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La scelta della guerra civile
di Christian Laval, Haud Guéguen, Pierre Dardot, Pierre Sauvêtre
Il testo che segue è un estratto dall'Introduzione al volume La scelta della guerra civile. Un'altra storia del liberalismo, di Christian Laval, Haud Guéguen, Pierre Dardot, Pierre Sauvêtre, edito da Meltemi
1. Le strategie di guerra civile del neoliberalismo
Il neoliberalismo muove sin dalle sue origini da una scelta effettivamente fondativa, la scelta della guerra civile. Questa scelta continua ancora oggi, direttamente o indirettamente, a comandare gli orientamenti e le politiche neoliberali, anche quando questi non implicano l’uso di mezzi militari.
È questa la tesi sostenuta da un capo all’altro del libro: attraverso il ricorso sempre più manifesto alla repressione e alla violenza contro le società, ciò che si sta realizzando oggi è una vera e propria guerra civile. Per comprendere correttamente questo fenomeno, conviene innanzitutto tornare su questa nozione. È molto diffusa l’idea che vede la guerra civile come guerra interna opporsi alla guerra interstatale come guerra esterna. In virtù di questa opposizione, la guerra civile si fa tra cittadini di uno stesso Stato. Mentre la guerra esterna è una questione di diritto, alla quale tutti i soggetti belligeranti sono sottomessi, la guerra interna è rigettata nella sfera del non-diritto. Alla rivendicazione di Courbet nell’aprile del 1871 in favore di uno statuto di belligeranti per i comunardi, che invocava “gli antecedenti della guerra civile” (la guerra di Secessione del 1861-1865) è stato opposto che “la guerra civile non è una guerra ordinaria”1. A questa antitesi bisogna aggiungerne una seconda, che raddoppia la prima, quella della politica e della guerra civile: mentre la politica è la sospensione della violenza attraverso il riconoscimento del primato della legge, la guerra civile è dispiegamento sregolato della violenza, di una collera “che mescola indissolubilmente furore e vendetta”, per dirla con Tucidide2. Tutte queste antitesi, e altre ancora, ostacolano la presa in esame del neoliberalismo a partire dalla sua stessa strategia. Adottando questo punto di vista, apprendiamo che la politica può perfettamente far suo l’uso più brutale della violenza e che la guerra civile può essere combattuta attraverso il diritto e la legge.
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La guerra. Esperimento Terra
di Giovanna Cracco
L’impatto ambientale degli esperimenti nucleari. Documenti desecretati rivelano che tra il 1945 e il 1992 gli Stati Uniti hanno effettuato 1.051 test atomici esplodendo in totale 180 megatoni, pari a 11.250 bombe di Hiroshima; 12 test hanno contemplato il lancio di razzi fino a 700 km di quota, nella magnetosfera, con l’obiettivo di verificare se la struttura stessa del sistema Terra potesse essere utilizzata come arma. Quali sono state le conseguenze a lungo termine sull’equilibrio terrestre e sul clima?
Quando si imputa alle attività umane la responsabilità del cambiamento climatico, una di esse gode di un unanime e trasversale occultamento: l’attività militare. L’economia, la politica, i principali think tank, le grandi agenzie sovranazionali... nessuno ne fa citazione nei dettagliati e accalorati documenti che auspicano, o impongono, innovazioni green e transizioni ecologiche. L’industria della guerra, dalla produzione alle esercitazioni ai conflitti in giro per il pianeta, è esclusa sia dall’elenco delle cause che da quello delle soluzioni. La sua incidenza sull’ambiente è innegabile, ma la difficile quantificazione per mancanza di dati, come mostra il Report di Scientists for Global Responsibility e Conflict and Environment Observatory qui pubblicato a pag. 34, la porta, per restare nel campo semantico, ‘fuori dai radar’ della discussione.
D’altra parte, la guerra è morte e distruzione della biosfera e della vita; è bombardamenti e agenti chimici; è aviazione, carri armati, proiettili, gas... come si potrebbe discutere di rendere ecologicamente sostenibile una simile attività umana? Siamo davanti a un nonsense.
Non è l’unico. Se i danni da gas serra sono almeno conosciuti e riconosciuti, ve ne sono altri tuttora ignoti.
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La montagna della UE e il topolino del nuovo patto di stabilità
di Domenico Moro
Con la pandemia di Covid-19 e la forte crisi economica a essa connessa, il Patto di stabilità, basato sui vincoli del 3% al deficit e del 60% al debito, era stato sospeso fino alla fine del 2023. In circa 20 anni in cui sono stati in vigore, i vincoli al debito e al deficit hanno dato una pessima prova di sé, contribuendo a determinare la stagnazione dell’economia della Ue. La crescita europea è stata talmente risicata da determinare la perdita di posizioni economiche a livello mondiale nei confronti dei Paesi emergenti, in particolare della Cina. Ad esempio, la Ue a 27 è scesa, tra 2003 e 2022, dal 19,1% al 13,8% delle esportazioni mondiali, mentre la Cina è salita dal 7,6% al 18,3%[i].
Consci di questa situazione di decadenza economica, dovuta non solamente ma certamente almeno in parte a come era stato congegnato il Patto di stabilità, la Commissione europea e molti paesi hanno colto al balzo l’occasione della sospensione del Patto di stabilità per chiederne una modifica sostanziale. Il fronte della riforma è composto dai Paesi con maggiori difficoltà debitorie pubbliche, specialmente quelli con debito superiore al 100%: Grecia (160,9%), Italia (139,8%), Francia (109,6%), Spagna (107,5%), Belgio (106,3%) e Portogallo (103,4%). Come si può facilmente osservare si tratta di una fetta molto ampia della popolazione della UE, che comprende la seconda, la terza e la quarta economia europea. Non proprio una bazzecola. A contrastare il fronte della riforma si è eretto il solito fronte dell’austerity e della severità di bilancio, che è rappresentato dalla Germania, unica tra le grandi economie, e dai suoi satelliti, i cosiddetti “frugali”, in particolare l’Olanda, la Danimarca, l’Austria e la Finlandia.
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Salvare l’economia da sé stessa
Jacopo Caja intervista Steve Keen
L'economista australiano Steve Keen, intervistato da Jacobin, propone una visione alternativa a quella dell'economia neoclassica che domina da cinquant'anni, per fronteggiare le disuguaglianze e scongiurare il collasso climatico
La politica economica dei paesi avanzati negli ultimi anni ha mostrato tutti i suoi limiti ed è sempre più in discussione. Da quasi cinquant’anni, l’economia è dominata dalla visione neoclassica che presuppone la razionalità degli individui e ignora il ruolo della moneta, escludendola dai modelli di previsione. Questa semplificazione, nata con l’idea di rendere più «maneggevole» l’economia, ha prodotto effetti profondi nel mondo reale, aprendo alla deregolazione dei mercati finanziari e alle politiche di austerità.
Steve Keen, professore di economia alla Western Sydney University e all’University College di Londra nel libro L’economia Nuova, da poco uscito in Italia per Meltemi, evidenzia la necessità di un’alternativa a questa visione prevalente. Un’alternativa che tenga conto delle complessità per fronteggiare realmente le disuguaglianze e scongiurare il collasso climatico.
* * * *
Lei è da sempre uno studioso del mercato monetario e del ruolo del debito privato. Ed è stato uno dei pochi economisti ad aver previsto la crisi del 2008. Come mai, invece, non l’hanno prevista gli economisti mainstream?
Gli economisti neoclassici hanno sempre sostenuto che il denaro non abbia importanza per l’economia reale. Pensano che il governo controlli l’offerta di moneta: se quest’ultimo crea troppa moneta, produce inflazione. In questa visione, i fattori monetari non influenzano il livello reale della produzione. E questo è categoricamente sbagliato. Al contrario, il denaro creato dalle banche diventa sia parte del reddito aggregato che della spesa aggregata. Quindi, il denaro ha effetti reali.
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Un mondo multipolare non sarà automaticamente un mondo nuovo
di Monica Cillerai
L’ordine mondiale geopolitico regolato dal Washington Consensus, l’equilibrio internazionale figlio della Seconda guerra mondiale, è finito. L’ordine mondiale dei commerci, stabilito dagli accordi di Bretton Woods, non funziona più: già ammalato da tempo, si è indebolito in pandemia e sta ricevendo l’estrema unzione con la guerra in Ucraina. Da qualsiasi punto si guardi la faccenda globale, gli USA stanno perdendo il loro ruolo di capo e poliziotto del mondo. L’egemonia a stelle e strisce, già in declino da anni, sta definitivamente tramontando. Nuovi Stati chiedono voce in capitolo e reclamano potere. Pretendono istituzioni internazionali meno orientate verso gli Stati Uniti e i privilegi occidentali, esigono la fine del dominio del dollaro, reclamano ruoli guida ai tavoli in cui si decidono le politiche globali. Le crisi non sono la fine di tutto, sono momenti necessari di rottura per arrivare a un nuovo ordine, dopo una fase di caos. Oggi siamo nel momento del disordine. I fatti in Ucraina hanno semplicemente reso visibile a tutti la tracimazione di un vaso colmo da tempo. Gli USA cercano storicamente anche così, attraverso guerre esportate e per procura, di stabilizzare il loro potere e la loro egemonia. È dalla Cina e da numerosi Paesi ancora considerati in via di sviluppo, i famosi BRICS (Brasile, Russia, India e Sud Africa), che arriva la richiesta di un nuovo ordine internazionale. L’attacco militare da parte della Russia verso l’Ucraina e l’impossibilità di operare da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU a causa del veto imposto da Mosca hanno rimesso sul tavolo la questione di una necessaria riforma del sistema delle Nazioni Unite. Unione Europea e USA si sono impegnate nel lancio di numerosi pacchetti di sanzioni economiche contro la Russia, che hanno finito per ricadere sugli interscambi commerciali tra Mosca e varie altre economie a essa connesse, in primis quelle dei BRICS.
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Globalizzazione delle disuguaglianze e delle ingiustizie
di Michele Blanco*
Negli anni Ottanta del secolo scorso si descriveva il futuro prossimo della globalizzazione come di una età di crescita del benessere diffuso per tutta l’umanità, in tutti i paesi del mondo, ma «Oggi, invece, la crescente disuguaglianza non ha prodotto alcun conflitto di classe che minacci il sistema capitalistico, e ciò sebbene nelle economie avanzate questa si sia accompagnata con la deindustrializzazione e la schiavitù del debito.
È in questo contesto politico che una nuova generazione di miliardari ha abbracciato la filantropia. … non si può più fare affidamento sullo Stato per affrontare le ingiustizie sociali e le povertà. Al contrario la società si rivolge alle briciole filantropiche che cadono dalla tavola del padrone; bruscolini che cadono solamente lì dove i super ricchi decidono di farli cadere … ma guardando bene, esso appare un disegno complesso, volto a garantire che il sistema che ha generato le diseguaglianze, per le quali la filantropia è un unguento, permanga del tutto invariato», in Carl Rhodes, Capitalismo woke. Come la moralità aziendale minaccia la democrazia, Roma, Fazi, 2023, pp. 251 e 254.
La globalizzazione oggi è certamente e identificata come causa di ingiustizie e tensioni sociali. Nel mondo contemporaneo possiamo parlare di tanti tipi di disuguaglianze, ma certamente, da un punto di vista economico, si può parlare della disuguaglianza tra tenori di vita, distinguendo fondamentalmente tra due tipi di tali disuguaglianze, quella mondiale (tra le nazioni) e quella all’interno delle singole nazioni. Quando si dice ad esempio che il 10% più povero ha un tenore di vita pari a un decimo del 10% dei più ricchi ovviamente non ha lo stesso significato in India e in Svizzera. Conviene allora aggiungere una regola generale quando si valuta la disuguaglianza: stabilire una soglia assoluta di povertà e il valore più utilizzato oggi è quello di circa un euro al giorno pro capite.
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A proposito di gestazione per altri
di Aligi Taschera
Il 22 marzo scorso Giulia Abbate postava sulla chat di Resistenza Radicale un tweet di Marco Cappato, che diceva: “Ci sono donne che hanno perso l’utero a causa di una malattia, ma che potrebbero crescere un figlio grazie alla gestazione per altri solidale. Vietarlo è violenza da Stato Etico”.
Avevo pubblicamente promesso nella chat che avrei provato a chiarire perché il modo di Cappato di affrontare questo problema è inadeguato, come sostenuto da Domenico Spena (punto su cui, evidentemente concordo con lui), sostenendo che mi pareva una buona occasione per chiarire al pubblico le questioni etiche e politiche connesse; se poi questo chiarimento riuscisse a fornire qualche spunto di riflessione anche a Cappato, tanto meglio.
Proviamo dunque a districare il complesso groviglio di questioni che pone il tweet di Cappato, e di affrontare le questioni a una a una.
Partirò dal fondo, cioè dal concetto di stato etico.
Bisogna ricordare che il concetto di Stato Etico proviene dalla filosofia di G.G.F. Hegel ed è da essa inscindibile, come ben sapevano sia Giovanni gentile che Benito Mussolini. Tentare di spiegare in modo esauriente e comprensibile in un numero ragionevole di righe è un’impresa temeraria. Hegel, infatti, sosteneva che “Il vero è l’intero”. Di modo che tutti i momenti del reale (che è esso stesso pensiero) acquisiscono il loro senso e la loro conoscibilità nella loro relazione con la totalità di cui fanno parte (l’Assoluto).
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La pedagogia naturalistica e i suoi problemi
di Paolo Di Remigio
Siamo lieti di pubblicare questo interessante intervento dell'amico Di Remigio (M.B.)
Il fallimentare modello scolastico americano
Si dice spesso che la scuola italiana non funzioni e che occorra innovarla per metterla al passo con i tempi. Chi lavora nella scuola non può non concordare con la prima affermazione; la seconda appare invece sospetta di conformismo e fuori dalla realtà. Infatti negli ultimi trent’anni ogni ministro dell’istruzione ha innovato; in particolare, nel 1997 l’autonomia scolastica ha aperto gli istituti al territorio e li ha incoraggiati ad avventurarsi in ogni sorta di iniziative; nel 2015 la riforma Renzi ha reso obbligatorie sperimentazioni ardite come la scuola-lavoro oppure il CLIL (lo studio in lingua straniera di una disciplina studiata di solito in italiano), ha inoltre fatto dell’innovazione didattica la preoccupazione principale degli insegnanti e il titolo con cui accedere alla premialità, qualunque ne fosse il risultato.
Che dopo 26 anni di riforme innovative la scuola resti disfunzionale, suggerisce l’ipotesi che proprio le riforme la rendano tale. L’ipotesi è confermata da un indizio: le riforme parlano in un gergo anglosassone (inquiry learning, cooperative learning, skill, metacognitive skill, problem solving, lifelong learning – da cui il nome TreeLLLe, l’associazione che ispira da decenni il ministero), consistono dunque nell’imporre in Italia e in Europa la pedagogia dominante negli Stati Uniti. Delle scuole statunitensi l’opinione pubblica sa soprattutto che vi avvengono stragi efferate di alunni e insegnanti. Di fatto sa anche un’altra cosa. I giornali parlano spesso di «fuga dei cervelli» dall’Italia. Vista dall’altra parte dell’Atlantico, questa fuga non può che prendere il nome di importazione dei cervelli. Dalle notizie della stampa l’opinione pubblica può giungere dunque a due conclusioni: 1) le scuole americane sono pericolose per chi le frequenta; 2) istruiscono così male che, per popolare le loro celebrate università, gli Stati Uniti devono importare studenti istruiti altrove.
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Socialismo cinese e Lunga Marcia
di Salvatore Bravo
Il percorso che porta al comunismo inizia con il lavoro comune per sovvertire le condizioni di sfruttamento delle classi subalterne. Emancipare dallo sfruttamento significa non solo soddisfare i bisogni materiali, ma anche educare alla partecipazione politica. Senza categorie valide per decodificare lo sfruttamento e progettare un diverso modo per gestire struttura economica e sovrastruttura non vi è comunismo. La parabola di Mao Tse- tung1 è da leggersi nella Cina divorata da decenni di invasioni e sfruttamento e che ha conosciuto due guerre dell’oppio (la prima dal 1839 al 1842 e la seconda dal 1856 al 1860) e la rivolta dei Taiping (1851-1864). Decine di milioni di morti è stato il risultato dello sfruttamento e del razzismo del liberismo dell’Inghilterra e degli Stati Uniti, in primis, a cui si sono affiancate le potenze europee minori tra cui l’Italia verso la Cina. Nelle guerre dell’oppio e nella violenza con cui le potenze europee hanno sostenuto lo sterminio della rivolta dei Taiping vi è la verità del capitalismo non ancora riconosciuta. In questo contesto la Lunga Marcia del comunismo conclusasi con la presa del potere il primo ottobre 1949 e gli errori e le tragedie conseguenti erano, purtroppo, inevitabili: sollevare seicento milioni di persone da uno stato di miseria secolare e da una condizione di subalternità non poteva che comportare nella cornice storica della Guerra fredda il rischio del tragico. Tragedie vi furono, ma assieme a esse, secondo la lezione marxiana, il comunismo è da realizzarsi non necessariamente secondo lo sviluppo stadiale, ma esso deve essere progetto politico che tenga in gran conto le circostanze storiche reali. Pensare il comunismo significa pensare la storia. Il discorso di Mao Tse- tung del 1957 dimostra la capacità teoretica e pratica del comunismo cinese.
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Tesi sul cybercapitalismo
di Liberiamo l’Italia
Questo importante documento analizza le profonde trasformazioni del sistema capitalistico e indica quale potrebbe essere il suo eventuale punto di approdo. Esso venne approvato nel novembre 2021 dalla II. Conferenza nazionale per delegati di Liberiamo l’Italia.
Il tornante storico
- 1. Con il crollo dell’Unione Sovietica l’élite americana (sia neocon che clintoniana) scatenò un’offensiva a tutto campo per trasformare l’indiscussa preminenza degli U.S.A. nei diversi campi — economico, finanziario, militare, scientifico, culturale — in supremazia geopolitica assoluta. L’offensiva si risolse in un fiasco. Invece del nuovo ordine monopolare sorse un disordinato e instabile multilateralismo.
- 2. La grande recessione economica che colpì l’Occidente, innescata dal disastro finanziario americano del 2006-2008, fu un punto di svolta dalle molteplici conseguenze. Indichiamo le principali: (1) il “capitalismo casinò” — contraddistinto dalla centralità della finanzia predatoria: accumulazione di denaro attraverso denaro saltando la fase della produzione di merci e di valore — dimostrava di essere una mina vagante per il sistema capitalistico mondiale; (2) il modello economico neoliberista, quello che aveva consentito la metastasi della iper-finanziarizzazione, esauriva la sua spinta propulsiva; (3) la globalizzazione liberoscambista a guida americana giungeva al capolinea sostituita da una “regionalizzazione” delle relazioni economiche mondiali e dalla rinascita di politiche protezionistiche; (4) la Cina, uscita dallo sconquasso come principale motore del ciclo economico mondiale, occupava il ruolo di nuovo alfiere della globalizzazione; (5) una profonda scissione maturava in senso alle élite occidentali: la crisi di egemonia delle frazioni mondialiste alimentava il fenomeno del populismo. Così ci spieghiamo la vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti, l’avanzata dirompente di nuove forze politiche “sovraniste” in diversi paesi europei (Italia in primis), la Brexit.
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Siamo noi i cattivi?
Il sostegno occidentale al genocidio a Gaza significa che la risposta è sì
di Jonathan Cook
La disperata campagna diffamatoria volta a difendere dei crimini di Israele mette in luce la miscela tossica di menzogne su cui si regge da decenni l’ordine democratico liberale
In un popolare sketch comico britannico ambientato durante la Seconda guerra mondiale, un ufficiale nazista vicino alle prime linee si rivolge a un collega e, in un momento di improvviso – e comico – dubbio su se stesso, chiede: “Siamo noi i cattivi?“.
A molti di noi è sembrato di vivere lo stesso momento, prolungato per quasi tre mesi, anche se non c’è stato nulla da ridere.
I leader occidentali non solo hanno appoggiato retoricamente una guerra genocida da parte di Israele contro Gaza, ma hanno fornito copertura diplomatica, armi e altra assistenza militare.
L’Occidente è pienamente complice della pulizia etnica di circa due milioni di palestinesi dalle loro case, nonché dell’uccisione di oltre 20.000 persone e del ferimento di molte altre decine di migliaia, la maggior parte delle quali donne e bambini.
I politici occidentali hanno insistito sul “diritto di difendersi” di Israele, che ha raso al suolo le infrastrutture critiche di Gaza, compresi gli edifici governativi, e ha fatto crollare il settore sanitario. La fame e le malattie stanno iniziando a colpire il resto della popolazione.
I palestinesi di Gaza non hanno dove fuggire, dove nascondersi dalle bombe di Israele fornite dagli Stati Uniti. Se alla fine gli sarà permesso di fuggire, sarà nel vicino Egitto. Dopo decenni di sfollamento, saranno finalmente esiliati in modo permanente dalla loro patria.
E mentre le capitali occidentali cercano di giustificare queste oscenità incolpando Hamas, i leader israeliani permettono ai loro soldati e alle milizie di coloni, sostenuti dallo Stato, di scatenarsi in Cisgiordania, dove non c’è Hamas, attaccando e uccidendo i palestinesi.
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Alain Badiou e la rivoluzione
di Antiper
Questo intervento è una lettura di un testo di Alain Badiou sulla rivoluzione russa dell’ottobre 1917, tratto da Alain Badiou, Pietrogrado, Shangai. Le due rivoluzioni del XX secolo, Mimesis, 2023
Di recente è uscita [1] una piccola raccolta di interventi del filosofo francese Alain Badiou dedicati alle due principali rivoluzioni del ‘900: la rivoluzione russa (d’ottobre) e la rivoluzione cinese.
In questi interventi Badiou rivendica integralmente il carattere progressivo per l’umanità di questi “eventi” (per usare un termine del suo arsenale teorico) e anche solo il fatto che un importante filosofo prenda posizione in modo così netto a favore delle rivoluzioni comuniste è una cosa che, di per sé stessa, riveste una grande importanza, in questi tempi di pensiero debole, anzi insulso. In questo intervento vogliamo entrare in dialettica con il breve saggio sulla Rivoluzione d’Ottobre analizzando alcuni passaggi che ci sono sembrati meritevoli di approfondimento.
L’esordio di Badiou è suggestivo e istituisce una linea di continuità rivoluzionaria tra la rivolta degli schiavi guidati da Spartaco e le rivoluzioni del ‘900
“Spartaco, Thomas Müntzer, Robespierre, Saint-Just, Toussaint Louverture, Varlin Lissagaray e gli operai in armi della Comune: tanti “dittatori” calunniati e dimenticati, che Lenin, Trockij o Mao Zedong hanno trasformato in quello che sono stati: eroi dell’emancipazione popolare, punti fermi dell’immensa storia che orienta l’umanità verso il governo collettivo di se stessa.”
Colpisce l’affiancamento di Trockij a Lenin (neppure Trockij, a cui certo non mancava l’autostima, avrebbe osato tanto dopo il 1917); i ruoli di Lenin e di Trockij, infatti, stanno su piani davvero molto diversi. Per intendersi (e sicuramente schematizzando), senza Lenin non ci sarebbe stata alcuna Rivoluzione d’Ottobre e se fosse stato per Trockij non ci sarebbe stato neppure alcun partito bolscevico. Encomiabile, certo, che dopo 15 anni di lotta senza quartiere Trockij, a 1917 inoltrato, si sia avvicinato ai bolscevichi e si sia allontanato dai classici alleati menscevichi, ma da qui ad accoppiare Lenin e Trockij ce ne passa.
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Antonio Negri, un uomo che voleva assaltare il cielo alzandosi sulle punte dei piedi
di Carlo Formenti
Nel momento in cui l'intero patrimonio di idee, teorie, tradizioni e pratiche politiche del marxismo sembra evaporare nei Paesi Occidentali, mentre rinasce in forme inedite in Asia e America Latina, due eventi distanziati di pochi mesi l'uno dall'altro accentuano la sensazione di vivere la fine di un ciclo storico: mi riferisco alle morti dei due "grandi vecchi" dell'operaismo italiano, il novantaduenne Mario Tronti, deceduto lo scorso agosto, e il novantenne Toni Negri, spentosi poche settimane fa. Commentando la prima su queste pagine (https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2023/08/che-cosa-ho-imparato-da-mario-tronti.html) titolavo "Che cosa ho imparato da Mario Tronti", per commentare la seconda ho scelto, per ragioni che chiarirò più avanti, di titolare "Un uomo che voleva assaltare il cielo alzandosi sulla punta dei piedi". Qui non troverete parola in merito al disgustoso luogo comune su Negri "cattivo maestro", che i media di regime hanno prevedibilmente rilanciato, perché le critiche che potrei fare alle sue scelte degli anni Settanta sono marginali rispetto a quelle che intendo rivolgergli qui, riferite piuttosto al suo ruolo - per citare un azzeccato titolo del "Manifesto" - di "attivo maestro". Non troverete nemmeno i ricordi di un rapporto di amicizia ormai lontano nel tempo (negli ultimi decenni ci siamo incontrati in rarissime occasioni). Non troverete nemmeno valutazioni relative alla sua opera strettamente filosofica, compito che delego agli accademici. Qui discuterò solo del Negri teorico del conflitto sociopolitico e dell'influenza che ha esercitato sulle sinistre radicali post comuniste.
Parto con una affermazione provocatoria: contrariamente a quanto da lui rivendicato (1), penso che Toni Negri non sia stato un comunista (nel senso storicamente riconosciuto del termine).
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Il genocidio di Israele tradisce l’Olocausto
di Chris Hedges - chrishedges.substack.com
Oscurando e falsificando la lezione dell'Olocausto perpetuiamo il male che lo aveva caratterizzato
Il piano generale del lebensraum di Israele per Gaza, copiato dallo spopolamento dei ghetti ebraici da parte dei nazisti, è chiaro. Distruggere le infrastrutture, le strutture mediche e i servizi igienici, compreso l’accesso all’acqua potabile. Bloccare l’invio di cibo e carburante. Scatenare una violenza indiscriminata per uccidere e ferire centinaia di persone al giorno. Lasciare che la fame – le Nazioni Unite stimano che più di mezzo milione di persone stia già morendo di fame – e le epidemie di malattie infettive, insieme ai massacri quotidiani e allo sfollamento dei palestinesi dalle loro case, trasformino Gaza in un obitorio. I palestinesi saranno costretti a scegliere tra la morte sotto le bombe, le malattie, lo stare all’addiaccio, la fame e l’allontanamento dalla loro terra.
Presto si arriverà a un punto in cui la morte sarà così onnipresente che la deportazione – per coloro che vogliono vivere – sarà l’unica opzione.
Danny Danon, ex ambasciatore di Israele presso le Nazioni Unite e stretto alleato del Primo Ministro Benjamin Netanyahu, ha dichiarato alla radio israeliana Kan Bet di essere stato contattato da “Paesi dell’America Latina e dell’Africa che sarebbero disposti a farsi carico dei rifugiati dalla Striscia di Gaza“. “Dobbiamo rendere più facile per i gazesi partire per altri Paesi“, ha detto. “Sto parlando di migrazione volontaria da parte dei palestinesi che vogliono andarsene“.
Il problema per ora “sono i Paesi disposti a farsene carico, e stiamo lavorando su questo“, ha detto Netanyahu ai membri della Knesset del Likud.
Nel ghetto di Varsavia, i tedeschi distribuivano tre chilogrammi di pane e un chilogrammo di marmellata a chiunque si registrasse “volontariamente” per la deportazione.
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Nuove informazioni riguardo alle menzogne israeliane sul 7 ottobre
di Ali Abunimah - David Sheen*
Un generale israeliano ha ucciso altri israeliani e poi ha mentito. Prosegue la controinchiesta di Electronic Intifada sulle vittime dell’attacco palestinese ai kibbutz israeliani del 7 ottobre.
Video e testimonianze recentemente pubblicati dai media israeliani rivelano nuovi dettagli su come le forze israeliane hanno ucciso i propri civili nel Kibbutz Be’eri il 7 ottobre.
La settimana scorsa, il Canale 12 di Israele ha pubblicato un filmato inedito di un carro armato israeliano che sparava contro una casa civile nell’insediamento, a pochi chilometri a est di Gaza.
Le nuove prove dimostrano che il comandante israeliano sul posto, il generale di brigata Barak Hiram, ha mentito a un importante giornalista israeliano su ciò che è accaduto nel kibbutz quel giorno, dopo che i combattenti della resistenza palestinese hanno lanciato un assalto su larga scala alle basi militari israeliane e agli insediamenti oltre il confine di Gaza.
Si tratta di un tentativo di insabbiamento da parte di un alto ufficiale militare, con la complicità dei media.
Ma, lungi dall’essere ritenuto in qualche modo responsabile, Hiram si appresta ad assumere il suo nuovo ruolo di comandante della Divisione Gaza, la Brigata dell’esercito israeliano che è stata sbaragliata dalle forze palestinesi il 7 ottobre.
Hiram risiede nell’insediamento di Tekoa, costruito in violazione del diritto internazionale vicino alla città di Betlemme, nella Cisgiordania occupata.
In un’intervista rilasciata il 26 ottobre a Ilana Dayan, conduttrice del prestigioso programma investigativo Uvda del Canale 12 israeliano, Hiram ha fornito un resoconto falso degli sforzi per salvare i civili a Be’eri.
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Jacques Delors ha reso l’Europa unita un dispositivo neoliberale irriformabile
di Alessandro Somma
Piena occupazione vs stabilità dei prezzi
Secondo la ricostruzione che va per la maggiore, l’Europa unita è nata per assicurare al Vecchio continente un futuro di pace. Ha però visto la luce in un’epoca segnata dalla Guerra fredda, ed è stata pertanto concepita per rinsaldare il fronte dei Paesi capitalisti in lotta contro il blocco socialista. Ciò nonostante, non ha impedito agli Stati di promuovere una precondizione per il mantenimento della pace: una redistribuzione della ricchezza realizzata dai pubblici poteri fuori dal mercato tramite il welfare, e nel mercato con la tutela del lavoro e la piena occupazione.
L’Europa unita, nei suoi primi anni di vita, non era insomma del tutto ostile al compromesso keynesiano. Proprio la piena occupazione veniva del resto menzionata dal Trattato istitutivo della Comunità economica europea tra gli obiettivi che il coordinamento delle politiche fiscali e di bilancio nazionali doveva perseguire. Questi comprendevano però anche la stabilità dei prezzi e dunque la lotta all’inflazione, ovvero un obiettivo incentrato con la piena occupazione: per perseguirla, occorre sostenere la domanda attraverso l’incremento dei salari ed evitare quindi politiche monetarie destinate a contenere la disponibilità di denaro, richieste invece al fine di promuovere la stabilità dei prezzi.
In tutto questo si pensava che i Paesi partecipanti alla costruzione europea non dovevano limitati a coordinare le loro politiche fiscali e di bilancio, ovvero che le avrebbero prima o poi cedute a Bruxelles. Si pensava poi che questo passaggio avrebbe dovuto accompagnare, se non precedere, la creazione di una politica monetaria comune.
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Insidie, miraggi e trappole dell’ambientalismo
di Elisa Lello
Le lotte ambientali e sociali non possono essere separate le une dalle altre. Altrimenti si produrranno risposte deboli, prive di consenso e prima ancora battaglie sbagliate in principio, dove la buona fede si lascia incanalare dalla retorica e dagli interessi del capitalismo green
L’ambiente è sotto attacco, e questa guerra, mossa dalle élite economiche, politiche e finanziarie del pianeta, è una guerra anche contro di noi, intesi non solo come specie umana indissolubilmente legata alle sorti (e anzi parte) della natura, ma anche – come suggerito dalla prospettiva del Capitalocene – come larga maggioranza di dominati, seppure con differenze fondamentali nel grado di intensità della violenza, spesso legate a latitudine e sfumature della pelle. Difenderci, reagire, non può che significare riconoscere, come cerca di fare l’ecologia politica, che battaglie ambientali e sociali non possono essere separate le une dalle altre. Perché se è vero che nessuno può davvero sottrarsi all’impatto della crisi ambientale, tuttavia le risorse (economiche, culturali, relazionali…) di cui possiamo disporre costituiscono pur sempre – anzi, forse sempre più – un discrimine significativo per la nostra capacità di arginare la violenza con cui le sue conseguenze si abbattono sui nostri corpi, sulla nostra salute e sulle nostre prospettive di vita; e perché inseguendo obiettivi di contrasto alla crisi eco-climatica senza porsi il problema di quali componenti sociali ne pagheranno il prezzo, si rischia di produrre risposte deboli, prive di consenso, e prima ancora di mettere in piedi battaglie sbagliate nel principio, dove la buona fede si lascia incanalare dalla retorica e dagli interessi del capitalismo green.
Prenderò spunto dalle riflessioni emerse a partire da due iniziative organizzate nell’autunno appena trascorso per gli studenti dei miei corsi – le presentazioni di Territori in lotta. Capitalismo globale e giustizia ambientale nell’era della crisi climatica di Paola Imperatore (Meltemi 2022) e Perché non si vedono più le stelle. Inquinamento luminoso e messa a reddito della notte di Wolf Bukowski (Eris 2022) – per proporre una riflessione attenta ai concreti rapporti di forza con cui si misura l’attivismo ambientale, mirata in particolare a localizzare alcune delle secche più insidiose dove questo rischia di incagliarsi.
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Israele: un “Protocollo Annibale” di massa prolungato nel tempo?
di Giacomo Gabellini
Conformemente al suo ruolo di spina nel fianco del governo guidato da Benjamin Netanyahu, il quotidiano israeliano «Haaretz» è tornato nuovamente sul tema dell’inadeguatezza “sospetta” manifestata dalle forze militari e di intelligence israeliane nel corso del 7 ottobre, sollevando il delicatissimo tema relativo al cosiddetto “Protocollo Annibale”. Vale a dire una procedura operativa introdotta per impedire la riproposizione di episodi analoghi a quello verificatosi nell’estate 1986, quando Hezbollah rapì e assassinò tre soldati israeliani inquadrati nella Brigata Givati, i cui cadaveri sarebbero stati consegnati a Israele nel 1996 in cambio della restituzione dei corpi di 123 guerriglieri del Partito di Dio.
Pochi giorni dopo il rapimento, il generale Yossi Peled, il colonnello Gabi Ashkenazi – che avrebbe successivamente ricoperto gli incarichi di Capo di Stato Maggiore e ministro degli Esteri – e il colonnello Yaakov Amidror si riunirono presso il quartier generale del Comando Nord per stilare quello che si configura come uno degli ordini operativi più controversi nella storia delle forze di difesa israeliane, che definiva la condotta da tenere in caso di rapimento di uno o più soldati dell’Israeli Defense Force. «Durante un rapimento – recita la direttiva – la missione principale consiste nel salvare i nostri soldati, anche a costo di ferirli. Le armi da fuoco devono essere impiegate per eliminare i rapitori o comunque fermarli. Se un veicolo con a bordo i rapitori non si arresta, occorre bersagliarlo deliberatamente con un singolo colpo di arma da fuoco mirato contro i sequestratori, anche se ciò dovesse significare colpire i nostri soldati. In ogni caso, verrà fatto di tutto per fermare il veicolo e non lasciarlo scappare».
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Introduzione a Il salario sociale
di Gianfranco Pala
Tratto da Gianfranco Pala, Il salario sociale. La definizione di classe del valore della forza-lavoro, Laboratorio Politico, Napoli, 1995
La capacità di lavoro, se non è venduta, non è niente.
(Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi)
Ciò che l’operaio scambia con il capitale è il suo stesso lavoro;
nello scambio è la capacità di disposizione su di esso: egli la aliena.
Ciò che riceve come prezzo è il valore di questa alienazione
[Karl Heinrich Marx]
Il salario, per il suo stesso carattere storico, è sociale. Dunque, l’apposizione di quest’ultimo aggettivo sembrerebbe tautologica, suona come un pleonasmo. L’essere “sociale” del salario, la sua dimensione di classe, deriva direttamente dal suo essere la categoria centrale delle società in cui predomina il modo di produzione capitalistico. L’analisi di Marx sul tema è talmente inequivocabile che occorre solo riesporla, con le sue stesse parole, aggiungendo solo quel tanto di attualizzazione, che potrebbe essere perfino ridondante, se non fosse per la dimenticanza e il travisamento in cui è caduta. Numerosi sono i luoghi da cui sono state tratte le parole di Marx; in particolare, tuttavia, si rimanda al Capitale [I-4.8.15.17/19; II-16.20; III-48], ai Lineamenti fondamentali [Q.II-26/28; Q.III-5/16; Q.VI-11.12]; e al Salario [Laboratorio politico, Napoli 1995]. Con una riscrittura della lezione marxiana troppo spesso ignorata, dimenticata o fraintesa, quindi, si può offrire quella proposizione di concetti, categorie e determinazioni economiche delle quali è inutile tentare rielaborazioni artificiose. Giacché non potrebbero essere scritte meglio, neppure per l’attualità.
Il salario racchiude in sé la forma necessaria del rapporto di capitale. É una forma di relazione, pertanto, che non riguarda il singolo lavoratore e il singolo capitalista. Il lavoratore salariato, la cui sola risorsa è la vendita della sua capacità di lavoro, non può abbandonare l’intera classe dei compratori, cioè la classe dei capitalisti, se non vuole rinunciare alla propria esistenza.
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Vincenzo Costa, “L’assoluto e la storia. L’Europa a venire, a partire da Husserl”
di Alessandro Visalli
Il libro di Costa è del 2023, decisamente un anno di crisi.
Legge questa crisi attraverso la rilettura, tagliente e militante, di un altro libro della Crisi. La “Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale”[1] di Husserl, determinando a sua volta un testo difficile, costantemente in bilico, che cerca la traccia di una lettura, la quale al contempo tradisce/rispetta il testo. Nel quale testo è, in altre parole, cercato un filo interno in grado di leggerlo alla luce del più alto presente al prezzo di qualche tradimento. Mi pare che la chiave sia la tensione a muoversi su un confine esile, un’aporia chiaramente espressa. È, insomma, un libro politico dall’inizio alla fine.
Si tratta degli unici libri che vale la pena di leggere.
Tutto il testo è compreso nell’impossibile obiettivo iniziale: “interrogarsi sull’Europa significa, da un punto di vista filosofico, chiedersi quale sia la sua identità, che cosa la distingua da altre culture”[2]. Domanda pienamente legittima, chiaramente, ma dalla risposta quanto mai difficile. Ora, l’interpretazione di Husserl a questa domanda (alla quale si potrebbe rispondere, semplicemente, che a distinguerla è la sua storia, ovvero che non si distingue) riecheggia temi del tempo: “l’Europa non è una storia, ma è la domanda stessa sulla storia”.
Incontrare un testo (nella fattispecie “La Crisi” di Husserl) significa avvertirne il distacco e l’alterità, la distanza, e proporre al lettore quali domande ci siano nel frattempo diventate estranee, ma, al contempo, lasciarsi attraversare dal testo. In modo che, riguardando l’oggi a partire dalla traccia degli anni presenti nelle pagine ri-lette, sia possibile esserne dislocati.
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Wolfgang Schäuble: il teorico dell’Europa asservita alla Germania
di Alessandro Somma
La morte di Wolfgang Schäuble, il fautore più ottuso dell’estremismo austeritario tedesco, ci consente di mettere in luce le ragioni intime di questo approccio alla costruzione europea: asservire l’Unione alla Germania. Tra i molti riscontri di questa strategia scegliamo di ricordarne uno forse meno analizzato, ma non per questo meno inquietante: le riflessioni dedicate all’Europa a più velocità di cui proprio Schäuble fu un tifoso particolarmente infervorato. Non tuttavia per assecondare i bisogni dei Paesi più deboli del punto di vista dei parametri di Maastricht, ma al contrario per costringerli alla disciplina di bilancio imposta da quei parametri e soddisfare così gli interessi tedeschi. È quanto si ricava da un documento predisposto assieme a Karl Lamers nel 1994, a tre anni dal Trattato di Amsterdam e durante il semestre di Presidenza europea della Germania, quando Schäuble era Presidente del Gruppo cristianodemocratico presso il Parlamento di Berlino[1].
Proprio l’identificazione degli interessi tedeschi occupa l’apertura del documento, che si sofferma sulla collocazione geopolitica particolarmente delicata della Germania: nel punto in cui si incontrano, e sovente si scontrano, la parte occidentale e la parte orientale del continente. Per molto tempo, ricordano Schäuble e Lamers, si sono voluti affrontare i problemi legati a questa collocazione rivendicando un’egemonia sull’area europea, ma tutti i tentativi in questo senso sono miseramente falliti: da ultimo quello che ebbe «come conseguenza la catastrofe militare e politica del 1945». Da ciò una convinzione divenuta «un vero e proprio principio della politica europea» condotta dalla Germania: che le sue forze non siano sufficienti ad accreditarsi come potenza egemonica, e che pertanto «la sicurezza possa essere conquistata solo attraverso una modifica sostanziale del sistema degli Stati europei»[2].
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Educazione e violenza: parliamone (con Fanon). Decolonizzare le istituzioni, cedere sovranità
di Andrea Muni
L’aggressione coloniale s’interiorizza in Terrore nei colonizzati. Con ciò non intendo soltanto il timore che essi provano davanti ai nostri inesauribili mezzi di repressione, ma anche quello che ispira loro il loro stesso furore. Son stretti tra le nostre armi che li prendono di mira e quelle spaventevoli pulsioni, quei desideri omicidi che salgono dal fondo dei cuori e che essi non sempre riconoscono: giacché non è, da principio, la “loro” violenza, è la nostra, rivoltata, che cresce e li strazia; e il primo moto di quegli oppressi è di seppellire profondamente quell’inconfessabile ira che la morale loro e nostra condannano e non è però che l’ultimo ridotto della loro umanità. Leggete Fanon: saprete che, nel tempo della loro impotenza, la pazzia omicida è l’inconscio collettivo dei colonizzati
(JP. Sartre, “Prefazione ” a I dannati della terra, di F. Fanon)
Il problema posto dall’odierno rapporto tra educazione e violenza intreccia molte delle questioni più scottanti del nostro mondo alla deriva: dalla terza guerra mondiale a puntate in atto alla necessità di ripensare totalmente il modo di fare e diffondere cultura, dal problema dell’appassimento senile delle nostre istituzioni a quello del disciplinamento perpetrato per mezzo di un discorso dominante che si serve di tattiche e strategie, formali e informali, pubbliche e private, sempre più capillari e impercettibili. Tale “discorso” e le sue logiche profonde sono ritrasmessi indistintamente dallo pseudo-progressismo e dal liberal-conservatorismo dominanti nelle nostre élites politiche, professionali e intellettuali. In questo intervento approfondiremo le cause dell'(auto)aggressività strutturalmente prodotta dalle istituzioni (pubbliche e private) della nostra società, che non smettono di colonizzare, normalizzare e selezionare internamente i soggetti più adatti a conservarne lo status quo.
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In occasione del centenario di “Storia e Coscienza di Classe”: la dialettica di natura e società tra György Lukács e Alfred Schmidt
di Francesco Bugli
Questo testo è dedicato alla memoria di Roberto Sassi (1960-2023)
Parte I
Nell’influente raccolta di saggi Storia e Coscienza di Classe (dalla cui pubblicazione ricorre il centenario), György Lukács si pose un problema metodologico, ovvero se fosse possibile applicare alla natura il metodo dialettico nella formulazione engelsiana. La risposta secondo l’autore è sostanzialmente negativa, ed è già presente nel primo testo della raccolta intitolato Che cos’è il marxismo ortodosso?. Sappiamo che Storia e Coscienza di Classe è spesso considerato il testo fondatore del cosiddetto marxismo occidentale, incarnato da una rosa di autori che interpretano il pensiero di Karl Marx come separato da quello di Friedrich Engels su molte questioni cruciali, a partire proprio da quella metodologica. La separazione di cui parliamo riguarda cioè il metodo con cui si debba indagare natura e società: ciò non era scontato nella vulgata marxista del tempo che sarebbe confluita nel cosiddetto diamat di matrice sovietica. Il testo Il concetto di natura in Marx di Alfred Schimdt è a nostro avviso segnato da una profonda influenza del testo lukácsiano che lo porta a seguire la traiettoria del pensatore ungherese nella valutazione del pensiero di Engels. In questo articolo si traccerà quindi un ponte tra i due autori: un ponte relativo alla loro valutazione del pensiero engelsiano. Inoltre, verrà tenuta al centro la problematica ontologica, mostrando come essa sia declinata dai due autori in modi differenti.
- Storia e coscienza di classe: metodo e problemi nella conoscenza della natura e della società
A partire dal primo testo di Storia e coscienza di classe, Lukács poneva il problema della differenza di metodo da adottare nell’analisi della società e in quella della natura[1].
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La politica estera degli Stati Uniti è una truffa costruita sulla corruzione
di Jeffrey D. Sachs
La politica estera degli Stati Uniti sembra essere del tutto irrazionale. Gli Stati Uniti entrano in una guerra disastrosa dopo l’altra: Afghanistan, Iraq, Siria, Libia, Ucraina e Gaza. Negli ultimi giorni, gli Stati Uniti si sono isolati a livello globale nel sostenere le azioni genocide di Israele contro i Palestinesi, votando contro una risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per un cessate il fuoco a Gaza sostenuta da 153 Paesi con l’89% della popolazione mondiale, e contrastata solo dagli Stati Uniti e da 9 piccoli Paesi con meno dell’1% della popolazione mondiale.
Negli ultimi 20 anni, tutti i principali obiettivi di politica estera degli Stati Uniti sono falliti. I Talebani sono tornati al potere dopo 20 anni di occupazione statunitense dell’Afghanistan. L’Iraq post-Saddam è diventato dipendente dall’Iran. Il presidente siriano Bashar al-Assad è rimasto al potere nonostante gli sforzi della CIA per rovesciarlo. La Libia è caduta in una lunga guerra civile dopo che una missione NATO guidata dagli Stati Uniti ha rovesciato Muammar Gheddafi. L’Ucraina è stata randellata sul campo di battaglia dalla Russia nel 2023, dopo che gli Stati Uniti hanno segretamente annullato un accordo di pace tra Russia e Ucraina nel 2022.
Nonostante queste notevoli e costose debacle, una dopo l’altra, lo stesso cast di personaggi è rimasto al timone della politica estera statunitense per decenni, tra cui Joe Biden, Victoria Nuland, Jake Sullivan, Chuck Schumer, Mitch McConnell e Hillary Clinton.
Cosa succede?
L’enigma si risolve riconoscendo che la politica estera americana non riguarda affatto gli interessi del popolo americano. Si tratta invece degli interessi degli addetti ai lavori di Washington, a caccia di contributi per le campagne elettorali e di posti di lavoro redditizi per sé, per il personale e per i familiari. In breve, la politica estera degli Stati Uniti è stata violata dai grandi capitali.
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La strategia israeliana e Gaza
di Alfa Tau
Mentre perdura l’offensiva israeliana nella Striscia di Gaza, è utile fare il punto su alcuni dati di fatto che consentono una lettura degli avvenimenti in Terra Santa significativamente diversa rispetto a quanto media italiani e internazionali hanno raccontato e continuano a raccontare. Crediamo infatti che il solo modo per contribuire a una pace giusta in Medio Oriente sia quello di favorire la comprensione della realtà, sfrondandola da propaganda e manipolazioni mediatiche.
* * * *
Un aspetto fondamentale, emerso da varie convergenti testimonianze, fino a essere oramai seriamente documentato, riguarda il presunto fallimento dell’intelligence israeliana nel prevedere il famigerato attacco terroristico dello scorso 7 ottobre. Una prima voce significativa è circolata quando l’americano New York Times, il 30 ottobre scorso, nel ricostruire la “sorpresa” che lo Shin Bet (servizio segreto militare israeliano) avrebbe subìto, evidenzia un fatto piuttosto singolare:
«l’Unità 8200, agenzia israeliana che si occupa di monitorare le comunicazioni radio nemiche, aveva smesso di intercettare quelle di Hamas un anno prima, poiché lo riteneva uno spreco di forze. Secondo tre funzionari della difesa israeliana, fino quasi all’inizio dell’attacco, nessuno ha ritenuto che la situazione fosse abbastanza grave da dover svegliare il primo ministro Benjamin Netanyahu».
La notizia passa ovviamente inosservata presso i media italiani, votati alla tutela ad ogni costo, soprattutto a quello della verità, dell’immagine dello Stato d’Israele presso la nostra opinione pubblica. Ma, ecco che, non molti giorni dopo, si aggiunge un’altra notizia ancora più sorprendente, riferita dal canale televisivo israeliano N12. Il 23 novembre, il Jerusalem Post riassume così il servizio dell’emittente:
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Tutti i colori del rosso
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