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Attacco ucraino al nucleare russo, i “volenterosi” fanno gli Stranamore
di Dante Barontini
L’appuntamento di Istanbul – sulla cosiddetta trattativa triangolare tra Ucraina, Usa e Russia, formalmente mediata dalla Turchia (che è paese della Nato, ma decisamente “attore in proprio”) – non parte con grande prospettive di successo.
Sintetizzando molto, e senza neanche considerare gli avvenimenti sul fronte – dove come da tempo l’armata di Mosca avanza a piccoli passi – si devono mettere in fila questi attacchi ucraini, come ricapitolati da diversi osservatori.
– Nella regione di Bryansk, alle 10:52 ora di Mosca, i binari ferroviari sono stati fatti saltare in aria nella tratta Unecha-Zhecha. Non si contano né feriti né particolari danni.
– Sabatori notte un ponte ferroviario è crollato anche nella regione di Kursk, al confine con l’Ucraina, mentre un treno merci lo stava attraversando: ferito un macchinista.
– Sabato sera nella regione di Bryansk è stato fatto saltare un ponte sul quale viaggiava un treno passeggeri al momento dell’attacco terroristico. Si contano sette morti e decine di feriti.
– La base aerea di Olenya nella regione di Murmansk e la base aerea di Belaya nella regione di Irkutsk sono state sottoposte a un massiccio attacco di droni; i residenti locali hanno pubblicato filmati di esplosioni e incendi. Secondo i media ucraini sarebbero stati attaccate anche le basi di Dyagilevo e l’aeroporto di Ivanovo, distruggendo diversi bombardieri strategici Tu-95, nonché alcuni Tu-22 e aerei da trasporto.
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Tra guerra e negoziati le cancellerie europee scelgono la guerra
di Fabrizio Poggi
Riprendono oggi a Istanbul i colloqui russo-ucraini sul conflitto. In che clima, è facile prevedere, dopo gli avvenimenti degli ultimi due giorni, con gli attacchi terroristici ucraini a strutture civili e militari russe. A proposito di questi ultimi, vorremmo dire che, con eccessiva, a nostro parere, “delicatezza”, ColonelCassad parla di «negligenza pagata troppo cara», a proposito della relativa facilità con cui sono stati portati a termine gli attacchi ucraini (solo ucraini?!?) agli aeroporti di diverse regioni russe in cui è dislocata l'aviazione strategica di Mosca. Un tempo, con termine a nostro parere più appropriato, si sarebbe parlato di “negligenza criminale”, con teste che sarebbero saltate, non solo in senso figurato. Non dubitiamo che, anche in questo caso, vari responsabili saranno chiamati a rispondere, quantomeno con la posizione ricoperta. Ma, in ogni caso, rimangono aperte alcune questioni che, a nostro modesto parere di semplici osservatori (né militari, né politici) di quanto accade a “est del Dnepr”, rendono la faccenda della “Ragnatela” nazi-golpista imbastita, a quanto sostengono a Kiev, da diciotto mesi a questa parte, quantomeno ambigua, dal punto di vista dei possibili coinvolgimenti, interni ed esteri, a dar man forte a SBU, GUR, MOU, ecc.
Per quanto concerne i secondi, tralasciando per un momento il molto probabile contributo all'operazione da parte dei soliti “volenterosi” (volenterosi di arrivare alla guerra a ogni costo e con ogni prezzo da far pagare alle masse), basti citare la possibile implicazione di una repubblica ex sovietica quale il Kazakhstan: non solo quanto a vicinanza logistica all'area di Celjabinsk e al capannone affittato per nascondere il TIR carico di droni, quanto proprio alla sua insorta “inimicizia” nei confronti della Russia, di cui pure Mosca da tempo non fa mistero e che quindi dovrebbe quantomeno tenere sul chi va là i Servizi russi.
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Per quelli che con la bandierina ucraina stanno festeggiando...
di Andrea Zhok
Alla vigilia del nuovo tentativo di negoziato di pace tra Russia e Ucraina a Istanbul l'Ucraina ha sferrato il più grave attacco simultaneo all'entroterra russo dall'inizio della guerra.
Ci sono stati prima 2 attentati con esplosivo a linee ferroviarie civili, a Bryansk e Kursk. Nel primo caso al momento sono segnalati almeno 7 morti e 69 civili feriti. Dal secondo non sembra siano ancora pervenute notizie chiare.
Subito dopo vi è stato l'attacco simultaneo a tre aeroporti militari nelle remote regioni di Murmansk, Irkusk e Amur.
Attraverso l'inflitrazione di camion commerciali in prossimità degli aeroporti, sono stati liberati centinaia di droni che hanno colpito l'aviazione strategica russa.
Almeno 4 bombardieri nucleari sono stati certamente distrutti, ma più probabilmente 10; le fonti ucraine parlano di 41 bombardieri distrutti, il che farebbe di questo episodio una sorta di Pearl Harbour russa.
Se le cifre ucraine fossero confermate, ma anche se fossero significativamente inferiori, questo rappresenterebbe una seria riduzione del potenziale nucleare russo.
Sono certo che alcuni di quelli con la bandierina ucraina sul sito staranno brindando e felicitandosi del bel colpo.
Ora, io confesso di essere terrorizzato e se abitassi in Ucraina lo sarei infinitamente di più.
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Hype, ovvero l'economia della truffa
Sulla macchina della colpa neoliberale
di Lorenzo Mizzau
Sin dalla nascita di Machina, transuenze si è interrogato con vari articoli sulla fine del neoliberalismo o, per meglio dire, sulla rottura dell'egemonia neoliberale.
Riprendiamo questo programma di discussione con un articolo di Lorenzo Mizzau, che si concentra soprattutto, riprendendo Lazzarato, sull'economia del debito. L'ipotesi dell'autore, per dirla con le parole sue è che «in gioco ci sono precisamente le stesse tecnologie di governo, le stesse istituzioni, gli stessi discorsi che regolano il funzionamento di ciò che Foucault ha chiamato governamentalità neoliberale[12]. Eppure, c’è qualcosa come una riconfigurazione di paradigma, un nuovo assestamento di tutti questi elementi attorno a un nuovo cardine».
Il soggetto non deve capire che i maltrattamenti costituiscono un attacco premeditato alla sua identità personale da parte di un nemico antiumano. Deve essere indotto a pensare che merita le terapie cui viene sottoposto perché in lui c’è qualcosa di spaventosamente sbagliato.
W. S. Burroughs[1]Il neoliberalismo è morto. Lunga vita al neoliberalismo!
Che l’ipotesi neoliberale, oggi, faccia acqua da tutte le parti è sotto gli occhi di ciascuno. Al punto che dichiarare la bancarotta del neoliberalismo, da qualche anno a questa parte, non appare più tanto assurdo[2].
Ecco, in un rapido scorcio, il panorama che ci troviamo di fronte. Il discorso postbellico della pace, oggi, cede il passo a un nuovo discorso e a nuove pratiche di guerra. Al meccanismo postbellico del consumo, ancora attivo in Europa lungo tutti gli anni Ottanta, subentra l’introduzione forzata della miseria come way of life.
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Intelligenza artificiale e transumanesimo verso il punto di non ritorno(!)
di Franz Altomare
L'impennata tecnologica registrata grazie alla progressiva diffusione dell’Intelligenza Artificiale impone, a ogni società felicemente globalizzata, di rimanere al passo coi tempi e accelerare l’inevitabile implementazione di quest’ultimo traguardo informatico in ogni campo della vita sociale e produttiva. Il progresso non ammette ritardi! Questa è la narrazione che ci viene propinata ormai ogni giorno.
Il dibattito mainstream centrato su rischi, benefici e necessità di normazione della AI si svolge nel recinto obbligato della propaganda che recita sempre lo stesso mantra: la scienza è verità; la verità è sacra; la tecnologia è incarnazione di ciò che è vero e sacro e la sua missione è il progresso; il progresso è cosa buona e giusta, sempre e per tutti. Non ci sono altre opzioni: o sei per il progresso, e quindi per la scienza, dio unico, veritiero e misericordioso, oppure sei per la barbarie e la superstizione e per questo destinato alla dannazione eterna.
Prima di procedere con la nostra riflessione che intende soffermarsi su un aspetto specifico dell’Intelligenza Artificiale, quello della simulazione all’interno dei chatbot, diamo un breve cenno su AI act, il regolamento dell’UE approvato nel luglio 2024 ed entrato in vigore, per alcune sue parti, nel gennaio di quest’anno. La regolamentazione per legge, oltre a essere carente, non entra mai nel merito di chi possiede la AI e di come se ne può servire a fini non solo di arricchimento, ma anche, e soprattutto, di controllo e manipolazione.
In un articolo[1] di RAI News sulla pubblicazione dell’AI act in Gazzetta Ufficiale[2] si può scorgere il linguaggio entusiasta e apologetico che accompagna ogni innovazione tecnologica ricca di promesse e anticipatrice di un mondo, quello promesso dalla Quarta Rivoluzione Industriale, in cui le macchine solleveranno una volta per tutte gli esseri umani dalle loro fatiche, a partire da quella più gravosa: la fatica di pensare.
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Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Settima parte. Idee di transizione (e di profsojuz) a confronto: il dibattito sui sindacati
Quella propugnata da Lenin non era l’unica concezione di sindacato, all’interno del variegato e vivace mondo bolscevico di allora. Vale la pena rammentarlo, se non altro perché già all’epoca notiamo non tanto una diversità di progetto rivoluzionario, su cui peraltro si spesero in passato fiumi di inchiostro (e di rispettivi, a ben vedere poco “rivoluzionari”, mali di fegato e polemiche assortite), quanto di MUTAZIONE DEL RUOLO STESSO DEL SINDACATO IN FUNZIONE DEL PROGETTO RIVOLUZIONARIO CONSIDERATO.
PRESTIAMO ATTENZIONE A QUESTO PASSAGGIO, PERCHÉ È MOLTO, MA MOLTO ATTUALE. Alla luce del fatto che oggi, 2025, non esiste alcun “progetto rivoluzionario”, all’interno di una ancorché minima “teoria della transizione” al socialismo.
“Le nozze non si fanno coi fichi secchi”, recita un antico adagio popolare, preso a scusa da chi avrebbe continuato (e qualcuno di questi “difensori” continua tutt’ora!) a guardare alle “condizioni oggettive” che rendevano “storicamente necessari” venti, trenta, quarant’anni di NEP (ma volendo anche un secolo intero!) durante il quale un MODO CAPITALISTICO di produzione impiegato in maniera STATALISTICA E DIRIGISTICA avrebbe portato un Paese a essere la prima potenza industriale al mondo… “MA NON ANCORA PRONTO PER LA TRANSIZIONE AL SOCIALISMO” (Marx scriveva Gotha un secolo e mezzo fa… ma pazienza… era un “profeta”).
Questa è stata l’excusatio non petita che, storicamente, e a partire dai partiti comunisti ancora al potere, si sollevò all’epoca. Nessuno, dopo Tian’an men, disse più nulla. Ed è da oltre trent’anni che “non importa che il gatto sia nero o bianco, se acchiappa i topi è un bravo gatto” (不管黑猫白猫,捉到老鼠就是好猫)1. N’est-ce pas?
Oltremuraglia, peggio che andar di notte. Caduto infatti il Muro, caduta l’URSS… “ANDAVA BENE COSÌ”, GATTI BIANCHI, GATTI NERI, TOPI, ANDAVA BENE TUTTO, CARA GRAZIA CHE C’ERA ANCORA QUALCOSA CHE SI MUOVEVA, che non tutto era perduto…
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Le conseguenze della "pacifica" rottura tra Trump e Musk
di Alessandro Volpi*
La ‘pacifica’ rottura tra Trump e Musk, che ha portato alle dimissioni del creatore di Starlink, costituisce un dato molto rilevante del quadro politico ed economico americano.
Dal punto di vista di Musk, la sua esposizione politica lo mette in condizioni di costante tensione; e’ stato sganciato dai grandi fondi, che sono in aperto contrasto con Trump e che hanno venduto azioni Tesla, mentre i suoi molti affari con l’Amministrazione USA lo espongono alla dura critica per conflitti di interesse su cui le corti americane, sempre più ostili a Trump, possono inchiodarlo. Pesano poi l’ostilità dei ministri di Trump verso il sudafricano e la sempre crescente sfiducia di figure come Peter Thiel, soprattutto in relazione alla grande battaglia per i fondi federali in materia di intelligenza artificiale.
Alla luce di tutto ciò, Musk, che è stato scavalcato da una parte della macchina dei dipartimenti di Stato e ha giudicato troppo accomodante il Big beutiful bill, ha pensato che defilarsi, conservando un rapporto informale, ma stretto con Trump sia la strada migliore per avere meno pressioni e riacquisire una visibilità autonoma, coerente con la sua costruita immagine di genio sregolato persino rispetto al presidente più anomalo degli Stati Uniti. Per Trump la rottura con Musk si inserisce nella strategia dell’imprevidibilità , che appare sempre più evidente. I suoi continui mutamenti di posizione, la sua imprendibilità sono gli strumenti per non dare punti di riferimento che non siano identificabili con la sua persona.
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Il piano dei neocon è fallito: la NATO fermerà la sua espansione a Est
di Clara Statello
Un importante annuncio dell'inviato di Trump tronca i piani strategici dei leader europei, mentre Russia, Turchia e Stati Uniti decidono sul secondo round di colloqui. L'Ucraina non potrà che adeguarsi
Il piano di espansione della NATO a Est ai danni del mondo russo non proseguirà. Lo ha dichiarato ad ABC il generale statunitense Keith Kellogg, inviato speciale della Casa Bianca per l’Ucraina:
«Per noi, l'adesione dell'Ucraina alla NATO non è in discussione. Non siamo l'unico Paese a pensarla così. Posso nominarvi almeno quattro Paesi NATO che nutrono anch'essi dubbi. Ma il consenso di tutti i 32 Paesi NATO è necessario affinché chiunque possa aderire».
Conferma inoltre che questo è uno dei punti richiesti da Mosca nelle trattative.
«E non parlano solo dell'Ucraina, ma anche della Georgia e della Moldavia. Noi diciamo: «Ok, in generale, possiamo impedire alla NATO di espandersi oltre i vostri confini”. È una questione di sicurezza», ha aggiunto.
Si tratta di una vera e propria svolta che pone fine a quasi vent’anni di politiche di rollback condotte ai danni di Mosca. Purtroppo è arrivata dopo un colpo di stato, lo sdoganamento dei nazisti in Ucraina e nei Baltici, le persecuzioni di comunisti e antifascisti, la legittimazione della censura sull’informazione non allineata a Washington e soprattutto centinaia di migliaia di morti.
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Ricchezza scandalosa
di Greg Godels - zzs-blg.blogspot.com
Gabriel Zucman è un economista nato in Francia che insegna all'Università della California - Berkeley e alla Scuola di Economia di Parigi. La specializzazione accademica di Zucman è la diseguaglianza nella ricchezza; utilizza i dati fiscali per tracciare la stratificazione della ricchezza negli Stati Uniti e nel resto del mondo. Zucman, allievo del celebre esperto di diseguaglianza Thomas Piketty, è una figura importante del World Inequality Database.
Le sue analisi più recenti denunciano uno scandalo vero e proprio, un grado di diseguaglianza negli USA che dovrebbe suscitare vergogna in ogni uomo politico, in ogni commentatore dei media mainstream e in ogni individuo che, esercitando un'influenza culturale, manchi di mettere al centro del suo messaggio questa realtà rivoltante.
I dati recentemente rilevati da Zucman, esaminati in modo relativamente dettagliato da un articolo di Juliet Chung pubblicato sul numero di giovedì 24 aprile del Wall Street Journal, hanno suscitato ben poco interesse da parte degli altri media convenzionali.
Zucman sostiene che la ricchezza di 19 famiglie negli Stati Uniti è aumentata di un trilione di dollari nel 2024 - più del PIL della Svizzera. Questo 0,00001% di ricchissimi incideva per l'1,81% sul totale della ricchezza degli USA nel 2024 - in altre parole, quasi il 2% di tutta la ricchezza degli Stati Uniti è di proprietà di queste 19 famiglie.
Ecco altre conclusioni tratte dall'articolo del Wall Street Journal:
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Resipiscenze tardive
di Paolo Bartolini
In questi giorni ci si interroga sullo strano riposizionamento dei media nostrani (e non solo) rispetto allo sterminio dei palestinesi. Meglio tardi che mai, dicono alcuni. Ben vengano tutte le manifestazioni a sostegno della pace in Medioriente, e in netto contrasto con la pulizia etnica. Tuttavia bisogna davvero capire perché l'aria sta cambiando. Quando certi giornali, che per anni hanno giustificato nei fatti la violenza israeliana appellandosi all'orrore del 7 ottobre, iniziano a proporre una lettura diversa della situazione, non lo fanno per rispondere a un crescente sdegno popolare. Lo fanno perché, nelle cerchie che contano, è stato dato il via libera. Si noti: non c'è e non ci sarà il via libera per considerare diversamente la guerra per procura in Ucraina. La Russia è il nemico. E visto che Israele resta amico a prescindere, forse bisogna tutelare la sua credibilità internazionale offuscata facendo credere che l'orrore a Gaza sia frutto di errori clamorosi di Netanyahu. È lui che va isolato, quasi a farci intendere che la questione gli sia scappata di mano. Così si può condannare il singolo, e gli estremisti al governo, lasciando in piedi di principio il partenariato con Israele. Del resto, quando parli con tanto ritardo, con più di 60.000 morti e gran parte della Striscia rasa al suolo, il peggio è già accaduto. I leader europei, inoltre, non si dimentichi che stanno preparando la futura guerra con la Federazione Russa.
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“Renderla inutilizzabile”: la missione di Israele per la distruzione totale di Gaza
di Meron Rapoport - Orev Ziv
All’inizio di aprile, poche settimane dopo aver ripreso l’assalto a Gaza, le forze israeliane hanno annunciato di aver preso il controllo della città più a sud, Rafah, per creare l’«Asse di Morag», un nuovo corridoio militare che divide ulteriormente la Striscia. Nel corso della guerra, secondo l’Ufficio governativo dei media di Gaza, l’esercito ha distrutto più di 50mila unità abitative a Rafah – il 90% dei quartieri residenziali.
Ora l’esercito ha proceduto a spianare le strutture rimanenti di Rafah, trasformando l’intera città in una zona cuscinetto e tagliando l’unico passaggio di frontiera di Gaza con l’Egitto. Y., un soldato tornato di recente dal servizio di riserva a Rafah, ha descritto i metodi di demolizione dell’esercito a +972 Magazine e Local Call.
«Ho messo in sicurezza quattro o cinque bulldozer (di un’altra unità) e hanno demolito 60 case al giorno. Una casa di uno o due piani viene abbattuta nel giro di un’ora; per una casa di tre o quattro piani ci vuole un po’ più di tempo», dice. «La missione ufficiale era aprire una via logistica per le manovre, ma in pratica i bulldozer distruggevano semplicemente le case. La parte sud-orientale di Rafah è completamente distrutta. L’orizzonte è piatto. Non c’è nessuna città».
La testimonianza di Y. è coerente con quella di altri 10 soldati che hanno prestato servizio in tempi diversi nella Striscia di Gaza e nel Libano meridionale dal 7 ottobre e che hanno parlato con +972 Magazine e Local Call. Si allinea anche con i video pubblicati da altri soldati, con le dichiarazioni ufficiali e ufficiose di alti ufficiali attuali e precedenti, con le immagini satellitari e i rapporti delle organizzazioni internazionali. L’insieme di queste fonti dipinge un quadro chiaro: la distruzione sistematica di edifici residenziali e strutture pubbliche è diventata una parte centrale delle operazioni dell’esercito israeliano e, in molti casi, l’obiettivo primario.
Alcune di queste devastazioni sono il risultato dei bombardamenti aerei, dei combattimenti a terra e degli ordigni esplosivi improvvisati piazzati dai militanti palestinesi all’interno degli edifici di Gaza.
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Ecatombe a Gaza: Ue e Italia complici
di Barbara Spinelli
Grazie ai filmati trasmessi dai giornalisti palestinesi – i soli ammessi nelle zone di morte, più di 200 sono stati ammazzati dal 7 ottobre 2023 – i cittadini europei e statunitensi sono in grado di vedere gli effetti della carneficina di Gaza, e chi conosce un po’ il passato sa anche la natura di quel che vede: un popolo disumanizzato, l’uccisione di bambini, donne e anziani, una carestia pianificata, corpi umani ridotti a scheletri appena capaci di muoversi (i bambini che muoiono di fame non piangono).
Vari organismi Onu denunciano un genocidio: dal luglio 2024 la Corte di giustizia delle Nazioni Unite lo ritiene “plausibile”. Invano ha chiesto a Israele azioni di prevenzione e rimedio. Anche se arriverà una tregua, questi sono i fatti.
In lingua araba lo sterminio porta il nome di Nakba, già avvenuta nel 1947-49, quando 750.000 palestinesi furono cacciati e 15.000 uccisi. In ebraico la distruzione nazista degli ebrei si chiama Shoah, e ha lo stesso significato: catastrofe, annientamento. Le televisioni italiane hanno schiuso gli occhi, da quando la fame a Gaza ha raggiunto l’acme, ma ancora si guardano dal dare un nome finale e terribile all’esecuzione d’un popolo, e a pratiche neo-coloniali riabilitate dall’offensiva delle destre statunitensi ed europee contro il cosiddetto pensiero “woke”. I conduttori Tv schivano stizziti quelle che chiamano inutili dispute terminologiche: perché inutili?
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Il falso mito della Cina capitalista e gli occhi strabici dell’Occidente
di Pino Arlacchi
Ed eccomi qui, di nuovo in Cina per l’ennesima volta. Vengo in questo paese quasi ogni anno da trent’anni. Ho potuto perciò vedere con i miei occhi la stupefacente rinascita di questo Stato-civiltà che ammalia chiunque lo incontri, da amico o da nemico, da alleato a invasore, prima e dopo Marco Polo. Ma è giunto il tempo di fare un inventario dei miei pensieri e dei miei sentimenti verso la Cina, e nelle scorse settimane ho avuto l’occasione di metterli alla prova in una serie di dibattiti ad alta intensità in alcune delle maggiori università del paese. Offro ai lettori un resoconto molto parziale dei temi sui quali mi sono misurato con studenti, professori, dirigenti di partito, giornalisti. Grandi temi, certo, perché tutto è grande nella Cina di questi tempi. E occorrono chiavi di lettura adeguate se non si vuole cadere in balia dei luoghi comuni, delle mezze verità e degli stereotipi. Non c’è un flusso di notizie affidabile su ciò che succede davvero in Cina, su come essa si comporti nella scena internazionale. Credo che la nozione più dura da afferrare per media e governi occidentali è che la potenza cinese attuale poggi su solide basi non-capitalistiche. Il più diffuso luogo comune è quello che pretende di spiegare il miracolo economico della Cina con la scelta di volare sulle ali del capitalismo occidentale per fuggire dall’inferno della povertà estrema in cui essa era piombata dopo la caduta del Celeste Impero. Mao Tse Tung e la rivoluzione comunista del 1949 non sarebbero stati altro che un costoso, eccentrico biglietto di ingresso nella modernità occidentale, perseguita poi fino in fondo secondo una formula autoritaria e nazionalista.
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Il problema non è solo Netanyahu, ma è il sionismo. Attenti ai finti tonti
di Roberto Prinzi
Leggendo la stampa internazionale mainstream, seguendo i notiziari tv, il racconto di Gaza sembra essere cambiato nell’ultimo mese.
Il (presunto) cambiamento è dato dal fatto che parole prima rigettate e pronunciate prima da quelli definiti come estremisti, come “genocidio“, “pulizia etnica“, “apartheid“, finanche “occupazione della Cisgiordania” (ci sono arrivati anche loro, sic!), sono ormai più accettate nel dibattito pubblico. Le senti da Floris. Le leggi su “La Repubblica“. Le vedi a “Le Iene“. Addirittura, udite udite, si sta organizzando un manifestazione per Gaza: dopo oltre un anno e mezzo dall’inizio del genocidio, mi sembra un buon tempismo!
Perfino in alcuni settori della destra “moderata”, qualcosina si muove al punto che Tajani ha detto che “la reazione di Israele è inaccettabile“. Tajani, l’inutile ministro degli Esteri italiano complice del genocidio, che da oltre un anno e mezzo ha sempre detto e fatto tutto ciò che dice Israele ha detto “inaccettabile“.
Ovviamente nel suo caso e in tutta la destra cosiddetta “moderata” c’è da farsi una risata amara: le pur timide parole di sparuti membri non sono:
a) seguiti da fatti dalla quasi totale maggioranza degli altri parlamentari di destra,
b) dai fatti che continuano come sempre è stato (incrollabile appoggio militare, politico e diplomatico per Israele).
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“A Pechino, in una tranquilla prima mattina, la corona del dollaro è scivolata via”
di Alastair Crooke per conflictsforum.substack.com
“Credo che per comprendere la rivoluzione di Trump dobbiamo partire dall’idea che la sconfitta porti alla rivoluzione. L’esperienza in corso negli Stati Uniti, anche se non sappiamo esattamente cosa sarà, è una rivoluzione. È una rivoluzione in senso stretto? È una controrivoluzione?”
Così ha affermato il filosofo francese Emmanuel Todd nella sua conferenza tenutasi ad aprile a Mosca, “Dalla Russia con amore“:
Questa [rivoluzione di Trump] è, a mio parere, legata alla sconfitta. Diverse persone mi hanno riferito di conversazioni tra membri del team di Trump, e ciò che colpisce è la loro consapevolezza della sconfitta. Persone come JD Vance, il vicepresidente, e molti altri, sono persone che hanno capito che l’America aveva perso questa guerra.
Questa consapevolezza americana della sconfitta, tuttavia, contrasta nettamente con la sorprendente mancanza di consapevolezza degli europei – o meglio, con la loro negazione – della sconfitta:
Per gli Stati Uniti, si tratta fondamentalmente di una sconfitta economica. La politica delle sanzioni ha dimostrato che il potere finanziario dell’Occidente non era onnipotente. Agli americani è stata ricordata la fragilità della loro industria militare. Chi lavora al Pentagono sa bene che uno dei limiti della loro azione è la limitata capacità del complesso militare-industriale americano. “Che l’America sia nel mezzo di una seria rivoluzione, in questo momento – facilmente paragonabile alla fine dell’URSS – è compreso da pochi”. Eppure i nostri preconcetti – politici e intellettuali – spesso ci impediscono di vedere e assimilare la portata di questa realtà.
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Lefebvre e il doppio sfondamento di Marx e Nietzsche contro Hegel
di Fabio Ciabatti
Henri Lefebvre, Hegel Marx Nietzsche o il regno delle ombre, DeriveApprodi, Bologna 2025, pp. 208, € 20,00
Marx e Nietzsche uniti nella lotta contro Hegel? Dai, non esageriamo. Piuttosto i primi due possono marciare divisi per colpire uniti il terzo, almeno secondo quanto scrive Henri Lefebvre in Hegel Marx Nietzsche o il regno delle ombre. Questo libro, pubblicato nel 1975 e per la prima volta tradotto in Italia dopo cinquant’anni, nasce dall’idea del suo autore di un “doppio sfondamento: attraverso la politica e la critica della politica per superarla in quanto tale, attraverso la poesia, l’eros, il simbolo e l’immaginario”. Uno sfondamento nei confronti dello stato di cose presenti condensato nella filosofia dello Stato di Hegel. Siamo negli anni Settanta del secolo scorso e la riscoperta di Nietzsche da parte del pensiero radicale di sinistra fa parte, potremmo dire, di un certo spirito del tempo. Basti ricordare autori come Deleuze, Guattari o Foucault. L’approccio di Lefebvre ha però una sua originalità: rileva punti di contatto e profondi discordanze tra Marx e Nietzsche senza tentare alcun tipo di sintesi. Si limita a invocare un pensiero che sappia farsi multidimensionale.
Secondo Lefebvre, Hegel pone al centro della sua riflessione la rivoluzione, quella francese, e annuncia la sua definitiva cristallizzazione nello stato nazionale. Stato costituzionale e certamente non reazionario, ma, al tempo stesso, più borghese che democratico. Nello Stato, vera incarnazione dell’Idea, si perfeziona la fusione tra sapere e potere. Anche le sue capacità repressive e belliche rivelano un fondamento razionale e per questo legittimo. Questa fusione può avvenire perché la classe media porta la cultura alla coscienza dello Stato. È infatti la questa classe, luogo di elezione della cultura, che costituisce la sua base sociale in quanto bacino di reclutamento della burocrazia. L’unione di sapere e potere consente allo Stato di preservarsi come totalità coerente pur contenendo momenti contraddittori. Gli consente di inglobare e subordinare la società civile, di cementare il corpo sociale che senza di esso cadrebbe a pezzi. Lo Stato, dunque, si afferma come un automatismo perfetto, come modello di un sistema che si autoregola. Con lo Stato il tempo finisce e il suo risultato si diffonde e si attualizza nello spazio.
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Deserto astensionista e ritorno della “sinistra” liberista: il caso Genova
di Eros Barone
Quando non hai più un nemico è lui che ha vinto.
André Frénaud, Il silenzio di Genova.
Al primo turno delle elezioni comunali di Genova hanno votato 249.000 genovesi. Tra Comune e municipi, i candidati erano più di 3000. Un rapporto tra candidati e votanti straordinario per la minima distanza tra elettorato attivo ed elettorato passivo: più o meno uno su ottanta. In una democrazia avanzata o di tipo sovietico sarebbe stato il suggello di una entusiasmante partecipazione di massa al dibattito pubblico e alla scelta dei rappresentanti del popolo, che ne consegue. Ma quel rapporto, nel sistema istituzionale italiano, è soltanto lo specchio dello svuotamento cui è giunta la democrazia borghese in assenza di ogni reale alternativa politica. Infatti, avevano diritto al voto 480.000 cittadini genovesi e quasi la metà si sono astenuti. Sorge allora spontaneo un paragone: quando si affermava, nei “gloriosi trent’anni” che vanno dal 1945 al 1975, la spinta democratica e rinnovatrice generata dalle lotte operaie, giovanili e popolari, sostenuta dalla partecipazione di larghe masse alla battaglia politica, furono conseguite importanti conquiste: la scala mobile, la scuola media unica, lo Statuto dei lavoratori, la riforma sanitaria. Lo stesso paragone ci dice, circa il grado della partecipazione elettorale, che alle elezioni politiche del 1958 andarono a votare 84 italiani su 100, mentre nel 2022 furono soltanto 64 su 100 gli italiani che si recarono alle urne.
Il ritorno della “sinistra” liberista alla guida del governo locale avviene, dunque, nel bel mezzo di un deserto di astensioni dal voto, che si estende a poco meno della metà del corpo elettorale, confermando il silenzioso esodo di massa, in corso ormai da decenni, dalla partecipazione popolare a uno degli istituti più importanti della democrazia rappresentativa borghese, quello più strettamente connesso al territorio.
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Frenesia bellica, sconfitta certa
di Gen. Fabio Mini*
Sotto la superficie apparentemente piatta, o in stallo, dei negoziati e delle operazioni militari, scorre un ruscello carsico che si presta a diventare un fiume tranquillo, o in devastante piena, quando e se riemergerà.
Intanto il ruscello non sembra avere acqua limpida, ma una melma carica di illusioni, irrazionalità e ipocrisia.
L’illusione è forse la parte più pulita del corso e riguarda le pseudo speranze che i negoziati portino alla pace, che le forze ucraine riescano a riprendersi, che i russi si ritirino e che l’Europa riesca a liberarsi dalla dipendenza militare degli Stati Uniti e possa tornare a prosperare anche senza le risorse russe.
Sono illusioni, appunto, costruite per i molti nostri concittadini che si abbeverano all’informazione cosiddetta occidentale, incardinata nell’ideologia della ‘pace giusta e duratura’ e nella retorica dell’’aggressore e l’aggredito’, del bene e del male assoluti.
Russia e Ucraina hanno deciso lo scambio di prigionieri e stanno organizzando il nuovo round di colloqui diretti. La Russia sta preparando il memorandum di base per la ripresa dei colloqui interrotti nel 2022, partendo però dal punto concordato allora con le varianti sopravvenute durante il conflitto.
Un documento semplice e chiaro che ripete ciò che chiede da anni prima e dopo l’invasione: la neutralità ucraina, il riconoscimento delle autonomie delle popolazioni russofone (in pratica la fine della guerra in Donbass), la denazificazione del governo e delle istituzioni (allontanamento di tutti gli elementi neonazisti ed estremisti che, sostenuti dagli americani e dalla Nato, non pensano agli ucraini, ma proteggono gli oligarchi più biechi del globo).
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Le guerre che ti vendono
di Matteo Bortolon
L’agile pamphlet di Sara Reginella (Le guerre che ti vendono, Edizioni Dedalo 2025) è un testo che molto sinteticamente indica un abisso in cui stiamo precipitando. Quello della marginalizzazione di ogni forma di informazione che non coincide con le narrative promosse dai governi e poteri dominanti. La ragione è semplice: in guerra l’informazione diventa un nodo strategico da tenere sotto stretto controllo, e la critica viene spesso accomunata alla “connivenza col nemico”.
Anche le guerre hanno il loro mercato editoriale e di saggistica. Dopo l’11 settembre era tutto un fiorire di testi sul terrorismo, l’islamismo, la penetrazione delle democratiche società occidentali da parte di gruppi di pericolosi fanatici. Una narrativa coerente con le politiche della “Guerra al Terrorismo” del presidente Bush, e che recavano sotto traccia la legittimazione della risposta: la dimensione sicuritaria crescente, il controllo poliziesco della società e, in maniera ultimativa, la guerra. L’eredità di tale stagione è molto pesante. Ma si anche visto un fiorire di analisi sull’imperialismo Usa, sull’economia del petrolio, sul catastrofico lascito del colonialismo occidentale.
Oggi parallelamente vediamo uscire contributi su com’è orribile l’imperialismo della Russia e di quanto sia dispotico il suo governo (che però quando dava le basi agli Usa per la guerra in Afghanistan non sembrava tanto male!), accanto a testi sulla aggressività della NATO, sull’ormai palpabile declino del potere mondiale statunitense e di come le narrative belliche stiano logorando lo stato di diritto nei paesi occidentali.
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Il voto ai 5 Referendum, dubbi, perplessità e riflessioni
di Vincenzo Brandi
Diciamo subito, a scanso di equivoci, che in linea di massima vanno votati i 5 referendum in programma per l’8 e 9 giugno prossimi, e va dato un SI sia ai 4 referendum che riguardano problemi del lavoro, sia, con qualche dubbio in più, a quello relativo alla cittadinanza per i migranti.
Tuttavia, non si può andare a votare con gli occhi chiusi sulla spinta di motivazioni scontate e facili entusiasmi, ma bisogna farlo in modo cosciente e senza evitare qualche riflessione anche critica.
I primi 4 referendum - che riguardano rispettivamente il reintegro nel caso di licenziamenti illegittimi, l’eliminazione del tetto della massima indennità per il licenziamento in aziende di meno di 15 dipendenti, le condizioni necessarie per l’erogazione di contratti a termine nell’ottica di limitare la precarietà del lavoro, e la responsabilità solidale tra committente, appaltatore e appaltante con riferimento in particolare alle condizioni di sicurezza sul lavoro – sembrano essere stati indetti essenzialmente come surrogato alla mancanza di lotte e iniziative sui problemi del lavoro, che ha afflitto, ormai da molti anni, il sindacalismo confederale. In particolare, il primo di questi referendum va addirittura ad abrogare disposizioni previste dalla Legge 183 del 2014 e del conseguente Decreto Legislativo N. 23 del 4.3.2015 (cosiddetto Job’s Act) che fu voluto addirittura da quelle forze politiche della cosiddetta “sinistra” che ora ne chiedono l’abrogazione.
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Chi vince e chi perde la mortale partita europea
di Giuseppe Masala
La guerra ucraina rischia di continuare a causa della disperazione di Zelensky, Starmer, Macron e Merz nonostante Trump scappi e Putin abbia vinto chiaramente
Ad oltre 125 giorni dall'entrata in carica dell'amministrazione Trump è giusto fare il punto sulla immane crisi geopolitica in corso soprattutto in Europa. Ciò anche in considerazione del fatto che fu lo stesso Tycoon newyorkese a dare per certa la fine del conflitto armato nel Vecchio Continente entro pochi giorni dal suo insediamento.
Al netto delle sbruffonate di Trump le cose parvero subito partire bene con uno spettacolare vertice diplomatico tra Russia e Stati Uniti tenutosi a Riyad, nel Regno Saudita, che riapriva il dialogo tra Russia e USA sostanzialmente interrottosi dopo lo scoppio del conflitto in Ucraina. Un vertice che, ricordo, vide la pubblica umiliazione dell'Unione Europea trattata dalle due superpotenze sostanzialmente alla stregua delle colonie africane dell'Ottocento: un vertice cruciale per il destino dell'Europa si teneva infatti fuori dal continente europeo e per giunta dove nessun rappresentante dei paesi del continente è stato invitato!
A questo vertice è seguito poi il vertice di Istanbul del 16 Maggio che doveva – almeno secondo molti analisti – avere un carattere quasi risolutivo del conflitto europeo anche perché la delegazione russa e quella ucraina si sarebbero sedute allo stesso tavolo, guardandosi in faccia e dialogando direttamente senza l'intermediazione di terze parti.
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Capitalismo digitale e robotizzazione
di Vladimiro Merlin
Un ulteriore approfondimento sul tema dell’evoluzione del capitalismo tecnologico, delle contraddizioni determinate dalla sovrapproduzione e sulla prospettiva della liberazione dell’umanità dalla necessità del lavoro.
A seguito dell’articolo di Fosco Giannini su questi temi, di cui condivido le conclusioni che trae, vorrei aggiungere alcuni altri elementi di riflessione e approfondimento.
Per quanto riguarda la robotizzazione, questa tendenza è certamente destinata a estendersi sempre di più, come è stato per ogni sviluppo tecnologico, sotto la spinta inarrestabile della concorrenza, nonostante, come ha scritto Giannini, essa indubbiamente produrrà una forte caduta del saggio di profitto per i capitalisti in quanto il profitto essi lo possono trarre solo dal lavoro umano, le macchine, per quanto evolute, non possono creare profitto, per cui, dato che la robotizzazione ridurrà in modo consistente il lavoro umano necessario alla produzione del medesimo quantitativo di merci e, d’altra parte, aumenterà in modo ancora più consistente il capitale che sarà necessario investire nei processi produttivi, ne deriva che il saggio di profitto dei capitalisti risulterà fortemente ridimensionato.
Vi è, però, un’altra contraddizione fondamentale del rapporto di produzione capitalistico che da questo cambiamento subirà una forte esasperazione.
Si tratta della sovrapproduzione di merci.
Gli sviluppi tecnologici che si sono verificati dall’ultimo dopoguerra a oggi hanno creato una situazione che esaspera in modo esponenziale le contraddizioni del sistema capitalistico, in particolare quella relativa alla sovrapproduzione.
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Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Sesta parte. I profsojuz durante la guerra civile
L’inasprimento ulteriore del conflitto portò all’azione congiunta delle classi spodestate e degli imperialisti stranieri, ovvero dell’esercito dei “bianchi” e di quelli stranieri, fino alla guerra civile dei primi e all’invasione imperialistica dei secondi.
Tutto questo non poteva non ripercuotersi anche sulla politica economica del giovanissimo governo dei Soviet: la nazionalizzazione di grande industria, banche e infrastrutture fu il passo logico successivo.
In tale contesto, i profsojuz furono costretti a cambiare nuovamente obbiettivi e strategie:
- da un lato, la lotta per il controllo operaio sulla produzione DIVENNE la lotta
1. per l’OCCUPAZIONE FISICA delle fabbriche e
2. per la DIFESA ANCHE ARMATA DEL POSTO DI LAVORO;
- dall’altro, la nazionalizzazione della grande industria portò a un’ULTERIORE RIDEFINIZIONE DI RUOLO E MANSIONI del sindacato in quei luoghi, dal momento che lì la controparte era sparita, non c’erano più i padroni.
Quanto appena affermato si ripercosse sull’aumento dell’autogestione operaia: nel 1920, il 63,5% delle industrie del Paese dei Soviet era a completa direzione operaia1.
In particolare, il 100% di gestione operaia si aveva nel settore dei trasporti, dove i profsojuz furono incaricati della gestione e risoluzione di un problema di cruciale importanza, nonché estremamente complesso: approvvigionamento materiale e rifornimento su più versanti, dalle campagne alle città e viceversa, dalla produzione ai fronti militari e viceversa.
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Il collasso degli aiuti a Gaza: non un caso, una strategia
di Davide Malacaria
Le scene apocalittiche dell’assalto agli aiuti umanitari distribuiti a Gaza, nell’area di Tal as-Sultan, “non è stata una tragedia, ma una rivelazione, il disvelamento definitivo e violento dell’illusione che gli aiuti umanitari nascano per servire l’umanità piuttosto che l’impero”. Così Ahmad Ibsais in un articolo di al Jazeera dal titolo: “Il sistema di aiuti di Gaza non è difettoso. Funziona esattamente come programmato” (volevo tagliare, ma è impossibile: la nota è di una intelligenza inusuale).
“Presentato da Israele e Stati Uniti come un modello di dignità e neutralità – continua Ibsais – il nuovo centro di distribuzione della Gaza Humanitarian Foundation si è disintegrato nel caos poche ore dopo l’apertura. Ma non è stato un caso. Era il logico punto di arrivo di un sistema progettato non per nutrire gli affamati, ma per controllarli e contenerli”.
“Mentre la gente affamata di Gaza – costretta ad aspettare per ore sotto il sole cocente, ingabbiata in corridoi stretti tra reti metalliche per ricevere una misera scatoletta di cibo – iniziava ad avanzare in preda alla disperazione, è scoppiato il caos. Il personale della sicurezza – impiegato da un’agenzia sostenuta dagli Stati Uniti – ha aperto il fuoco nel tentativo di impedire un assalto precipitoso [agli aiuti]. Poco dopo, sono arrivati gli elicotteri israeliani per evacuare il personale americano e hanno iniziato a sparare colpi di avvertimento verso la folla. E il tanto reclamizzato centro di raccolta di aiuti è completamente collassato”.
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Ucraina e Gaza: le 8 domande senza risposta
di Elena Basile
Alla fine ci avranno per la repulsa che proviamo a ripetere sempre gli stessi argomenti. Sono più o meno due anni che insieme ad altri analisti proviamo a demistificare la propaganda, a porre domande razionali che non trovano risposta. Russell si illudeva: la ragione illuministica e umanistica serve a poco. Prevalgono a cicli gli impulsi viscerali distruttivi e autodistruttivi degli esseri umani. I marxisti forse erano in grado di rivelare come le guerre servissero a tutelare il sistema di potere, gli equilibri di classe tra privilegiati e sudditi. Ci meravigliamo quindi di non essere ascoltati dalla classe di servizio che ricava vantaggi e prebende dalle oligarchie che governano?
Dovessi soccombere per la nausea, continuerò a porre le stesse domande: perché il posizionamento di basi Nato e di armi nucleari in Ucraina non dovrebbe essere percepito come una minaccia esistenziale dalla Russia? Perché, se fosse vero che Mosca vuole invadere i Paesi Nato, avrebbe chiesto dal 2007 al 2021 la neutralità di Kiev? Perché parlare di una Ucraina quando basta aprire un libro per comprendere che di Ucraine ve ne sono due, persino tre? Come è possibile credere nella vittoria militare su una potenza nucleare? Come è possibile definirsi filo-ucraini mentre si lascia distruggere un Paese e si utilizza il suo popolo come carne da macello? Perché si vuole eseguire il mandato di arresto del procuratore della Cpi per Putin e non per Netanyahu? Perché la Russia sarebbe uno Stato aggressore mentre non si sanziona l’aggressione di Israele?
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