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Il Reaganismo, la Curva di Laffer e la Flat Tax
Alcune considerazioni realistiche
di John Komlos1 e Salvatore Perri2
Presentiamo un saggio degli economisti, professori John Komlos e Salvatore Perri, che pone una serie di interrogativi sui conclamati effetti positivi della politica economica adottata negli Stati Uniti dal presidente Ronald Reagan negli anni ’80. I prevalenti toni di ammirazione per quelle teorie – egli fu comunque un grande Presidente – vanno forse ridimensionati, solo a por mente agli effetti reali sugli investimenti e sulla redistribuzione dei redditi che l’applicazione di quei principi generò – e continua a generare – sull’economia mondiale
Abstract. I partiti e i movimenti sovranisti che stanno salendo alla ribalta in gran parte dei paesi occidentali hanno come comune denominatore, di politica economica, la proposta di una riduzione generalizzata delle tasse sulla scorta delle ipotesi teoriche di Arthur Laffer. I tagli delle tasse alle classi più abbienti così come sperimentate negli Stati Uniti da Ronald Reagan e come applicate anche oggi da Donald Trump, vengono riproposte in altri termini sotto forma di regimi fiscali forfettari come la “Flat Tax”. I limiti di questa proposta risiedono proprio negli effetti a lungo termine che tali politiche hanno avuto sul tessuto sociale ed economico statunitense, nell’evanescenza, ai limiti dell’irrealismo, delle ipotesi teoriche su cui si fonda la curva di Laffer e nei possibili effetti catastrofici che una tale politica potrebbe avere sui conti pubblici di un paese indebitato, come l’Italia. Promettere meno tasse può portare consensi politici nel breve periodo, ma non è detto che non sia foriero di disastri economici nel lungo.
Riduzioni delle tasse e crescita tra mito e realtà
Le proposte di riduzione generalizzate delle tasse caratterizzate dallo slogan “meno tasse per tutti” hanno sempre rappresentato un formidabile catalizzatore di consensi nelle campagne elettorali dei paesi occidentali.
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Giovanni Arrighi, “Adam Smith a Pechino”. Parte III
di Alessandro Visalli
Nella seconda parte (qui la prima) di questa lettura dell’ultimo libro di Giovanni Arrighi avevamo descritto il modo in cui l’autore dà conto dell’intervallo tra la “crisi spia” degli anni sessanta, connessa con il doppio deficit statunitense, l’esaurimento del predominio industriale e il termine con successo dell’inseguimento dei paesi sconfitti della seconda guerra ed aiutati a rialzarsi in chiave antisovietica nei confronti degli Usa, l’evento scatenante epocale della sconfitta in Vietnam.
L’approccio del libro è molto largo e profondo, nel tentare di spiegare i lunghi percorsi della transizione in corso, e gli assetti di forza che di volta in volta si susseguono in essa, pone in questione l’idea che il capitalismo sia una sorta di destino del mondo, una tappa di un processo necessario di autosuperamento dell’umanità, che di qui, e necessariamente di qui, potrà infine giungere alla condizione pacificata del socialismo. Chiaramente questa critica viene svolta e diventa pertinente in considerazione della questione che è al centro del libro: può lo sviluppo imponente cinese costituire la base di un nuovo ciclo egemonico che sia significativamente diverso dal capitalismo anglosassone al quale succede (in caso succeda)? Non è, in altre parole, il modello cinese in effetti una pura e semplice mimesi del capitalismo occidentale senza neppure l’apparenza di libertà liberale? Ovvero, non è il peggio dei due sistemi?
Arrighi risponde di no. Ma nel farlo è costretto a chiedersi per quale ragione anche nella cultura marxista, ovvero nelle tante e diverse culture marxiste, in genere il capitalismo sia considerato contemporaneamente inevitabile e progressivo.
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Kodoku-shi, la morte solitaria
di Yosuke Taki
Un settore di grande successo
Nell’estate del 2018 si è registrato in Giappone un caldo record, con temperature di oltre 40 gradi in diverse città. Mai così caldo da quando la nazione nipponica ha cominciato a farne statistiche nel 1946. Sotto quel clima rovente, però, c’è stato un settore che non si è mai fermato in tutta l’estate.
Questa professione si chiama in giapponese tokushu-seisō-gyōsha, detta per brevità tokusō, ovvero impresa di pulizia speciale. Si tratta di ripulire luoghi che sono stati teatro di incidenti o persino di omicidi. Ultimamente però la tokusō è molto richiesta per pulire case e appartamenti dove è avvenuta la cosiddetta kodoku-shi, la morte solitaria: i cadaveri vengono trovati, in genere molto tempo dopo il decesso, in condizioni inenarrabili e spesso all’interno di ambienti pieni zeppi di immondizia accumulata a volte fino ad altezza d’uomo. Immagino che rimaniate esterrefatti, ma addirittura nel vocabolario contemporaneo giapponese esiste già un termine specifico per designare queste case riempite di rifiuti: gomi-yashiki, letteralmente “dimora di immondizie”. Sembra che i poveri abitanti di quelle case vivessero barricati dietro pareti di barattoli e di spazzatura senza più avere alcuna relazione con gli altri esseri umani. Insomma, una versione adulta degli hikikomori, gli auto-reclusi giovanili. Queste persone vivono nella trascuratezza totale, quello che in inglese si definisce self-neglect, e muoiono in completa solitudine. È per questo che i loro cadaveri vengono trovati dopo giorni, a volte persino dopo settimane, in molti casi solo per via degli odori prodotti dalla loro decomposizione. Sono di solito i padroni di casa o i vicini a chiamare la polizia, e dopo il ritrovamento del cadavere tocca alla tokusō il compito di ripulire e risanare l’ambiente, spesso in tutta fretta, perché la situazione è insopportabile per la vita e il benessere dei vicini.
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La straordinaria sollevazione cilena ha un significato internazionale
di Il Cuneo rosso
Dopo aver raccontato delle lotte in Libano e dell’Algeria, pubblichiamo un’altra breve nota sul Cile, per sottolineare l’importanza internazionale della grandissima sollevazione tuttora in pieno corso in questo paese, e la necessità di dare ad essa la nostra solidarietà di classe nelle forme possibili. Vuol essere un invito ad alzare lo sguardo e ad osservare come là dove la crisi e il meccanismo stritolatore del capitalismo globale colpiscono più duro (Sud-America, Centro-America, Medio Oriente), lì le risposte di lotta delle classi sfruttate si stanno facendo sempre più imponenti.
La magnifica sollevazione di massa in Cile è ancora a metà del guado – sia Pinera che i militari torturatori sono ancora lì! -, ma ha già assunto un valore mondiale. Perché proprio in Cile ha preso avvìo 46 anni fa il lungo ciclo “neo-liberista” globale, l’ininterrotta offensiva con cui la classe capitalistica ha aggredito il proletariato industriale e via via in progress l’intero campo delle classi non sfruttatrici. Nel 1973 l’avvento della dittatura militare stroncò nel sangue l’esperienza riformista di Allende e spianò la strada alle controriforme “neo-liberiste” del diritto del lavoro, delle pensioni, dei servizi sociali, della scuola, dei trasporti, dell’energia, dell’acqua, della sanità. In totale: una brutale svalorizzazione della forza-lavoro, la sua torchiatura all’estremo, lo smantellamento dei diritti e delle organizzazioni operaie. Per questa via il Cile è diventato, prima con Pinochet, poi con i suoi successori di centro-sinistra (Alwin, Frei, Lagos, Bachelet) e di centro-destra (Piñera) uno dei paesi-vetrina dei miracoli del modello di sviluppo “neo-liberista” – per i suoi tassi di sviluppo (di sviluppo dei profitti), per i bassi indici di disoccupazione, per la riduzione della povertà e altre frodi statistiche del genere. Il risultato sociale di questo prodigio è ora sotto gli occhi del mondo intero. Prima la rivolta dei giovani contro il ventesimo aumento del biglietto del metro in 12 anni; poi una montante mobilitazione di massa contro lo stato di guerra decretato da Piñera; infine due giorni di sciopero generale con manifestazioni oceaniche a Santiago e in tutte le principali città cilene, al grido di “Fuera Piñera y fuera los milicos”, “Abajo el estado de emergencia”.
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Rosa Luxemburg, Raul Sendic e Lenin bevono mate e discutono di potere in Uruguay
di Bollettino Culturale
Insurrezione e riflessione
Le classi dominanti latinoamericane (complici e allo stesso tempo fedeli servitori del colonialismo e dell'imperialismo) hanno sempre costruito l'immagine di un mostro spettrale e caricaturale per evocare e reprimere la ribellione delle classi popolari. Prima battezzarono quella bestia demoniaca come "cannibale indigeno" e "bighorn nero". Quindi "Giacobino assetato di sangue". Più tardi "stupratore anarchico" e "comunista mangiatore di bambini" (il pittore messicano Diego Rivera rise molto dicendo che, essendo un comunista, in Unione Sovietica provò la carne di bambino e la trovò molto gustosa). Avanzando nel tempo, quel fantasma onnipresente adottò la figura di "offensore sovversivo e apolide". Più tardi fu demonizzato come "terrorista" fino a quando non arrivò ai nostri giorni con il molto ripetuto dai media degli Stati Uniti "narco-terrorismo"...
Il filo rosso che attraversa questa prolungata demonizzazione è l'attribuzione dell'irrazionalità e della follia alle nostre ribellioni popolari. Ogni ribelle è un delirante, completamente privo di ragione e di logica.
Contrariamente a questa storia maccartista, ripetuta e riciclata fino ad oggi dalla voce del maestro, l'insurrezione in America Latina è stata più che prolifica nei suoi tentativi di riflessione, fondamento logico e argomentazione ragionata delle sue ribellioni. La tradizione della scrittura segna una chiara continuità durante l'insurrezione. Che Guevara, oltre ad essere un comandante di guerriglia e un convinto comunista internazionalista, è soprattutto uno scrittore prolifico. Il vertice più alto di un'intera tradizione di scrittura e pensiero marxista ribelle.
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Più delle sette piaghe potè Di Maio (e Grillo)
Dal vaffa dei cinquestelle ai vaffa ai cinquestelle
di Fulvio Grimaldi
Sono stato alla Festa Nazionale dei 5Stelle a Napoli e ve ne dirò. Un’organizzazione da paura, degna della migliore Festa nazionale dell’Unità. E tantissima gente. Della quale mi illudo di aver percepito gli umori, divisi tra chi era venuto a riconoscersi e confortarsi nella Grande Famiglia, qualunque cosa essa facesse; chi sperava di ritrovare, nel grande affresco, i tratti del dipinto-capolavoro di cui si era innamorato; e chi si presentava con il broncio, più o meno disposto a esibirlo. Di tutta quella gente sotto ai vari palchi condivido il trauma: la botta dell’Umbria è tale da indurre o la sveglia, o il coma.
Ma pochissimi, sempre di quelli sotto il palco, denuncerei di complicità con l’accaduto; semmai qualcuno di eccesso di fiducia per il pastore, elemento costitutivo del gregge, ma inerente anche all’assenza di un meglio. Il guaio è che, sparito il Partito Comunista che, a dispetto dei vari Togliatti, Napolitano e Berlinguer, una bella fetta di società aveva dotato di cultura, conoscenza e coscienza politica, di queste non v’è stata più traccia nella base del Movimento. Vedo gli smarriti, o euforici, che si aggiravano per padiglioni e viali della Mostra d’Oltremare, più come vittime, che come sicari. Ci torniamo dopo.
Peccati mortali
Andiamo in Umbria e citiamo alcuni peccati mortali che hanno inserito il M5S nella parte inferiore del Giudizio Universale comminatoci dalla cortesia del Signore e dall’infinito amore del suo figliolo. A partire dal matrimonio, ahinoi non morganatico, con il corpo politico a cui è assegnato il compito di produrre milionari e miliardari immuni e impuniti, soprattutto esteri, dato che dobbiamo essere globalisti-cosmopolitici-cittadini del mondo, e, corrispondentemente, masse sconfinate e indistinte di angustiati e affamati, ripugnanti portatori di “invidia sociale” e di “odio” cosmico.
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L'unità dei comunisti e la questione comunista
Pubblichiamo un interessante dialogo fra Alessandro Pascale, Roberto Gabriele e Paolo Pioppi
Il compagno Alessandro Pascale si è fatto interprete, in questi ultimi tempi, di sollecitazioni unitarie nei confronti di un'area che, in vario modo, si definisce comunista. La domanda che viene spontanea è questa: non è il caso di indagare meglio su come impostare la questione? È esigenza primaria quella di invocare l'unità o è preliminare portare la questione sul terreno dell'analisi e aprire un dibattito di contenuti sui processi che possono dare un fondamento solido alla questione che il compagno pone?
Noi riteniamo preliminare dare risposta su questo terreno prima di inoltrarci in discorsi unitari che, come il passato dimostra, non hanno prodotto risultati. I fallimenti dei progetti unitari hanno, a nostro parere, natura oggettiva e su questo bisogna indagare e discutere.
Da questo punto di vista due sono le questioni sul tappeto: 1) il rapporto tra crisi del movimento comunista e organizzazione comunista e 2) la natura dei gruppi che in Italia si richiamano al comunismo.
Analizziamo la prima questione. Sulla “ripresa” del movimento comunista, in Italia come altrove, pesa la crisi irreversibile che esso ha attraversato a livello mondiale negli anni '90 del secolo scorso. Illudersi che si possa andare avanti con la denuncia dei traditori e ricostruire sic et simpliciter un partito comunista, come è dimostrato da questi decenni di tentativi andati a vuoto, è un'operazione perdente, sia nella versione cosiddetta marxista-leninista che in quella dei progetti di “rifondazione”. In ambedue i casi si è trattato di ipotesi che non facevano certamente i conti con ciò che era avvenuto o stava avvenendo.
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Oltre l’illusione della green economy. Alcune riflessioni
di Militant
“E’ più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”
(Fredric Jameson)
Prima (ovvia) premessa
Interrogato su quali leggi scientifiche avrebbero superato indenni il test del tempo senza essere rigettate o radicalmente riformulate dalle future generazioni di scienziati, Albert Einstein indicò la prima e la seconda legge della termodinamica. “E’ la sola teoria fisica di contenuto universale di cui sono convinto che nell’ambito di applicabilità dei suoi concetti di base non verrà mai superata.” Semplificando, le due leggi affermano che l’energia totale dell’universo è costante, non può essere né creata né distrutta, ma che essa cambia continuamente forma, anche se in una sola direzione, da disponibile ad indisponibile, e che il “grado di disordine” del sistema, l’entropia, è in continuo aumento. La terra rispetto al sistema solare rappresenta un sistema termodinamicamente chiuso, ciò significa che assorbe energia dal sole, ma non riceve materia dall’universo circostante. Ora, se alle reminiscenze di fisica aggiungiamo frettolosamente anche quelle di chimica, rispolverando la legge di conservazione della massa di Lavoisier, secondo la quale all’interno di un sistema chiuso la massa dei reagenti è esattamente uguale alla massa dei prodotti (nulla si crea, nulla si distrugge…), appare evidente, come vanno ormai sostenendo praticamente tutti, che il pianeta su cui viviamo è “finito”. Intendendo con questo che lo stock di materie prime su cui possiamo e potremo contare è destinato prima o poi ad esaurirsi, ponendoci di fronte ad un problema di scarsità.
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Democrazia e potere
di Salvatore Bravo
Diritto e violenza
Il Marx di Maurizio Ricciardi in “Il potere temporaneo Karl Marx e la politica come critica della società” è il Marx della prassi (dal gr. πρᾶξις «azione, modo di agire», der. di πράσσω «fare»), in cui la cristallizzazione del potere capitalistico opera capillarmente e nel contempo si irrigidisce in istituzioni che eternizzano il potere politico. Le istituzioni che in Hegel erano il luogo etico nel quale il diritto esplicava l’universale, in Marx non solo sono storicizzate, ma non vi è nessun diritto che precede la prassi, il diritto si forma nella storia, nella relazione tra struttura e sovrastruttura. Le istituzioni ed il diritto, se rappresentate come astoriche, sono il mezzo con cui i sistemi perpetuano se stessi e legittimano la violenza. Con la genealogia storica si denuncia la modalità ideologica con cui il potere si afferma nel quotidiano. La ricostruzione storica curvata nell’ideologia, nella difesa degli interessi particolari a cui si doveva “necessariamente” giungere è già violenza, perché si vorrebbe inibire il pensiero, la critica radicale e la prassi. La storia collassa su se stessa, si chiude al futuro, ed il passato diventa il despota del presente1:
”Ciò che preme a Marx è mettere in discussione l’ipoteca del passato sul presente, il cui effetto è la radicale destoricizzazione dei rapporti tra gli uomini, che non vengono interpretati per ciò che sono, ma per ciò che si presume siano sempre stati e di conseguenza dovranno essere sempre, legittimando in questo modo la necessaria e indiscutibile trascendenza del potere”.
Astoricizzazione e gerarchia
Storicizzare è riportare il fenomeno storico alla sua genetica storica. Con la categoria della comprensione si materializza l’attività del soggetto storico resistente che in quanto tale “si umanizza”, mentre la naturalizzazione del presente, per mezzo della sua astoricizzazione preserva e conserva “l’antiumano”, il dominio della forma merce sulla persona.
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Miseria del sovranismo. Smarrimento della dialettica e proliferazione dell'ideologia
di Emiliano Alessandroni*
1. Questioni teoriche preliminari
Nella Scienza della Logica Hegel descrive in questi termini la natura ontologicamente relazionale di ogni contenuto determinato:
Quando si presuppone un contenuto determinato, un qualche determinato esistere, questo esistere, essendo determinato, sta in una molteplice relazione verso un altro contenuto. Per quell'esistere non è allora indifferente che un certo altro contenuto, con cui sta in relazione, sia o non sia, perocché solo per via di tal relazione esso è essenzialmente quello che è[1].
Si tratta di un aspetto successivamente ben compreso e metabolizzato dalla filosofia di Marx: «un ente che non abbia alcun oggetto fuori di sé non è un ente oggettivo. Un ente che non sia esso stesso oggetto per un terzo, non ha alcun ente come suo oggetto, cioè non si comporta oggettivamente, il suo essere non è niente di oggettivo». Questo riferirsi ad altro, ossia essere in rapporto con altro, costituisce la naturale essenza di ogni ente in quanto ente:
Esser oggettivi, naturali, sensibili, e avere altresì un oggetto, una natura, un interesse fuori di sé, oppure esser noi stessi oggetto, natura, interesse di terzi, è l'identica cosa. La fame è un bisogno naturale, le occorre dunque una natura, un oggetto, al di fuori, per soddisfarsi, per calmarsi. La fame è il bisogno oggettivo che ha un corpo di un oggetto esistente fuori di esso, indispensabile alla sua integrazione e alla espressione del suo essere. Il sole è oggetto della pianta, un oggetto indispensabile, che ne conferma la vita, come la pianta è oggetto del sole, dell'oggettiva forza essenziale del sole.
Un ente che non abbia fuori di sé la sua natura non è un ente naturale, non partecipa dell'essere della natura[2].
L'avere fuori di sé la propria natura significa che nessun ente naturale finito, ma a ben vedere anche nessun contenuto determinato, sia autosufficiente.
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Dipendenti pubblici di uno Stato privatizzato
di Federico Giusti e Ascanio Bernardeschi
Parallelamente al processo di privatizzazione dei pubblici servizi si è trasformato il rapporto di pubblico impiego e con le esternalizzazioni in campo ci sono lavoratori più divisi e con meno diritti
Alla fine del 1800 emerse la necessità di disciplinare il rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici, fino ad allora avente natura puramente privatistica, in maniera differenziata rispetto al privato.
Se alcune motivazioni erano ragionevoli (garantire al dipendente pubblico, figura di servitore dello Stato e garante dell’imparzialità della pubblica amministrazione una certa indipendenza dai politici), altre erano completamente negative (evitare la sindacalizzazione, la politicizzazione, il diritto di sciopero ecc). Per cui il rapporto di lavoro, sia collettivo che individuale veniva regolato esclusivamente dalla legge e da atti amministrativi, escludendo ogni forma di contrattazione. E anche il contenzioso fra dipendenti e PA venne demandato alla giustizia amministrativa e non a quella civile.
La Costituzione repubblicana confermò i principi di indipendenza del dipendente pubblico. L’art. 54 prevede che i “cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche”, quindi sia dipendenti che politici, debbano “adempierle con disciplina ed onore”; l’art. 97 dispone che gli uffici pubblici siano organizzati in base alle leggi e che all’impiego pubblico si acceda mediante concorso; l’articolo 98 che “i pubblici impiegati siano al servizio esclusivo della Nazione”. Tuttavia la Carta, affermando il diritto di tutti i lavoratori alla sindacalizzazione e allo sciopero, senza dubbio ha indicato la strada di una equiparazione fra lavoratori dipendenti privati e pubblici per quanto concerne i diritti fondamentali.
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Un nuovo Marx
di Roberto Fineschi
[Trascrizione, con revisione minima, della conferenza inaugurale del ciclo “Officina Marx 2018”, tenutosi presso Le stanze delle memoria il 22 ottobre 2018. Per una trattazione più dettagliata di molte delle questioni toccate, si veda: R. Fineschi, Un nuovo Marx. Interpretazione e prospettive dopo la nuova edizione storico-critica (MEGA2), Roma, Carocci, 2008]
1. Il titolo del mio intervento è “Un nuovo Marx”. Da una parte è un titolo un po’ paradossale perché Marx è un autore ben noto, molto letto, molto interpretato. Su di lui si sono scritti fiumi di inchiostro e non solo: la sua faccia era impressa su bandiere politiche, il suo nome è stato utilizzato da molti e in molte direzioni come bagaglio politico ideologico per legittimare movimenti storici, addirittura Stati.
In questo senso, nella misura in cui lo si utilizzava politicamente, era in una certa misura inevitabile creare una ortodossia, perché i movimenti politici che diventano istituzioni hanno bisogno di una verità ufficiale, eterna che, chiaramente, per esigenze di identità e di autolegittimazione , tende irrimediabilmente ad irrigidirsi in formule che piano piano perdono appiglio alla realtà e si trasformano in un formulario da ripetere negli anniversari e nelle celebrazioni.
Sicuramente questo è in parte il destino che l’opera di Marx ha subito in Unione Sovietica o nell’est Europa dove era una dottrina ufficiale di una istituzione e non poteva che essere vera, immodificabile, sicura in secula seculorum. Il diamat ne è l'esempio per antonomasia. Tra gli elementi cardine di queste varie formulazioni avevamo ovviamente che il socialismo reale costituiva l’inveramento delle teorie di Marx: il socialismo reale realizzandosi verificava le previsioni di Marx, l’esistenza di una intrinseca necessità storica per cui alla fine lì si doveva arrivare. Il presunto esito della evoluzione storica era quello che si era verificato.
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Il puzzle europeo perde il collante
di Dante Barontini
Può sembrare curioso, in giorni monopolizzati dal voto in Umbria e dalle sue indubbie conseguenze politiche per l’Italia, girare lo sguardo sulla crisi dell’Unione Europea. I malevoli diranno: “ma ciavete la fissa…”
E invece ci sembra proprio che sia diventato impossibile capire perché il “malessere popolare” prende direzioni così folli (la Lega in Italia, Afd in Germania, Le Pen in Francia, ecc) se non si fanno i conti fino in fondo con la governance continentale, le politiche che questa ha imposto e che vorrebbe portare avanti senza grandi mutamenti, con i disastri provocati nelle economie e quindi nella “coesione sociale” dei diversi paesi.
Non solo di quelli euromediterranei, a questo punto, visto che anche la Germania è quasi ufficialmente in recessione.
La polarizzazione estrema del voto in Turingia – dove vincono la sinistra (non tanto) estrema con Die Linke e l’ultradestra più estrema con Afd – sono apparentemente in contraddizione con il voto umbro (tutto a destra, niente a sinistra, qualcosa – ma in tracollo – al centro).
La differenza ci sembra evidente: in Turingia (Germania Est, ex Ddr) è ancora viva la memoria di uno “stato sociale” magari non ricchissimo, ma certamente più egualitario della giungla liberista attuale, e c’è almeno un partito che dice di perseguire politiche sociali di redistribuzione, localmente guidato anche da dirigenti che non hanno rinnegato ogni cosa (non dappertutto è così, per la Linke).
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Nemico (e) immaginario. L’Intelligenza artificiale tra timori e utopie
di Gioacchino Toni
Nel saggio L’algoritmo della post-produzione. Come rinunciare al lavoro e vivere felici – contenuto nel volume D. Astrologo, A. Surbone, P. Terna, Il lavoro e il valore all’epoca dei robot. Intelligenza artificiale e non-occupazione (Meltemi, 2019) –, Dunia Astrologo apre significativamente la sua analisi circa l’incidenza dell’Intelligenza artificiale sul mondo del lavoro riportando una celebre affermazione del Moro di Treviri: “La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotte di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in una parola oppressi e oppressori sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosta, a volte palese: una lotta che finì sempre o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la rovina comune delle classi in lotta.” Karl Marx
La storia, di tanto in tanto, opera dei veri e propri salti di paradigma e ogni rivoluzione, continua Astrologo in apertura di analisi, ha determinato una modificazione degli stili di vita, delle condizioni economiche e dei modelli culturali. Visto che in molti casi la portata dei cambiamenti non è stata prevista, nel momento in cui ci si occupa dei mutamenti delle tecnologie, risulterebbe utile tentare di comprendere quali saranno le evoluzioni che avranno successo e quali i loro effetti sul modo di produzione, dove si concentrerà il potere economico e quale direzione politica prenderà la società nei prossimi decenni.
Sin da quando, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, si è iniziato a parlare di Intelligenza artificiale, si è sempre palesata una certa dose d’inquietudine derivata dal timore che un prodotto dell’attività cognitiva umana possa prendere il sopravvento su chi l’ha prodotto.
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«Siamo i sovversivi della diplomazia»
Geraldina Colotti intervista Jorge Arreaza
Intervista in esclusiva al ministro degli Esteri della Repubblica Bolivariana del Venezuela
Pubblichiamo questa bella e interessante intervista, ricca di spunti, realizzata in esclusiva da Geraldina Colotti a Jorge Arreaza, ministro degli Esteri della Repubblica Bolivariana del Venezuela. Durante il colloquio con la giornalista italiana il ministro venezuelano ribadisce alcuni concetti chiave della diplomazia bolivariana, forgiata da Hugo Chavez. «Con il comandante Chavez, ma possiamo dire già con Bolivar, ci configuriamo come un attore internazionale sovversivo che si oppone all’ordine economico e politico dominante», afferma Arreaza, per poi aggiungere in un altro passaggio: «Non voglio offuscare i meriti degli altri, ma la differenza tra chi si limita ad applicare il protocollo e la diplomazia di pace è che in Venezuela governa il popolo, l’essere umano, la comunità».
Il popolo venezuelano è ben cosciente di quanto affermato da Arreza e per questo difende strenuamente il proprio governo e la Rivoluzione Boliviariana. Al contrario di quanto avviene ad esempio in Ecuador dove il popolo in rivolta contro il neoliberismo è deciso a mandare a casa il governo guidato dal traditore Lenin Moreno.
Jorge Arreaza, ministro degli Esteri venezuelano, ci riceve nel suo ufficio a Caracas. Con il suo stile sobrio e incisivo, ha smascherato e schivato molte trappole tese al Venezuela a livello internazionale, evidenziando l’alto livello raggiunto dalla “diplomazia di pace” del suo paese. Gli chiediamo di spiegarci la lunga marcia del socialismo bolivariano negli organismi internazionali.
* * * *
Tu sei uno dei volti più rappresentativi del chavismo. Qual è stato il tuo percorso e come ti sei trovato ad affrontare questa difficile congiuntura internazionale?
Io ho un percorso di studi in relazioni internazionali, concluso con un dottorato a Cambridge, nel Regno Unito, sugli Studi europei, che non ho mai avuto modo di esercitare. Mi è toccato farlo nel momento più complicato per le nostre relazioni internazionali: quando gli Stati Uniti hanno iniziato a imporci misure unilaterali, sanzioni. Trump ha minacciato di ricorrere all’opzione militare una settimana dopo che ho assunto l’incarico.
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Abolire Quota 100: la guerra alle briciole per le briciole
di coniare rivolta
Che ‘Quota 100’ fosse una misura limitatissima e di corto respiro rispetto alle gravissime falle e inadeguatezze sociali del sistema pensionistico italiano, era chiaro sin dall’introduzione della misura. Il provvedimento, lo ricordiamo, consente in via sperimentale, per il triennio 2019-2021, agli iscritti all’INPS, di conseguire il diritto alla pensione anticipata non appena venga raggiunta un’età anagrafica di almeno 62 anni e un’età contributiva di almeno 38 anni. Una misura che non risolve in alcun modo il problema delle esigue pensioni attese dai lavoratori per via del combinato disposto di sistema contributivo e carriere lavorative precarie e che, proprio nella logica perversa del contributivo, offre ai lavoratori una triste alternativa tra anticipo del diritto alla pensione ed entità della pensione stessa. Insomma, un mero lenitivo che, per soli tre anni, ha reso meno rigido il sistema di accesso anagrafico e da anzianità contributiva alla pensione, consentendo a molti la possibilità di godersi qualche anno in più di meritato riposo a spese di un minor reddito pensionistico. Tutte queste caratteristiche hanno mostrato, con grande evidenza, la linea velleitaria e del tutto subordinata alla politica economica patrocinata dalle classi dominanti e dalla regìa europea dei pochissimi e striminziti provvedimenti sociali del precedente governo giallo-verde.
Eppure, nel dibattito riguardante la predisposizione, ancora in corso, del disegno di legge di bilancio del nuovo Governo, si è giunti ad un’evoluzione che supera la stessa immaginazione, con punte di apparente masochismo politico.
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Lucio Colletti. Marxismo e Lotta di classe
di Leo Essen
Lucio Colletti è stato uno dei più raffinati marxisti italiani. La sua conoscenza di Hegel era pari a quella di Jean Hyppolite. Ma a differenza di quest’ultimo, il quale ebbe come allievi (diretti e indiretti) Deleuze, Derrida, Foucault, Balibar e Althusser, Colletti lasciò poche tracce del suo passaggio, se si escludono le influenze su Napoleoni e Orlando Tambosi. La sua posizione mediana era incuneata tra i computisti neo-ricardiani partoriti da Sraffa, e gli operaisti legati a Marcuse, Schmitt, Heidegger, Lukács, Korsch e compagnia bella.
Insegnava filosofia teoretica all’università di Roma, era iscritto al Partito Comunista Italiano (PCI), e collaborò con la rivista del Partito «Società» fino al 1962, anno in cui il PCI, impaurito dalla linea troppo leninista e marxista della rivista, ne decise la chiusura. Nel 1964 uscì anche dal PCI.
Mi trovai sempre più emarginato all’interno del partito - disse nel 1974, nella famosa intervista alla New Left Review (Intervista politico-filosofica) -, mi si permetteva quasi soltanto di pagare la tessera. La militanza nel PCI non ebbe più senso per me, e lasciai il partito in silenzio.
Colletti sarebbe potuto diventare una Star della filosofia europea, e avere una caterva di discepoli e seguaci, se non si fosse incaponito nella demolizione del Diamat, combattendo una guerra solitaria e inutile che lo allontanò da Hegel e dai nuovi e giovani marxisti. Il disgusto per il Diamat lo portò ad abbandonare Hegel e ad arretrare verso Kant e l’empirismo. Da un punto di vista strettamente epistemologico, disse, c’è solo un grande pensatore moderno che può aiutarci, ed è Kant.
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La libertà al tempo dell’Intelligenza Artificiale
di Nicolò Bellanca
Ha ancora senso trarre ispirazione, nelle nostre azioni etiche e politiche, dall’idea della libertà umana? Ha ancora senso, nell’epoca delle macchine intelligenti e dell’analisi biochimica dei nostri processi decisionali? Iniziamo evocando alcune semplici definizioni e alcuni punti del dibattito in corso di svolgimento. L’Intelligenza Artificiale (IA) esiste quando una macchina si comporta in modi che chiameremmo intelligenti se a comportarsi così fosse un essere umano.[1] Su uno degli aspetti più importanti dell’intelligenza umana, la capacità di apprendere, i computer si stanno rivelando, negli ultimi anni, altrettanto validi, o migliori, di noi in compiti come il riconoscimento vocale, la traduzione linguistica o l’identificazione delle malattie dalle analisi radiografiche.[2]
Queste formidabili prestazioni sono consentite dall’affermarsi del machine learning. A lungo i computer sono stati programmati unicamente mediante algoritmi: sequenze di istruzioni che indicano come risolvere un problema. Tuttavia, per molti dei problemi che contano nella vita – camminare, nuotare, andare in bicicletta, riconoscere un viso o capire una parola detta o scritta – non siamo in grado di scrivere un preciso algoritmo. L’IA sta superando questa difficoltà mediante un approccio basato su esempi. Esaminando molti casi di risposta ad una certa classe di problemi, il computer procede ad una generalizzazione che gli permette di affrontare anche situazioni parzialmente nuove e differenti: esso impara ad imparare sotto la supervisione di un umano, effettuando una fase di “allenamento” al termine della quale manifesta intelligenza, intesa come capacità di realizzare fini complessi, ovvero di risolvere problemi.[3]
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La rivincita delle élite
di Thomas Fazi
La politica proverbialmente surreale che contraddistingue l’Italia ha raggiunto nuove vette il mese scorso* quando il Paese, nel giro di poche settimane, è passato dall’avere il “governo più populista d’Europa” – un’alleanza improbabile e peculiare fra due partiti “anti-establishment” molto diversi tra loro, il MoVimento 5 Stelle (M5S), che si autodefinisce «né di destra né di sinistra», e la destra euroscettica rappresentata dalla Lega – all’avere un governo veementemente filo-establishment in seguito all’accordo raggiunto tra il M5S ed i liberal-centristi e filo-europeisti del Partito Democratico per la formazione di un nuovo esecutivo, dopo che il leader del Carroccio Matteo Salvini ha improvvisamente staccato la spina al precedente governo. Ed il tutto senza neanche sostituire il Presidente del Consiglio in carico, il “tecnico” Giuseppe Conte, che ufficialmente non è affiliato a nessuno dei partiti in campo.
Per quanto la mossa di Salvini abbia colto tutti di sorpresa – soprattutto considerando le tempistiche, ovverosia nel bel mezzo delle vacanze estive -, essa non era del tutto inaspettata. Nel corso dei primi sei mesi di governo, era sembrato che l’alleanza fra MoVimento 5 Stelle e Lega potesse funzionare, nonostante le differenze presenti fra i due partiti o forse, invero, proprio grazie a queste stesse discrasie.
Da un lato c’era un partito la Lega, sostanzialmente liberista – basta vedere l’insistenza ossessiva di Salvini sul taglio delle tasse: una misura che se tarata sui ceti bassi è sicuramente auspicabile ma che si situa saldamente nell’alveo delle politiche anti-interventiste – ma abbastanza anti-rigorista o comunque dotata di una certa consapevolezza, almeno a parole, della necessità di forzare i vincoli di bilancio europei.
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Nuova destra e populismo: laboratorio Italia
di Matteo Luca Andriola
Nessuno si sarebbe mai aspettato – almeno con certa repentinità e con certe dinamiche – la caduta del governo Conte che aveva unito in maniera ‘idilliaca’, o almeno era questa la narrazione corrente, la Lega di Matteo Salvini e il Movimento 5 stelle di Luigi Di Maio. Un governo controverso, che pareva unire istanze di una destra identitaria e conservatrice con quelle di un certo movimentismo dalle vaghe venature sociali, un’unione fortemente contrastata dal grosso dell’establishment politico e giornalistico (quello che veniva definito come la ‘casta’) e che sembrava andare – è questo il messaggio passato in certi ambienti intellettuali di destra – al di là della destra e della sinistra.
La nascita del governo giallo-verde aveva acceso le speranze di vasti settori dell’intellettualità ‘non-conforme’, dalla nouvelle droite francese ai settori dell’ambiente eurasiatista condizionati dalle riflessioni di Aleksandr Dugin. La motivazione era semplice: per la prima volta nella storia, un movimento esplicitamente di destra e su posizioni populiste e identitarie si alleava per governare un Paese assieme a una forza antisistema che raccoglieva senz’altro un elettorato misto, ma che si caratterizzava per temi come l’ecologia sostenibile, la democrazia diretta elettronica (o e-democracy), temi che possono avere una vaga connotazione di sinistra assieme alla critica a trattati come il TTIP – duramente contestato da Alain de Benoist in un libro edito in Italia da Arianna Editrice (1) – e il Ceta che, va detto, in Francia è stato votato da buona parte dell’esecutivo macroniano, a scapito dell’allevamento e dell’agricoltura locale (2). La convergenza di due forze così differenti è stata così salutata nell’area anticonformista europea ed eurasiatica, elevando l’Italia a laboratorio privilegiato per lo sviluppo di nuove sintesi, ora non più culturali e metapolitiche, ma addirittura politiche.
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Siria: chi ha vinto, chi ha perso. E chi sono i curdi
Medioriente: yankee go home
di Fulvio Grimaldi
Cosa ne viene da Sochi
Del miscione che gli arnesi stampati e videoriprodotti del colonialismo 2.0 ci rifilano, confondendo in obnubilante simmetria rivolte contro il Potere e sommosse gestite dal Potere, da Libano e Iraq a Ecuador, Cile e Bolivia, parleremo nel prossimo articolo. Prima, ci interessa evidenziare con grande soddisfazione la rabbia da rettili pestati sulla coda con cui i media reagiscono agli esiti della soluzione (positiva, ma parziale, s’intende) che Putin, con il concorso obtorto collo di Erdogan, ha saputo imporre al branco di sbranatori della Siria. Media tra i quali riconosciamo il ruolo da mosca cocchiera al giornaletto anticomunista “il manifesto”. La vocina vernacolare del Governo Parallelo Usa (obamian-clintoniani, Intelligence, Pentagono, Wall Street, lobby talmudista), si è distinta per accanimento a stigmatizzare come imperialismo russo la difesa vincente della (quasi) integrità territoriale e della stessa sopravvivenza della Siria, aggredita e maciullata, e il ridimensionamento drastico degli appetiti degli aggressori (Turchia, illuministi coronati del Golfo, esportatori di diritti umani americani e israeliani).
Il grande lamento degli amici degli amici
Per questo pifferaio di carta, che è riuscito a trascinare nel baratro la colonna sperduta dei bambinelli di sinistra, l’esito del vertice di Sochi è una catastrofe planetaria. Catastrofe, ovviamente, per chi si riprometteva, come l’augusta fondatrice Rossanda ai tempi della Libia, uno Stato libero, sovrano, prospero ed equo cancellato dalla faccia della terra per mano di sicari tagliagole, scatenatigli contro dal meglio delle pluto-mafio-psicopatocrazie occidentali.
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Giovanni Arrighi, “Adam Smith a Pechino”, parte II
di Alessandro Visalli
Nella prima parte di questa lettura dell’ultimo libro di Giovanni Arrighi era stata fondamentalmente inquadrata la prospettiva teorica dalla quale è inquadrato il declino dell’egemone americano e la crescita dello sfidante cinese. In primo luogo appare la pertinenza di una frattura entro la stessa tradizione marxista, cui l’autore per buona parte della sua esistenza si è riferito. Frattura che può essere letta con gli occhiali di Losurdo come conflitto di paradigmi tra il “marxismo occidentale”[1] e “orientale”, rispettivamente risalenti a Marx, Engels e seguaci, ed a Lenin, Castro, Ho Chi Min, Guevara, e via dicendo. La decisione dell’autore in proposito è di accettare la definizione di “marxismo neosmithiano” proposta criticamente da Robert Brenner nel 1977 (contro l’ultima versione del secondo genere di marxismo espressa nella “teoria della dipendenza”), ma di ribadirne invece la validità come chiave di lettura dei fatti.
Richiamandosi ad elementi della lettura del grande filosofo scozzese, si tratta per Arrighi di comprendere quindi che cosa volle proporre effettivamente, al di là della semplicistica vulgata della “mano invisibile”, Adam Smith nel 1776 e misurare la fecondità delle sue intuizioni, mettendole in relazione con le ragioni del successo cinese. Questo sarà il compito della Seconda e Terza Parte del lungo testo. Utilizzandole si può rovesciare la percezione, che coinvolse in fondo anche Marx, di una sorta di naturalità del sentiero di sviluppo occidentale, mettendone in luce anche più di come comunque fece il grande tedesco la violenta natura. Riconoscere quindi la fondazione del capitalismo nell’estrazione di valore dalle periferie coloniali (per ma verità sia esterne sia interne[2]) e la capacità di alimentare e nutrirsi degli squilibri e delle dissimmetrie che esso stesso coltiva[3].
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Karl Polanyi oggi: un nuovo volume dedicato a suoi scritti editi e inediti
di Michele Cangiani
Karl Polanyi, L’obsoleta mentalità di mercato. Scritti 1922-1957, a cura di M. Cangiani, Trieste, Asterios Editore, 2019, pp. 330, €19,00
24 saggi, articoli e manoscritti di Polanyi raccolti in questo volume dal 1922 al 1957 possono giovare alla comprensione di un autore sempre più citato, non senza semplificazioni e distorsioni del suo pensiero. All’analisi della “trasformazione” nel periodo fra le due guerre mondiali è dedicato il paragrafo conclusivo dell’Introduzione, qui in buona parte riprodotto.
* * * *
Partendo dalla crisi del capitalismo liberale ottocentesco, Polanyi ci offre una chiave interpretativa dello sviluppo susseguente, fino ai giorni nostri. Una volta escluso il cambiamento in direzione della democrazia socialista, l’inevitabile trasformazione […] non poteva consistere che nel passaggio a un diverso assetto istituzionale del capitalismo. Economia e politica dovevano cessare comunque di fungere da baluardi contrapposti della lotta di classe: dovevano ritrovare una coerenza, un’“integrazione”. Ciò implicava, secondo Polanyi, che la democrazia, anche dove non veniva abolita da regimi fascisti o autoritari, rispettasse i vincoli imposti dall’organizzazione capitalistica del sistema economico. […]
In articoli e manoscritti degli anni Venti e Trenta, e infine nella Grande trasformazione (1944), Polanyi analizza le diverse modalità della trasformazione ovvero “il capitalismo nelle sue forme non liberali, cioè corporative,” che gli consentono di “continuare indenne la sua esistenza assumendo un nuovo aspetto” (Polanyi, “L’essenza del fascismo”, 1935). I due articoli del 1928, tradotti nel cap. 3 di questo libro, analizzano la riorganizzazione corporativa proposta in Inghilterra dal Rapporto della Liberal Industrial Enquiry, commissionato dall’ala sinistra del Liberal Party. Collaborò all’Inchiesta anche Keynes, che ne aveva suggerito alcuni temi nel famoso articolo “La fine del laissez faire” del 1926.
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Maschere del populismo: su "Joker" di Todd Phillips
di Antonio Tricomi
A ben vedere, già l’ambiguità sociale, ancor più che morale, del Batman rimodulato da Nolan si rivelava anche l’esito dell’estrazione di classe del personaggio. Specie nel primo episodio della trilogia sull’uomo pipistrello realizzata dal cineasta inglese, notavamo infatti una Gotham City, e dunque – fuor di metafora – una New York e un Occidente intero, scivolati sull’orlo del baratro per due ragioni sì diverse e, tuttavia, complementari. Perché minacciati, è vero, da uno spietato nemico esterno. Ed è forse superfluo ricordare che Batman Begins intendeva anche proporsi quale implicita, e comunque partigiana, riflessione sul clima da “guerra dei mondi” generatosi, negli Stati Uniti come in Europa, all’indomani dell’11 settembre 2001. Noi occidentali, compiutamente moderni e democratici, da un lato; i musulmani, fanaticamente medievali e assassini, dall’altro: questo allora postulava, né manca oggi di ribadire, un’incresciosa retorica pubblica affermatasi sia nel vecchio sia nel nuovo continente. E però, se il film di Nolan le immaginava a un passo dalla catastrofe, è in primo luogo perché riteneva le nostre società governate da clan, sempre meno nutriti, di spregiudicati capitalisti abili a consacrare, quale sola legge in esse vigente, quella del mero profitto. Una legge per di più reputata universale da simili schiere di eletti e quindi da loro parimenti imposta a tutte le civiltà altre, in tal modo ridotte alla mercé dell’Occidente.
Di qui, in Batman Begins, la particolare configurazione assunta da Gotham City. Abitata da una cospicua massa di individui privati dei diritti civili appunto perché estromessi dal mercato del lavoro o comunque immiseritisi, dunque incapaci di produrre o consumare ricchezza.
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Gramsci e l’idea di critica
di Marco Gatto
Nella Italia più culta, e in alcune città della Francia ho cercato ansiosamente il bel mondo ch’io sentiva magnificare con tanta enfasi: ma dappertutto ho trovato volgo di nobili, volgo di letterati, volgo di belle, e tutti sciocchi, bassi, maligni; tutti. Mi sono intanto sfuggiti que’ pochi che vivendo negletti fra il popolo o meditando nella solitudine serbano rilevati i caratteri della loro indole non ancora strofinata.
Ugo Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis (1802)
La lezione di Gramsci in materia di critica letteraria e di critica della cultura risiede nel proporre un’alternativa teorica e politica all’idea, non solo romantica e non solo crociana, di un’autonomia dell’arte e della sfera estetica. E la rilevanza – per non dire l’attualità – di questa lezione sta nell’allestimento di una produttiva dialettica tra il riconoscimento della specificità dei problemi letterari e artistici, e dunque della necessità di un terreno di comprensione disciplinare, e il loro inserimento nel quadro di una proposta politica complessiva, che contribuisce a ridefinirne i contorni, se non a potenziarne i presupposti. Lontano dalla logica schematica dei “distinti” di Croce, anche e soprattutto nel processo critico, Gramsci stabilisce una compenetrazione (ovviamente, non pacificata, ma costantemente dinamica) tra una dimensione, per così dire, settoriale dell’agire intellettuale e una dimensione appunto pubblica, dunque ideologica e politica, dell’intrapresa culturale. Cosicché, nei termini restituiti dai Quaderni, il giudizio su un testo, su una categoria estetica o su un problema culturale si muta, al netto di una sua analisi condotta attraverso lo strumentario della disciplina di riferimento (la filologia, ad esempio), nell’occasione politica di una trasformazione: da una nuova idea dell’arte promana un’idea nuova di civiltà, e dunque un nuovo modo di intendere i rapporti sociali.
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Giorgio Lonardi: Il Mainstream e l’omeopatia dell’orrore
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Alessio Mannino: Contro la “comunità gentile” di Serra: not war, but social war
L'eterno "Drang nach Osten" europeo
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Gianni Giovannelli: La NATO in guerra
BankTrack - PAX - Profundo: Obbligazioni di guerra a sostegno di Israele
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Mario Colonna: Il popolo ucraino batte un colpo. Migliaia in piazza contro Zelensky
Enrico Tomaselli: Sulla situazione in Medio Oriente
Gianandrea Gaiani: Il Piano Marshall si fa a guerra finita
Medea Benjamin: Fermiamo il distopico piano “migliorato” di Israele per i campi di concentramento
Gioacchino Toni: Dell’intelligenza artificiale generativa e del mondo in cui si vuole vivere
Fulvio Grimaldi: Ebrei, sionismo, Israele, antisemitismo… Caro Travaglio
Elena Basile: Maschere e simulacri: la politica al suo grado zero
Emiliano Brancaccio: Il neo imperialismo dell’Unione creditrice
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Andrea Del Monaco: Landini contro le due destre descritte da Revelli
Riccardo Paccosi: La sconfitta dell'Occidente di Emmanuel Todd
Andrea Zhok: La violenza nella società contemporanea
Carlo Di Mascio: Il soggetto moderno tra Kant e Sacher-Masoch
Jeffrey D. Sachs: Come Stati Uniti e Israele hanno distrutto la Siria (e lo hanno chiamato "pace")
Jeffrey D. Sachs: La geopolitica della pace. Discorso al Parlamento europeo il 19 febbraio 2025
Salvatore Bravo: "Sul compagno Stalin"
Andrea Zhok: "Amiamo la Guerra"
Alessio Mannino: Il Manifesto di Ventotene è una ca***a pazzesca
Eric Gobetti: La storia calpestata, dalle Foibe in poi
S.C.: Adulti nella stanza. Il vero volto dell’Europa
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Guido Salerno Aletta: Italia a marcia indietro
Elena Basile: Nuova lettera a Liliana Segre
Alessandro Mariani: Quorum referendario: e se….?
Michelangelo Severgnini: Le nozze tra Meloni ed Erdogan che non piacciono a (quasi) nessuno
Michelangelo Severgnini: La Libia e le narrazioni fiabesche della stampa italiana
E.Bertinato - F. Mazzoli: Aquiloni nella tempesta
Autori Vari: Sul compagno Stalin
Qui è possibile scaricare l'intero volume in formato PDF
A cura di Aldo Zanchetta: Speranza
Tutti i colori del rosso
Michele Castaldo: Occhi di ghiaccio
Qui la premessa e l'indice del volume
A cura di Daniela Danna: Il nuovo volto del patriarcato
Qui il volume in formato PDF
Luca Busca: La scienza negata
Alessandro Barile: Una disciplinata guerra di posizione
Salvatore Bravo: La contraddizione come problema e la filosofia in Mao Tse-tung
Daniela Danna: Covidismo
Alessandra Ciattini: Sul filo rosso del tempo
Davide Miccione: Quando abbiamo smesso di pensare
Franco Romanò, Paolo Di Marco: La dissoluzione dell'economia politica
Qui una anteprima del libro
Giorgio Monestarolo:Ucraina, Europa, mond
Moreno Biagioni: Se vuoi la pace prepara la pace
Andrea Cozzo: La logica della guerra nella Grecia antica
Qui una recensione di Giovanni Di Benedetto