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Un mese di conflitto: nessuna exit strategy dall’inferno di Gaza
di Roberto Iannuzzi
Tutti gli scenari post-bellici nella Striscia appaiono problematici, mentre il prolungarsi della campagna militare mantiene alto il rischio di escalation
A poco più di un mese dallo scoppio della guerra, l’inferno di Gaza non sembra avere vie d’uscita. Sicuramente non per i residenti di questa prigione a cielo aperto, sottoposta a uno dei più violenti bombardamenti della storia contemporanea. Ma apparentemente nemmeno per coloro (Israele, USA) che dovrebbero disegnare i futuri assetti dell’area.
I raid dell’aviazione di Tel Aviv sono in corso dal 7 ottobre, dopo che 1.200 - 1.400 israeliani erano rimasti uccisi nell’attacco terroristico senza precedenti condotto da Hamas quel giorno. Israele ha sganciato oltre 25.000 tonnellate di bombe su un’esigua lingua di terra, lunga 41 km e larga da 6 a 12 km.
In questo spazio ristretto – una delle aree più densamente popolate al mondo – vivono circa 2 milioni e 300 mila palestinesi (circa metà dei quali hanno meno di 18 anni), impossibilitati ad uscirne a causa di un blocco terrestre, aereo e navale in atto dal 2007.
I bombardamenti hanno provocato finora circa 11.000 morti fra i residenti della Striscia, in gran parte civili – per il 70% anziani, donne e bambini. Le stime sono fornite dal ministero della sanità di Gaza, controllato da Hamas ma ritenuto affidabile da organismi internazionali come l’ONU e da osservatori come Human Rights Watch.
E’ anzi probabile che il bilancio delle vittime sia molto più elevato, a causa dei numerosi cadaveri tuttora non estratti dalle macerie.
Secondo l’ONU, coloro che hanno dovuto abbandonare le loro case, e sono ormai sfollati all’interno della Striscia, ammontano a 1,5 milioni. Sulla base di immagini satellitari, si stima che circa un terzo degli edifici nella parte settentrionale della Striscia siano danneggiati o distrutti.
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L’intellettuale combinatorio: Italo Calvino, l’impegno politico e la militanza culturale a cento anni dalla nascita (1923-2023)
di Alessandro Barile
Introduzione
Viviamo anni di ricorrenze. Forse non potrebbe essere altrimenti: le vicende politiche, culturali e anche letterarie del primo Novecento ancora ci investono e ci interrogano. E così, a partire dallo scoppio della Prima guerra mondiale, è tutto un rincorrersi di ricordi e celebrazioni. Se ci fermassimo alla sola vicenda letteraria del nostro paese, nel solo 2022 si sono ricordati i cento anni dalla nascita di Luciano Bianciardi, Beppe Fenoglio, Raffaele La Capria, Giorgio Manganelli, Luigi Meneghello, Pier Paolo Pasolini... E nel 2023, va ricordato almeno il nome di Rocco Scotellaro. Autori su cui di fatto il dibattito critico e le iniziative editoriali si sono già compiutamente assestate molti anni or sono: alla fisiologica vastità della letteratura prodotta in occasione del centenario non ha corrisposto un valore significativo, di svolta o di ulteriore affermazione. Chi non era noto al grande pubblico tale è rimasto, mentre i “campioni” letterari (Pasolini su tutti) non hanno di certo avuto bisogno della ricorrenza tonda per sancire la propria popolarità. E poi c’è Italo Calvino, di cui si è celebrato il centenario della nascita proprio nel 2023.
Di tutte le ricorrenze, quella di (e su) Calvino è la più difficile da maneggiare. È l’autore italiano tra i più noti all’estero, e su cui tanto – forse troppo – si è scritto sin dalla metà degli anni Cinquanta. La bibliografia che lo riguarda è smisurata, contando diverse decine di migliaia di testi, monografie, articoli. Per di più, è un autore che ha trovato immediato riscontro positivo sia nella critica letteraria che nella ricezione pubblica di massa, stabilendo una felice quanto problematica relazione tra cultura pop e accademica. È d’altronde lui stesso a riconoscerlo, precocemente, nel 1956:
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W la guerra
di Michele Castaldo
Non me ne vogliano i pacifisti, ma dopo aver letto l’editoriale, annunciato da una “civetta” in prima pagina, di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della sera di lunedì 6 novembre, e avendo deciso di scrivere un commento, non sono riuscito a trovare un titolo diverso che ne sintetizzasse al meglio il contenuto.
Il lettore si chiederà: perché questa “ostinazione” di una critica politica alla stampa dell’establishment?Perché nel cosiddetto mondo dei militanti della sinistra si preferisce mirarsi nelle proprie idee contrapponendo modelli ideali al modo di produzione invece di analizzare i fatti e come sono utilizzati da parte di chi si prefigge di consolidare le leggi che regolano gli attuali rapporti sociali incentrati sulla legge del valore e dell’accumulazione capitalistica, ritenuta fulcro dell’Occidente. [Nota 1]
Veniamo così al dottor Ernesto Galli della Loggia e del suo ultimo scritto « La storia figlia delle guerre (che si vuole dimenticare) ».
Innanzitutto c’è un primo svarione fin dal titolo, perché la storia non è figlia delle « guerre », perché queste sono espressione di effetti causali determinati dallo spirito di concorrenza generato a sua volta da necessità. Dunque volendo ricostruire certe “ragioni” storiche – come il nostro editorialista intende fare – dovrebbe risalire alle cause originarie non dei due ultimi conflitti mondiali, ma riandare un “poco” più indietro nel tempo dello « scambio » e intrattenersi sul periodo tanto caro ai nostri rinascimentalisti occidentali, ovvero a quella decantata impresa della « Scoperta dell’America » che permise il grande balzo agli europei.
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Sulla "punizione collettiva" sofferta dai palestinesi
di Alessandro Bartoloni
Sul fronte palestinese si levano numerose le voci di condanna per i morti patiti dalla popolazione civile. La “punizione collettiva” inflitta dal governo israeliano agli abitanti della Striscia di Gaza sarebbe una violazione dei diritti umani.“Un conto sono gli attacchi diretti contro Hamas, un conto la rappresaglia sui civili inermi…”, si dice.
Come analizzato in un altro contributo, solamente chi crede nelle guerre “umanitarie” può stupirsi per quanto sta avvenendo nella Striscia di Gaza.
In questo articolo proverò a spiegare perché tale modo di fare è, dal punto di vista della classe dominante israeliana, paradossalmente legittimo, legale e razionale. Occorre ricordare in tal senso come perfino i nazisti abbiano argomentato a Norimberga, di aver seguito la legalità e una ben precisa “razionalità” tecnico-economica, il che serve a ricordarci la necessità di un punto terzo di osservazione, capace di considerare l’abisso che può separare la legalità borghese e imperialista dalla giustizia sociale internazionalista.
I. La legittimità del male
La concezione che legittima gli attacchi contro formazioni militari e condanna quelli contro i civili presuppone una separazione netta tra l’organizzazione politica che comanda nella striscia di Gaza dal 2007 e i disgraziati che da questa organizzazione sono governati. Un presupposto irrealistico, che è stato più volte messo alla berlina sia dal governo sionista sia dagli analisti più attenti, i quali riconoscono il forte radicamento e consenso di cui godono gli estremisti islamici responsabili della controffensiva del 7 ottobre.
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Antisionismo, antiebraismo, antisemitismo
di Dante Barontini
Scriviamo spesso che essere a favore della libertà della Palestina, del diritto del popolo palestinese a vivere sulla terra in cui vive da sempre, non ha nulla a che vedere con l’”antisemitismo”. Una di quelle parole-stigma che chiudono ogni discussione e lasciano, perciò, la parola alle mazzate oppure al lasciar perdere.
Per fortuna non mancano ebrei capaci di spiegare meglio di noi – per internità a quell’universo culturale – che le cose stanno in tutt’altro modo. E che la religione, anche in quel mondo, viene usata strumentalmente dai “sionisti” per giustificare una politica di colonizzazione e apartheid.
Sono “sionisti” coloro che hanno voluto e costruito uno Stato confessionale – Israele è per legge, oggi, uno “stato ebraico”, che per noi atei non è diverso da uno “stato islamico” o uno “cristiano” – ben poco parente delle “democrazie liberali”.
Sono “ebrei” quelli che condividono quella religione, tradizione, cultura, che ha dato grandi menti all’umanità, in tutti i campi (Marx ed Einstein su tutti).
Sono “semiti” coloro che invece appartengono ad un ceppo linguistico che “che in origine occupava la regione compresa fra i monti Tauro e Antitauro a nord, l’altopiano iranico a est, l’Oceano Indiano a sud, il Mar Rosso e il Mediterraneo a ovest”. E dunque parlano “siriaco, aramaico, arabo, ebraico e fenicio”. Cinque lingue, non una sola. Cinque etnie, almeno, non una sola.
Si può insomma essere ebreo ma non sionista, semita ma non ebreo (i palestinesi lo sono, e gli arabi anche), e così via. Così come si può essere arabi ma non islamici; e soprattutto “terroristi” sia da islamici che da ebrei o anglosassoni.
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Il SI Cobas sciopera venerdì 17 novembre a sostegno del popolo palestinese, per fermare il genocidio a Gaza
Intervista al compagno Aldo Milani*
L’Esecutivo nazionale del SI Cobas ha preso ieri sera una decisione della massima importanza: organizzare uno sciopero venerdì 17 novembre in solidarietà con la lotta del popolo palestinese, per contribuire a fermare immediatamente il massacro che l’esercito israeliano sta portando avanti a Gaza con l’appoggio totale degli Stati Uniti e dei paesi dell’UE, tra cui in prima fila l’Italia di Meloni e Mattarella. Ne chiediamo la ragione al compagno Aldo Milani, coordinatore nazionale del SI Cobas.
* * * *
Aldo Milani – Questa nostra decisione non cade dal cielo. Da sempre il SI Cobas sente di avere obblighi di solidarietà nei confronti dei proletari di tutti i paesi del mondo. Il nostro sindacato è composto da lavoratori e lavoratrici di più di 35 diverse nazionalità. Molti di loro provengono dai paesi arabi e di tradizione islamica. Perciò posso affermare che il SI Cobas ha l’internazionalismo proletario nel suo dna.
Da più di un anno, poi, siamo impegnati, con i compagni della Tendenza internazionalista rivoluzionaria (TIR) ed altri, in una serie di iniziative contro la guerra in Ucraina che ci hanno portato il 21 ottobre ad un grosso corteo davanti alla base militare italiana di Ghedi, dove sono depositate decine di bombe atomiche della Nato. In quella manifestazione abbiamo denunciato l’azione genocida dello stato di Israele, che data da decenni ma ha raggiunto in questi giorni una violenza sanguinaria spaventosa contro la popolazione di Gaza. Abbiamo fatto comunicati, indetto assemblee, partecipato a tante manifestazioni, ma – vista l’estrema urgenza di fermare questa mattanza – è venuto il momento di far fare un salto di qualità alla nostra azione. Lo sciopero è l’arma di lotta più efficace a nostra disposizione. E abbiamo deciso di usarla venerdì 17 in tutti i magazzini della logistica, nelle fabbriche e negli altri luoghi di lavoro in cui siamo presenti.
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L’urlo di rabbia
di Luca Busca
Un “urlo” questo che prolunga l’urlo di dolore, un post pubblicato su Facebook circa un mese fa in cui piangevo la scomparsa della mia amata compagna di vita. Un grido di sofferenza che esprimeva l’impotenza nei confronti dell’ingiustizia di veder morire chi è ancora troppo giovane per andarsene. Un dolore che stravolge con forza l’intera sfera privata soprattutto in virtù della condivisione di una figlia di appena tredici anni. Il poco tempo passato è del tutto insufficiente a placare il dolore, ma è stato abbastanza per indurmi ad urlare di nuovo al fine di manifestare, però, una diversa emozione, l’ira. Una rabbia profonda che valica i confini del privato per irrompere nella sfera sociale, luogo dove il senso di impotenza assume caratteristiche diverse, ma altrettanto devastanti. Nel piano personale l’incapacità di affrontare l’impari lotta metafisica con la morte è comune all’intero genere umano. Anche chi si appella a vite ultraterrene o a reincarnazioni cicliche finisce per soffrire la perdita dei propri cari, né più né meno degli atei come me. Sul piano pubblico, però, per chi non crede in alcuna forma postuma di giustizia divina, perdere la battaglia contro l’iniquità sociale non è sopportabile, e per questo genera collera, ira, indignazione.
Per comprendere bene l’entità e le ragioni di questa rabbia è necessario ripercorre il percorso della malattia di mia moglie. La prima diagnosi di tumore alla mammella arrivò a fine settembre del 2011. Il percorso fu quello classico dell’epoca: chemioterapia neo-adiuvante, intervento chirurgico (aprile 2012) e lunga radioterapia postoperatoria. Sono seguiti anni di terapia ormonale, molto pesanti in virtù della giovane età (34 anni). Proprio in considerazione di questa l’equipe medica preferì effettuare un intervento conservativo.
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La democrazia del reddito universale | Prefazione
di Andrea Fumagalli
Pubblichiamo un estratto della prefazione di Andrea Fumagalli alla nuova edizione di “La democrazia del reddito universale”, Manifestolibri, 2023 – a cura di Andrea Fumagalli e Cristina Morini. Questa nuova edizione del primo testo organico sul tema del reddito di base in Italia, ora diventato un classico del pensiero politico, avviene in un momento particolare, che segna il ritormo di politiche oscurantistiche nei confronti della necessità di rinnovare in senso estensivo il modello di welfare.
* * * * *
A più di 25 anni di distanza, la tematica del reddito è diventata centrale. Quando questo libro uscì, erano veramente pochi coloro che, da sinistra, propugnavano l’introduzione di un reddito di base. Oggi il panorama è decisamente diverso, anche se più complesso e caotico. Il confronto nazionale ed internazionale sul basic income ha conosciuto un vibrante sviluppo ed al tempo stesso uno straordinario arricchimento. Il ragionamento collettivo sul tema ha trovato ulteriori connotazioni negli anni nei quali sono divenute egemoni condizioni e modalità produttive che caratterizzano il capitalismo contemporaneo: condizioni che hanno travalicato le classiche dicotomie tipiche del paradigma taylorista-fordista, in particolare quella tra tempo di lavoro e tempo di non lavoro e tra produzione e riproduzione. Il Basic income è diventato, in questo modo, il fulcro attorno al quale diveniva possibile ridisegnare il nuovo statuto delle garanzie non solo del lavoro, ma della vita.
Nei primi anni del Duemila, prende corpo quello che possiamo definire, sino a ora, l’appuntamento più importante e numericamente significativo, che i movimenti del precariato metropolitano abbiano mai realizzato, non solo in Italia, ma in tutta Europa.
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Il biolaboratorio mondo
di Costantino Ragusa
“L’ingegneria genetica è una tecnologia tanto radicale quanto quella nucleare, non solo perché entrambe affrontano gli elementi costitutivi “estremi”della materia e della vita, disintegrando ciò che era ritenuto fino ad allora “insecabile”(l’atomo o la cellula), ma anche perché nell’uno e nell’altro caso non si tratta più di vere e proprie prove, dato che non c’è più l’insularità del campo di sperimentazione, e che il laboratorio diviene suscettibile di avere la stessa estensione del globo”.
Enciclopédie des nuisances
Recentemente in Italia, seppur ancora in contesti molto marginali, si è iniziato a discutere dei pericoli legati alle ricerche di ingegneria genetica e più in generale alle ricerche con agenti biologici, soprattutto dopo le recenti mobilitazioni a Pesaro contro l’apertura di un Istituto Zooprofilattico con classificazione di pericolosità biologica di livello 3.
Per forza di cose per comprendere quello che sta effettivamente avvenendo bisogna fare un passo indietro, anche abbastanza lungo, ma fondamentale per non sbagliare pensando che sia stato il clima di emergenza degli ultimi anni ad aver portato questi nuovi Biolaboratori, quando al contrario sono invece sempre i laboratori a creare le emergenze.
Intanto, per cominciare, le ricerche condotte in questi nuovi Biolaboratori non rappresentano certo una novità, sia per l’Italia, ma ancora di più per tanti altri paesi per il mondo.
Sono decenni che, segretamente, poi ufficialmente e poi di nuovo segretamente, vengono effettuate ricerche ed esperimenti senza sosta in questa direzione, ogni paese con le proprie caratteristiche e i propri diritti umani e animali da tenere in considerazione.
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Le testimonianze del 7 ottobre: l’esercito israeliano “bombarda” i suoi cittadini
di Max Blumenthal*
L’esercito israeliano ha ricevuto l’ordine di bombardare le case israeliane e perfino le proprie basi dopo essere state sopraffatte dai militanti di Hamas il 7 ottobre. Quanti cittadini israeliani che si dice siano stati “bruciati vivi” sono stati in realtà uccisi dal fuoco amico?
Numerose nuove testimonianze di testimoni israeliani dell’attacco a sorpresa di Hamas del 7 ottobre nel sud di Israele si aggiungono alle prove crescenti che l’esercito israeliano ha ucciso i propri cittadini mentre combattevano per neutralizzare gli uomini armati palestinesi.
Tuval Escapa, un membro della squadra di sicurezza del Kibbutz Be’eri, ha istituito una hot line per coordinare i residenti del kibbutz e l’esercito israeliano. Ha detto al quotidiano israeliano Haaretz che quando la disperazione ha cominciato a prendere il sopravvento, “i comandanti sul campo hanno preso decisioni difficili – incluso bombardare le case dei loro occupanti per eliminare i terroristi insieme agli ostaggi”.
Un rapporto separato pubblicato su Haaretz ha osservato che l’esercito israeliano è stato “costretto a richiedere un attacco aereo” contro la propria struttura all’interno del valico di Erez verso Gaza “al fine di respingere i terroristi” che ne avevano preso il controllo.
All’epoca quella base era piena di ufficiali e soldati dell’amministrazione civile israeliana. Questi rapporti indicano che dall’alto comando militare sono arrivati ordini di attaccare case e altre aree all’interno di Israele, anche a costo di molte vite israeliane.
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Da Machiavelli a Moro. Sulla storia politica italiana dal Rinascimento a oggi elaborata da Gianfranco Borrelli
di Valerio Romitelli
Dopo quasi ottant’anni di antifascismo militante e istituzionale, eccoci alla prese con un governo che non si può dire propriamente fascista solo perché è così opportunista e cialtrone che non ce la fa neanche a imitare le fanfaronate ideologiche del Ventennio. Una tragedia dunque che si potrebbe dire ritorna come farsa, ma non senza le sue proprie conseguenze tragiche. Urgerebbero allora bilanci di tutto quello che non è stato fatto per impedire questo ritorno inimmaginabile solo qualche anno fa. Ma non pare che molti dibattiti pullulino a riguardo. Prevale piuttosto il consolarsi pensando che il vento della destra più estrema sta imperversando anche fuori d’Italia, in Europa e nel mondo intero. Vista però anche l’importanza del nostro paese, sia nell’inventare a suo tempo lo stesso fascismo, sia poi nel riscattarsene grazie alla lotta partigiana, resta da chiedersi perché l’attuale riemergere di un passato che si credeva morto per sempre non susciti adeguate reazioni. Di sicuro almeno si è per sempre invalidata l’insulsa teoria già dominante del Ventennio del Duce come parentesi in una storia supposta tutta diversa del popolo italiano. Sarebbe dunque arrivato il momento giusto per cercare di rileggere questa storia come sì punteggiata da situazioni, personaggi e opere politicamente eccellenti, ma anche reiteratamente esposta al pericolo di catastrofiche esperienze simili a quelle di cui il fascismo è stato esempio proverbiale.
Per farsi buone domande a questo riguardo è ora disponibile uno strumento particolarmente stimolante. Suo grande merito è di permettere uno sguardo d’insieme, tanto vasto, quanto dettagliato su tutta la storia politica italiana moderna, giungendo anche a proiettarsi sulla contemporanea.
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Hamas: la storia che in Occidente non si può raccontare
di Roberto Iannuzzi
L’ascesa con il sostegno di Israele, la vittoria elettorale del 2006, il tentato golpe americano ai suoi danni e la frattura palestinese, la prigione di Gaza, la demonizzazione del movimento
Dopo il sanguinoso attacco di Hamas del 7 ottobre scorso, una componente chiave della propaganda di guerra condotta dai media e dalla classe politica in Israele, ma anche in alcuni paesi occidentali, è stata il tentativo di dipingere il gruppo islamico palestinese come un equivalente dell’ISIS.
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha riproposto più volte questa analogia, affermando che “così come le forze della civiltà si sono unite per sconfiggere l’ISIS, esse devono appoggiare Israele nello sconfiggere Hamas”.
Quella di Netanyahu è una formulazione non nuova – visto che già all’Assemblea generale dell’ONU del 2014 egli aveva affermato che “Hamas è l’ISIS e l’ISIS è Hamas” – ma sembra aver assunto una valenza ulteriore nei giorni scorsi.
Il segretario alla Difesa USA Lloyd Austin ha definito “peggiore dell’ISIS” ciò che Hamas ha compiuto il 7 ottobre, mentre il presidente francese Emmanuel Macron ha addirittura suggerito che la coalizione internazionale creata per combattere l’ISIS venisse estesa alla lotta contro Hamas.
In altre circostanze, come ad esempio in occasione di una recente conferenza stampa assieme al cancelliere tedesco Olaf Scholz, Netanyahu ha invece definito Hamas “i nuovi nazisti”, aggiungendo che la ferocia mostrata dal gruppo “ci ricorda i crimini nazisti durante l’Olocausto”.
Demonizzazione, decontestualizzazione, destoricizzazione
Questa retorica è stata poi ulteriormente estremizzata e generalizzata per accusare non più solo un gruppo armato (che tuttavia è anche un movimento politico), ma un intero popolo.
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L'India nello scacchiere geopolitico attuale
di Paolo Arigotti
La collocazione dell’India nello scacchiere geopolitico internazionale è estremamente interessante per la posizione che il subcontinente occupa rispetto ai diversi attori: oggi ci concentreremo, in particolare, sui rapporti con la Cina.
Al pari della Repubblica Popolare, l’India è uno dei paesi fondatori dei BRICS, dopo essere stata a lungo, nel periodo della guerra fredda, uno dei leader del fronte dei cosiddetti non allineati, fatto che non le impedì di intessere rapporti molto stretti con l’allora Unione Sovietica; inoltre, assieme a Cina, Russia e altri sei stati è membro dell’Organizzazione per la cooperazione di Shangai (SCO).
Allo stesso tempo, l’India ha siglato, anche recentemente, importanti accordi politici e militari con gli Stati Uniti, dopo che nel 2017 le due nazioni – assieme a Giappone e Australia – avevano dato vita al Dialogo quadrilaterale di sicurezza (Quadrilateral Security Dialogue, QUAD), un patto strategico informale per contenere l'espansionismo cinese nell'Indo-Pacifico; Delhi, inoltre, fa parte dell’ulteriore iniziativa multilaterale dell’IPEF, Indo-Pacific Economic Framework for Prosperity e della I2U2, con USA, Israele ed Emirati.
Il comune denominatore che caratterizza molte di queste iniziative, a cominciare dal QUAD, nessuna delle quali mai elevata al rango di alleanza militare vera e propria, affonda le radici nella comune consapevolezza che nessuna nazione, da sola, sarebbe mai stata in grado di fronteggiare la crescente potenza militare cinese, consentendo agli americani di riunire attorno a sé diversi paesi amici che l’aiutino a presidiare una regione sempre più strategica, oltre a fungere da strumento di deterrenza per quegli stati che si fossero mostrati disponibili ad accogliere le offerte d collaborazione di Pechino, vuoi perché timorosi della sua forza o semplicemente perché attratti dagli investimenti promessi dal Dragone.
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La teoria del valore di Karl Marx per comprendere il funzionamento del capitalismo oggi
Gianni Del Panta intervista Guglielmo Carchedi e Michael Roberts
La recente uscita di Capitalism in the 21st Century: Through the Prism of Value (Londra: Pluto Press, 2023) rappresenta un’occasione importante per comprendere se e in quale misura la teoria del valore formulata da Karl Marx un secolo e mezzo fa continui a essere un valido strumento teorico per decriptare il funzionamento del capitalismo nella nostra epoca. Dato che il libro è attualmente disponibile solamente nella versione inglese, abbiamo deciso di intervistare i due autori per rendere fruibile anche al pubblico italiano non anglofono i principali contenuti del testo.
Guglielmo Carchedi e Michael Roberts sono due dei più apprezzati economisti marxisti e la loro collaborazione ha affrontato negli anni alcuni dei nodi centrali della teoria marxista, come la caduta tendenziale del saggio di profitto e l’appropriazione di plusvalore da parte degli stati più avanzati tecnologicamente ai danni di quelli che lo sono meno – ovvero, la determinante economica dell’imperialismo moderno, secondo la loro stessa formulazione.
* * * *
Caro Guglielmo, nel libro che hai scritto assieme a Michael Roberts c’è un chiaro tentativo di rivendicare come la teoria del valore di Karl Marx rappresenti il punto di partenza centrale per comprendere le leggi di movimento del capitalismo nel nostro tempo. Per i lettori che non hanno familiarità con questa teoria, quali sono i suoi assunti principali? E perché e come questa teoria si differenzia dalle principali spiegazioni fornite dall’economia mainstream?
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Indipendenza nazionale, socialismo e lotta per il multipolarismo
di Leonardo Sinigaglia
Il passaggio a un mondo multipolare è ormai uno dei temi più dibattuti e presenti all’interno dello scenario politico internazionale.
Quello che fino a qualche anno fa rappresentava un fenomeno “di nicchia”, intuibile (in Occidente) solo da pochi individui e organizzazioni, è ormai diventato un qualcosa di palese, oggettivo e innegabile anche per le grandi masse. Come più volte ribadito dal presidente Xi Jinping, ci si trova innanzi a cambiamenti mai sperimentati da un secolo a questa parte, a un passaggio di fase profondo destinato a definire i decenni a venire. Questo cambiamento è associato a una contraddizione, quella tra le spinte alla multipolarizzazione del mondo e l’imperialismo egemonico statunitense. Tale scontro viene in Occidente definito principalmente in tre modi: il tentativo di costruzione di un’egemonia alternativa, da cui l’ordine liberale dovrebbe difendersi; la lotta tra “opposti imperialismi”, egualmente reazionari e distanti dagli interessi della classe lavoratrice; uno conflitto destabilizzante che solo collateralmente può aprire spazi d’azione politica per il “movimento comunista”. Tutte queste tre visioni sono fondamentalmente errate e strettamente connesse l’un l’altra in quanto espressione, seppur in diverse gradazioni e forme, dell’adesione ideologica e materiale al sistema imperialista e all’incapacità di pensare altrimenti rispetto alle sue prospettive ideologiche.
Il multipolarismo è la negazione dell’egemonia
Il sistema liberal-boghese non è in grado e non è interessato a comprendere come possano esistere mentalità diverse da quella predatoria che lo caratterizza.
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La realtà ostaggio da smontaggi e ricostruzioni artificiali
di Silvia Guerini
Le teorie post-moderne proseguono l’opera di decostruzione della realtà rendendola ostaggio del discorso, ma oggi siamo ben oltre questo processo di decostruzione e risignificazione della realtà: sono l’esistenza stessa della realtà e della verità a essere sotto attacco, assediate da costruzioni sintetiche e artificiali che senza il bisogno di imporsi diventano l’unico orizzonte di senso possibile e immaginabile. Una realtà de-fatticizzata trasformata in un processo rimodellabile a piacimento. Una realtà proteiforme, fluida, instabile, volatile, effimera e istantanea: le caratteristiche del presente cibernetico e transumano. Nulla che dia solidità e appiglio, nulla in grado di reggere questi tempi di disgregazione e cancellazione, nulla su cui soffermarsi, nulla che possa trattenere. Tutto scivola e viene inghiottito nell’universo-Macchina.
Hannah Arendt descrive la verità come la “terra sulla quale stiamo e il cielo che si stende sopra di noi”1, verità che possiede la solidità dell’essere. Una solidità che oggi svanisce. La verità oggettiva si sgretola, si scompone in molteplici forme e le sensazioni soggettive prendono il posto delle realtà oggettive. La verità, da questione ontologica, diventa mero sentire soggettivo infinitamente scomponibile e ricomponibile dai riprogettatori dell’umanità sintetica.
In assenza di tensione per la verità la società si può reggere solo sulla menzogna, come insegna Simone Weil. La verità è fondamento esistenziale dell’umano, la sua disintegrazione corre parallela con la disgregazione della società.
Dall’assedio ai corpi e al vivente nei suoi più intimi processi arriviamo all’assedio della stessa realtà. La grande battaglia oggi è per l’esistenza stessa della realtà. Il punto di non ritorno è più vicino che mai, ma quando ci arriveremo molti non ne saranno consapevoli. Ciò che dai più è stato accettato oggi sarà la condizione necessaria di quello che sarà accettato domani.
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Il seme della violenza. Parte II
Dal 1948 al nuovo secolo
di Domenico Moro
Il periodo che va dalla fine della guerra del 1948, definita dai sionisti prima guerra di indipendenza e dai palestinesi Nakba (disastro), fino all’inizio del XXI secolo è caratterizzato da un quadro di grande complessità e denso di forti contraddizioni a livello sia regionale sia mondiale, che ha reso a tutt’oggi la questione palestinese ancora senza soluzione.
- 1. La fondazione del nuovo stato di Israele
La guerra del 1948 lasciò due questioni irrisolte. La prima fu il riconoscimento internazionale di Israele, che, sebbene riconosciuto dalla maggior parte dei Paesi (compresa l’Urss), non ebbe il riconoscimento dei Paesi arabi limitrofi. La seconda fu la questione della collocazione dei profughi palestinesi, che si ritrovarono senza terra e senza Stato.
Lo Stato sionista, comunque, beneficiò di alcuni vantaggi rispetto ai Paesi del Terzo mondo che, alla fine del colonialismo, si resero indipendenti. Mentre questi ultimi dovevano adattare le istituzioni ereditate dalla potenza colonialista o costruirle ex novo, Israele poteva contare su istituzioni formatesi nel corso del mezzo secolo precedente. Israele poteva beneficiare, inoltre, dell’aiuto degli ebrei della diaspora, che fornivano sostegno politico ed economico al nuovo Stato. Si trattava di una sorta di assicurazione economica di cui gli altri Paesi di recente costituzione erano privi.
Israele si caratterizzò sin dall’inizio come uno Stato confessionale. Infatti, mentre impediva il rientro dei Palestinesi fuggiti durante la guerra del 1948, sollecitava l’immigrazione degli ebrei provenienti da tutto il mondo. Nel 1950 il parlamento israeliano votò la cosiddetta Legge del ritorno, il cui primo articolo stabiliva: “Tutti gli ebrei hanno diritto a immigrare nel Paese”. Del resto, lo Stato sionista si appropriò del 94% delle proprietà dei palestinesi fuoriusciti, assegnandole a ebrei israeliani.
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Introduzione al “Manifesto contro il lavoro”
di Massimo Maggini*
Gruppo Krisis: Manifesto contro il lavoro e altri scritti, introduzione di Massimo Maggini, prefazione di Anselm Jappe, postfazione di Norbert Trenkle, Mimesis ed. 2023
Presentiamo qui l’edizione rinnovata ed ampliata del Manifesto contro il lavoro del gruppo Krisis. L’originale apparve in Germania nel “lontano” giugno 1999, in forma autoprodotta, e in Italia nel 2003 per i tipi di DeriveApprodi. Successivamente in Germania sono uscite altre tre edizioni, la seconda già nel settembre 1999, la terza nell’ottobre del 2004 e la quarta ed ultima nel gennaio 2019, in occasione del ventennale della prima uscita. In quest’ultimo caso, il Manifesto è stato corredato di una post-fazione scritta da Norbert Trenkle, che includiamo nel presente libro, con il quale in qualche modo proviamo a celebrare, anche in Italia, il ventennale della prima edizione italiana, arricchendola con altri testi.
Da quel primo anno, in cui è stato elaborato e ha preso forma il Manifest, molta acqua è passata sotto i ponti. Si sono succedute – e continuano a succedersi – guerre apocalittiche, movimenti sono nati e morti, emergenze su emergenze si sono avvicendate ed eventi decisivi hanno cadenzato la nostra esistenza. A fare da filo conduttore di tutti questi avvenimenti, solo apparentemente slegati fra loro, un motivo è però rimasto costante: la crisi strutturale del sistema capitalistico, che ha preso forma compiuta in modo inquietante e risoluto – benché già presente in nuce anche prima – almeno dalla fine degli anni ‘70, cioè in coincidenza, non casuale, della fine dei cosiddetti “30 anni gloriosi” e il boom economico che li aveva caratterizzati.
Ma cosa c’entra il “lavoro” con tutto questo? Soprattutto, perché muovergli una “critica” in tempi di crisi, quando molti, anzi, ne lamentano a gran voce la mancanza?
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Dalla parte di Nebogatov. Il tranello della geopolitica e il degrado del dibattito sulla guerra
di Jacopo Lorenzini
Nel 1936 lo scrittore tedesco Frank Thiess dà alle stampe un libro destinato ad una duratura fortuna editoriale. Si intitola Tsushima. Il romanzo di una guerra navale. Nelle pagine della sua opera (un romanzo basato su fonti storiche rigorose, prototipo di un genere che proprio oggi conosce una rigogliosa fioritura) Thiess narra della disastrosa spedizione della Flotta russa del Baltico attorno al Capo di Buona Speranza per andare a combattere la flotta giapponese nelle acque dello Stretto di Corea: una spedizione conclusasi con la disfatta di Tsushima, appunto, e con l’umiliazione dell’Impero zarista nella guerra russo-giapponese del 1905.
Ma Thiess trasforma la storia di quello che è stato senza dubbio un disastro politico e militare, in una narrazione epica. Una narrazione che conosce solo eroi, sia tra i marinai russi che tra quelli giapponesi, tutti egualmente degni di rappresentare «il più puro spirito militare». Tutti tranne uno: il contrammiraglio Nikolaj Ivanovič Nebogatov.
Nebogatov è il comandante del terzo squadrone della flotta russa. Il suo contingente è composto da quattro vecchie corazzate, tre delle quali sono unità adatte a malapena per la difesa costiera. Sono navi tecnicamente superate, che lo stesso comandante in capo Rozhestvenskiy considera d’impaccio per il resto della flotta. Durante la battaglia di Tsushima lo squadrone di Nebogatov viene sostanzialmente ignorato dagli ammiragli giapponesi, che condividono la valutazione del collega russo e che lo lasciano da parte, concentrandosi piuttosto sulla distruzione delle più moderne corazzate avversarie.
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Riflessioni su Guerra, Politica e Pace: un’analisi critica
di Alberto Bradanini
Il linguaggio politico è progettato per far sembrare vera la bugia, rispettabile l’omicidio e dare una parvenza di solidità al puro vento (G. Orwell)
Possiamo anche non occuparci della guerra, ma è la guerra che si occupa di noi. A seconda dei criteri di riferimento, le guerre possono classificarsi in giuste, opportune e legali, o anche in un intreccio di tali aggettivazioni.
Il criterio della giustizia dipende dall’ideologia o etica di chi lo invoca, possiede un forte contenuto di soggettività e ad esso fa ricorso in chiave giustificativa chi usa la forza militare per combattere una presunta ingiustizia (termine questo anch’esso aperto a un labirinto d’interpretazioni). Il criterio dell’opportunità si caratterizza invece per una forte valenza politica: a un certo punto, secondo il ragionare di alcuni, la guerra emergerebbe come sola risoluzione di contenzioni altrimenti irrisolvibili. Il criterio della legalità, infine, sulla carta appare il meno incerto, il solo che possieda i contorni di una qualche riferibilità oggettiva: per il diritto internazionale, infatti, la guerra diventa legittima in due casi: a) quando è autorizzata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (evento invero assai raro); b) in caso di legittima difesa, ai sensi dell’art. 51 della Carta delle N.U., nel qual caso, per restare nel recinto della legittimità, la reazione deve rispettare i principi di moderazione e proporzionalità.
Sui teatri di guerra, alla violenza militare codificata dal diritto s’accompagna spesso un’altra pratica, il cosiddetto terrorismo, una pratica la cui nozione condivisa è tuttora assente tra le norme internazionali.
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Effetti culturali dell’economia neoliberista
di Luca Benedini
I pesanti impatti del neoliberismo e della sua intrinseca mentalità patriarcale sulla vita quotidiana delle persone e sulla loro sfera interiore
(prima parte: un intreccio di precarietà e consumismo, con le facilitazioni fornite dalla pesantissima caduta qualitativa della “politica di sinistra” nel ’900)
Ci vuole tempo per amare
E libere menti per amare,
E chi è che ha tempo nelle mani?
– Jorma Kaukonen
dalla canzone Star track, incisa nell’album Crown of Creation (1968), dei Jefferson Airplane
Qui nella Buona-Vecchia-Dio-Salvi-L’America
La patria della gente coraggiosa e libera
Siamo tutti dei codardi, oppressi senza speranza
Da qualche dualità
Da una molteplicità senza posa
– Joni Mitchell
dalla canzone Don Juan’s reckless daughter, incisa nell’album omonimo (1977)
Si è già accennato – nel precedente intervento Il neoliberismo non è una teoria economica [1] – che il neoliberismo tende a trasformare nei fatti la società in una scoordinata aggregazione di persone mosse soprattutto da interessi materiali di tipo egoistico. Ciò innanzi tutto come effetto del fatto che i neoliberisti vedono il mondo come un’arena gladiatoria in cui le élite economiche possono utilizzare e manipolare pressoché a proprio piacimento le altre classi sociali – fino anche, come spesso accade, a logorarle sino allo sfinimento o a sostanzialmente stritolarle – usandole come ingranaggi, servi, oggetti, giocattoli oppure scarti [2]: un’arena in cui ciascuno è spinto ad arrangiarsi per sopravvivere e cavarsela, a titolo individuale o al massimo famigliare. E la realtà sociale degli ultimi decenni mostra che, di fatto, attualmente le élite in questione non solo valutano di poterlo fare, ma solitamente prendono anche in pratica la strada del farlo con grande applicazione....
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Il sionismo ideologia razzista di un movimento coloniale
di Ilan Pappé
Quella che segue è una conferenza tenuta da Ilan Pappé il 19 ottobre scorso all’università di Berkeley in California (il titolo è nostro). Pappé, attualmente direttore del Centro europeo per gli studi sulla Palestina presso l’Università di Exeterer nel Regno Unito, è uno storico che ha insegnato all’università di Haifa, dalla quale è stato espulso per le sue denunce del carattere razzista del sionismo e per il suo lavoro di storico che ha documentato in modo inoppugnabile la pulizia etnica della Palestina che i sionisti hanno sempre cercato di occultare attribuendola a cause diverse ma non a una loro deliberata programmazione. Il suo lavoro del 2006 su questo argomento è disponibile anche in italiano (La pulizia etnica della Palestina, Fazi Editore 2008). Sua tra molte altre anche l’opera su Gaza e Cisgiordania, anche questa disponibile in italiano (La più grande prigione del mondo, storia dei territori occupati, Fazi Editore, 2022).
Video originale sotto:
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Il 7 ottobre e la “crisi di nervi” di Israele
di Giacomo Gabellini
Uno degli obiettivi cruciali perseguiti da Hamas attraverso l’operazione al-Aqsa Flood sferrata lo scorso 7 ottobre consisteva con ogni probabilità nel produrre una radicale destabilizzazione psicologica della società israeliana, in modo da disintegrare molte di quelle che i comuni cittadini israeliani consideravano alla stregua di certezze granitiche, a partire dall’infallibilità delle forze armate e dell’intelligence israeliana, nelle sue articolazioni del Mossad, dello Shin Beth e dell’Aman. La visione dei carri armati in fiamme, delle decine di mezzi caduti può considerarsi raggiunto, se è vero – come è vero – che con il suo operato da elefante in una cristalleria la classe dirigente di Tel Aviv sta guastando in sotto il controllo delle brigate al-Qassam, di migliaia di coloni in fuga o catturati e brutalizzati e/o assassinati hanno fatto pericolosamente vacillare il mito della invincibilità israeliana.
Sul quale va peraltro proiettandosi un’ombra, se possibile, ancor più inquietante, che emerge da alcune inchieste realizzate da «Haaretz» sulla base di testimonianze dirette rese da cittadini israeliani coinvolti nella vicenda. Tuval Escapa, un membro della squadra di sicurezza del kibbutz Be’eri che aveva istituito una linea di comunicazione diretta con l’esercito israeliano, ha dichiarato al quotidiano israeliano che, nel momento in cui le brigate al-Qassam sono dilagate nei territori limitrofi alla Striscia di Gaza, «i comandanti sul campo hanno preso decisioni difficili, tra cui quella di bombardare gli edifici occupati dai terroristi, che avevano tuttavia portato con sé decine di ostaggi». Secondo «Haaretz», l’esercito è stato in grado di ripristinare il controllo su Be’eri solo dopo aver ammesso di aver “bombardato” le abitazioni degli israeliani che erano stati fatti prigionieri. «Il prezzo – riporta il quotidiano – è stato terribile: almeno 112 residenti di Be’eri sono stati uccisi».
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Il nuovo disordine mondiale / 23: Israele perduta tra le sue guerre
di Sandro Moiso
Il comportamento dell’attuale governo di Israele rischia di essere il peggior nemico degli ebrei. (Primo Levi- intervista a «la Repubblica», 24 settembre 1982)
Ieri Israele ha perso la guerra. (Domenico Quirico, «La Stampa», 31 ottobre 2023)
Come ha annotato in una singola frase Domenico Quirico, essenziale come sempre, si può affermare che ciò che covava tra le fiamme e sotto le ceneri ancora ardenti del conflitto a Gaza ieri è balzato agli occhi di tutti. Soprattutto di una comunità mediatica che, nonostante le intimidazioni, le fake news, i divieti e le deformazioni di parte governativa israeliana, e filo-occidentale più in generale, non ha potuto fare a meno di notare che in quei 76 secondi di messaggio, filmato e trasmesso da Hamas il 30 ottobre dall’inferno di Gaza, le parole e l’urlo di Danielle Aloni, la donna presa in ostaggio insieme alla figlia di sei anni durante l’incursione del 7 ottobre, segnano una definitiva rottura di fiducia tra gli ebrei di Israele e l’attuale capo del governo Benyamin Netanyahu, la sua conduzione di una guerra scellerata e la pericolosità di una politica di occupazione coloniale sempre più genocidaria e arrogante. Ma non solo.
L’urlo di Danielle, insieme ai sondaggi che rivelano come un israeliano su due sia contrario all’operazione di terra a Gaza1, rivela una frattura più profonda. Quella che formalmente ha iniziato a manifestarsi da tempo con le dimostrazioni di piazza contro il governo Netanyahu, ma che da tempo una parte della comunità ebraica denunciava e continua a denunciare, dentro e fuori le mura del ghetto dorato di Israele.
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Menzogne e verità sulla cancellazione del Reddito di Cittadinanza
di Emiliano Gentili, Federico Giusti e Stefano Macera
Il dibattito sull’abolizione del Reddito di Cittadinanza è stato viziato da alcuni elementi che hanno reso difficile comprendere fino in fondo il significato politico della Controriforma
Lo scontro fra chi difendeva il RdC e quanti invece volevano eliminarlo si è svolto soprattutto attorno alla tragedia di quei 130.000 mila nuclei familiari (14,8% sul totale) per i quali il Reddito sarebbe stato cancellato già a fine luglio di quest’anno. Tuttavia, l’effetto di questo processo di Controriforma va ben oltre le sofferenze economiche e di vita alle quali le famiglie in questione dovranno fare fronte… A nostro parere, l’aspetto principale consiste nel tentativo di ridurre il costo del lavoro dei cosiddetti working poor, di quei lavori che già oggi vengono pagati pochissimo, con orari spesso estenuanti, in un contesto di forte deregolamentazione normativa, di ricatto e di assai irrisori e sporadici controlli sulle imprese. In tal senso non possiamo non evidenziare il carattere parziale, e per certi versi fuorviante, del dibattito inscenato in Parlamento nel corso dell’estate. Ci si è concentrati su un solo aspetto (il 14,8% di revoche), guardandosi bene dal discutere dei caratteri complessivi della riforma, sì da evitare che questi acquisissero una proiezione mediatica.
Il silenzio ha poi riguardato anche un altro aspetto, quello della riduzione degli anni di residenza necessari per percepire il Reddito (o, meglio, il sussidio che andrà a sostituirlo) da 10 a 5. Un provvedimento che avvantaggia gli italiani all’estero, certo, ma che in primo luogo viene incontro a lavoratori e lavoratrici immigrati. Tale riduzione non è di certo stata una battaglia “all’ultimo sangue” ingaggiata dal PD in Parlamento, derivando invece dalla promulgazione di una procedura d’infrazione contro l’Italia da parte della Commissione Europea1, 2 soprattutto in quanto il limite di 10 anni comprometterebbe la libera circolazione della forza-lavoro all’interno dell’area comunitaria, disincentivando i cambi di residenza transnazionali dei lavoratori a causa della paura di perdere il sussidio.
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