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Una stima degli effetti della manovra e delle alternative possibili
Stima degli effetti della manovra economica e simulazione di manovre alternative
di Riccardo Realfonzo e Angelantonio Viscione
Stima Manovra Economica. Con diverse tecniche di stima dei moltiplicatori degli stimoli fiscali mostriamo che la manovra economica del governo per il 2019 ha un impatto molto modesto sulla crescita perché trascura gli investimenti, non presenta un disegno di politica industriale e non muta le condizioni del lavoro. Al contrario, una diversa composizione della manovra, anche a saldi invariati ma con risorse dimezzate sulle misure-simbolo e corrispondenti maggiori investimenti, avrebbe raddoppiato l’impatto positivo sulla crescita. Inoltre, portando il deficit al 2,4% e spostando le risorse aggiuntive sugli investimenti, tutte le stime mostrano che l’impatto espansivo sarebbe addirittura triplicato
La necessità di una manovra espansiva
Nella seconda metà del 2018, le medesime tensioni internazionali che hanno determinato un rallentamento della crescita in Germania e Francia hanno spinto l’Italia nella recessione, complici i gravi deficit di competitività dell’apparato produttivo e infrastrutturale del Paese, il cronico sottofinanziamento degli investimenti pubblici e privati nonché la crescente precarizzazione del lavoro che contribuisce al ristagno dei consumi. In questo scenario, monta la preoccupazione che la manovra economica del governo possa avere un profilo espansivo insufficiente. Per cominciare, la manovra economica non ha impresso un cambiamento di direzione significativo alla politica delle finanze pubbliche rispetto agli anni dell’austerità. A riguardo, il governo sembra avere scontato un deficit di capacità politica in Europa e in particolare nel confronto con la Commissione Europea. Infatti, anziché proporre una manovra incentrata sul rilancio degli investimenti pubblici e sulle politiche industriali, che avrebbe potuto riscuotere consensi in altri Paesi e registrato minori resistenze presso la Commissione Europea, il governo ha presentato una manovra caratterizzata da un deficit incrementato al 2,4% del pil e finalizzato a un aumento della spesa corrente e dei trasferimenti. Successivamente, per evitare la procedura sanzionatoria, il governo ha dovuto ridurre il deficit al 2,04% del pil, riportando i valori della finanza pubblica pressoché in linea con quelli registrati nel 2018.
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La guerra fra metropoli e periferie
La Francia, i gilet gialli e la crisi della sinistra
di Carlo Formenti
Fra le tesi che ho sostenuto ne “La variante populista” – e rilanciato nel mio nuovo libro, “il socialismo è morto. Viva il socialismo” (Meltemi) – ve n’è una che ha suscitato critiche particolarmente aspre: mi riferisco all’affermazione secondo cui il conflitto di classe, nell’attuale fase di sviluppo capitalistico, si manifesta soprattutto come antagonismo fra flussi e luoghi. L’idea di fondo è che il capitalismo globalizzato e finanziarizzato – fatto di flussi sempre più veloci di merci, servizi, capitali e persone che ignorano i confini politici e geografici – opprime e sfrutta i territori – laddove resta confinata la stragrande maggioranza dell’umanità che non gode delle chance di mobilità fisica e sociale riservate alle élite – dai quali estrae risorse senza restituire nulla in cambio.
Constato ora che questa tesi trova conforto nei lavori di un geografo francese, Christophe Guilluy, di cui ho recentemente letto due importanti lavori: “La France périphérique” e “No society. La fin de la classe moyenne occidentale” (entrambi pubblicati da Flammarion). Queste due opere, segnalatemi da un amico di Podemos, aiutano più di tutte le idiozie proferite da media, politici ed “esperti” a comprendere il fenomeno dei gilet gialli (ma anche il voto americano per Trump, l’esito del referendum inglese sulla Brexit e il trionfo elettorale dei “populisti” italiani). Nelle pagine seguenti descriverò sinteticamente le argomentazioni dell’autore, riservandomi di commentarle nelle righe conclusive.
In primo luogo, Guilluy critica la rappresentazione dei conflitti che da qualche anno dilaniano le maggiori società occidentali in termini di antagonismo fra popolo ed élite, alto e basso, super ricchi e gente comune (l’1% contro il 99%, secondo lo slogan lanciato da Occupy Wall Street e ampiamente ripreso da populismi di destra e di sinistra). Se le cose stessero davvero così, argomenta Guilluy, le élite sarebbero già state spazzate via, la verità è che, se sono ancora al potere, non è solo perché possono contare sulla loro tradizionale egemonia culturale, ma perché i loro interessi coincidono con quelli di un buon terzo della popolazione.
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‘La bestia è l’azienda, non il fatto che abbia un padrone’*
Commento al quinto capitolo del Capitale
di Massimiliano Tomba**
Abstract: The first chapter of the third section of Capital, Volume 1, constitutes in many ways an Archimedean point of the entire work. In this chapter the many theoretical questions investigated in the first section are reconfigured from the perspective of the labor-process and valorization-process, acquiring a new political color. In my reconstruction, by putting the use-value at the center, I explore the diverse theoretical layers of this chapter in light of their political implication
È opportuno partire dall’inizio. E quindi, ancora una volta, dalla merce e dal valore. Non però nella formulazione che troviamo nell’incipit del Capitale, ma dalle Glosse a Wagner del 1882, dove incontriamo un Marx maturo, che ha attraversato per intero il suo personale work in progress sulla nozione di «valore». In queste glosse, Marx afferma, contro Wagner, che nel Capitale non è partito da concetti e neppure dal concetto di «valore», e che non procede deduttivamente da un concetto all’altro, ma è partito dalla merce nella sua concretezza (Konkretum der Ware)[1]. Purtroppo questa pagina non è stata tradotta nell’edizione degli scritti inediti di Marx curata da Tronti, perché Tronti nelle Glosse fa un po’ di selezione e la salta. Ma qui Marx afferma una cosa importante: «Io non ho preso le mosse da concetti ma dalla merce nella sua concretezza». Credo che questa affermazione permetta alcune riflessione sulla sua natura non hegeliana e sul modo di argomentazione e di esposizione di Marx nel Capitale. Cosa significhi l’espressione «merce nella sua concretezza»? Significa un’accentuazione del valore d’uso della merce, un modo di procedere nettamente diverso da quello hegeliano, nonostante gli svariati tentativi di leggere i primi capitoli del Capitale assieme alla Scienza della Logica di Hegel. Si potrebbe dire, per usare un termine di Adorno, che Marx privilegia il «rudimento metalogico» del concetto o, in altre parole, invece di prendere le mosse dall’‘essere’, come fa Hegel per mettere in moto la prima triade di essere-nulla-divenire, Marx parte dal qualcosa (etwas) nella sua concretezza. In questo «rudimento metalogico» c’è un’insistenza sul non identico come ciò che eccede la concettualizzazione e la sua sussunzione all’identico, nel caso della merce, il valore. La differenza, per dirla in gergo filosofico, è che se nella Scienza della Logica Hegel parte dall’immediatamente indeterminato, da ciò che è privo di ogni determinazione, e questo permette ad Hegel di dare inizio alla catena deduttiva, Marx ha un incipit contrario: prende le mosse dalla concretezza della merce, da ciò che, nella sua non identità, si presenta come eccedenza rispetto al concetto.
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La grande crisi di Podemos
Cuarto Poder intervista Manolo Monereo
In questa intervista del 4 febbraio a Cuarto Poder Manolo Monereo — di recente dimessosi dalla direzione nazionale di PODEMOS — ci parla della crisi profonda che viveil movimento. La recente sconfitta elettorale in Andalusia, la mossa scissionista di Íñigo Errejón, lo scollamento tra base e vertice, la debolezza organizzativa e un certo burocratismo nel regime interno... Tutti fattori che per Monereo spiegano questa crisi, non senza dimenticare, aggiungiamo noi, l'appoggio esterno che UNIDOS PODEMOS (la coalizione tra Podemos e Izquierda Unida) continua a fornire al governo Sanchez, malgrado questo sia ligio non solo alle direttive europee ma pure a quelle di Trump
D. La scorsa settimana non hai partecipato al Consiglio Cittadino di Statale (CCE) [la direzione politica nazionale di PODEMOS, ndt] che si è svolto per risolvere il problema della crisi aperta a Podemos nella Comunità di Madrid. [In vista delle elezioni amministrative della capitale del prossimo maggio Íñigo Errejón, in dissenso con Pablo Iglesias e rompendo de facto con PODEMOS, ha dichiarato di sostenere la lista "Más Madrid" dell'attuale sindaca Manuela Carmena, ndt].
R. Non ho partecipato perché mi sono dimesso mesi fa. Mi sono dimesso perché sapevo che i metodi sbagliati e le modalità di organizzazione dei dibattiti hanno sempre serie conseguenze. Nella mia vita politica ho imparato una cosa, le crisi reali sono causate, più che da fattori ideologici o di programma, dai metodi e dagli stili del lavoro di partito. PODEMOS ha uno stile di lavoro che non è all'altezza delle sue sfide. Per dirla senza mezzi termini, a Vistalegre II [il secondo congresso di PODEMOS, del febbraio 2017, ndt] abbiamo posto fine alle frazioni, non che una di esse si mangiasse tutte le altre. Ciò si ottiene generando organicità, creando organismi di dibattito politico, adottando regole chiare affinché questo possa svolgersi, approfondendo il dibattito. Questo non è il metodoche viene utilizzato in PODEMOS e ciò ha delle conseguenze.
Faccio un esempio. In generale, il CCE si riunisce e il segretario generale compie una brillante analisi politica, parla per tutto il tempo che ritiene necessario e poi ci concede tre minuti per intervenire. Nessuno sa cosa sia stato approvato, è come se fossimo una ONG in cui il direttore fa una buona analisi di ciò che accade, ma poi non ci sono verbali, documenti o risoluzioni politiche. È un dibattito che non genera impegni. Il funzionamento dell'organismo è pregiudicato e non vi è alcun dibattito politico.
La politica è dibattuta nelle frazioni e nei media. Non esiste una deliberazione democratica da cui emergano consenso e dissenso, maggioranze e minoranze. Non si vota.
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La critica della democrazia borghese in Rosa Luxemburg
di Michael Löwy
Come ha scritto Michael Löwy,i Freikorps che uccisero Rosa Luxemburg – la “fondatrice del Partito comunista tedesco (Lega Spartachista)” -, erano una “banda di ufficiali e militari controrivoluzionari” che rappresentava il “futuro vivaio del partito nazista”[1].
Furono inviati a Berlino dal ministro socialdemocratico Gustav Noske per stroncare la rivolta spartachista e sconfiggere il tentativo di una rivoluzione in Germania. Per ricordare la filosofa rivoluzionaria polacca, a cento anni dalla sua morte, Tysm pubblica un testo di Löwy che sottolinea la vitalità della sua lezione.
Ringraziamo Löwy per averci concesso di pubblicare questo testo, inedito in lingua italiana, apparso originariamente sul numero 59, 2016 della rivista francese Agone. Un’altra versione* è pubblicata in Löwy, Rosa Luxemburg. L’étincelle incendiaire, Montreuil, Le temps des cerises, 2018.
L’approccio estremamente dialettico di Rosa Luxemburg allo Stato borghese e alle sue forme democratiche le permette di sfuggire tanto agli approcci social-liberali (á laBernstein), che negano il loro carattere borghese, quanto a quelli di un certo marxismo volgare, che non tengono in considerazione l’importanza della democrazia. Fedele alla teoria marxista dello Stato, Rosa Luxemburg insiste sul suo carattere di “Stato di classe”. Ma aggiunge immediatamente: “[questo]non dovrebbe essere preso nel suo significato rigido, assoluto, bensì in un senso dialettico”.Che cosa significa? Da una parte, che “nell’interesse dell’evoluzione sociale [lo Stato] assume diverse funzioni di interesse generale”; ma allo stesso tempo che “lo fa esclusivamente perché e fintantoché questi interessi e l’evoluzione sociale coincidono con gli interessi della classe dominante”[1]. L’universalità dello Stato è quindi severamente limitata e, in larga misura, negata dal suo carattere di classe.
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Venezuela, 5S e quant’altro..... Non basta un clic
di Fulvio Grimaldi
Da anni ricevo, sul blog, in Facebook e in posta, commenti, a volte di consenso, a volte di virulente dileggio, sulla mia posizione sul Movimento 5 Stelle. Che, come i meno strabici, hanno perfettamente capito, è di frequentazione da fuori (resto iscritto esclusivamente all’Ordine dei Giornalisti), di condivisione in parola e immagine di molte sue battaglie, di sostegno alle cose che mi paiono buone (e a volte senza precedenti, le più osteggiate dall’unanimismo globalista destra-sinistra) e di critica a quelle che considero meno buone, o del tutto sbagliate. Il lancio della prima pietra, però, lo lascio ad altri. A quelli, dotati di grande humour, che si dicono senza peccato.
Landini, molto rumore per nulla
Viene in mente, per la portata anche simbolica di tutta una sinistra terrorizzata dal minimo bagliore esterno al quadro delle compatibilità, tale Landini Maurizio. Lo ricorderete da mille comparsate tv, agitato fracassone in maglietta della salute, a testa bassa contro i padroni e una segretaria CGIL troppo remissiva. Ricorderete la sua “coalizione sociale”, fondata a Bologna in un mattino del 2015 e svaporata prima che calasse il sole e prima che potesse, come anticipato, spostare di 180 gradi a sinistra la barra del barcone Italia zeppo di naufraghi, che però non se li fila nessuno, non fanno parte di nessuna filiera di trafficanti. Poi le cose andarono nel verso giusto sindacato unitario e patto dei produttori con la Confindustria. Tarallucci e vino tra Landini e Camusso sulle spoglie di un ceto lavoratore cui erano passati sopra, mentre il sindacato assisteva dalla Tribuna, gli scarponi chiodati dei tempi che corrono: guerre, neoliberismo, austerity, i salari più bassi d’Europa, spazzati via tutti i diritti costati secoli, carcere. botte e morti.
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L’ideologia della casa in proprietà e le catene dorate del capitale
di Eros Barone
I poeti vivono in un mondo immaginario, e così anche il signor Sax, il quale s'immagina che il padrone d'immobili abbia "raggiunto il grado supremo d'indipendenza economica" ed abbia "un ricovero sicuro", "diverrebbe capitalista e sarebbe assicurato contro i pericoli della disoccupazione o dell'inabilità al lavoro dal credito immobiliare, che sarebbe a sua disposizione" ad ogni momento.
Friedrich Engels, La questione delle abitazioni.
Non ho mai toccato un soldo. Ho posseduto solo una vecchia Ritmo e questo ai milanesi non dovrei dirlo visto che a Milano chi non ha neppure una casa in proprietà è considerato un poveraccio.
Armando Cossutta, Una storia comunista.
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“Investire nel mattone”: miti e realtà di un mercato monopolistico
In Italia, dove a lungo la cultura marxista ha discusso intorno ai processi di formazione di un nuovo blocco storico, non solo è mancata quasi del tutto un’analisi del blocco storico dominante, ma continua a mancare un’analisi adeguata della complessiva questione delle abitazioni come essenziale cerniera del blocco di potere dominante. Fatta questa premessa, resta tuttavia da aggiungere che qui non si intende offrire al lettore un’analisi compiuta di quello che si potrebbe definire “il blocco edilizio”, ma solo alcune linee introduttive ad una siffatta analisi, cercando, sia pure in modo schematico, di individuare le stratificazioni economiche e sociali che ne fanno parte o sono in qualche modo subordinate a questo “blocco”, e i legami, anche di carattere sovrastrutturale, che sono condizione del suo radicamento e della sua conservazione.1
Orbene,la consistenza economica e le ramificazioni del blocco fondiario, industriale e finanziario dell’edilizia appaiono evidenti, sol che si consideri come, nonostante le profonde interrelazioni tra pubblico e privato, il segno di questo settore sia tuttavia nettamente privatistico. Dal punto di vista della produzione e della proprietà, il settore dell’edilizia è infatti tra i più privatizzati della nostra economia.
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Aprire gli occhi, leggere la crisi
di Sandro Moiso
Countdown. Studi sulla crisi. Vol.III, Asterios Abiblio Editore, Trieste Novembre 2018, pp.160, euro 15,00
Secondo le stime dell’ufficio statistico federale, a novembre, in Germania la produzione di beni di consumo è diminuita di oltre il 4%, i mezzi di produzione di quasi il 2% e i beni intermedi dell’1%. Il calo della produzione è stato avvertito anche nel settore energetico e delle costruzioni e tutti questi problemi sono associati alle difficoltà incontrate dall’industria automobilistica del paese governato da Angela Merkel.
Se la cosiddetta locomotiva tedesca non si dimostra più così capace di trainare il trenino europeo, anche dall’altra parte del mondo l’economia cinese inizia a dare i primi segnali di cedimento, mentre la guerra dei dazi tra USA e Cina aggiunge ulteriori preoccupazioni sullo stato “reale” dell’economia mondiale e allo stesso tempo per i titoli azionari statunitensi, il mese di dicembre scorso è stato il peggiore dal 1931, ovvero dalla Grande Depressione!1 Inoltre “le principali detenzioni estere di debito statunitense a ottobre sono calate di altri 26 miliardi […] Sempre in base a dati ufficiali riferiti allo scorso ottobre, gli investitori esteri hanno venduto altri 22,2 miliardi di dollari di titoli azionari statunitensi, il sesto mese di vendite di fila”.2 Così che al World Economic Forum di Davos, tra il 22 e il 25 gennaio, in sostituzione di tre rappresentanti assenti di altrettanti pezzi da novanta dell’establishment economico occidentale (Macron impelagato tra gilets jaunes e affaire Benalla; Theresa May incastrata tra un Parlamento ribelle e una possibile hard Brexit e Trump e la delegazione americana che hanno colto l’occasione dello shutdown federale per non prendervi parte), ha preso posto un’unica autentica convitata di pietra: la recessione mondiale.
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Venezuela. “C’è una sinistra complice con il golpe contro Maduro”
Rino Condemi intervista Luciano Vasapollo
Intervista a Luciano Vasapollo. Economista e militante della Rete dei Comunisti, da anni segue le vicende politiche ed economiche dell’America Latina. Abbiamo chiesto a Luciano Vasapollo di commentare una intervista sulla situazione in Venezuela comparsa su Il manifesto che ci ha colpito, in negativo. Nelle argomentazioni e nei presupposti di quella intervista al sociologo Emiliano Teran Mantovani, abbiamo intravisto lo spettro della subalternità della sinistra in Europa alla campagna di legittimazione del golpe e di delegittimazione del governo bolivariano di Maduro. Un brutto segnale che merita una replica a tutto tondo.
* * * *
Puntuale come un temporale in autunno, anche il Manifesto non si è tirato indietro dal coro “a sinistra contro Maduro”. Sabato 2 febbraio ha pubblicato una intervista sul Venezuela a Emiliano Teran Mantovani, dell’università di Barcellona e sociologo dell’università venezuelana, esponente di una sinistra ecologista e indigenista molto europea . In questa intervista ci sono valutazioni pesanti contro il governo Maduro. Cosa indica questo atteggiamento?
Sul ruolo e sulle responsabilità della “sinistra italiana”, dai partiti ai media, Manifesto compreso, non ho dubbi nel vedere nuovamente subalternità alla preparazione di una nuova “guerra umanitaria” al servizio di un sempre più cinico e inumano capitalismo.
Alla sinistra eurocentrica e colonizzatrice non interessano più gli investimenti sociali, nella sanità, nell’istruzione, sulle abitazioni e nelle politiche pubbliche sulle risorse che hanno caratterizzato Maduro e il Venezuela o le rivoluzioni e i processi progressisti in America Latina, ma si piega alla logica delle democrazie occidentali. In queste prevalgono la ricerca dei profitti e la proprietà privata, gli unici investimenti sui quali non si alza mai veramente la voce sono quelli a carattere militare. Vedo, sempre più una sinistra eurocentrica e sempre più filo imperialista, con partiti e stampa schierati per l’ennesima guerra umanitaria, l’ossimoro e l’ambiguità che abbiamo vista all’opera in questi venti anni.
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Blockchain per il bene comune?
Come utilizzare Blockchain per evitare la tragedia dei commons
di Andrea Pannone
La Blockchain è nata per lo scambio di criptovalute come Bitcoin, ma può essere molto utile anche per affrontare il problema della scarsità dei beni comuni
1. La ‘novità’ di blockchain
Negli ultimi mesi è cresciuta esponenzialmente tra studiosi e politici l’attenzione su blockchain – la tecnologia nata per facilitare lo scambio online di criptovalute come Bitcoin[1] – quale strumento per coordinare e rendere efficienti un’ampia varietà di transazioni decentralizzate non intermediate da soggetti terzi. In termini estremamente semplificati una blockchain è un libro mastro, ovvero la base fondamentale della contabilità, condiviso da una rete decentralizzata di computer per l’archiviazione digitale e il tracciamento dei dati associati a un prodotto o servizio lungo tutta la catena del valore (ossia dalla fase di produzione fino al consumatore/utilizzatore).
La blockchain può essere considerata una tecnologia che appartiene alla categoria delle tecnologie Distributed Ledger, ossia un insieme di sistemi concettualmente caratterizzati dal fatto di fare riferimento a un registro distribuito, governato in modo da consentire l’accesso e la possibilità di effettuare modifiche da parte di più nodi di una rete (vedi figura sotto).
Come suggerisce il nome una blockchain è organizzata in una sequenza lineare di piccoli insiemi di dati crittografati chiamati “blocchi”, che contengono gruppi di transazioni con data e ora (timestamp). Ogni blocco contiene un riferimento al suo blocco precedente e una risposta a un puzzle matematico complesso, che serve a convalidare le transazioni che contiene[2]. Nella sua forma più elementare la blockchain serve come mezzo per registrare, in modo sicuro e verificabile, un particolare stato di cose che è stato concordato dalla rete (Wright & De Filippi 2015). Come tale, la blockchain può essere utilizzata in qualsiasi sistema che comprende informazioni preziose, inclusi denaro, titoli, azioni, diritti di proprietà intellettuale e persino voti o dati di registro di identità (Davidson et al., 2016; Tapscott & Tapscott, 2016)[3]. Osserviamo che la necessità di crittare i dati deriva proprio dal fatto che tutto quello che viene registrato su una blockchain è visibile a tutti i nodi della rete e quindi se si registrassero informazioni sensibili senza essere critptate esse diventerebbero pubbliche.
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C’è vita su Marx
di Marco Palazzotto
Una carrellata delle pubblicazioni, uscite nel duecentenario dalla nascita di Marx, che analizzano il pensiero maturo del filosofo tedesco e ridanno centralità alla sua critica dell'economia politica
L’anno appena trascorso sarà ricordato per il bicentenario della nascita di Karl Marx. Sono stati pubblicati in tutto il mondo numerosi scritti per ricordare le idee e la vita di uno dei più importanti pensatori della storia dell’umanità. Considerata la varietà e quantità degli argomenti affrontati in questi testi, ho cercato un fil rouge che li accomunasse, affinché se ne potessero ricavare delle riflessioni utili per analizzare il presente. Tale filo comune è il pensiero maturo di Marx e pertanto l’urgenza di riprendere la critica marxiana dell’economia, sorvolando, per ragioni di spazio e tempo, sulle pubblicazioni biografiche.
Marx, come sappiamo, ha vissuto gli ultimi anni intento a scrivere e a studiare in vista dell’opera che considerava la più importante e più faticosa. Soltanto una minima parte del suo lavoro sarà completata, e ciò che restituirà ai posteri è il primo libro del Capitale. Secondo e terzo libro saranno pubblicati postumi (dopo un personale rimaneggiamento) dall’amico e compagno di una vita Friedrich Engels. Tale opera – con i suoi scritti preparatori (come i Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, noti anche come Grundrisse, e Per la critica dell’economia politica) e i manoscritti successivi – rappresenta la testimonianza e l’eredità di un intellettuale che ha voluto disvelare le leggi che regolano il modo di produzione capitalistico.
Diversamente dall’approccio di un marxismo storicista, umanistico e progressista, che mette al centro la “politica”, come quello che ha caratterizzato buona parte del pensiero novecentesco italiano, è fondamentale agganciare l’analisi della società moderna ai rapporti di produzione. Lo sfruttamento capitalistico – e la conseguente estrazione del valore utile all’accumulazione – non risiede negli apparati politici e in genere “sovrastrutturali”, ma è connesso al comando del lavoro nei processi produttivi. Se vogliamo palesare questi rapporti di sfruttamento, per combatterli, occorre studiare e capire l’economia di mercato, riprendendo oggi la marxiana critica dell’economia politica e restaurando, di conseguenza, una scienza del nuovo capitale, senza d’altra parte cadere in interpretazioni prettamente economicistiche.
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Lo sciopero generale in Francia, prime valutazioni
di Giacomo Marchetti
Lo sciopero generale di 24ore proclamato da CGT e Solidaires è stato un primo passo importante di convergenza su tutto il territorio dell’Esagono tra “la marea gialla” ed il mondo sindacale, dopo che vi erano stati importanti segnali unitari nei mesi precedenti a Marsiglia, Tolosa e Bordeaux.
Nel soddisfatto comunicato di bilancio della giornata – “5 Febbraio. Convergenza delle lotte riuscita” – la CGT afferma che hanno partecipato alle mobilitazioni, svoltesi in circa 200 città, 300.000 persone.
A Parigi sarebbero state 30.000 le persone che hanno partecipato secondo gli organizzatori, 18.000 per le forze dell’ordine.
La centrale sindacale francese afferma :
“Questa giornata ha permesso, attraverso gli scioperi nel pubblico e nel privato, di rinforzare e di rendere comuni le lotte sociali. In diversi dipartimenti; la CGT è attiva nella preparazione di riunioni intersindacali con il fine di prolungare la mobilitazione. Già da ora, la CGT è il vettore propositivo attraverso l’organizzazione dei martedì di “emergenza sociale”, i quaderni di espressione popolare, i dibattiti pubblici e l’8 marzo”.
***
Le manifestazioni svoltesi sul territorio nazionale organizzate da CGT e Solidaires, a cui si sono aggregati alcuni settori di FO – senza che ci fosse una adesione a livello confederale di questa sigla – e della FSU (il maggior sindacato degli insegnanti), hanno visto sfilare insieme “giacche gialle” e “giacche rosse”, di fatto rompendo quel muro di diffidenza reciproca che aveva caratterizzato precedentemente, almeno in parte, i rapporti tra i gilets Jaunes e militanti sindacali.
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La tesi di sinistra contro i confini aperti
di Angela Nagle
Com’è stato possibile che in questi ultimi anni la sinistra sia diventata propugnatrice delle tesi open border, nate all’interno dei circoli anarco-capitalisti e da sempre sostenute dai think tank della destra economica radicale? Come può non rendersi conto che la libertà di migrare, lungi dall’essere un diritto inviolabile dell’uomo, non è altro che una delle quattro libertà fondamentali di circolazione alla base della dottrina economica neoclassica – nello specifico quella della forza lavoro – e che come tale viene fortemente sostenuta proprio dal grande business? Questo lungo articolo tratto da American Affairs, cerca di spiegare i sommovimenti storici e culturali – che gettano come sempre le radici nella svolta reazionaria neoliberale degli anni ’80, innescata dalle politiche di Reagan e della Tatcher – che hanno prodotto questa mutazione antropologica della sinistra, passata dalle tradizionali posizione anti-immigrazioniste legate al movimento operaio e sindacale all’accettazione dogmaticamente moralistica dei confini aperti.
Il grande business e le lobby del libero mercato, per promuovere aggressivamente i propri interessi, hanno creato un culto fanatico a difesa delle tesi open border – un prodotto fatto proprio da una classe urbana creativa, tecnologica, dei media e della conoscenza, che fa i propri interessi oggettivi di classe per mantenere a buon mercato i propri effimeri stili di vita e salvaguardare le proprie carriere. La sinistra liberale ha rivenduto il prodotto aggiungendovi il ricatto morale e la pubblica vergogna nei confronti dei popoli, accusati di atti inumani verso i migranti. Eppure, una vera sinistra dovrebbe tornare a guardare alle proprie tradizioni e cercar di migliorare le prospettive dei poveri del mondo. La migrazione di massa in sé non ci riuscirà: crea impoverimento per i lavoratori nei paesi ricchi e una fuga di cervelli in quelli poveri. L’unica vera soluzione è correggere gli squilibri dell’economia globale e ristrutturare radicalmente un sistema progettato per aiutare i ricchi a scapito dei poveri, riprendendo il controllo degli stati, delle politiche commerciali e del sistema finanziario globale.
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Fine di un’epoca
di Vladimiro Giacché*
La crisi del 2007 ha dimostrato che la crescita e i profitti nel capitalismo non possono più essere garantiti dalla speculazione finanziaria. È necessario un cambio di sistema
Per capire la prossima crisi, dovremmo guardare alle origini e all’evoluzione della precedente: dal 2000 al 2005, a causa dei bassi tassi di interesse, negli Stati Uniti emerse una consistente bolla finanziaria. Sul mercato immobiliare locale, i prezzi e il numero di contratti di mutuo raddoppiarono. A partire dal 2006, i prezzi iniziarono a scendere. Iniziò a sussistere un problema di eccesso di offerta, ovvero un problema di sovrapproduzione nel settore delle costruzioni. Nel 2007 si evidenziarono i primi problemi con i prodotti finanziari, che avevano a che fare con alcuni prestiti ipotecari statunitensi rischiosi (i cosiddetti mutui subprime).
Quello che segue è noto: massiccia insolvenza dei mutuatari, problemi nei mercati finanziari. Saltano alcuni fondi speculativi e banche specializzate. La crisi si diffonde in tutto il mondo, e sarà la peggiore dagli anni ’30.
Ma perché la crisi è stata così grave?
In primo luogo, i mutui subprime erano solo uno degli elementi costitutivi di un enorme edificio finanziario costruito in 30 anni. Nel 1980, la somma di tutte le attività finanziarie globali equivaleva approssimativamente al prodotto interno lordo (PIL) globale. Alla fine del 2007, il rapporto tra queste attività e il PIL (eufemisticamente chiamato anche “profondità finanziaria”) era del 356%.
In secondo luogo, questa ipertrofia finanziaria non era una malattia in sé, ma un “farmaco” (al tempo stesso) contro un’insufficiente valorizzazione del capitale e contro la massiccia sovrapproduzione di capitale e merci nel triangolo del capitalismo maturo (USA, UE e Giappone).
A questo punto dobbiamo fare un passo indietro. A partire dagli anni ’70, abbiamo registrato una crescita sempre più bassa e tassi di investimento in calo, in particolare in Giappone e nell’Europa occidentale. Ciò ha comportato un calo globale dei tassi di investimento rispetto al PIL mondiale, nonostante l’enorme aumento degli investimenti in molti paesi in via di sviluppo, specialmente in Cina. È interessante notare che l’ipertrofia della finanza e del credito, cioè del “capitale capitale produttivo d’interesse” (Karl Marx), si sviluppa parallelamente alla caduta degli investimenti.
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Una filosofia applicata e sensibile
Introduzione a Gorz
di Françoise Gollain
Presentiamo qui la traduzione dell’intro al libro di Françoise Gollain sul pensiero e il percorso anche esistenziale di André Gorz. Il libro, dal titolo “André Gorz – Une philosophie de l’emancipation”, uscito recentemente in Francia per le edizioni Harmattan, investe 50 anni di storia sociale filtrata attraverso la ricca e variegata esperienza di André Gorz, pensatore anomalo della sinistra ma quanto mai stimolante e attuale, specie in un momento come questo dove sembra sia diventato impossibile elaborare una strategia capace di opporsi al dominio della merce e del capitale, e alla loro devastante crisi. Particolarmente importante, dal nostro punto di vista, l’interesse manifestato da Gorz, nella parte finale della sua vita, verso la Wertkritik (Critica del valore), cioè quella corrente di pensiero il cui esponente di punta è stato Robert Kurz e di cui noi, redattori dell’Anatra di Vaucanson, cerchiamo di farci portavoce.
Françoise Gollain è dottoressa in sociologia e specialista del pensiero di Gorz. Ha collaborato con la rivista Entropia. Insegna alla Open University di Cardiff. Vive tra la Francia e il Galles [redazione].
Figura di punta dell’ecologia politica e critico radicale del lavoro, Gérard Horst, alias André Gorz, ha saputo coniugare le qualità del giornalista (sotto lo pseudonimo di Michel Bosquet) con quelle del saggista visionario. Voce singolare durante mezzo secolo di dibattito in seno ad una sinistra affrancata da un marxismo sclerotizzato ma (al tempo stesso) non chiusa al meglio dell’eredità marxiana, raggiunse una sicura autorevolezza anche come teorico.
Per questo, potrebbe a prima vista sembrare sorprendente tramandarlo alla posterità come filosofo, nella misura in cui il fondamento filosofico della sua riflessione non viene in primo piano nelle opere più conosciute al grande pubblico, fatta eccezione per Il traditore.1
Gorz inoltre rivendicava lui stesso la sua mancanza di professionalità e si riconosceva fra i “cani sciolti” della filosofia, che non trovano né pubblico né editori e che possono praticarla solo applicandola a questioni socio-economiche. Coltivando la “non-appartenenza” in ragione di una storia personale tormentata, si è concesso solo lo statuto di filosofo “naufragato”, mancato (verunglückt).2 Questo epiteto non riesce comunque a rendere conto del fatto che la sua extraterritorialità accademica rappresentava in realtà per lui non solo un punto nevralgico ma ancor più e forse soprattutto una risorsa , come testimonia questa affermazione: “La verità è che io sono un tuttofare, un maverick.3
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La secessione dei ricchi e la questione nazionale
di Raffaele Cimmino
Il 15 febbraio prossimo rappresenta la dead line oltre la quale, se le cose andassero come auspicano i governatori di tre regioni – Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna – ci sarà il voto al Senato, a favore o contro ma senza possibilità di emendamenti, sul regionalismo differenziato. Si tratta di un percorso iniziato coi i referendum consultivi sull’autonomia svoltisi in Lombardia e Veneto il 22 ottobre 2017. Le due consultazioni sull’attribuzione di condizioni particolari di autonomia con l’attribuzione delle risorse necessarie hanno avuto esito positivo. L’Assemblea regionale dell’Emilia Romagina, il 3 ottobre 2017, ha invece approvato una risoluzione per l’avvio del procedimento finalizzato alla sottoscrizione dell’intesa con il Governo richiesta dall’articolo 116, terzo comma, della Costituzione.
Il regionalismo differenziato è arrivato al traguardo con il governo Conte ma è una pratica istruita dal governo Gentiloni, che, pochi giorni prima delle elezioni del 4 marzo, tramite il sottosegretario Gianclaudio Bressa, ha sottoscritto una preintesa con ognuna delle tre regioni. Largamente simili, questi accordi prevedono all’art. 2 una durata decennale. Saranno immodificabili per dieci anni se non vi sarà il consenso a modificarli della regione interessata.
La devoluzione alle regioni riguarda le 23 materie previste dal terzo comma dell’art. 117, tra cui: politiche del lavoro, istruzione, salute, tutela dell’ambiente, rapporti internazionali e con l’Unione Europea.Le preintese stabiliscono all’articolo 4 che le relative risorse andranno determinate da un’apposita Commissione paritetica Stato-Regione sulla base “di fabbisogni standard superando la spesa storica, in relazione alla popolazione residente e al gettito dei tributi maturato nel territorio regionale in rapporto ai rispettivi valori nazionali, fatti salvi gli attuali livelli di erogazione dei servizi”. Stabiliscono anche, senza meglio specificare, che “Stato e Regione, al fine di consentire una programmazione certa dello sviluppo degli investimenti, potranno determinare congiuntamente modalità per assegnare, anche mediante forme di crediti d’imposta, risorse da attingersi da fondi finalizzati allo sviluppo infrastrutturale del Paese”.
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Quando la dignità è precaria: note sul Jobs Act 2.0
di coniarerivolta
Nel bel mezzo dell’estenuante iter di predisposizione della Legge di bilancio, quasi sotto traccia il 1° novembre scorso sono entrate a tutti gli effetti in vigore le modifiche in tema di contratti di lavoro a termine e di licenziamenti illegittimi previste dal famigerato “Decreto Dignità” (D.L. n 87/2018, convertito in L. n 96/2018), di fatto il primo provvedimento di marca grillino-leghista.
La gestazione del Decreto Dignità è stata accompagnata da un acceso dibattito e da un ampio ventaglio di polemiche. Da un lato, le roboanti dichiarazioni del Ministro Di Maio, secondo cui il Decreto Dignità metterebbe, una volta per tutte, la parola fine alla precarietà del lavoro in Italia e al Jobs Act di renziana memoria. Dall’altro, il codazzo liberista formato da esponenti dell’opposizione (PD in prima linea con la buona compagnia dei compagni di merende di Confindustria), dall’Inps di Tito Boeri, e dalla stampa padronale, secondo cui il decreto è in realtà lesivo per i lavoratori, in quanto generatore di disoccupazione, licenziamenti e di una riduzione dell’attività produttiva, fino ad arrivare a posizione ondivaghe ed ambigue da parte dei sindacati confederali.
Ebbene, per comprendere se ci troviamo di fronte ad una pur blanda riconfigurazione dell’assetto degli attuali rapporti di forza tra imprese e lavoratori, può essere utile evidenziare le implicazioni politiche derivanti dal Decreto Dignità, in particolare i riflessi immediati in termini di conflitto di classe. Ci concentreremo in questo pezzo solo su alcuni aspetti del decreto, in particolare sul ritorno delle causali per i contratti a tempo determinato, sulla riduzione della durata dei contratti a termine e sull’aumento delle indennità per i licenziamenti illegittimi.
Con riferimento ai contratti di lavoro a termine, il Decreto Dignità prevede i seguenti quattro punti.
A) Se il primo contratto a termine stipulato tra la singola impresa e il singolo lavoratore ha una durata superiore ai 12 mesi, o se comunque si tratta di un contratto a termine successivo al primo stipulato tra la stessa impresa e lo stesso lavoratore, l’assunzione a termine deve essere giustificata dal datore di lavoro sulla base di esigenze temporanee dell’impresa, vale a dire indicando le cosiddette causali, che il Jobs Act aveva del tutto eliminato.
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Ripensare la scuola
di Fernanda Mazzoli
Oggi, la questione prioritaria da affrontare, se ci si vuole efficacemente opporre alla deriva economicistica e mantenere aperta, all’interno dell’istituzione scolastica, quella dimensione “utopica” così intimamente legata all’idea stessa di educazione, idea che comporta una tensione intrinseca verso “un altrove” che nulla ha a che vedere con l’adattamento al presente
Da anni l’istruzione è al centro di un’ambiziosa campagna ideologica di segno neoliberista che ha investito significativamente organizzazione, contenuti disciplinari, modalità didattiche e finalità educative del sistema scolastico, fino alla messa in discussione dell’idea stessa di scuola, come è venuta storicamente configurandosi. L’opinione comune secondo la quale la scuola, nel nostro Paese, sarebbe la Cenerentola dell’agenda politica e delle priorità sociali è infondata: perlomeno da un ventennio essa è oggetto di pesanti attenzioni da parte dei diversi governi succedutisi, dei burocrati del MIUR, degli specialisti in Scienze dell’educazione dei Dipartimenti accademici, dei centri studi di fondazioni imprenditoriali e bancarie, delle Commissioni per la cultura europee. Tutti questi attori – politici, economici, culturali – hanno ben chiaro il carattere strategico dell’istituzione e hanno agito di conseguenza, secondo una linea di sostanziale continuità e complementarità. Azienda tra le aziende del territorio nella società di mercato, specializzata nell’erogazione di un bene formativo, alla scuola spetterebbe ormai il compito di promuovere, sin dal primo ciclo, l’educazione all’auto-imprenditorialità di uno studente dotato di quei requisiti di adattabilità, flessibilità, competitività ed efficienza operativa richiesti dalle imprese e di quelle competenze tecnologiche indispensabili alla riproduzione del sistema. La scuola è chiamata a divenire laboratorio pedagogico di un modello distopico di società ruotante intorno alla “cultura d’impresa”, fondata sul primato dell’economia e sulla sua pretesa di colonizzare ogni ambito della vita, rimodellando le condotte individuali e le politiche sociali secondo i principi dell’interesse individuale e della competizione.
Ben venga, dunque, una ricerca come quella promossa dall’IRRE Lombardia (Istituto Regionale di Ricerca Educativa) che ha visto un gruppo di docenti universitari e della Secondaria interrogarsi sui fondamenti teorici e i fini sociali di una cultura autenticamente riformatrice nella scuola, nella comune convinzione che scuola ed educazione, invece di assecondare l’attuale stato delle cose, abbiano un carattere fortemente utopico.
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Draghi sulle crisi: come affrontarle in un’area valutaria?
di Francesco Farina
Nel discorso tenuto in dicembre in occasione della Laurea Honoris Causa in Economics dell’Università Sant’Anna di Pisa – un denso excursus sulla vicenda europea – il Presidente della BCE Mario Draghi si è espresso con la libertà di giudizio che nella sua posizione ci si conquista soltanto a fine mandato. Draghi ha rilevato come la crisi finanziaria abbia portato alla luce i seri problemi di aggiustamento agli shock che si celano nell’impianto dell’euro. Molti, ed altrettanto enormi, sono tuttavia anche i vantaggi dell’euro: all’incremento dimensionale dei mercati di sbocco dei prodotti, permesso dai vari allargamenti del mercato unico, ha fatto seguito l’abbattimento dell’incertezza sulla redditività attesa degli investimenti; esso ha consentito alle imprese dell’area valutaria di trarre il massimo vantaggio dallo sfruttamento delle economie di scala. Draghi ha sottolineato inoltre, correggendo il giudizio sulla stasi ventennale della produttività in Italia, che incrementi in realtà ce ne sono stati. Se i dati sulla performance del nostro sistema economico non sono in grado di esibirli è perché tali progressi sono occultati nella sequenza di beni intermedi italiani inseriti nelle più importanti “catene di valore” europee. Il vasto settore manifatturiero italiano vanta infatti una significativa partecipazione – che riguarda ben mezzo milione di lavoratori – alla rete dei processi produttivi di imprese europee che esportano in tutto il mondo. Inoltre, nell’accrescere il contenuto di importazioni delle esportazioni (i beni intermedi che entrano nella produzione dei beni finali esportati), le “catene di valore” europee finiscono per annullare gran parte del miglioramento della bilancia commerciale che ci si potrebbe attendere dalla svalutazione del cambio di una nostra ipotetica valuta. “In un mondo sempre più dominato dalle economie di scala – conclude Draghi – l’Italia ha mantenuto le sue fondamentali caratteristiche (…) e si è profondamente integrata nei processo produttivo europeo attraverso il Mercato Unico e la moneta unica”.
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Centenario della rivoluzione bolscevica: riproporne l’attualità
di Carlo Lozito
Nonostante gli innumerevoli tentativi di infiocchettarla da parte di un esercito di apologeti borghesi, la violenza dei rapporti di produzione borghesi è tale che si impone, a coloro che con occhi disincantati guardano lo stato di cose attuale, il compito di cambiare un sistema così ingiusto e antistorico tornando a ripensare la società dei liberi produttori associati indicataci da Marx. Sono in gioco il futuro dell’umanità e la vivibilità del pianeta.
“Ogni cosa oggi sembra portare in sé la sua contraddizione. Macchine, dotate del meraviglioso potere di ridurre e potenziare il lavoro umano, fanno morire l’uomo di fame e lo ammazzano di lavoro. Un misterioso e fatale incantesimo trasforma le nuove sorgenti della ricchezza in fonti di miseria. Le conquiste della tecnica sembrano ottenute a prezzo della loro stessa natura. Sembra che l’uomo nella misura in cui assoggetta la natura, si assoggetti ad altri uomini o alla propria abiezione. Perfino la pura luce della scienza sembra poter risplendere solo sullo sfondo tenebroso dell’ignoranza. Tutte le nostre scoperte e i nostri progressi sembrano infondere una vita spirituale alle forze materiali e al tempo stesso istupidire la vita umana, riducendola a una forza materiale. Questo antagonismo fra l’industria moderna e la scienza da un lato e la miseria moderna e lo sfacelo dall’altro; questo antagonismo fra le forze produttive e i rapporti sociali della nostra epoca è un fatto tangibile, macroscopico e incontrovertibile. Qualcuno può deplorarlo; altri possono desiderare di disfarsi delle tecniche moderne per sbarazzarsi dei conflitti moderni o possono pensare che un così grande progresso nell’industria esiga di essere integrato da un regresso altrettanto grande nella politica. Da parte nostra non disconosciamo lo spirito malizioso che si manifesta in tutte queste contraddizioni. Nei segni che confondono la borghesia e i meschini profeti del regresso riconosciamo la mano del nostro valente amico, Robin Goodfellow, la vecchia talpa che scava tanto rapidamente, il grande minatore: la rivoluzione. La storia è il giudice e il proletariato il suo esecutore.”
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Tav-Guaidò: per i Cinque Stelle hic Rhodus, hic salta
di Fulvio Grimaldi
Il latino dice: “Qui è Rodi, qui salta” ed è l’intimazione fatta da Esopo a uno che afferma di sapere fare salti altissimi. Di fronte al bivio TAV-Venezuela, va fatta ai 5 Stelle
Il tradimento dei figli
L’Italia di Dante, Leopardi, Fenoglio, Caravaggio, Montessori; la Spagna di Cervantes, Unamuno, Dolores Ibarruri, Picasso; La Germania di Goethe, Schopenhauer, Brecht, Sophie Scholl; l’Inghilterra di Shakespeare, Byron, Dickens, Melville; la Francia di Cartesio, Olympe De Gouges, Diderot, Balzac, Verlaine….. Hanno concesso ai loro (il)legittimi governanti di decretare il Tramonto dell’Occidente. Di quell’Occidente, non colonialista, non ipocrita e sanguinario, non capitalista, in sostanza non cristiano, che era stato tenuto a battesimo da Omero, Prassitele, Euripide, Socrate, Seneca, Ovidio.
Scusate se vi mitraglio con questa grandine di nomi.. E’ che continuano a venirmi in testa, loro e tanti altri, al cospetto dell’enormità di quanto va accadendo sotto i nostri antichissimi e, oggi anche vecchi, occhi, nella sostanziale passività dei figli di quegli uomini e donne. A me, a noi, che credevamo di averla scampata, che le previsioni, ammettiamolo, ottimistiche al cospetto di quanto va precipitando, non si sarebbero avverate del tutto prima della fine del nostro passaggio, visto che ci proteggeva l’ombra di tali giganti…che almeno le parvenze, la forma, sarebbero state mantenute, tanto da non farci buttare l’ultima occhiata su una infinita distesa di ghiaccio.
Non di inverno nucleare si tratta qui, ma di un inverno che seppellisce sotto la sua lastra di ghiaccio intelligenza, coscienza, convivenza civile, progresso umano, quello di cui quegli spiriti avevano plasmato l’anima.. Bene lo stanno rappresentando in simbolo le temperature artiche che paralizzano nel gelo le più gloriose città, la più pregiata natura del Nord America. Sto parlando dell’accondiscendenza concessa, da alcuni con impudico trasporto, da altri intingendo le mani nel catino di Ponzio Pilato e, infine, da coloro di cui noi siamo partorienti cronici: i né-né.
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Ludd, o il Sessantotto trascendente
di Anselm Jappe
Tra il 1968 e il 1978 l’Italia, com’è noto, ha vissuto la più lunga stagione contestataria di tutti i paesi occidentali in quel periodo, mentre altrove “il Sessantotto” era generalmente tanto intenso quanto breve. Era anche l’unico paese dove le proteste videro una sostanziale partecipazione operaia e popolare. Allo stesso tempo, l’Italia ha dato un’elaborazione teorica tutta sua di quegli eventi e della loro novità: l’operaismo, le cui propaggini si estendono fino a oggi. In retrospettiva, l’operaismo e le organizzazioni da esso influenzate (Potere Operaio, Lotta continua, poi Autonomia operaia) sembravano occupare tutto lo spazio a sinistra del PCI, vista anche la scarsa importanza che ebbero maoisti e trotzkisti, diversamente dagli altri paesi europei. In effetti, esiste ormai una ricca letteratura sull’operaismo. Tuttavia, a margine c’erano altre correnti che si volevano più radicali e che si ispiravano soprattutto ai situazionisti francesi e alla tradizione anti-leninista dei Consigli operai. Questa piccola area di “comunisti eretici”, che spiccava più per lucidità che per impatto immediato sulle lotte sociali, va sotto il nome di “Critica radicale”. Il suo raggruppamento più importante fu Ludd. Benché sia esistito per appena un anno, dal 1969 al 1970, coinvolgendo solo alcune decine di persone, soprattutto a Genova e Milano, e ne rimangano essenzialmente tre bollettini e alcuni volantini, Ludd è diventato nel corso del tempo una “leggenda” per quegli ambienti della critica sociale che si richiamano alle idee situazioniste, oggi forse più numerosi che quarant’anni fa.
Per la prima volta, una larga documentazione su Ludd e i suoi “precursori” è disponibile su carta stampata (il materiale era già disponibile sul sito nelvento.net). Un’utile introduzione di Leonardo Lippolis spiega il contesto storico. Quasi metà del libro è occupato da un saggio di 200 pagine di Paolo Ranieri, ex membro del gruppo, che mescola ricordi personali con commenti allo stato attuale del mondo, offrendo informazioni preziose, ma anche alcuni deplorevoli scivoloni.
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Lo Stato Italiano molla il Mezzogiorno
di Biagio Borretti e Italo Nobile
Il 15 febbraio – a Roma – in occasione della probabile approvazione, da parte del Consiglio dei Ministri, del Decreto sull’Autonomia Differenziata, è stato convocato un presidio di lotta a Montecitorio per protestare contro questo dispositivo normativo che accentuerà gli squilibri territoriali del nostro paese, aumenterà il divario Nord/Sud, le disuguaglianze sociali ed il complesso degli strumenti deregolamentazione dell’unità politica e materiale dei settori popolari.
Si pone, quindi, di nuovo, la necessità di una ripresa della discussione su una nuova “Questione/Contraddizione Meridionale/Mediterranea” che sappia descrivere le attuali dinamiche del corso della crisi e delle conseguenti trasformazioni che stanno configurando la nuova mappa del comando economico e sociale del paese dentro le convulsioni che l’Azienda/Italia vive nel gorgo della competizione internazionale.
Ripubblichiamo – per favorire il dibattito dei compagni e degli attivisti – una scheda, redatta da Biagio Borretti ed Italo Nobile, su un libro che ha segnato la qualità del dibattito sul Sud e sulle trasformazioni della forma/stato nel Mezzogiorno d’Italia.
Nei prossimi giorni daremo conto di altri contributi che stanno giungendo al nostro sito[La redazione del sito della Rete dei Comunisti].
* * * *
Il lavoro di Ferrari Bravo, di cui di seguito si offre una scheda sintetica, è per molti versi superato dalle modifiche profonde che si sono susseguite sul piano materiale, della formazione economico-sociale negli ultimi decenni e, di conseguenza, anche nel campo del politico. L’analisi della forma-stato, di una particolare forma-stato, storicamente e socialmente determinata, risulta oggi, a tratti, addirittura “incomprensibile”, tali sono stati i cambiamenti, anche sul piano istituzionale.
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Marx, quale critica dell'utopia?[1]
di Miguel Abensour
La redazione di Thomasproject.net pubblica online il lungo articolo di Miguel Abensour dedicato al rapporto che Karl Marx intrattenne col pensiero utopico. L’articolo è stato inserito nella recente pubblicazione collettanea dal titolo Alle frontiere del capitale, l’ultimo volume della collana Altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico curata da Pier Paolo Poggio della Fondazione Micheletti di Brescia, uscito da poco in libreria
La questione proposta può sembrare accademica, invecchiata, anzi, completamente sorpassata. Se negli anni Settanta ebbe un senso politico e filosofico evidente, ora nella congiuntura presente – sotto il segno del «realismo», del ritorno del diritto e dello Stato di diritto – appare come un oggetto di controversia erudita, un punto di storia della filosofia o delle dottrine, capace al massimo di attrarre l’attenzione di qualche marxologo e «utopiologo», da tempo, se posso dirlo, fuori dal servizio attivo.
Di più. Non sarebbe una questione crepuscolare, consistente nel dissertare dottamente su due forme di vita entrambe irrimediabilmente invecchiate? In breve, saremmo nel grigiore più pieno.
Non è così, però, ai miei occhi. Si tratta piuttosto di una questione intempestiva – contro lo spirito del tempo – inattuale, altra dall’attuale. Dal lato di Marx: si può, in effetti, considerare che il crollo dei regimi che si richiamavano al marxismo abbia avuto paradossalmente l’effetto di restituirci Marx. Voglio dire, cioè, che la lettura filosofica, critica, finora tentata solo da alcuni (M. Rubel, M. Henry, P. Ansart, C. Castoriadis), diventa ormai una modalità di lettura accessibile a tutti, purché disposti a rompere con l’ideologizzazione a cui l’opera di Marx è stata sottoposta. Quest’opera ci è di nuovo offerta come un’opera di pensiero, con le sue ambiguità, le sue contraddizioni, la sua incompiutezza, le sue opacità. Essa ci appare ormai come se si elaborasse alla prova della sua propria divisione. E ci attrae più per i cammini di pensiero che ha dischiuso e percorso fino a un certo punto, che non per le «tesi» cui sarebbe pervenuta. Noi riscopriamo un Marx suscettibile di rilanciare la nostra interrogazione, anziché fornirci un focolare di certezze. All’occorrenza questo significa che ci è ormai possibile riesaminare la questione della critica dell’utopia, della sua vera portata, al di fuori delle diverse ortodossie che se ne sono impadronite, facendo riemergere l’operazione complessa di Marx nei confronti delle utopie.
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La rivoluzione nella nostra vita
di Matteo Montaguti
Emiliana Armano e Raffaele Sciortino (a cura di), Revolution in our lifetime. Conversazione con Loren Goldner sul lungo Sessantotto, Colibrì 2018, pp. 112, € 14,00.
«Il problema per me è sempre stato quello di usare la scrittura come arma»
Loren Goldner
Nel cinquantesimo anniversario del Sessantotto, caduto nell’anno appena passato, sono state numerose le pubblicazioni, accademiche e non, che ne hanno tentato un bilancio, perlopiù di tipo storiografico, memorialistico o sociologico, oppure di basso taglio giornalistico. Ben poche, invece, quelle che hanno provato a farne un bilancio politico nitido, di lungo corso e soprattutto di parte. Tra queste va sicuramente segnalato, anche rispetto alla ricorrenza del mezzo secolo che ci separa dalla rivolta operaia del 1969, Revolution in our lifetime. Conversazione con Loren Goldner sul lungo Sessantotto, curata da Emiliana Armano e Raffaele Sciortino per i tipi di Edizioni Colibrì.
Loren Goldner, settantenne militante marxista e atipico intellettuale statunitense, è una figura poco conosciuta in Italia ma di spessore internazionale: ha al suo attivo un’infaticabile attività teorica e di pubblicista, con numerosi saggi di critica dell’economia politica, filosofici, letterari (alcuni dei quali tradotti anche in italiano, come L’avanguardia della regressione. Pensiero dialettico e parodie post-moderne nell’era del capitale fittizio e, in concomitanza con la crisi dei subprime in America, il volume Capitale fittizio e crisi del capitalismo, entrambi delle edizioni PonSinMor) e conduce da diversi decenni un recupero critico della storia di classe e una rigorosa analisi sulle trasformazioni del capitale, in particolare per quanto riguarda la sua finanziarizzazione, rileggendo la nozione marxiana di “capitale fittizio” alla luce della lunga crisi del dollaro iniziata dopo la rottura degli accordi di Bretton Woods.
Il volume curato da Armano e Sciortino è un denso ma agile strumento utile per la difficile operazione di definire un punto di vista militante e un metodo di pensiero autonomo che sappiano confrontarsi, oggi, con i tempi, le espressioni e le forme globali della lotta di classe – e quindi di un agire politico di parte – senza cedere alla rassegnazione dello sguardo contingente, alla vana nostalgia per il passato («la nostalgia non è un’emozione da marxisti […] cerchiamo di guardare al futuro a partire da una valutazione lucida e realistica del presente», p.72), alle facili narrazioni egemoni e alle difficili impasse della propria fase.
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