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Non sapere aude!
di Lelio Demichelis
Leggere la mente grazie alle neuro-tecnologie e alle neuro-scienze, manipolarla ben oltre quanto fatto dai totalitarismi del ‘900 e della pubblicità e dalla propaganda; e la libertà e la democrazia messe a rischio da una oligarchia di imprenditori del Big Tech, tra anarco-capitalisti e transumanisti ed Elon Musk, che qualcuno si ostina a chiamare visionari; e scienziati che invece di lavorare per accrescere e diffondere il sapere lo azzerano incorporandolo e soprattutto centralizzandolo in macchine/algoritmi/intelligenza artificiale, creando un uomo sempre meno sapiens e sempre più macchina. E su tutto, la tecnologia, che avanza a grandi passi, sempre più veloci, realizzando ben altro che il Grande Fratello orwelliano.
A molti, tutto questo sembra fantascienza, ma è la realtà già di oggi. E dunque, è tempo di rivendicare un nuovo diritto, quello alla libertà cognitiva, come lo definisce Nita Farahany – che insegna Diritto e Filosofia alla Duke University – in questo suo libro da poco tradotto in italiano e dal titolo programmatico se non imperativo di Difendere il nostro cervello (Bollati Boringhieri, pag. 482, € 27.00). Ma come rivendicare questo diritto alla libertà cognitiva – concetto e diritto bellissimo e soprattutto urgente - se da tempo abbiamo già rinunciato (come richiesto dal capitale, che necessitava dei nostri dati) al diritto alla privacy e che era il presupposto per la libertà individuale; se ogni giorno produciamo appunto dati che servono a toglierci la libertà di pensare (e il lavoro prossimo venturo), delegando tutto alle macchine/algoritmi/i.a.? Forse per avere le risposte prima ancora di avere fatto le domande – nella neolingua aziendalistica dominante si chiama efficientare? Perché siamo feticisti della tecnica? Perché abbiamo paura della libertà? Forse stiamo entrando nel transumano, senza rendercene conto? O perché siamo governati da tecno-crazie e imprenditori e non più dalla politica e dal demos, realizzandosi in pieno il programma del positivismo ottocentesco? Ma su tutto: siamo capaci di fermare le macchine e i neuro-scienziati se i rischi per l’uomo e la libertà stanno diventando – e lo stanno diventando – troppo grandi?
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È tutto loro quello che luccica!
di Luca Busca
Netanyahu e Gallant in realtà più che subire “conseguenze di non poco conto” sono stati “graziati”, non più rei di genocidio ma solo di “banali” crimini di guerra, d’altra parte commessi anche dalla controparte palestinese
E sì, non è un errore di stampa, “è tutto loro quello che luccica” è l’unica risposta sensata all’atavica domanda “è tutto oro quello che luccica?”. E il mandato di arresto di Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant luccica parecchio. A prima vista sembra una piccola rivoluzione, il riconoscimento di una giustizia sana che tenta di fermare anche i potenti, gli intoccabili. Non solo ma come ha brillantemente scritto Jeffrey Sachs: “il mandato di arresto della CPI per Netanyahu è anche un’accusa alla complicità USA.”
Una luce completamente nuova, soprattutto se messa a confronto con il precedente di inizio millennio, che vide i crimini di George W. Bush, come Abu Graib, Guantanamo e un milione di civili iracheni uccisi, completamente ignorati. Di contro Saddam Hussein, reo di mancato possesso di armi di distruzione di massa, venne condannato a morte da un tribunale fantoccio. “A Bagdad si è invece celebrata, per i fatti di Dujail, una farsa. I giudici sono stati nominati dall’esecutivo (il Consiglio di governo) e da esso sostituiti quando non si allineavano sulle posizioni ufficiali delle autorità o si dimostravano scarsamente efficaci. Il tribunale sin dall’inizio è stato finanziato dagli Usa, che hanno anche elaborato il suo Statuto, poi formalmente approvato dall’Assemblea nazionale irachena, nell’agosto 2005. (studiperlapace.it)
La notizia del mandato d’arresto per Netanyahu e Gallant ha suscitato immediate reazioni di entusiasmo e giubilo in tutte le tipologie di pacifisti che popolano l’articolato mondo del dissenso. Più pacate quelle dei governanti italiani con Crosetto ad affermare “la decisione della CPI, anche se sbagliata va applicata”. La Meloni con la sua consueta moderazione ha dichiarato: “Approfondirò in questi giorni le motivazioni che hanno portato alla sentenza della Corte Penale Internazionale. Motivazioni che dovrebbero essere sempre oggettive e non di natura politica”. Più determinato il “ministro degli Esteri Antonio Tajani cerca di trovare spiragli per non applicare la sentenza in Italia in caso di viaggio nel nostro Paese del primo ministro d’Israele accusato di crimini di guerra, mentre la Lega di Matteo Salvini definisce la sentenza della Corte internazionale addirittura «filo islamica».
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Perché la sinistra non è all’altezza dei problemi che deve affrontare?
di Guido Ortona
Osservazioni preliminari. L’autore di questa nota ha militato a sinistra per circa 60 anni; ed è stato ricercatore e poi professore di Politica Economica per più di 50. Scrivo questo perché le cose che leggerete potranno apparire banali, spero anzi che sia così; ma può essere utile sapere che queste banalità sono il risultato di decenni di pratica e di studio. Per “sinistra” intendo l’area a sinistra del PD, e una parte minoritaria di esso, la cui estensione non sono in grado di valutare.
1. Occorre affrontare i grandi problemi. La situazione politica generale in Italia (ma le considerazioni che faremo valgono anche per altri paesi) è grave e pericolosa, ma ha almeno un vantaggio: dovrebbe obbligare la sinistra a mettere al centro della propria proposta politica le grandi scelte, che invece preferisce trascurare, per vari motivi. Discutere di questi motivi e della loro importanza è il tema di questo articolo.
Le grandi scelte che non possono più essere eluse sono l’alternativa fra accettare le politiche europee o no, e quella fra tassare i ricchi o no. Chiamo queste alternative “grandi scelte” per questo: non è possibile proporre serie politiche di sinistra se non vengono affrontati questi nodi. Il motivo di ciò è che se non interviene con serie politiche di rottura su quei punti, allora mancheranno necessariamente le risorse per qualsiasi politica di sinistra di ampio respiro; il che renderebbe, e rende, impraticabile qualsiasi proposta di politiche economiche di sinistra che aspiri a incidere in modo significativo sulla nostra società.
L'Italia dovrà pagare (almeno) 10 miliardi all'anno per ridurre il disavanzo pubblico onde rispettare i vincoli europei sul rientro dal debito. Ma non basta: questa somma si aggiunge al normale servizio del debito, per un totale, a quanto pare, compreso fra 80 e 100 miliardi all’anno. Una parte, circa un quarto, ritorna come interessi sulla quota di debito detenuta dalla Banca d’Italia; ma per quanto riguarda l’attivazione sull’economia del nostro paese il resto è sostanzialmente buttato via - si tratta di almeno il 3% del PIL.
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Hegel con Pashukanis. Una lettura marxista-leninista*
di Carlo Di Mascio
La scelta di una filosofia dipende da quello che sei.
J. G. Fichte, Prima introduzione alla Dottrina della Scienza
1. La ricezione russo-sovietica di Hegel tra filosofia e politica
Nel 1931 Evgeni Pashukanis pubblica un saggio dal titolo ‘Hegel. Stato e diritto’1, dedicato al centenario della morte di Hegel. L’occasione era stata fornita dalla possibilità di partecipare, con alcuni scritti di filosofi e giuristi sovietici, allo Hegel-Kongreß tenutosi a Berlino nello stesso anno, partecipazione poi - come ricorderà Pashukanis - «comicamente» negata dagli organizzatori che, nel rifiutare gli scritti di provenienza sovietica, si limitarono solo alla ricezione di semplici comunicazioni «sulla portata e l'organizzazione degli studi hegeliani nelle istituzioni scientifiche russe». A ciò fece seguito, come ancora polemicamente riportato dal giurista sovietico, il commento di Georg Lasson, tra i promotori del congresso berlinese, per il quale sarebbe stato «assurdo scoprire la dottrina hegeliana dello Spirito assoluto nel materialismo inanimato del marxismo»2. Ora, non serve qui soffermarsi sulle ragioni di una tale esclusione. Essa non poteva che dipendere dal ritenuto stato «avanzato» degli studi hegeliani nell’Occidente europeo, in un contesto culturale e storico-politico molto particolare, connotato dall’avvento del nazi-fascismo in Germania e in Italia3, dal «ritorno a Hegel» e ai motivi più reazionari del suo pensiero riassunti in quel «neohegelismo»4 da impiegare come baluardo politico-filosofico allo stato «avanzato» della crisi, sociale ed economica, in una Europa segnata dal timore di una rivoluzione interna sull’esempio di quella sovietica - ma anche da una sostanziale debolezza della tradizione filosofica russa, già vent’anni prima riconosciuta da Lenin, secondo cui «Nelle correnti d’avanguardia del pensiero russo non c’è una grande tradizione filosofica come quella che per i francesi è legata agli enciclopedisti del XVIII secolo, per i tedeschi all’epoca della filosofia classica da Kant a Hegel a Feuerbach.»5.
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I popoli africani contro l'imperialismo 3. Amilcar Cabral
di Carlo Formenti
Amilcar Cabral è l’ultimo intellettuale rivoluzionario africano di questo trittico in cui ho già presentato le idee di Said Bouamama e Kevin Ochieng Okoth. Nato in Nuova Guinea da genitori capoverdiani nel 1924, quando il Paese era ancora una colonia portoghese, nel 1945 ottenne una borsa di studio che gli consentì di frequentare l’Università di Lisbona dove conseguì la laurea in agronomia e dove rimase fino al 1952, ma soprattutto dove conobbe quelli che sarebbero diventati, assieme a lui, i leader delle guerre di liberazione delle altre colonie portoghesi, fra i quali l’angolano Mario Pinto de Andrade e il mozambicano Eduardo Mondlane. Rientrato in patria con l’incarico di agrimensore, si mise alla testa della lotta per l’indipendenza nazionale che si concluse vittoriosamente nel 1973 pochi mesi dopo la sua morte (nel gennaio di quell’anno venne assassinato da agenti portoghesi). Il suo contributo teorico, politico e culturale alla rivoluzione anticolonialista e antimperialista e allo sviluppo della teoria marxista, è di ampio respiro e resta un punto di riferimento obbligato per capire le dinamiche della lotta di classe in Africa. Per presentarne il pensiero, ho utilizzato qui un’antologia che raccoglie testi di discorsi tenuti nel corso dei suoi viaggi in giro per il mondo per raccogliere solidarietà alla lotta del popolo guineano (“Return to the Source”, Monthly Review Press). Alla fine trarrò le conclusioni di questo percorso in tre tappe.
* * * *
1. Teoria e prassi come momenti di un unico processo di apprendimento
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Contro la sinistra liberale. Riflessioni sul tema
di Nicoletta Pirotta
In Germania, dopo la rottura con il Partito della Sinistra (Die Linke), Sahra Wagenknecht ha intrapreso un proprio percorso politico che l’ha portata a dare vita a un’associazione e poi, nel gennaio di quest’anno, a un partito vero e proprio: il BSW che sta per “Bündnis Sahra Wagenknecht” (“Coalizione Sahra Wagenknecht”). Con questo partito si è presentata alle elezioni regionali in Turingia e in Sassonia e lo scorso settembre in Brandeburgo piazzandosi al terzo posto in tutti e tre le regioni, rispettivamente con il 15,8, l’11,8 e il 13,5% dei voti. Voti raccolti soprattutto nelle periferie e nei quartieri popolari.
Per dare conto dei fondamenti teorici di un partito, in grado fin dalla sua fondazione, di ottenere non pochi consensi, Wagenknecht ha scritto un libro pubblicato anche in Italia, con la prefazione di Vladimiro Giacché, dal titolo Contro la sinistra neoliberale.
Su di lei si è detto tutto e il contrario di tutto, anche nel nostro Paese.
Già questo fatto mi ha incuriosito perché quando i pareri divergono così profondamente vuole dire che un po’ di ciccia c’è. Ma il motivo per cui ho voluto leggere il libro di Wagenknecht è un altro.
Esso ha a che vedere con lo spaesamento e l’impotenza che provo nel constatare, contemporaneamente, l’avanzata, non solo sul piano politico, di una destra sempre più aggressiva e la mancanza di alternative condivise capaci non tanto di modificare i rapporti di forza ma nemmeno di fare da argine a questa avanzata.
Questo è vero particolarmente in Italia vista la mancanza di un soggetto politico in grado di rappresentare un punto di vista alternativo al neoliberismo, autonomo ma al contempo non autoreferenziale. L’ultima esperienza politica che ha avuto un senso in tale prospettiva era stata Rifondazione Comunista almeno fino al 2008. Ho partecipato con slancio e convinzione a questo percorso che poi, però, mi ha lasciata orfana di una “rifondazione” mai compiuta fino in fondo.
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Ripensare il marxismo, progettare la società post-capitalista
di Giorgio Grimaldi
Introduzione a Domenico Losurdo, La questione comunista. Storia e futuro di un’idea, Carocci 2021
§1. Perché La questione comunista?
Nella genesi di un’opera agiscono le questioni, le esigenze che all’autore si presentano come elementi che decidono del movimento del proprio tempo. Possono occupare una posizione più o meno centrale, o appariscente, nel dibattito riservato a determinati circoli culturali o anche agli occhi dell’opinione pubblica, e compito dell’autore è quello in primo luogo di individuarli, isolandoli dal materiale che, seguendo la logica delle mode, è avvertito come argomento “del momento”, e che “nel momento” si esaurisce. L’opera che la moda (oppure la mera contingenza) detta non presuppone un’analisi degli aspetti decisivi del proprio tempo, ma ne riflette, con maggiore o minore eleganza, le decisioni.
Per un filosofo come Domenico Losurdo, che non ha mai seguito o assecondato le mode ma ha sempre mantenuto libero e coerente lo sguardo su un obiettivo – «l’emancipazione politica e sociale dell’umanità nel suo complesso» (infra, p. 178) –, la prima domanda che occorre porsi di fronte a questo testo inedito (il primo lavoro monografico a essere pubblicato dopo la scomparsa, avvenuta il 28 giugno del 2018) è il perché abbia scelto di proseguire nel progetto di ripensamento del marxismo che ha animato l’ultima fase del suo pensiero. Non si tratta, come invece il titolo di lavoro del volume (La questione comunista a cent’anni dalla rivoluzione d’ottobre) potrebbe suggerire, di un testo che prende avvio da un’occasione, da una contingenza. Certo, si innesta nelle discussioni nate a partire dalla ricorrenza del centenario della rivoluzione del 1917, ma, fuori da ogni intento celebrativo e apologetico, La questione comunista intende articolare un bilancio storico dell’esperienza sovietica e del marxismo nel suo complesso. Non solo: Losurdo osserva il marxismo negli elementi che in esso confluiscono e in ciò che è capace, in un futuro prossimo o remoto, di produrre.
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La nuova governance fiscale europea fra mezze verità e metafisica
di Sergio Cesaratto (Unisi-Deps)
Anche a scopo didattico, pubblico alcune note sul Piano strutturale di bilancio che il governo sta discutendo con la Commissione Europea. Una sintesi è apparsa su Il Fatto del 31 ottobre 2024
Con il voto del Parlamento europeo e del Consiglio della UE, nell’aprile 2024 sono stati adottati i testi legislativi che delineano la nuova governance economica dell’Unione [1]
Obiettivi
L’obiettivo generale è portare il rapporto fra il debito e il PIL su una traiettoria plausibilmente discendente o mantenerlo su livelli prudenti, nonché per portare o mantenere il disavanzo al di sotto del 3 per cento del PIL nel medio termine.
Allo scopo ciascun paese deve presentare un Piano strutturale di bilancio (PSB ) che definisca il percorso di consolidamento necessario per realizzare gli obiettivi.
Al centro del nuovo assetto vi sono le analisi di sostenibilità del debito pubblico nel medio termine e il confronto tra ogni Stato membro e la Commissione per la definizione di una politica di bilancio appropriata, anche in relazione a piani di riforme e di investimenti. In tal modo si intende superare la logica delle regole valide per tutti (vedremo che non è poi così).
Obiettivi specifici
Il PSB deve assicurare che per gli Stati con un debito pubblico superiore al 60 per cento del PIL o con un disavanzo superiore al 3 per cento del PIL (come l’Italia) alla fine del periodo di consolidamento:
(i) il debito pubblico in rapporto al PIL si deve collocare su una dinamica plausibilmente decrescente nel medio termine o mantenersi su livelli prudenti al di sotto del 60 per cento;
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Un’intervista impossibile, ma plausibile, con Alessandro Manzoni
di Eros Barone
L’immaginazione può superare, se opportunamente controllata dalla ragione storica e dalla critica letteraria, i confini spazio-temporali che ci separano dalla figura e dall’opera di Alessandro Manzoni. Con l’aiuto di questi strumenti – immaginazione, ragione e critica – abbiamo avvicinato, a poco più di centocinquant’anni dalla sua morte, l’autore dei Promessi sposi, spingendoci in quella regione dell’aldilà dove egli si trova e dove, con il superiore permesso dell’Onnipotente, ci ha concesso la seguente intervista. Va detto che la conoscenza delle discussioni e dei problemi, anche recenti, che hanno contrassegnato la cultura italiana, europea e mondiale – conoscenza che traspare dalle sue risposte alle domande - non deve meravigliare se si tiene conto che egli è stato costantemente informato intorno a essi dai vari e qualificati ‘addetti ai lavori’ che della sua opera si sono occupati e che lo hanno via via raggiunto là dove egli si trova. Fra questi desideriamo citare, per affinità di orientamento e di sensibilità con l’intervistatore, almeno questi: Alberto Moravia, Italo Calvino, Umberto Eco, Edoardo Sanguineti e Alberto Asor Rosa.
* * * *
- Signor conte…
- Ma che conte e conte. Coloro che mi chiamano conte mostrano di non aver letto le mie opere. Io non sono conte e nemmeno nobile. Sono Alessandro Manzoni e niente altro. 1 Chi è lei, che cosa vuole?
- Mi scusi se la disturbo, Maestro (mi permetta almeno di chiamarla così, per antica deferenza), ma, veda, io mi sono arrischiato fin qua per parlare un po’ con lei: avrei alcune domande da farle… e l’Altissimo mi ha autorizzato a conferire con lei. Sia compiacente anche in grazia del mio gravoso mestiere…
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Perché Amerika si scrive con il kappa. Due libri di Salvatore Minolfi
di Mimmo Porcaro
Che la guerra russo-ucraina sia soprattutto l’effetto di un insieme di scelte occidentali, e che queste siano l’esito di tendenze profonde presenti da decenni nelle due sponde dell’Atlantico, è cosa di cui tutti, compresi coloro che devono per mestiere negare l’evidenza, sono consapevoli. Ma non tutti si chiedono da quanto tempo tali scelte maturino e quanto siano profonde e irreversibili le tendenze che esse esprimono: domande cruciali per chi voglia contrastare le une e le altre.
Nel suo recente, agile lavoro dedicato proprio al conflitto in corso, Salvatore Minolfi affronta di petto tali questioni e lo fa (anche sviluppando una sua precedente e più complessa ricostruzione del dibattito strategico statunitense post ’89) col metodo proprio dello storico: ossia attraverso l’attenta lettura dei documenti prodotti dall’amministrazione Usa e dall’affollato mondo di quegli “attori multiposizionati” (accademici, consulenti, think tank) che, variamente connessi sia alla politica che agli affari, codeterminano in maniera significativa le scelte dell’egemone mondiale[1]. E carta canta, verrebbe da dire: la chiarezza con cui in questi documenti vengono espresse le intenzioni delle élite Usa smentisce da sola qualunque teoria del complotto, mostrando come tutte le cose essenziali siano dette e fatte alla luce del sole.
Si vedano ad esempio, trai molti documenti citati dall’Autore, lo studio dell’influentissima Rand Corporation, significativamente intitolato Extending Russia, che riproponendo nel 2019 una versione aggiornata della strategia afghana anti-Urss, invita a costringere Mosca ad azioni militari talmente onerose da portare al collasso della Russia[2]; oppure il documento strategico 2021 della Casa Bianca dove si esplicita l’intenzione di dar vita a un nuovo ordine attraverso “distruzione e costruzione” anche riprendendo apertamente la strategia delle presidenze Bush: ossia la commistione tra merci, capitali e guerra[3].
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Narrare e insegnare l’Italia, le radici della questione identitaria
di Antonio Cantaro
La relazione di Antonio Cantaro al Convegno di Proteo-Fare-Sapere e del Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università Roma Tre (19 novembre 2024). Il tema dell’identità nazionale merita di essere preso sul serio. Problematizzato nella sua declinazione generale e criticato in quella di identità italiana proposta da Galli della Loggia e Loredana Perla
Identità nazionale. Un significante vuoto?
L’espressione identità nazionale è una scatola vuota, un significante che può essere riempito di molteplici, opposti, significati. Tuttavia, come tante ‘formule magiche’ (populismo, resilienza, e così via), i significanti vuoti si prestano, proprio in virtù della loro indeterminatezza, a essere riempiti di significati pregnanti, ‘normativi’, lato sensu costituenti.
Quando? Quando, veicolano una domanda di senso alla quale viene attribuito, a torto o a ragione, un superiore significato.
La domanda alla quale ci riferiamo oggi quando parliamo di identità nazionale è una domanda di appartenenza a una comunità, la Nazione. Una comunità candidata a coprire le insicurezze e lo smarrimento degli uomini del mondo globalizzato, specie di quelli che si sentono esclusi dai suoi benefici. Gli orfani della belle époque della globalizzazione, da tempo esemplarmente incarnati da quegli americani che al grido di USA USA hanno nuovamente incoronato le scorse settimane Donald Trump capo della nazione americana.
È questo l’auspicio anche di coloro che oggi cantano le “magnifiche e progressive sorti” dell’identità italiana. Un tema, dunque, da prendere sul serio. Ma che per essere preso sul serio sino in fondo esigerebbe che i suoi provinciali ‘apostoli’ giocassero a carte scoperte, rivelando innanzitutto le fonti intellettuali e ideologiche del significante identità nazionale.
E invece no. I neo-apostoli dell’identità italiana si ‘astengono’ dall’indicare persino la fonte internazionale più autorevole, lo scrittore nippoamericano Francis Fukuyama, della riabilitazione del tema dell’identità nazionale. Preferiscono rifugiarsi in citazioni aneddotiche e fuori contesto sul nazional-popolare, tema che andrebbe rimeditato anche alla luce delle perspicue considerazioni di Massimo Baldacci sulla pedagogia gramsciana (https://www.ospiteingrato.unisi.it/wordpress/wp-content/uploads/2021/05/9.4.-BALDACCI-La-scuola-attraverso-Gramsci.pdf.).
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Viaggio alle origini della rivalità fra Israele e Iran
di Roberto Iannuzzi
Gli eventi che hanno portato alla fusione di due questioni relativamente distinte, seppur legate dalla comune lotta anticoloniale: il conflitto israelo-palestinese e la questione iraniana
Il conflitto seguito all’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, all’inizio confinato principalmente a Gaza, si è progressivamente esteso al Libano, allo Yemen e al Mar Rosso, alla Siria e all’Iraq.
In questo contesto, la rivalità fra Israele e Iran, per anni manifestatasi come uno confronto indiretto e combattuto “per procura” su numerosi teatri mediorientali, sta sfociando in un pericoloso scontro diretto fra i due paesi, che potrebbe coinvolgere gli Stati Uniti e far deflagrare l’intera regione.
A prescindere dalla crescente espansione e intensificazione delle operazioni belliche nei teatri sopra citati, è stata la campagna israeliana di omicidi mirati a danno di esponenti di spicco del cosiddetto “asse della resistenza” filo-iraniano a provocare per la prima volta risposte dirette contro Israele da parte di Teheran.
Com’è noto, tale asse include Hamas e la Jihad Islamica in Palestina, Hezbollah in Libano, la Siria del presidente Bashar al-Assad, diverse milizie sciite in Iraq, il gruppo Ansar Allah (meglio noto come gli “Houthi”) nello Yemen, e naturalmente l’Iran.
Due episodi, in particolare, hanno rappresentato altrettanti punti di svolta in questa contrapposizione: il bombardamento israeliano del consolato iraniano a Damasco lo scorso 1° aprile, e quello violentissimo sulla Dahiya (il sobborgo meridionale) di Beirut del 27 settembre.
Nel primo sono rimasti uccisi tre generali della forza Quds della Guardia Rivoluzionaria iraniana (IRGC, secondo l’acronimo inglese). Il secondo ha eliminato fisicamente Hassan Nasrallah, segretario generale di Hezbollah, insieme ad alcuni dirigenti del gruppo e a un altro generale iraniano.
Entrambi questi attacchi hanno provocato una risposta missilistica iraniana diretta contro il territorio israeliano, evento mai verificatosi prima nella storia dei due paesi. La prima rappresaglia si è consumata nella notte fra il 13 e il 14 aprile, la seconda, militarmente più incisiva, in quella del 1° ottobre.
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Perchè proprio Sahra Wagenknecht?
di Fabrizio Marchi
Relazione introduttiva di Fabrizio Marchi alla presentazione del libro di Sahra Wagenknecht, “Contro la sinistra neoliberale”, avvenuta a Roma sabato 16 Novembre 2024
Abbiamo scelto di presentare il libro di Sahra Wagenknecht perché è sostanzialmente un manifesto politico, il manifesto politico di quello che poi è concretamente diventato un partito che ha ottenuto anche un notevole successo alle scorse elezioni amministrative in Germania e tutto fa pensare che possa bissare se non aumentare significativamente i propri consensi anche alle prossime scadenze elettorali.
Trovo che questo libro/manifesto e il soggetto politico che di fatto ne è scaturito sia la sola vera novità emersa nell’ambito di quella che chiamiamo Sinistra da almeno trentacinque anni a questa parte. Dico subito che sull’utilizzo di questo termine – Sinistra – sarà necessario aprire una discussione specifica e approfondita sia dal punto di vista dei contenuti che ovviamente sotto quello nominale e linguistico e anche storico e storico-politico perché questo termine, concetto o questa categoria, potremmo dire, da almeno quarant’anni ha subìto una mutazione radicale perché definirsi di sinistra ha ormai assunto un significato che non ha più nulla a che vedere con quello che aveva fino a cinquant’anni fa. Al punto che alcuni fra noi sostengono che in seguito a tale mutazione genetica ormai non abbia più senso definirsi di Sinistra o di “sinistra”, fra virgolette, come uso dire io, perché si verrebbe immediatamente identificati con le attuali “sinistre”, siano esse liberali, radicali o anche (pseudo) antagoniste. Del resto, nonostante le differenze, alla fin fine le “sinistre” radicali e anche quelle cosiddette “antagoniste” finiscono per portare acqua a quella liberale e maggioritaria (nell’ambito della sinistra); una sorta di gioco di matriosche, basti pensare, per portare degli esempi, al voto per la Salis candidata con AVS (cioè la costola ancor più rosa e di sinistra del PD) da parte di formazioni come PaP oppure all’eroina della Linke, Carola Rackete, che ha votato al Parlamento Europeo per l’utilizzo delle armi dell’UE sul suolo russo. Per non parlare naturalmente della sfera ideologica (con particolare riferimento alle questioni di genere, a quella lgbtq, alla maternità surrogata e in generale a tutti i temi che riguardano la cosiddetta sfera dei diritti civili) che vede tutte queste sinistre accomunate sotto la bandiera dell’ideologia politicamente corretta.
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Il marxismo e l'era multipolare - Parte II
di Leonardo Sinigaglia
2- La prassi come criterio della verità, il materialismo dialettico come metodo
Attraverso l’evoluzione teorica descritta, il marxismo è passato dall’essere l’idea di pochi circoli d’avanguardia a essere la forza trainante di alcuni tra i più grandi partiti e Stati al mondo, una forza determinante nello scenario internazionale da almeno un secolo, e mai come oggi vitale e potente. Ciò è stato possibile non solo grazie agli sforzi di numerose generazioni di rivoluzionari, ma soprattutto per un metodo, quello dato dal materialismo dialettico, fondato su un costante confronto con la realtà materiale, applicato tanto all’analisi teorica quanto alla prassi politica. Questo metodo parte dalla realtà e alla realtà ritorna, mettendo al bando ogni soggettivismo e deformazione unilaterale. Il criterio prescritto dal materialismo dialettico per avvicinarsi sempre di più alla verità non è l’adesione a dogmi aprioristici, ipse dixit, identitarismi estetici o sofismi verbali, ma la prassi. Solo la prassi, solo i fatti reali permettono di risalire alla verità.
“La questione se al pensiero umano spetti una verità oggettiva, non è questione teorica bensì una questione pratica. Nella prassi l’uomo deve provare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere immanente del suo pensiero”[1]. L’esame della pratica è l'unico metro adeguato per valutare la verità di un pensiero. Non ne esistono altri, e il marxismo correttamente riconosce ciò. Il problema della definizione del criterio per stabilire la verità non casualmente è scomparso da decenni dallo scenario politico dell’Occidente, anche nella variopinta galassia della cosiddetta “estrema sinistra” locale.
Influenzati dall’ideologia neoliberale e dal pensiero postmoderno, i “marxisti” occidentali sostengono, apertamente o meno, che esistano le verità, con ogni singola persona portatrice di una, o più, visioni qualitativamente equivalenti e parimenti valide. La realtà oggettiva viene negata a favore di una molteplicità di verità relative fondate sul gusto personale, sull’opportunità, sulla volontà soggettiva, che riflettono nient’altro che pensieri e sensazioni dell’individuo, che sceglie di rappresentare se stesso e quello che fa in un dato modo, di “identificarsi” come qualcosa (o qualcuno).
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Musk, Trump e Buffet si stanno preparando per la più grande rapina del secolo?
di OttolinaTV
Immaginati di investire 2.000 euro e, dopo 6 mesi, ritrovartene 500 mila: è esattamente quello che è successo a Elon Musk da quando ha fondato, nel maggio 2024, il comitato di azione politica a sostegno di Donald Trump America PAC; nei quattro giorni che hanno seguito l’oceanica vittoria di The Donald, solo le azioni Tesla sono passate da 231 a 331 dollari (+ 45%) ed è solo la punta dell’iceberg. Ieri, infatti, Trump ha annunciato la nascita di un nuovo ministero ad hoc: il Department of Government Efficiciency, il dipartimento per l’efficienza governativa (DOGE, per gli amici). Un nome, un programma: manco fossimo in un remake di Idiocracy, DOGE infatti è il nome della criptovaluta più amata da Elon Musk, l’unica che da 2 anni può essere utilizzata per fare acquisti sui negozi online di Tesla e che nell’arco di 48 ore è più che raddoppiata, raggiungendo una capitalizzazione di oltre 60 miliardi di dollari. A guidare il nuovo dipartimento, al fianco di Elon Musk ci sarà l’altro astro nascente delle oligarchie che si sono stufate di farsi rappresentare da politici – che, per quanto servili, risultano spesso troppo cauti e timidi – e hanno deciso di prendersi direttamente il governo del Paese; si chiama Vivek Ramaswamy e deve la sua popolarità, in particolare, a un best seller uscito nel 2021: Woke, Inc.: all’interno della truffa sulla giustizia sociale delle multinazionali americane. Come Musk (e come Trump), Ramaswamy ha capito una cosa fondamentale: nell’era del declino dell’egemonia neo-liberale e del politically correct, affermare in modo sguaiato che i froci, i negri e le zecche rosse hanno rotto i coglioni è un lasciapassare a prova di bomba per rapinare indisturbati i cittadini comuni, con il loro sostegno; mentre Ramaswamy, infatti, conduceva la sua popolare crociata contro la dittatura dell’ideologia woke, raddoppiava (nel giro di pochi anni) il suo patrimonio personale, fino a sfiorare quota 1 miliardo. Da un lato replicando in piccolo il modello BlackRock e Vanguard con il suo fondo di risparmio gestito Strive Asset Management (a sostenerlo, in particolare, Peter Thiel, co-fondatore e presidente di Palantir, che vede come primi azionisti, con oltre il 25% delle quote, proprio BlackRock e Vanguard); dall’altro, mentre insieme a Musk e Trump conduceva una crociata contro i vaccini Pfizer, con la sua Roivant Science con Pfizer firmava un corpulento accordo per la formazione di una nuova società focalizzata sulle malattie infiammatorie.
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Nichilismo fase suprema del servilismo
di Fulvio Bellini
Premessa: non esistono presidenti americani buoni
In questo articolo non faremo un’analisi delle elezioni americane vinte da Donald Trump simile a quelle che vengono pubblicate copiosamente in questi giorni, ne faremo una da un particolare punto di vista, quello di eminenti esponenti della sinistra neoliberale italiana. Nonostante pronostici e sondaggi, per chi ancora non ha compreso che sono solo strumenti di propaganda e che tutto fanno tranne rilevare le reali tendenze di voto, Trump ha letteralmente trionfato su Kamala Harris, che invece veniva data in leggero vantaggio fino alla vigilia delle elezioni. In questo articolo non si prenderanno le parti di Donald Trump il quale, semplificando eccessivamente perché il comportamento dei tre poli elitari americani, bostoniani, texani e californiani, non è tema di questo scritto, è un oligarca destrorso che rappresenta se stesso, la sua cerchia e altri oligarchi ancor più potenti di lui, e ogni riferimento a Elon Musk è puramente voluto. Tantomeno si piangerà la sonora e meritata sconfitta di Kamala Harris, un burattino di poca qualità politica che sarebbe stata nelle mani di altri oligarchi che abitano Wall Street, il New England e i prestigiosi quartieri ebraici di New York. Abusando delle categorie morali “buoni” e “cattivi” che tanto piacciono ai propagandisti occidentali, con le loro doppie misure, e con la larghezza colla quale affibbiano aggettivi di fascista e nazista oppure democratico e liberale a vanvera e in evidente contrasto colla realtà, dobbiamo solo ricordarci che dal 1789, nomina di George Washington, non sono mai stati eletti presidenti americani “buoni”. Utile alla nostra analisi possono essere alcune osservazioni sulla tornata presidenziale americana. Donald Trump ha il merito di aver semplificato e chiarito cosa siano gli Stati Uniti oggi: una palese plutocrazia, dove un gruppo di oligarchi ben più potenti e privi di scrupoli dei famigerati colleghi russi, pagano milioni di dollari per mettere un loro rappresentante alla Casa Bianca. A differenza dell’Europa, dove la condizione di province imperiali impedisce di avere alternative politiche a neoliberismo e atlantismo, da qui il fenomeno del Partito unico evidente in molti Paesi della Ue, nella metropoli imperiale vi sono reali strategie diverse e poderosi scontri d’interessi.
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Trump, Ahou Daryaei, tifosi del Maccabi: tre casi di propaganda emozionale
di Luca Busca
Negli ultimi anni la comunicazione mainstream si è fatta sempre più violenta e meno credibile. Il suo scopo sembra essere solo quello di dividere l’opinione pubblica in due fazioni, a loro volta frammentate in infinite frange, e di alimentare lo scontro in modo da rendere inconsistente il dissenso. Senza un’opposizione coesa e attiva, i crimini, come il genocidio palestinese, commessi quotidianamente contro l’umanità dai regimi propagandati da questo tipo di comunicazione diventano ammissibili, giustificabili.
Le occasioni per vedere all’opera questo sistema di comunicazione sono infinite. Per chi lavora nel settore riuscire a stare dietro a questa macchina propagandistica è un’impresa ciclopica, non si fa in tempo a disattivare una trappola che i media mainstream ne urlano un’altra all’unisono sulle loro prime pagine. Solo negli ultimi giorni è stato dato ampio rilievo a tre di questi inganni. Il primo, la netta vittoria di Trump alle elezioni presidenziali statunitensi, ha avuto grande risonanza in virtù della sua rilevanza internazionale. Gli altri due, la ragazza in biancheria intima che passeggia in un campus universitario in Iran e il pestaggio di tifosi del Maccabi in trasferta ad Amsterdam, pur incidendo molto meno sulla vita sociale occidentale, hanno avuto grande risalto nella propaganda di regime.
Nel primo caso la campagna elettorale della Harris è stata impostata, almeno in Italia dove comunque nessuno avrebbe potuto votarla, come l’ultima spiaggia per salvare la democrazia dal baratro trumpiano. Un po’ come nel Bel Paese i post-democratici del PD si presentano come baluardo contro il fascismo dilagante. Il risultato è stato identico in entrambi i paesi e ormai in buona parte del mondo Occidentale: i fascisti dipinti di rosso (chiamarli “sinistra” mi sembra una bestialità) vengono sistematicamente battuti dai fascisti di nero vestiti, nulla cambia e il Capitale trionfa sovrano.
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Trump, o della bancarotta globale del progressismo neoliberale
di Alberto Toscano
La clamorosa disfatta dei Democratici e la reincorazione di Trump sanciscono l’impossibilità di archiviare l’ascesa planetaria della politica reazionaria come un fenomeno transitorio. Al contempo, sollecitano l’urgenza di un’analisi approfondita, che non si limiti all’invettiva ma permetta di comprendere il perché siamo arrivati a questo punto, e dunque come sia possibile invertire la rotta. Alberto Toscano – autore dell’illuminante Tardo fascismo, dal 29 novembre nelle librerie – individua le origini del trumpismo nel fallimento del «progressismo neoliberale», politica che va da Macron a Harris. Una politica antifascista, conclude l’autore, non può perciò limitarsi a declamare continuamente il fascismo dell’avversario, ma necessita la costruzione di una logica diversa da quella del solo calcolo elettorale [1].
* * * *
La clamorosa sconfitta di Kamala Harris, quella che Benjamin Netanyahu e Viktor Orbán hanno salutato come una storica rimonta politica[2], spegne ogni speranza sull’idea che l’ascesa planetaria della politica reazionaria sia un fenomeno passeggero. Una campagna elettorale che celebrava la sua continuità incondizionata con il Partito democratico dei Clinton, di Obama e di Biden si è sgretolata di fronte a un candidato che ha sguazzato nelle accuse di fascismo con un’allegria ancora maggiore rispetto alle sue precedenti campagne elettorali, invocando la fucilazione dei rivali, giocando con la dittatura e soprattutto annunciando deportazioni di massa degli immigrati come suo principale obiettivo politico. L’imminente falò dei diritti e dei benefici sociali delineato dal Project 2025 non ha scatenato nelle urne una resistenza sufficiente. E nemmeno la dichiarata simpatia di Trump per i generali di Hitler o il carnevale di volgarità razziste al Madison Square Garden.
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La notte della ragione
di Matteo Nucci
Viviamo tempi di una mestizia atroce. Ci siamo collettivamente consegnati a un’interpretazione della realtà così priva del minimo senso critico che davvero mancano le parole. Si tira avanti mettendo da parte l’orrore pur di evitare la rabbia che scava negli intestini. Forse sarebbe anche sano rinchiudersi nella propria fortezza, se non fosse così pericoloso. Se il futuro non si facesse sempre più fosco. Gli episodi di Amsterdam sono un caso di scuola. Torniamoci sopra.
Le vicende degli scontri seguiti alla nota partita di calcio fra Ajax e Maccabi Tel Aviv hanno invaso le prime pagine dei quotidiani europei evocando lo spettro dell’antisemitismo. Ammetto di essere rimasto prima sconcertato, poi turbato dalla rabbia, e infine impaurito. Si tratta di una deriva pericolosissima, un gorgo inerziale a cui temo che non sarà semplice sottrarsi. Un pantano in cui miopia e ignoranza unite a un basso calcolo politico e ideologico, rischiano di riportarci davvero di fronte all’orrore.
La storia di questi giorni, infatti, potrebbe essere lasciata correre come uno dei classici casi in cui la superficialità dei resoconti dominante in questi tempi ha spinto le cose un po’ troppo in là. Purtroppo però si inscrive in un contesto che la rende significativa, anzi appunto esemplare. Ma andiamo con ordine. E cominciamo da quel che è accaduto. Ossia una storia del tutto diversa dai resoconti della stampa dominante. Non sto facendo riferimento a fonti alternative di una presunta controinformazione. Parlo dei rapporti offerti dalle autorità e in particolare dalla polizia di Amsterdam. I fatti sono stati spiegati più volte.
I tifosi israeliani del Maccabi, già noti per le posizioni razziste estremiste, sono sbarcati ad Amsterdam gridando slogan di questo genere “A Gaza non ci sono più scuole perché non ci sono più bambini olé olé olé”, “Let the IDF fuck the Arabs”, “Morte agli Arabi” e via dicendo (circolano testimonianze video esaurienti). Poi, in una città in cui la sensibilità per il genocidio a Gaza è alta, divisi in gruppetti sparsi per le vie, hanno strappato bandiere palestinesi pacificamente appese alle finestre dei palazzi, per distruggerle o bruciarle (in questo caso, almeno due sono i video davvero imbarazzanti).
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Chris Hedges: Scheda di valutazione dei genocidi
di Chris Hedges* - Scheerpost
Un rapporto delle Nazioni Unite, pubblicato di recente, descrive con agghiaccianti dettagli i progressi compiuti da Israele a Gaza nel tentativo di sradicare “l'esistenza stessa del popolo palestinese in Palestina”. Questo progetto genocida, avverte minacciosamente il rapporto, “si sta ora diffondendo in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est”.
La Nakba o “catastrofe”, che nel 1948 vide le milizie sioniste cacciare 750.000 palestinesi dalle loro case, compiere più di 70 massacri e impadronirsi del 78% della Palestina storica, è tornata con gli stessi effetti. È il prossimo e, forse, ultimo capitolo di “un trasferimento e una sostituzione forzata a lungo termine, intenzionale, sistematica e organizzata dallo Stato, dei palestinesi”.
Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967, che ha pubblicato il rapporto, intitolato “Genocidio come cancellazione coloniale”, lancia un appello urgente alla comunità internazionale affinché imponga un embargo totale sulle armi e sanzioni a Israele fino a quando il genocidio dei palestinesi non sarà fermato. Chiede a Israele di accettare un cessate il fuoco permanente. Chiede che Israele, come richiesto dal diritto internazionale e dalle risoluzioni delle Nazioni Unite, ritiri i suoi militari e coloni da Gaza e dalla Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est.
Come minimo, Israele, non controllato, dovrebbe essere formalmente riconosciuto come uno Stato di apartheid e persistente violatore del diritto internazionale, afferma Albanese. Le Nazioni Unite dovrebbero riattivare il Comitato speciale contro l'apartheid per affrontare la situazione in Palestina e sospendere l'adesione di Israele alle Nazioni Unite. In mancanza di questi interventi, l'obiettivo di Israele, avverte Albanese, probabilmente si realizzerà.
Potete vedere la mia intervista con Albanese qui.
“Questo genocidio in corso è senza dubbio la conseguenza dello status eccezionale e della prolungata impunità che è stata concessa a Israele”, scrive l' esperta. “Israele ha sistematicamente e palesemente violato il diritto internazionale, comprese le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e gli ordini della Corte penale internazionale.
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Filosofia della storia
di Salvatore Bravo
Speranza e futuribile
Il nostro tempo storico segnato da tragedie e da conflitti ha smarrito con la speranza la dimensione del “futuribile”. Per cancellare dalla dimensione politica il futuro il capitalismo utilizza una miriade di mezzi e strumenti, uno di questi è la cancellazione della cultura classica. Il deserto avanza con la polverizzazione della tradizione filosofica rea di conservare e trasmettere l’eccellenza della natura umana: il bene da rendere universale mediante la cura e la pratica sociale. Il futuro è possibilità esclusivamente umana ed esso prende forma solo con la definizione della natura umana mediante la quale si sottopone a giudizio onto-assiologico il presente storico. Il tempo è la dimensione del “senso”. La definizione di natura umana si esplica nella storia, pertanto essa non può che configurarsi secondo tonalità politiche. Il tempo presente è informe, perché non conosce la dimensione del bene-verità verso la quale orientarsi. Ciò che è informe non conosce il senso del limite e pertanto predispone al crimine. La tecnica contemporanea con le sue capacità di sorvegliare, condizionare e annichilire i dissenzienti trasforma il crimine relazionale in tragedia collettiva e prassi genocidiaria. Nel clima di normalizzazione legalitaria della violenza rileggere i Greci ci consente di acquisire concetti e strutture con cui valutare il presente per riorientarci verso il futuro.
Il testo di Luca Grecchi La filosofia della storia nella Grecia classica può esserci d’ausilio per emanciparci dalla barbarie del tempo presente e per consolidare la consapevolezza che senza il passato non c’è futuro. Comprendere la Grecia classica nella sua complessità-profondità veritativa ci consente di ricostruire la “dimensione di senso”, di cui siamo stati saccheggiati: il futuro conforme alla natura umana solidale e relazionale. A tal fine è necessario oltrepassare letture sclerotizzate e stereotipate della cultura greca antica secondo la quale la filosofia greca non conobbe che il tempo naturale circolare. La lettura documentata di Luca Grecchi dimostra che tale ermeneutica del tempo non esaurisce la problematizzazione e la teorizzazione greca della storia. Pregiudizi e letture semplicistiche non hanno consentito di cogliere il futuribile nella cultura greca.
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C'era una volta l'America
di Algamica*
Le elezioni americane erano molto attese quasi che esse avrebbero deciso le sorti del mondo su una serie di problemi in modo particolare in Occidente, ma – senza che ci nascondiamo la realtà – anche nel resto del mondo. Queste elezioni hanno eletto Trump. E ora?
Anticipiamo la nostra tesi: l’America non potrà più essere quella che finora è stata. Cerchiamo allora – brevemente – di chiarire ciò che è stata e perché non potrà più essere tale. Altrimenti parliamo del nulla.
Una prima considerazione
Le elezioni presidenziali degli Stati Uniti d’America appena consumatesi hanno rilevato un passaggio in avanti nella tendenza non lineare verso il crack degli Stati Uniti per come la storia moderna ha caratterizzato in maniera eccezionale l’America in relazione al resto del mondo contemporaneo che, recentemente, si affaccia sul comune mercato. Un passaggio, quello elettorale, che in Occidente dichiaravano essere storico e determinante per il futuro stesso delle democrazie occidentali.
Nell’aprile del 2023, in prefazione al libro di Michele Castaldo Modo di produzione e libero arbitrio, scrivevamo che negli ultimi 3 anni, «…nel cuore pulsante del capitalismo mondiale, gli Stati Uniti, abbiamo visto e sentito risuonare più volte l’infrangersi della cristalleria, mentre a Tel Aviv, in Israele, si assiste al persistere dei raduni di centinaia di migliaia di israeliani nelle proteste denominate “giornata della disgregazione”. Mentre scrivo questa prefazione, dalla California al cuore dell’Europa i capitali fuggono dalle banche, che inevitabilmente collassano e questa fuga non può più essere spiegata dallo schema delle bolle finanziarie che occasionalmente esplodono…».
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La dimensione economica e ambientale dell’AI
di Vincenzo Comito
Esistono stime contraddittorie sul potenziale economico dell’Intelligenza Artificiale, che abbisogna di grandissimi investimenti. Secondo i Nobel Acemoglu e Johnson anche i riflessi sul Pil mondiale saranno scarsi. Con impatto devastante sull’ambiente
Premessa
Le persone hanno certamente ragione nell’essere in generale colpite e interessate dai grandi progressi in atto nelle tecnologie digitali e dalle importanti promesse che comportano. Le nuove macchine e i nuovi programmi possono in prospettiva espandere in maniera massiccia le attività che possiamo fare e possono trasformare per il meglio le nostre vite, come ci ricordano due economisti statunitensi vincitori del premio Nobel per il 2024 nella loro categoria (Acemoglu, Johnson, 2023).
Ma forse tali entusiasmi andrebbero un poco frenati, dovrebbero lasciare lo spazio a valutazioni più realistiche di quello che ci attende, certo con tutti i possibili importanti avanzamenti, ma anche con tutti i problemi che l’innovazione tecnologica comporterà. Ed è questo il secondo aspetto delle considerazioni generali fatte in proposito dai due economisti sopra citati. Il futuro della tecnologia appare ben vedere strettamente legato alle decisioni prese in merito dagli uomini e dalle loro istituzioni.
In tale quadro, le note che seguono tentano di dare una visione per quanto possibile realistica delle prospettive che si possono intravedere almeno per quanto riguarda la dimensione economico-finanziaria e ambientale di queste conquiste dell’ingegno umano.
I profitti del settore
I sistemi di IA hanno bisogno di grandi impegni finanziari perché comportano fortissimi investimenti in ricerca, impegnando stuoli di persone di profilo elevato, risorsa peraltro abbastanza scarsa; presuppongono grandi capacità di calcolo che solo le grandissime imprese si possono permettere, hanno bisogno di grandi quantità di energia e di acqua.
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Perché quello israeliano è un genocidio
Andrea Legni intervista Francesca Albanese
Nei giorni scorsi, la Relatrice Speciale dell’ONU per i Territori Occupati Palestinesi, Francesca Albanese, ha presentato il proprio rapporto ufficiale nel quale si dettaglia come quello israeliano a Gaza sia da considerare, alla luce del diritto internazionale, un genocidio. Lo stesso report, che si intitola senza giri di parole Il genocidio come cancellazione coloniale, accusa i governi occidentali di aver garantito a Israele un’impunità che gli ha permesso di «diventare un violatore seriale del diritto internazionale». La relatrice italiana, ma che da molti anni vive all’estero, è stata attaccata con inaudita violenza: l’ambasciatrice statunitense all’ONU l’ha accusata di antisemitismo, mentre la lobby filo-israeliana UN Watch ha lanciato una campagna per cacciarla dalle Nazioni Unite con l’accusa di diffondere «antisemitismo e propaganda di Hamas». Accuse surreali alle quali risponde anche in questa intervista rilasciata in esclusiva a L’Indipendente. Lo fa senza arretrare di un millimetro, anzi dettagliando perché quella che Israele sta scrivendo a Gaza sia da considerare una delle pagine «più nere e luride della storia contemporanea» e denunciando il clima di intimidazione che colpisce sistematicamente chi, all’interno delle istituzioni internazionali, cerca di agire concretamente per inchiodare il governo israeliano alle proprie azioni.
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Poche settimane fa è stato ucciso il capo di Hamas Yahya Sinwar. I governi e i media occidentali hanno celebrato l’evento, affermando che la sua eliminazione abbia reso il mondo più sicuro e avvicinato la pace in Medio Oriente. Cosa ne pensa?
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I popoli africani contro l'imperialismo - 2. Kevin Ochieng Okoth
di Carlo Formenti
Il trittico africano, iniziato con le recensioni a due libri di Said Bouamama; prosegue con questo secondo post che anticipa la mia postfazione al libro Red Africa, di Kevin Ochieng Okoth che sarà in libreria per i tipi di Meltemi il prossimo 22 Ottobre. Ritroverete qui molti temi trattati nei lavori di Bouamama, come la critica dell’approccio “culturalista” (a partire dai miti della negritudine) al processo di emancipazione dei popoli post coloniali dal dominio imperiale dell’Occidente, e come il rifiuto del tentativo di liquidare il marxismo come “eurocentrico” e quindi inservibile per guidare le nazioni africane sulla via dello sviluppo autonomo. Rispetto a Bouamama, Okoth analizza più estesamente e a fondo il ruolo determinante che le lotte afroamericane hanno svolto nella formazione di uno spirito panafricanista rivoluzionario. Infine, come avrete modo di vedere, il punto di vista di Okoth appare più severo di quello di Bouamama nei confronti degli errori e delle scelte opportuniste delle élite che hanno guidato le lotte di liberazione nazionale (ma su questo tema tornerò in sede di conclusione dopo avere pubblicato la terza e ultima puntata di questo trittico, dedicata al pensiero di Cabral).
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Red Africa. Idee per riportare Marx in Africa
Mezzo secolo fa, una feroce controffensiva dell’imperialismo occidentale, guidata dagli Stati Uniti, stroncava la speranza dei Paesi non allineati, molti dei quali pervenuti da poco all’indipendenza, di imboccare la via dello sviluppo e della transizione al socialismo.
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