci troviamo anche poiché rischia di indurre una trasformazione antropologica. Per questo sono fondamentali una politica della vita e una reinvenzione del quotidiano, come insegna il femminismo. Da qui dobbiamo ripartire.
*****
Muta la razza, muta ormai la specie, tra poco tali volti saranno appena percepiti e, percepiti, anch’essi imperdonabili, tanto estranei al contesto, al sistema che li racchiude.
Cristina Campo, Gli imperdonabili, Adelphi, Milano 1987
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Capitalismo di crisi e automatismi del declino – viva il capitalismo!
di Fabio Vighi
Le sabbie mobili del “capitalismo di crisi” ci stanno inghiottendo. Profonde mutazioni nel codice della macchina del capitale alimentano nuove forme di controllo e devastazione. Il cambio di paradigma è conseguenza del raggiungimento del limite interno del modo di produzione capitalistico, per cui una crisi non inaugura più un nuovo ciclo espansivo; piuttosto, serve a nascondere l’impotenza di sistema favorendone la transizione autoritaria. Ciò che muta, dunque, è la funzione epistemica della crisi, che – così come un’emergenza geopolitica, climatica, o epidemiologica – è funzionale alla gestione del declino socioeconomico. Non possiamo farci illusioni: il motore del modo di produzione si è ingolfato da tempo, e le “distruzioni creative” di Schumpeter si portano appresso solo macerie. La dipendenza dal credito del capitalismo ultra-finanziarizzato determina accentramento di denaro e potere nelle mani di pochi soggetti e, insieme, la graduale demolizione della domanda reale, e del legame sociale che essa sostiene. A questo serve la nuova “industria delle emergenze”: propagare un flusso di shock che autorizzino la gestione centralizzata di un modello di valorizzazione economica sempre più stagnante, e dunque sempre più iniquo e violento.
L’implosione di sistema prosegue indisturbata, tra apatia, disorientamento, e false contrapposizioni manipolate dall’alto. Le voci critiche condividono un fondo di nostalgia per un mondo che sta evaporando nel nulla da cui era nato: quella “società del lavoro salariato” che il capitale stesso rende obsoleta. Giovani youtuber che fatturano 200mila euro all’anno filmandosi su una Lamborghini mentre distruggono una famiglia che viaggia con la Smart sono l’emblema dell’inevitabile perversione del modello di società del lavoro in cui ancora ci illudiamo di vivere.
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La Grande Convergenza e il revival del colonialismo occidentale
di Stefano G. Azzarà (Università di Urbino)
1. Dal “guevarismo” alla riabilitazione del colonialismo
In un libro del 1931, Der Mensch und die Technik, un Oswald Spengler impegnato a combattere la Repubblica di Weimar ma soprattutto a impedire che la sua crisi avesse un esito rivoluzionario, e dunque intenzionato a delegittimare i comunisti che intendevano riproporre l’esperienza bolscevica in Germania, notava che «anche i popoli “sfruttati” all'interno dei paesi europei e degli Stati Uniti», in spregio alla retorica internazionalista dei partiti marxisti (compresa la SPD), hanno in realtà a loro volta «beneficiato dello sfruttamento internazionale». Anche le classi subalterne, anche gli operai che lamentano rumorosamente la sottomissione del regime di fabbrica e l’estrazione di plusvalore, a guardar bene, hanno goduto e godono di un «lussuoso tenore di vita», se confrontato con quello dei popoli extraeuropei. E questo in virtù dell’«alto salario dell'operaio bianco», un salario di lusso che «si basa esclusivamente sul monopolio fondato dai capitani d'industria» e dunque sulla compartecipazione ai sovraprofitti coloniali1 .
Si trattava certamente di un espediente retorico, volto a contrapporre alla versione marxista del socialismo quella versione “nazionale”, già esposta in Preupentum und Sozialismus (1919)2, che postulava un interesse comune e una comune responsabilità tra l’operaio e l’imprenditore, entrambi al servizio della comunità. Nelle sue parole c’era tuttavia qualcosa di vero, dato che a suo tempo anche Lenin aveva inquadrato questo fenomeno e aveva dovuto mettere in guardia dal socialsciovinismo della socialdemocrazia, la quale con Bernstein e altri suoi esponenti aveva pensato già diversi anni prima di risolvere la questione sociale tramite l’espansione coloniale3.
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Berlusconi e il trentennio inglorioso
di Francesco Sinopoli
La scomparsa di Silvio Berlusconi ci spinge a interrogarci su ciò che è accaduto nel nostro paese in questo lungo trentennio, oggettivamente segnato da un pesante arretramento, sul piano civile, culturale e democratico. Da presidente di una fondazione che ha tra le sue missioni la ricerca nel campo della storia del movimento operaio, oltre che economica e sociale e della formazione sindacale, penso sia nostro compito contribuire alla costruzione di un giudizio complessivo su quello che molti già definiscono il trentennio inglorioso, volutamente contrapposto ai trenta gloriosi, gli anni che dopo la seconda guerra mondiale hanno portato a gran parte delle conquiste sociali e civili, che in questa sede per ragioni di spazio non posso affrontare. Ciò che conta è che progressivamente arretriamo.
Non ho mai pensato che la responsabilità di tutto ciò che è accaduto in questi lunghi anni di crisi fosse esclusivamente sua e degli esecutivi da lui guidati. Molti governi di vario colore, in una fase storica che ha visto una ridefinizione dei rapporti di forza tra capitale e lavoro a vantaggio del primo, hanno contribuito all’arretramento oggettivo sul piano dei diritti del lavoro e dei diritti sociali. Pensiamo Jobs Act renziano, che è riuscito dove non era riuscito Berlusconi. Oppure all’intervento del governo Monti sulle pensioni. Così come mai ho pensato che le vicende giudiziarie potessero rappresentare la cifra sostanziale per leggere la sua stagione politica, uno degli errori strategici dell’antiberlusconismo.
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Come cambia l’industria?
L’ultimo libro di Vincenzo Comito
di Antonio Cantaro
In un agile e documentato saggio (Come cambia l’industria. I chip, l’auto, la carne, Roma, Futura editrice, 2023) Vincenzo Comito ci racconta come il nostro modo di produrre, di lavorare, di consumare sta cambiando in tutto il mondo. Da occidente a Oriente. Un libro d’altri tempi, che parla del nostro tempo.
L’industria sta mutando rapidamente, in Italia, in Europa e nel mondo. Le nuove tecnologie trasformano prodotti e sistemi produttivi, le attività si spostano da Occidente a Oriente, il lavoro muta profondamente, sia nella quantità che nella qualità, la questione ambientale assume un ruolo di assoluta centralità, mentre ritornano sulla scena le politiche industriali dei governi. Il volume di Vincenzo Comito analizza tutte queste trasformazioni (e le conseguenze per il nostro Paese) con riferimento all’alta tecnologia dei semiconduttori, alla transizione dell’automobile verso l’elettrico, ad una produzione di carne sempre più industrializzata.
Un libro settoriale e totale
Un libro “settoriale” e agile (una densa e trasversale introduzione, tre asciutti e essenziali capitoli), sorprendentemente “totale”, senza essere mai ideologico, come è nell’inconfondibile storytelling dell’autore, lontano da ogni accademismo e preoccupazione disciplinare. Senza alcuna falsa modestia: «Questo libro – confessa Vincenzo Comito nell’incipit – cerca, con tutte le difficoltà del caso, di analizzare le trasformazioni in atto nel campo industriale, tentando di individuare almeno alcune tra le linee di movimento principali e lo fa guardando in particolare a tre settori oggi tra i più rilevanti».
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Benvenuti nel Quarto Reich
di Alessandro Taddei
Alessandro Taddei scava nella memoria: Stato, mafia, Gladio e altre orribili cose vicine a tutte/i noi… che è necessario ricordare (o scoprire). In coda trovate molti link utili
Con un cucchiaio di vetro scavo nella mia storia
ma colpisco un po’ a casaccio perché non ho più memoria …
(Fabrizio De Andrè)
Il concetto di «destabilizzazione italiana-Gladio-P2» andrebbe allargato a un periodo ben più ampio di quello degli anni ’70/’80.
I soggetti coinvolti sotto Gladio, nel corso degli anni, passano dal terrorismo politico-eversivo alla mafia, attraverso attentati dinamitardi nelle piazze (Fontana, Loggia), nei treni e nelle stazioni (Italicus, Gioia Tauro, Bologna), nei luoghi della socialità per poi passare ai magistrati più impegnati e ai luoghi storico-artistici simbolo della «bellezza italica».
Dal 1964 ad oggi – generale De Lorenzo docet – assistiamo a un processo continuativo della «strategia della tensione» in cui cambiano non solo i rapporti “cittadino-violenza-paura” ma anche i soggetti che la perpetuano.
I soggetti utilizzati da Gladio e poi P2 cambiano a seconda del momento storico in cui ci si trova ad operare. Eppure è come se una mano militare invisibile regnasse su tutti indistintamente e allungasse il filo della storia senza mettere mai in discussione questa strategia. Sappiamo dunque che questa Entità oscura non morirà per una vicissitudine economico-politica o nel momento in cui uno “storico” segnerà la fine di un’epoca.
È soprattutto per questo fenomeno sistemico che l’Italia non sta avendo un’evoluzione, in termini sia economici che culturali.
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La "grande bufala" del partito della guerra e l'interlocutore (immaginario) dagli Usa
di Alastair Crooke per Strategic Culture
Il Presidente Putin ha dichiarato di essere aperto, in qualsiasi momento, a colloqui con un interlocutore americano.
Perché allora nessuno si è fatto avanti? Perché, quando tra l'opinione pubblica americana cresce l'ansia per il fatto che la guerra in Ucraina sembra destinata a un'escalation permanente e si teme che "Joe Biden e i 'guerrafondai del Congresso' stiano conducendo gli Stati Uniti a un 'olocausto nucleare'"? Questo è stato il duro monito dell'ex candidata alla presidenza, Tulsi Gabbard, nel seguitissimo show di Tucker Carlson.
L'urgenza di fermare lo scivolamento verso l'escalation è chiara: mentre lo spazio di manovra politico si riduce continuamente, lo slancio dei neoconservatori di Washington e di Bruxelles per sferrare un attacco fatale alla Russia non si esaurisce. Al contrario, in vista del vertice NATO si parla piuttosto di prepararsi a una "guerra lunga".
Urgenza? Sì. Sembra così semplice – basta iniziare a parlare. Ma visto dalla prospettiva di un ipotetico mediatore statunitense, il compito è tutt'altro.
L'opinione pubblica occidentale non è stata condizionata ad aspettarsi la possibilità che emerga una Russia più forte. Al contrario, ha sopportato che gli "esperti" occidentali sbeffeggiassero le forze armate russe, denigrassero la leadership russa come incompetente e presentassero alle loro TV gli "orrori" dell'"invasione" russa.
Si tratta – a dir poco – di un ambiente molto sfavorevole per qualsiasi interlocutore che voglia "avventurarsi". Il dottor Kissinger (un anno fa a Davos) è stato "stroncato" quando ha suggerito cautamente che l'Ucraina potrebbe dover cedere un territorio alla Russia.
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Relire Il Capitale
di Antonino Morreale
Curato dall'infaticabile M. Musto, oggi uno degli studiosi più importanti di Marx, esce il volume Il Capitale alla prova dei tempi. Nuove letture dell'opera di Marx. (Allegre Roma pp.383)
Si compone di due parti, la prima sul Capitale, la seconda si estende, a partire da quello, ad alcune tematiche tra le più attuali, come l'ecologia, il genere, le periferie del mondo.
Una Introduzione molto estesa ed accurata di Musto apre il volume e ci aggiorna sulle risultanze ultime attorno alla biografia e alla produzione di Marx. Operazione indispensabile vista la mole e qualità dei nuovi elementi emersi dal lavoro della MEGA2.
È da quella iniziativa di pubblicare tutto Marx ed Engels, nata nel 1975 e giunta ormai alla conclusione, che occorre partire. Ci lasciamo dietro una storia cominciata a fine '800 col lavoro di editore di Engels e poi di Kautsky, e negli anni '20 di Riazanov, per iniziarne una nuova, su basi filologiche affidabili, all'altezza delle sfide di oggi.
Auspichiamo perciò che quanto prima si possa disporre, almeno, di una nuova edizione italiana dei libri II e III del Capitale perché molte e significative sono le novità rispetto alle edizioni di Engels di fine '800. Per il primo libro del Capitale il problema non si pone perché dal 2011 disponiamo del lavoro enorme e raffinato di Fineschi (nel volume del quale parliamo, invece, viene utilizzata la traduzione di Macchioro e Maffi della UTET).
Undici i saggi di specialisti di livello internazionale, appartenenti a diverse generazioni (dal “vecchio” Balbar al giovane Saito, e dagli USA a Francia, Italia, Giappone, etc.)
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Introduzione alla storia delle teorie sulla crisi
di Anwar M. Shaikh
Presentazione. La crisi e le teorie delle crisi è una raccolta monografica tratta delle teorie sulla crisi ed intende contribuire all’approfondimento di un tema che viene continuamente affrontato da molti ma con una superficialità disarmante. A grandi linee, quando useremo il termine “crisi” ci riferiremo ad un insieme generalizzato di fallimenti nel sistema delle relazioni politiche ed economiche della riproduzione capitalistica. Stando così le cose occorre riprendere un dibattito sulla crisi e le sue tipologie che nel corso del tempo si è sviluppato tra gli studiosi che hanno abbracciato la teoria generale di Marx e di coloro che hanno invece utilizzato il suo metodo per poter analizzare le dinamiche di una economia che, dopo il “miracolo” manifestatosi nel dopoguerra, manifesta regolarmente dei crolli alternati a fasi di ripresa sempre più asfittiche. Occorre ormai rassegnarsi allo stato comatoso in cui versa il modo di produzione capitalistico sul lungo periodo che è stato pesantemente peggiorato dal dramma della pandemia che non vogliamo intenzionalmente affrontare vista la miriade di articoli e studi caratterizzati dalle più svariate impostazioni.
Inizialmente la raccolta si apre con un vecchio articolo di Shaikh che riassume le posizioni più importanti delle teorie delle crisi espresse dalla scuola marxista, mentre Maniatis riprende tali teorie approfondendone la critica. L’intervento intitolato “Una critica alle tesi della finanziarizzazione delle imprese non finanziarie” di Francisco Paulo Cipolla e Paolo Giussani (l’ultimo lavoro che ha prodotto prima di venire a mancare) ha il pregio di criticare alla radice le tesi che imputano la crisi recente esclusivamente alla finanziarizzazione dell’economia ponendo al centro il fattore strutturale della crisi rappresentato dal declino permanente degli investimenti con una spiegazione adeguata.
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Il buio che ci sta davanti: dove è diretta la guerra in Ucraina
di John J. Mearsheimer
Questo recentissimo articolo di John Mearsheimer, che traduciamo e pubblichiamo, raccoglie gli argomenti fondamentali degli interventi pubblici recenti e prossimi del grande studioso americano. Difficile sopravvalutarne l’importanza. In esso si ritrovano, corredati da un ampio apparato di note e documenti, gli elementi essenziali della situazione in Ucraina, e dei suoi prossimi, probabili sviluppi. Come d’uso, Mearsheimer li esprime con la massima semplicità e chiarezza, in uno sforzo di obiettività e perspicuità che gli fa onore [Roberto Buffagni].
Buona lettura.
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Questo articolo esamina la probabile traiettoria futura della guerra in Ucraina.[1] Affronterò due questioni principali.
Primo: è possibile un accordo di pace significativo? La mia risposta è no. Siamo in una guerra in cui entrambe le parti – l’Ucraina e l’Occidente da una parte e la Russia dall’altra – si vedono come una minaccia esistenziale che deve essere sconfitta. Dati gli obiettivi massimalisti di entrambe le parti, è quasi impossibile raggiungere un trattato di pace praticabile. Inoltre, le due parti hanno divergenze inconciliabili per quanto riguarda il territorio e il rapporto dell’Ucraina con l’Occidente. Il miglior risultato possibile è un conflitto congelato che potrebbe facilmente trasformarsi in una guerra calda. Il peggiore esito possibile è una guerra nucleare, che è improbabile ma non si può escludere.
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Gig work tra passato e futuro
di Bruno Cartosio
A ogni epoca i suoi precari, e sempre con gli Stati Uniti a tracciare la linea. Nel “libero mercato del lavoro” creato dalla combinazione di attacco neoliberista e tecnologie digitali, il lavoro precario ha anche cambiato nome: gig work. Ha preso a prestito l’etichetta dal mondo dello spettacolo, dove indica il “numero” che un attore senza compagnia è chiamato a fare se si ha bisogno di lui e per il quale è pagato. Chiamare gig questa modalità di lavoro occasionale, intermittente evoca la leggerezza dei palcoscenici, quasi che montare un armadio o guidare la propria auto per conto di qualcuno fosse come recitare una parte, suonare un pezzo o cantare una canzone. Il gig work è lavoro precario basato su rapporti a tre: le corporation che gestiscono le attività, gli individui che richiedono un servizio occasionale, le persone che prestano la loro opera a chiamata, senza vincoli contrattuali, per un compenso pattuito con l’azienda-piattaforma cui si rivolgono gli utenti tramite una “app” condivisa. Per questo le corporation-piattaforme cui i gig workers fanno capo classificano i prestatori d’opera come “lavoratori autonomi”, self-employed, invece che dipendenti, employed, a cui dovrebbero garantire un salario e tutti i benefits e le coperture assicurative e previdenziali che il rapporto di lavoro regolare porta con sé.
Le aziende eponime del gig work sono nate nella San Francisco dei ricchi: Uber e Lyft, rispettivamente nel 2009 e nel 2012, e prima ancora TaskRabbit nel 2008. Dopo quegli inizi il successo delle “piattaforme” e del loro modello di funzionamento è stato fulmineo. La grande crescita della domanda di gig workers, le cui prestazioni sono poco costose per le aziende e per gli utenti, hanno mutato i rapporti dei lavoratori con le stesse piattaforme.
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L’informazione non è solo ‘informazione’
di Gaspare Nevola
Polittico su infodemia, infopenia, potere e libertà nella società dell’informazione
Premessa sul concetto di informazione: una definizione
Oggi viene correntemente sostenuto che viviamo in gran parte immersi in un’enorme e vorticosa massa di informazioni, più che in ogni altra epoca del passato. Se prendiamo per buono questo ritratto della società in cui viviamo, la situazione così dipinta, come un po’ tutti riconoscono, ha una serie di risvolti positivi, utili e graditi. Nondimeno, detta circostanza è anche generatrice o amplificatrice di problemi: per un verso, rende difficile identificare le “informazioni che contano” (quelle rilevanti o significative); per un altro verso, rende complicato distinguere le informazioni di “specchiata qualità”, accurate e ben vagliate dalle così dette “informazioni spazzatura”. Insomma: informazioni che contano e di specchiata qualità, dicerie, fandonie e rumors, per così dire, viaggiano insieme e spesso sullo stesso treno rubano l’un l’altra il posto a sedere. Ma che cos’è l’informazione? O meglio: come possiamo definirla?
Non è facile definire con poche parole cosa significhi “informazione”. Il termine deriva dal verbo latino in-formare, vale a dire “dare forma alla mente”, “mettere in forma qualcosa”, mettere in ordine. Insomma, si riferisce al modo in cui facciamo conoscenza, ovvero prendiamo contezza delle cose che incontriamo nel mondo e le “discipliniamo” (verbo ereditato dal latino discere, imparare). Detto in altri termini, le informazioni sono tali in quanto ci mettono a conoscenza delle “cose presenti nel mondo” (eventi, situazioni, fenomeni, problemi).
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Contro la sinistra neoliberale
di Sahra Wagenknecht
Sahra Wagenknecht, dopo le dimissioni dal gruppo parlamentare della Linke nel 2019, denuncia lo scivolamento del suo Partito verso quella forma di neoliberismo progressista che ha contagiato tutte le sinistre occidentali. In questo testo delinea un programma fondato su valori non individualistici ma comunitari
Mentre scrivevo questo libro, gli Stati Uniti hanno visto un’escalation di conflitti. Sostenitori e avversari di Trump hanno ingaggiato una lotta senza esclusione di colpi. Da tempo, a un cambio al timone di un governo democratico non si accompagnavano tanta incertezza, tanto odio e tanta violenza. Il giorno dell’insediamento del nuovo presidente degli Stati Uniti, a Washington, il Campidoglio era una fortezza in stato di guerra.
Non è inverosimile, purtroppo, che in futuro le immagini provenienti dagli Stati Uniti possano essere replicate anche qui, come riflesse da uno specchio ustorio… a meno che non avremo il coraggio di imboccare al più presto una strada nuova. Anche la Germania, infatti, è profondamente spaccata. Anche nel nostro paese la coesione sociale va dissolvendosi. Anche nel nostro paese, quelle che un tempo erano Comunità unite sono spesso afflitte da divisioni e ostilità. Bene comune e senso civico sono termini pressoché spariti dal vocabolario di ogni giorno.
Addio argomenti, dominano le emozioni
Con la pandemia, la situazione è peggiorata ulteriormente. Mentre milioni di persone con lavori spesso malpagati continuavano a fare tutto il possibile per mantenere in piedi la nostra vita sociale, su molti media, nei siti internet, su Facebook e Twitter regnava un’atmosfera da guerra civile. Una spaccatura capace di dividere famiglie e di mettere fine ad amicizie. Sei favorevole o contrario al lockdown? Usi l’app di tracciamento? Ma davvero, dice, davvero lei non vuole vaccinarsi?
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Guerra russo-ucraina: l’insurrezione di Wagner
La corsa selvaggia di Yevgeny Prigozhin
di Big Serge
Questa analisi che traduco e pubblichiamo mi pare in assoluto la migliore e la più equilibrata tra tutte le moltissime comparse sinora sulla vicenda dell’insurrezione armata delle milizie Wagner; forse anche perché coincide con la mia, pubblicata il 25 giugno scorso*: si tenga dunque in considerazione il possibile conflitto di interessi, nel mio giudizio positivo.
L’analisi di Big Serge sfugge al pericolo principale, che in casi simili è: sovrainterpretare. Una miriade di informazioni impossibili da verificare, manipolazioni a tutto spiano, emozioni al calor bianco: è in casi come questo che la nebbia della guerra clausewitziana sale più fitta. Per farsi un’idea, invece, è necessario attenersi a quel che è possibile valutare con un minimo sindacale di attendibilità, non farsi travolgere dai pregiudizi e dalle ipotesi onnicomprensive che spiegano tutto, in breve sospendere il giudizio su tutto ciò che non suoni autentico, e tenersi pronti a cambiare idea se il contesto muta con il passare dei giorni.
L’Autore, inoltre, ha ben chiaro che “nel nostro tempo prevale un modello analitico: c’è una macchina che prende istantaneamente vita, accogliendo voci e informazioni parziali in un ambiente di estrema incertezza e risputando formule che corrispondono a presupposti ideologici. L’informazione non è valutata in modo neutrale, ma è costretta a passare attraverso un filtro cognitivo che le assegna un significato alla luce di conclusioni predeterminate.”
In altre parole, la maggior parte dell’informazione e dei commenti, sia nei media ufficiali, sia nelle fonti che si vogliono “critiche” e “alternative”, corrisponde a quel che Leszek Kolakowski chiamava “la quinta operazione”. Nelle quattro operazioni aritmetiche – addizione, sottrazione, moltiplicazione, divisione – il risultato consegue ai fattori, e non è noto prima che l’operazione aritmetica sia eseguita.
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Fare analisi, costruire conflitto
Ariella Verrocchio intervista Alisa Del Re
Intervistare Alisa Del Re è cosa facile. Il nostro incontro avviene a Padova, il 4 novembre 2022, nello spazio domestico del suo vivere quotidiano dove mi accoglie e accompagna con la sua piena e elegante corporeità. Fatte le dovute presentazioni dei gatti Ercole e Anteo, ci dirigiamo nel suo studio. «Qui – mi dice – faremo la nostra intervista.» In questo spazio fisico che percepisco come il più intimo e separato della casa, iniziamo a conversare. Il dialogo si fa subito fluido e autentico portandomi dritta, dritta dentro la tensione, la passione del suo percorso di studio, di analisi, di lotta. Un percorso intenso, fatto di esperienze anche molto dure e sofferte a partire da quelle legate alle vicende del 7 aprile 1979. Col passaggio dall’operaismo al femminismo marxista nato negli anni Settanta in seno al collettivo Donne, scuole, università, ospedali di Padova, l’impegno di Alisa Del Re resterà sempre focalizzato sulle donne. Docente di Scienza della Politica dal 1968 al 2013 all’Università di Padova, dove nel 2008 fonda il Centro interdipartimentale di ricerca: studi sulle politiche di genere (CIRSPG), la sua produzione scientifica affronta in modo sistematico questioni inerenti i diritti delle donne, il loro accesso alle risorse e alle strutture di potere, concentrandosi specialmente sui temi della riproduzione sociale, delle politiche familiari, della cittadinanza femminile, dei rapporti tra genere e politica locale.
* * * *
Rispetto alla tua esperienza, qual è l’eredità politica del Novecento?
Credo ci sia la necessità continua di fare le analisi di quello che sta succedendo. Chi fa politica oggi dovrebbe, come lo si faceva nella seconda metà del Novecento, guardarsi intorno, leggere quali sono le direzioni dei cambiamenti in atto, perché la struttura capitalistico-produttiva e la sua sovrastruttura di comando politico non sono immobili, si adattano continuamente anche alle modificazioni che le lotte comportano.
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Alessandro Mazzone, per una teoria del conflitto
Recensione di Tommaso Redolfi Riva & Sebastiano Taccola
Alessandro Mazzone: Per una teoria del conflitto. Scritti 1999-2012, a cura di R. Fineschi, La città del sole, 2022
Il pensiero richiede i suoi tempi: solo la riflessione paziente, elaborata e critica può permettere di cogliere appieno l’articolazione profonda delle mediazioni che informano la realtà. È questa una delle lezioni di metodo (ma il metodo non è già di per sé strutturazione di un qualche contenuto?) lasciata da Alessandro Mazzone (1932-2012). Filosofo marxista formatosi sotto la guida di figure come Banfi, Geymonat e della Volpe, Mazzone ha insegnato per molti anni a Santiago de Cuba, Messina, Berlino e, soprattutto, Siena. E proprio a Siena, per iniziativa di un gruppo di ex-studenti, è recentemente nata l’associazione Laboratorio Critico, che, sotto la guida di Roberto Fineschi, si propone di ricordare e sviluppare l’importante contributo teorico di Mazzone. Il primo volume pubblicato da quest’associazione (in collaborazione con la Rete dei Comunisti) è Per una teoria del conflitto, una raccolta di scritti risalenti all’ultimo decennio di vita di Mazzone.
Mazzone ha pubblicato relativamente poco, anzi pochissimo se facciamo un confronto con gli standard attuali della pubblicistica accademica. Eppure, anche solo scorrendo la bibliografia dei suoi scritti raccolta in questo volume, ci troviamo di fronte a un intellettuale che ha analizzato autori e temi cruciali della modernità filosofica, o che ha tradotto opere assai importanti nel dibattito internazionale su questioni di economia, storia, filosofia (come, ad esempio, Problemi di storia del capitalismo di Maurice Dobb, Lezioni di sociologia di Adorno e Horkheimer, molti saggi di Lowith). In questo caso, dunque, la lentezza della scrittura è segno di grande modestia e onestà intellettuale, che trova il proprio precipitato proprio nella incredibile densità che caratterizza gli scritti di Mazzone, tutti definiti da un’architettonica puntuale e rigorosa
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Strade senza uscita
Note a margine di tre saggi sulla civiltà tardo-capitalistica
di Carlo Formenti
Intervengo, senza pretese di esaustività, su tre lavori di altrettanti amici che ho avuto modo di leggere di recente. I temi affrontati dagli autori non sono immediatamente riconducibili gli uni agli altri: Onofrio Romano (Go Waste. Depensamento e decrescita, ORTHOTES, Napoli-Salerno 2023) critica i limiti delle teorie della decrescita e individua nel concetto battagliano di dépense una più efficace alternativa al feticismo della crescita; Lelio Demichelis (La società fabbrica. Digitalizzazione delle masse e human engineering, LUISS, Roma 2023) rilancia la tesi secondo cui il mondo contemporaneo sarebbe completamente sovradeterminato dalla tecnica; infine Roberto Finelli (Filosofia e tecnologia. Una via di uscita dalla mente digitale, Rosenberg & Sellier, Torino 2022) individua nella radicalizzazione dell'umanesimo la possibilità di attribuire un segno positivo alla rivoluzione digitale. Discorsi paralleli più che convergenti, nei quali chi scrive ha però ritenuto di riconoscere alcuni tratti comuni che, come cercherò qui di dimostrare, indirizzano i tre autori su strade senza uscita che non offrono strumenti atti a scalfire le fondamenta della civiltà tardocapitalista.
1. Onofrio Romano. Cercando un'alternativa nel pensiero di Bataille
La critica del concetto di decrescita che troviamo nel testo di Onofrio Romano viene dall'interno dello stesso paradigma decrescitista (Romano è stato allievo di Serge Latouche, nonché parte attiva del dibattito interno all'area di pensiero inaugurata da questo autore).
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O sarai ribelle o non sarai!
Francesco Centineo intervista Antonello Cresti
D. Antonello allora è uscito il tuo ultimo lavoro IL BELLO LA MUSICA E IL POTERE in collaborazione con il coautore Michelangelo Giordi, però partirei da un punto: c’è un filo conduttore in tutti i tuoi lavori. Tu sostieni che si è smarrito il senso del bello. A mio avviso c’è un genere musicale che incarna questa assenza, questo vuoto. Questo genere è a mio avviso la Trap. Sbaglio?
R. No non sbagli, non sbagli assolutamente. Diciamo che il filo conduttore di questi ultimi tre saggi, è il tentativo di spostare la riflessione sulla Musica da un piano divulgativo ad un piano sociologico, usando la Musica – ovvero una forma d’arte – come cartina da tornasole per indagare sui tempi che corrono, sulla società in cui viviamo e quali sono i processi in atto nella società nell’ambito della veicolazione valoriale, propaganda ed educazione ed il ruolo svolto dalla Musica che è fondamentale. Rispetto alla Trap nel mio libro precedente LA MUSICA E I SUOI NEMICI dedico appunto un capitolo alla Trap che definisco una sorta di avanguardia del pensiero unico.
I Trapper sono dei figuri che si prestano a fare il lavoro sporco rispetto a quella che è la volontà dei centri di potere. La trap si spinge a proporre quei modelli a cui, in realtà, la politica tende, ma che non può sdoganare pienamente per non scandalizzare una fetta dell’opinione pubblica. Per fare un esempio il mito assoluto del carrierismo e del consumismo più feroce e spietato con elementi di pubblicità occulta o manifesta infilata nei brani musicali. Sessualità tossica – alla faccia dei discorsi sull’inclusività – con un uso del corpo come oggetto di mercificazione, di resa monetaria dell’esistenza stessa, un materialismo imperante. Un avvelenamento dei pozzi rivolto ai giovani e giovanissimi.
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Potenza e impotenza della distopia: due o tre cose su Squid Game
di Alessandro Simoncini
1. Nella loro introduzione a Squid Game. Società, cultura, rappresentazioni, Simona Castellano e Marco Teti compiono due operazioni meritorie[1]. La prima è quella di sottrarsi, ma solo in prima battuta, al genere del commento. Invece che chiosare i contenuti della famosa serie coreana, citando i lavori di Troy Stangarone, Castellano e Teti ricordano infatti opportunamente la natura di merce cultural-spettacolare di Squid Game sottolineandone il posto di rilievo nel nuovo modo di produzione culturale. I due autori sottolineano infatti che la serie è «l’esempio di massimo successo della strategia» con cui Netflix è riuscita a catturare un pubblico globale investendo in produzioni legate a un ambito locale (facendo leva nel caso specifico sull’effetto nostalgia prodotto dal richiamo ai giochi dell’infanzia)[2]. Specificando che, insieme ad altre produzioni autoctone finanziate da Netflix, nella Corea del Sud Squid Game ha permesso «un notevole incremento del numero di abbonati quantificabile percentualmente in oltre il 120%,», i due autori sostengono che l’obiettivo di Netflix è contemporaneamente quello di «costruire il proprio servizio di sottoscrizione [di un abbonamento mensile] nei [singoli] mercati nazionali stranieri» e quello di usare i contenuti locali attrattivi «per accrescere la richiesta del suo servizio nei mercati di tutto il mondo»[3]. Il secondo merito dell’introduzione di Castellano e Teti è quello di rilanciare un quesito con cui Steven Aoun ha sollevato il rilevante problema teorico intorno a cui ruoteranno le pagine che seguono: Squid Game è «una feroce critica della società capitalistica» e dei suoi peggiori esiti neoliberali oppure è una grande allegoria-parodia degli aspetti «controversi, problematici, persino tragici» della società sudcoreana: della miseria capitalista, cioè, di una società in cui la rabbia crescente e la disperazione che essa suscita vengono convertite in oggetto di consumo e intrattenimento all’interno «del sistema oppressivo del capitalismo globale»[4]?
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La Russia verso la de-postmodernizzazione?
di Piotr
Prigozhin, Neo-liberal-cons, Bachmut, la Quinta e Sesta Colonna russe e le Bombe Nucleari. Uniamo i puntini
In un articolo su Sinistrainrete, Pierluigi Fagan ha affrontato l'affare Prigozhin dal punto di vista della Teoria della Complessità, di cui è specialista, suggerendo la possibilità che l'effimero tentativo di golpe di Evgenij Prigozhin sia connesso a lotte di potere per la successione di Vladimir Putin, il quale, ricordava Fagan, ha annunciato ben prima dell'inizio dell'Operazione Militare Speciale in Ucraina che non si sarebbe presentato alle elezioni presidenziali dell'anno prossimo [1].
In alcuni post personali io ho sostenuto che è difficile pensare che l'apparato di sicurezza russo non sapesse che stava bollendo qualcosa in pentola, anche perché erano mesi che il patron della PMC Wagner stava, diciamo così, dando istrionici segnali, accusando di incompetenza e malafede i vertici militari russi. E anche perché è fuori dal mondo pensare che l'intelligence russa non avesse occhi aguzzi nella e sulla Wagner. Il New York Time, citando fonti anonime, ci informa che ne era “accorta” persino l'intelligence statunitense, aggiungendo che anche Putin ne era al corrente [2].
E fin qui ci siamo.
Manca il resto.
Quindi, lasciando per il momento da parte gli Stati Uniti, la situazione era questa: Prigozhin stava ordendo qualcosa contro un settore chiave del governo russo, il Cremlino lo sapeva ma ha “lasciato fare”. Perché?
Il primo motivo più evidente è che si trovava di fronte una formazione armata fino ai denti composta da diverse migliaia di combattenti con grande esperienza guidati da un gruppo autoreferenziale, il Consiglio dei Comandanti della Wagner, che usava come “avanguardia PR” un signore con un passato criminale, ricchissimo, patologicamente egotico [3].
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Per una storia in costruzione
di Chiara De Cosmo
Un libro su Marx e il dibattito italiano degli anni Settanta sulla storia antica e il nesso tra ricerca filosofica, pratica militante e storiografia
Nel 1974, presso l’Istituto Gramsci di Roma che all’epoca rappresentava una delle più importanti istituzioni culturali del Pci, un gruppo di studiosi di differenti provenienze disciplinari si riunì, sotto la direzione di Aldo Schiavone, per avviare il primo ciclo del Seminario di antichistica. Il suo scopo era quello di riflettere sui metodi e sui contenuti della storiografia del mondo antico. Fu l’inizio di una feconda stagione di dibattito in Italia, che riassumeva al contempo alcuni dei migliori risultati della discussione internazionale di teoria storica e sociologica e accoglieva l’eredità di alcuni studiosi socialisti italiani (in particolare Ettore Ciccotti e Giuseppe Salvioli), che tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento si erano proposti di riflettere sulla situazione di stagnazione della penisola a partire dallo studio e dalla riscoperta della struttura economica della Grecia e della Roma antiche. A uno sguardo retrospettivo, l’aspetto che forse oggi più colpisce di questa fase della storia culturale italiana è l’esigenza da cui nacque questa discussione, un’esigenza che era condivisa da tutti i suoi protagonisti: quella di unire la partecipazione appassionata alle vicende politiche, sociali e culturali del paese con la riflessione su questioni di teoria della storiografia, rifondandole a partire da una rinnovata interpretazione del lascito marxiano.
Uno dei meriti di Categorie marxiste e storiografia del mondo antico (Manifestolibri, 2022), in cui Sebastiano Taccola ricostruisce in maniera ricca e articolata le linee di questo dibattito, è quello di riuscire non solo a restituirne la vitalità, ma anche più in generale a individuarne i margini di connessione con le riflessioni marxiste più recenti.
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La luce dell’Illuminismo
La simbolica della modernità e l’eliminazione della notte
di Robert Kurz
Proponiamo qui un breve quanto intenso scritto di Robert Kurz, dal titolo La luce dell’illuminismo. Questo testo funge, per l’occasione, anche come sorta di “anticipazione” della prossima apparizione, per le edizioni Mimesis, del noto pamphlet Manifesto contro il lavoro del Gruppo Krisis, che viene ripubblicato a distanza di 20 anni dalla sua prima uscita in Italia. In questo libro, infatti, oltre al Manifesto vero e proprio, fanno da corollario altri testi, probabilmente altrettanto importanti, tra i quali La dittatura del tempo astratto, sempre di Robert Kurz, all’interno del quale si trova un capitoletto, anch’esso intitolato La luce dell’illuminismo, che riprende in modo sintetico proprio i temi di fondo presenti nell’articolo, più completo, che qui pubblichiamo.
Quest’ultimo risale al 2004 ed è inizialmente apparso sul numero 112 della rivista internazionale Archipel. È stato dapprima meritoriamente tradotto in italiano sul web, in modo forse un po’ sbrigativo e dalla versione francese, da qualcuno che non conosciamo ma che si firma con un simpatico nomignolo, Ario Libert. La versione che proponiamo adesso tiene conto di quella traduzione, ma rivista in base all’originale tedesco e si differenzia in più parti rispetto a quella (per esempio, Ario aveva lasciato il termine tedesco Aufklärung, come già nella traduzione francese, mentre noi, coerentemente con la tradizione delle traduzioni italiane dei testi kurziani, abbiamo deciso di riportarlo con un più netto “illuminismo”, così richiamando anche – come nelle intenzioni kurziane – un preciso momento storico, oltre che un determinato movimento di pensiero).
Questo breve testo può essere considerato come uno dei testi più “filosofici” di Robert Kurz, dove l’autore polemizza ancora una volta con il pensiero illuminista, in questo caso criticandone a fondo l’onnipervasiva metafisica della “luce”.
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A cura di Aldo Zanchetta: Speranza
Tutti i colori del rosso
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Qui la premessa e l'indice del volume
A cura di Daniela Danna: Il nuovo volto del patriarcato
Qui il volume in formato PDF
Luca Busca: La scienza negata
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Daniela Danna: Covidismo
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Franco Romanò, Paolo Di Marco: La dissoluzione dell'economia politica
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Giorgio Monestarolo:Ucraina, Europa, mond
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