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Te la do io l'America! Note sulla mutazione del sistema politico italiano
Isidoro D. Mortellaro
Americanizzazione: un termine pesante assai. Proprio come il Novecento, che ne è stato marchiato a fuoco sin nel nome, American Century, affibbiatogli a quasi metà del cammino, nel 1941, da Henry Luce. E pesante è il ruolo che esso ha giocato nelle ultime elezioni italiane – e ora nell’interpretazione del cataclisma - soprattutto a sinistra.
Qui, come clava, è stato volenterosamente impugnato, agitato e usato da tutte le parti. Non proprio nel dibattito politico e culturale: esilissimo e certo non votato a imperitura memoria. I colpi si sono concentrati, piuttosto, nella affannosa difesa del proprio spazio o nella astiosa damnatio dell’altrui. E in questa devastante resa dei conti gli antagonisti si sono mossi da opposte sponde in sincronica, culturale concordia: sia che fosse Veltroni a magnificare il proprio distacco dall’eterna guerra civile europea, da un vecchio che non muore, da logore casacche («Gli occhi degli italiani hanno visto troppo odio e divisioni in questi anni… non ci sono due Italie separate da muri invisibili.
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Undici tesi dopo lo Tsunami
Proteo o Anteo? La sinistra sulle proprie tracce
Centro Studi per la riforma dello Stato
Quando la politica non sa più parlare, il ceto politico parla solo a se stesso di se stesso, non interpreta la società e ne rincorre le pulsioni
1. CAMBIO DI PASSO
Aprile 2008: va rilevato il tratto di discontinuità, forse di salto. Non si può riprendere il discorso dall'heri dicebamus. Occorre un cambio di passo, nella ricerca e nell'iniziativa. Non stava scritto che la transizione si chiudesse a destra. Ma così è avvenuto. E tuttavia non è la sorpresa il sentimento dominante: i segni c'erano, nel paese, e anche a Roma. Perché non siano stati letti, è il problema. D'altra parte, non è la paura il sentimento che ci deve dominare. Non c'è Annibale alle porte, non ci sarà un passaggio di regime. C' è una nuova destra, di governo, e di amministrazione, da sottoporre ad analisi e da contrastare nella decisione, con uno scatto di pensiero/azione.
2. DOPPIO FALLIMENTO
Si conferma il dato, che viene da lontano, di una maggioranza di centro-destra nel paese reale. Negli ultimi quindici anni, l'opinione di centro si è avvicinata all'opinione di destra. Se la Dc era un centro che guardava a sinistra, Forza Italia è un centro che guarda a destra. Questo ha dato l'illusione che ci fosse un residuo di centro da conquistare a sinistra.
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L'estetica di Superciuk
di Franco Ricciardiello
La semplificazione non è una scorciatoia per rappresentare un’idea in maniera sintetica: è un processo di riduzione che elimina tutte le sfumature, per arrivare a un contrasto bianco/nero, uno/zero, inutile per una vera comprensione. La semplificazione riduce la capacità di pensiero. Per tentare una comprensione del mondo, la complessità è indispensabile: abbiamo bisogno di una mappa efficace per descrivere un territorio di complicazione tale da risultare irriducibile. La semplificazione imbarbarisce il senso estetico, la percezione della complessità invece ne favorisce lo sviluppo.
Fatta questa premessa, se dovessi scegliere un modello per rappresentare l’italiano di oggi — con la debita prevenzione intellettuale per la semplificazione — la prima figura che mi verrebbe in mente è Superciuk, l’anti-patico anti-eroe del fumetto di Max Bunker, Alan Ford/Gruppo TNT, il Robin Hood alla rovescia che ruba ai poveri per donare ai ricchi.
Anzi, persino questa è una semplificazione: Superciuk trafuga, per esempio, elettrodomestici acquistati a rate pluriennali da famiglie proletarie per regalarli a capitani d’industria che li sistemeranno nella villa al mare, dove magari soggiornano una volta all’anno per pochi giorni.
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Una 'rivoluzione copernicana' non impossibile
di Dino Greco
Intervento di Dino Greco alla presentazione della I Mozione
L’esito del voto è così eloquente da non lasciare margini di equivoco. Il cartello della Sinistra Arcobaleno, unita sotto il nuovo simbolo, raccoglie a Brescia e provincia il 2,6%, la Lega il 27,2: dieci volte tanto. E sono, in gran parte, voti di popolo, voti operai. Ma non è un fulmine a ciel sereno. Di eclatante c’è l’annientamento della rappresentanza parlamentare dell’intero arcipelago rosso-verde, ma il processo politico è da tempo sotto gli occhi di tutti. Anche se si è fatto di tutto per esorcizzarlo, per sovrapporre alla realtà una comoda (ma quanto autolesionistica!) interpretazione ideologica: quella per cui gli operai -e qui ce ne sono tanti- non possono che stare a sinistra. Dunque, abbiamo a che fare con un sommovimento profondo della società che ha ridislocato parte consistente di quegli strati sociali che la sinistra avrebbe l’ambizione di rappresentare. Oggi lo si scopre attraverso il trauma elettorale che di quel processo è l’espressione contabile, l’effetto, non la causa. Ma se la crisi della sinistra ha questa dimensione, non provvisoria e perciò non transitoria, sarebbe letale attendersi resurrezioni a breve.
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Un piano inclinato chiamato Italia
Marco Revelli
Solo uno sguardo esterno, si direbbe, può ormai vedere e denunciare il degrado civile e morale del nostro Paese. C'è voluta l'Onu, nella persona dell'Alto Commissario per i diritti umani Louise Arbour, per dirci che il decreto legge sulla sicurezza e il reato d'immigrazione clandestina sono un obbrobrio giuridico. Come c'era voluta una parlamentare europea, Viktòria Mohacsi, di origine rom, a capo di una commissione d'indagine, per dire che quello che si stava compiendo in Italia aveva un nome atroce e antico, pogrom.
E che la situazione nei campi nomadi italiani «è orribile», fuori da ogni standard civile. E come c'era voluta, ancora una volta, un'autorità comunitaria per qualificare le decisioni del governo Berlusconi prese a Napoli sul problema dei rifiuti per quello che sono: pericolose, demagogiche, autoritarie e inefficaci. Prima ancora erano stati gli spagnoli, a ricordarci il significato di termini come razzismo e xenofobia.
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Le mozioni di Rifondazione
Rossana Rossanda
Non si può dire certo che si siano precipitati in molti a leggere le mozioni per il congresso di Rifondazione Comunista che si terrà a luglio. Forse il fatto che sarà un congresso, e drammatico, a deciderne a maggioranza le fa considerare più pretesti che testi. Ma a torto. Sono la prima riflessione, bruciante, su se stessa della sinistra che è stata esclusa dalla rappresentanza politica e della quale Rc è stata per diciasse anni la parte maggiore e determinante. Il congresso dovrà decidere - si è detto e scritto - se Rc si dovrà confermare come partito o mettersi in discussione in una costituente con le altre parti della sinistra sconfitta che ne sentano il bisogno. In verità si è già deciso: sarà il partito stesso a definire la sua sorte, il che ha una sua logica.
Tutti sappiamo però che cosa è il congresso di un partito e quali altri meccanismi, non inerenti alle mozioni, prepotentemente vi giochino, quali che siano in partenza le intenzioni delle parti in causa.
D'altra parte, non conosciamo altre forme del far politica che non ne ripetano, e non sempre in meglio, le liturgie: femminismi, ambientalismi, movimenti non sono riusciti a risolvere il dualismo fra pluralità e unità, e a non frammentarsi, con ferite e strida.
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Il caso Ahmadinejad
Zuppa, pan bagnato e veleni propagandistici
Pino Cabras
Mahmūd Ahmadinejād lo vedo proprio male.
I fucili dei media sono tutti puntati su di lui, e lui che fa? Se ne esce con brutte frasi su Israele, ancora una volta.
È già da tempo nel mirino, quello di chi lo disegna come un onnipotente dittatore che indirizza tutte le sue risorse militari verso un sogno di egemonia bellica. L’ennesimo “nuovo Hitler” da strapazzare come i precedenti “nuovi Hitler”, si chiamassero Saddām, Gheddafi, Noriega, Milošević.
E lui niente. Si tuffa ancora una volta incurante, a capofitto, nel tritacarne dei media.
In questo inizio di giugno 2008 non c’è giornale, da destra a sinistra, da est a ovest, che non scriva in prima pagina che il presidente iraniano, di nuovo, ha tuonato che Israele «è alla fine e verrà presto eliminato dalle carte geografiche».
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Le radici storiche della fame
di Piero Bevilacqua
Se ne parla ormai con allarme da molti mesi. Agli abituali 800 milioni e passa di affamati annualmente censiti dalla FAO se ne va aggiungendo un numero imprecisato che aumenta di giorno in giorno.Analisti e commentatori hanno chiarito soprattutto le ragioni congiunturali di ciò che sta avvenendo: crescita della domanda, soprattutto di carne e quindi di mangimi nei Paesi emergenti, annate di prolungata siccità in importanti regioni cerealicole, vaste superficie di suoli convertiti ai biocarburanti, aumento del prezzo del petrolio, speculazione finanziaria sui titoli delle materie prime, ecc. E tuttavia l’attuale fase non è un congiuntura astrale, il fatale combinarsi di “fattori oggettivi”. Luciano Gallino, su Repubblica , ha ben messo in luce le responsabilità dell’Occidente nel determinare le condizioni dei nostri giorni. Ma le responsabilità non sono solo recenti, rimandano a una storia di scelte e di strategie che occorre rammentare se si vogliono trovare soluzioni durevoli a un problema di così scandalosa gravità.
La diffusione epidemica della fame nel mondo ha una origine storica ormai non più recente.Essa nasce con la rivoluzioneverde avviata dagli USA negli anni ’60 in vari Paesi a basso reddito e proseguita con crescente intensità nei decenni successivi. Quella rivoluzione venne definita verde perché essa aveva il compito strategico di contrastare, nelle campagne povere del mondo, l’onda rossa del comunismo.
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List oltre Marx: il nuovo libro di Gianfranco La Grassa
di Emiliano Brancaccio e Rosario Patalano
Dei cumuli di macerie ci si libera anche lasciandosi alle spalle i feticci di un passato recente non proprio glorioso: un’abusata “correttezza politica”, così come una spesso pelosa, ridondante “non violenza”. Un commento al nuovo libro di Gianfranco La Grassa (Finanza e poteri, manifestolibri) fa dunque esattamente al caso nostro. Con uno stile volutamente scorretto, bellicoso, talvolta gratuitamente viscerale, La Grassa è riuscito in questi mesi ad attirare una certa attenzione sul sito www.ripensaremarx.it, che raccoglie le sue ultime tesi e le sviluppa in un lavoro collettivo – a cura di Gianni Petrosillo - espressamente finalizzato alla uscita definitiva dal marxismo e alla resa dei conti finale con gli ultimi eredi politici di quella gloriosa tradizione. Diciamo subito con franchezza che sul piano teorico generale questa ambiziosa operazione a nostro avviso non riesce, per i motivi che vedremo. Ciò nonostante, come avremo modo di osservare, il contributo di La Grassa offre spunti importanti per la riflessione e per il posizionamento politico, ed è soprattutto per questo motivo che esso merita di esser letto e attentamente valutato.
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I veri nodi in gioco nell'agenda di Rifondazione
Alberto Burgio
Se Rifondazione comunista non riesce a essere sede di un «lavoro comune di indagine e proposta» per l'elaborazione di una «visione comune» alle forze della sinistra; se non riprende il cammino della Sinistra Arcobaleno, bruscamente interrotto dalla disfatta elettorale, allora il suo travaglio è sterile e insignificante. In questo caso, «che ci importa del suo congresso?». Così Rossana Rossanda chiude la sua lettera a Rifondazione (il manifesto, 17 maggio 2008). Provo a rispondere non eludendo la questione. Cruciale, ma alquanto dilemmatica.
Rossanda mette in chiaro quel che a lei, «vecchia comunista», sta più a cuore. Il problema dei problemi è il lavoro, la solitudine del lavoro dipendente. Sul piano materiale, il problema si chiama precarietà, basso salario, disoccupazione. E ancora: peggioramento delle condizioni di lavoro (ritmi, orari di fatto, carichi, ripetitività, infortuni); non riconoscimento delle prestazioni reali; aumento delle differenze normative e salariali, oggi tra segmenti della stessa filiera, domani tra singoli dipendenti della stessa impresa. Queste alcune delle questioni essenziali.
Che cosa comporta una simile impostazione? Forse che ci si disinteressi degli altri terreni di conflitto: delle questioni ambientali e istituzionali, delle differenze di genere e dei diritti civili, della guerra e dei diritti umani? Naturalmente no. Certo però porta con sé, questa impostazione, una prospettiva influente sulla lettura della realtà: una direzione dello sguardo, suggerita da un principio ordinatore. Se si ritiene cruciale un terreno di conflitto, ciò non deriva da opzioni personali di gusto o di interesse, ma dal modo in cui si leggono processi e conflitti. E questo modo rimanda a sua volta a un quadro di riferimento, a una ipotesi teorica, a una cultura politica.
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Draghi, l'ultimo ultrà del liberismo
di Emiliano Brancaccio
«I protagonisti della ripresa devono essere coloro che hanno in mano il futuro: i giovani, oggi mortificati da un'istruzione inadeguata, da un mercato del lavoro che li discrimina a favore dei più anziani, da un'organizzazione produttiva che troppo spesso non premia il merito. Il consenso sulle cose da fare è vasto, ma si infrange nell'urto con gli interessi costituiti che negli ultimi anni hanno scritto il nostro impoverimento».
Con queste parole il governatore della Banca d'Italia Mario Draghi ha terminato ieri le sue Considerazioni finali. Per il governatore l'ostacolo principale allo sviluppo del paese verte dunque essenzialmente sul conflitto tra le generazioni, tra giovani lavoratori precari e vecchi lavoratori garantiti. E' questa una interpretazione non nuova, che tuttavia non può lasciarci indifferenti. Bisogna riconoscere infatti che quella tra le generazioni è una frattura reale, che del resto è solo una delle molteplici crepe che sono andate formandosi nella composita struttura della classe lavoratrice: si pensi ai conflitti più o meno latenti tra lavoratori del settore pubblico e lavoratori del settore privato, tra para-subordinati e dipendenti, tra settentrionali e meridionali, tra immigrati e nativi, tra donne e uomini. In buona parte, la crisi del movimento dei lavoratori e delle organizzazioni politiche e sindacali che facevano capo ad esso può esser fatta risalire proprio alla tendenza funesta a subire - e talvolta persino ad assecondare - anziché contrastare le voragini contrattuali e normative che hanno progressivamente diviso e isolato i singoli individui sociali, e che hanno drammaticamente compromesso l'antica ambizione dell'unità di classe.
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Vattelapesca forever
di Carlo Bertani
“Puoi raggiungere risultati altamente superiori con un team molto motivato, che dispone di macchinari vecchi e fatiscenti dislocati in un vecchio capannone, rispetto a quello che riuscirai a raggiungere con un team demotivato e privo di stimoli, che ha accesso alle migliori attrezzature e infrastrutture.”
Reinhold Würth, imprenditore tedesco che ha costruito, partendo da una ferramenta, un’azienda di levatura mondiale, che occupa 51.000 dipendenti e che spazia dai sistemi di fissaggio ai pannelli solari.
A dire il vero, non meriterebbe nemmeno d’interessarsi alle vicende della misera borghesia italiana, tanto è diafana e poco incisiva nel panorama europeo; verrebbe da dire: lasciamo questi poveri parvenu in SUV al loro misero destino, se il loro fato non intersecasse il nostro.
Era tanto tempo che non s’udiva un condensato di bugie e pessime intenzioni – di tal, miserrimo livello – in una relazione di Confindustria: anche gli imprenditori italiani confermano l’andamento “in picchiata” del Paese.
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Prima che sia troppo tardi
di Marino Badiale e Massimo Bontempelli
1. I conti tornano
Le elezioni politiche dell’aprile 2008 segnano un momento importante nella storia del nostro paese. Si tratta della fine della sinistra in Italia. Nel Parlamento italiano uscito da quelle elezioni non è presente nessun partito che si definisca, o possa essere definito, come “sinistra”. Non si tratta di un fatto congiunturale. Naturalmente continueranno ad esistere realtà politiche, sociali, culturali che si definiranno “sinistra”, e può anche darsi che tornino ad essere presenti in Parlamento. Ma si tratterà di realtà sempre più secondarie e residuali. La fine della sinistra ha infatti una radice profonda, strettamente legata ai caratteri della fase attuale e alla natura essenziale della sinistra stessa.
Come abbiamo cercato di mostrare ne "La sinistra rivelata” [1], la sinistra è stata caratterizzata, nei due secoli della sua esistenza, dal binomio “sviluppo ed emancipazione”: è stata cioè la parte politica, sociale e culturale che ha lottato per l’emancipazione dei ceti subalterni promuovendo lo sviluppo economico e tecnologico. Questa congiunzione è stata possibile perché, fino a tempi recenti, sviluppo ed emancipazione erano compatibili. Ma la situazione è completamente cambiata negli ultimi decenni. La fase storica che, utilizzando termini imprecisi ma ormai di uso comune, viene chiamata “globalizzazione” o “neoliberismo” rappresenta, fra le altre cose, il momento in cui sviluppo ed emancipazione si separano e si contrappongono.
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Rifiuti urbani e rifiuti umani
di Guido Viale
L'abbinamento tra rifiuti urbani e rifiuti umani è un dato di fatto, consolidato dal tono e sempre più anche dalle parole dei politici impegnati sul fronte della "sicurezza". I primi, i rifiuti urbani, sono lo scarto e il residuo non consumato dei nostri "consumi", cioè di quello che ciascuno di noi compra tutti i giorni. I secondi, i rifiuti umani, sono lo scarto, il residuo non assimilato, dell'ininterrotto processo di riorganizzazione e di riconfigurazione della società. Ma la "società" siamo noi e anche i rifiuti sociali sono un nostro prodotto.
Generiamo i rifiuti urbani individualmente, ciascuno per conto proprio, ma all'interno di processi di produzione-consumo-scarto in larga parte predeterminati da altri. Produciamo rifiuti sociali collettivamente e anonimamente; ma poi ciascuno di noi deve fare i conti con la propria coscienza: con il grado e la misura in cui partecipa alla formazione e alla conferma dei processi di esclusione in atto; che possono portare anche molto lontano: per esempio all'incendio di campi nomadi e al rogo di chi ci abita, riedizione plebeo-leghista ("nord e sud uniti nella lotta") del porrajmos con cui i nazisti hanno a suo tempo sterminato mezzo milione di zingari.
L'abbinamento tra rifiuti urbani e rifiuti umani non dovrebbe destare scandalo perché è una verità comprovata; e può suscitare indignazione solo se e quando questo sentimento diventa il filo conduttore per fare i conti con il problema e cercare di venirne a capo.
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Dolce stil novo
Rossana Rossanda
A che servono le imprecazioni? A niente, salvo che a dare uno sfogo ai nervi di chi vi si abbandona. Ebbene stavolta lo farò io. Ho un'età venerabile e sono fuori di me per quel che succede da tre giorni in qua. Fossero infuriati tutti, o almeno un italiano su due, capirei. Ma no, quel che manda me fuori dei gangheri scivola tranquillo su tutti o quasi. Specie sull'opposizione. Il che non è l'ultima ragione di collera. Quindi non le sole note concettose e noiosette, ma uno sfogo furibondo.
Sono tre giorni che di notizie stupefacenti ne arriva una ogni mezz'ora. Cominciamo dal metodo. Prima riunione del governo nel Palazzo reale di Napoli. So bene che aveva cominciato il governo Prodi andando a Caserta. Scopo? Essere vicini alla gente del sud. Ma non mi pare che i casertani ne fossero stati coinvolti e rapiti. Stavolta poi Napoli era blindata, Berlusconi vi è entrato come un conquistatore, e guai a chi si avvicinasse. Unici a vederlo, i giornalisti accreditati alla conferenza stampa.
Arrivo, consiglio, partenza. A ogni buon conto, popolo niente. Che senso ha avuto e quanto è costata questa esibizione, compresi viaggi, pasti, trasferte, transenne e polizia, stavo per dire carri armati e mezzi di sbarco, lucidature extra del Palazzo Reale? Spero che un deputato lo chieda. Spero che un gruppo di deputati voti coralmente una mozione che impegni i ministri a riunirsi a Palazzo Chigi, recandovisi possibilmente in autobus, limitando le forze dell'ordine alle sentinelle che ci sono sempre. E che interdica ai futuri governi della Repubblica di farsi una per una tutte le regge d'Italia che, data la storia nazionale, sono troppe.
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L'ideologia del sacro fuoco
Guido Viale
Nessuna novità di rilievo, rispetto alle anticipazioni, nelle notizie relative alla strada scelta dal governo Berlusconi per portare la Campania fuori dall'emergenza rifiuti. Si continua a ritenere che gestire i rifiuti, anche in situazioni di crisi estrema come quella campana, si riduca a costruire degli inceneritori e aprire delle discariche: la stessa idea che era alla base del Piano Regionale varato 14 anni fa dalla Giunta campana di Rastrelli - e poi confermato da Bassolino e dagli altri commissari - che prevedeva la costruzione di ben 24 inceneritori.
Che poi sono stati ridotti a 13, poi a 3, poi a uno solo - ma di dimensioni immani - mentre nel frattempo, in attesa di accendere il loro fuoco purificatore, non si è fatto altro che cercare siti vecchi e nuovi per aprire o riaprire discariche dove sotterrare la montagna crescente dei rifiuti che ogni giorno la regione produce, e che ogni giorno si accumula o riaccumula sulle strade. Di fonte a questo, la soluzione proposta dal governo si articola in quattro punti.
Più inceneritori
Quattro inceneritori, e non più solo tre: a quello mai finito di Acerra si dovrebbero aggiungere quelli già programmati di S. Maria La Fossa e di Salerno e un quarto a Napoli. Dei nuovi impianti non è stata comunicata la capacità. L'inceneritore di Acerra ha una capacità di 700.000 tonnellate all'anno di Cdr. Se i tre nuovi inceneritori fossero altrettanto grandi, si arriverebbe a quasi tre milioni di tonnellate: più di tutti i rifiuti prodotti dalla regione in un anno.
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La verità messa in scena
di Vladimiro Giacché
Giornali e televisioni ci offrono quotidianamente un'ampia fenomenologia della menzogna. La verità viene attaccata, negata e contraddetta nei modi più diversi. Può venire mutilata (come quando si parla delle foibe tacendo i precedenti crimini di guerra commessi dall'esercito italiano in Jugoslavia) o semplicemente rimossa, può venire capovolta o essere semplicemente imbellettata facendo uso di definizioni che distorcono il significato degli eventi (come quando si definisce la guerra "operazione di polizia internazionale"). Tutte queste modalità di negazione della verità sono importanti. Ma forse è la verità messa in scena quella che meglio esprime il nostro tempo.
Un tempo le verità inconfessabili del potere potevano agevolmente essere coperte dal segreto (gli arcana imperii). Oggi, nell'epoca dei mezzi di comunicazione di massa e della politica mediatizzata, il silenzio e il segreto sono armi spuntate.
Perciò, quando serve (e serve sempre più spesso), la verità deve essere occultata o neutralizzata in altro modo. In particolare sostituendo una realtà virtuale a quella reale: offrendo versioni di comodo dei fatti, dando il massimo rilievo a questioni di scarsa importanza (così da distrarre l'attenzione dai problemi reali), inventando pericoli e nemici inesistenti per eludere quelli veri.
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Incubi economici allo specchio di un fragile senso di comunità
Luigi Cavallaro
Proiettando sui «nemici» esterni le cause dell'impasse europea, Giulio Tremonti nel suo libro «La paura e la speranza» interroga implicitamente anche la sinistra sulla sua capacità di trasformare le differenze in elementi di complessità interna alla struttura sociale I timori di cui parla Tremonti nel suo pamphlet sono quelli che hanno in larga parte determinato gli esiti delle elezioni di aprile e derivano da politiche economiche sbagliate, che hanno eretto
Dell'ultimo libro di Giulio Tremonti si è parlato molto, specie da quando la vittoria del Popolo della libertà alle elezioni del 13 e 14 aprile ne ha fatto uno strumento non solo per «interpretare il mondo» ma, per continuare nella metafora, potenzialmente anche per «trasformarlo». È un libro - va detto subito - che vale la pena leggere, e con attenzione. Nel diluvio di pamphlettistica d'infima qualità, dedita pressoché esclusivamente a puntare l'indice indignato sui privilegi e le malefatte delle varie «caste», La paura e la speranza (Mondadori, pp. 112, euro 16) recupera la vocazione originaria del pamphlet come luogo in cui il chierico distilla il proprio sapere e ne fa strumento di «battaglia intellettuale e morale» per il popolo cui è organico.
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Così infatti procede Tremonti: con stile conciso, icastico, fatto di proposizioni brevi che si succedono rapide come aforismi.
Né è casuale che, ciononostante, esse riescano a descrivere nitidamente il «mondo grande e terribile» che abbiamo davanti, proprio come un lampo che squarcia l'oscurità della notte: al contrario, è una conseguenza del fatto che, per Tremonti, la realtà ha una «durezza» (vorremmo dire: un'oggettività) che non si piega alle interessate «interpretazioni» di chi è al governo o all'opposizione.
«La meteorologia non fa il tempo, non decide quando splende il sole o quando piove, ma aiuta a navigare. I marinai sanno che non si governa il mare ma la nave, che si manovrano le vele e non il vento», scrive il ministro dell'Economia: e in questa affermazione si coglie lo scarto che separa la concezione del mondo racchiusa in questo libretto da quella vagamente new age che ha ispirato (e ispira) l'intellettualità «liquida» post-sessantottina, nella sua variante modernizzatrice propria degli «integrati» come in quella millenaristica degli «antagonisti».
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Lettera a Rifondazione
di Rossana Rossanda
Si può capire che dopo la batosta la ex Sinistra arcobaleno sia in sofferenza. Dovrebbe esserlo anche il Pd, dato che il disegno di prendere voti al centro è fallito, ma il suo leader è inossidabile, fa le fusa con Berlusconi perché quel che in primo luogo preme a tutti e due è riconoscersi l'un l'altro come il solo interlocutore su piazza. Per la Sinistra arcobaleno non c'è invece conforto possibile. La scomparsa dal parlamento ha mandato a pezzi il progetto di rimescolare le sinistre residue, e il fatto che ognuna soffra e se ne vada per conto suo dimostra che era davvero fragile. Quel che non è comprensibile è che si domandino così poco il perché del fallimento. Tutti lamentano di non essere stati capiti o non essersi fatti capire; si fa la festa ai gruppi dirigenti dei quali si chiedono le dimissioni o si hanno addirittura senza chiederle. Tutti scoprono l'ombrello, cioè che la Lega è radicata nel territorio, mentre in nome della modernità ci si è affidati più alla tv che alla frequentazione di coloro cui si chiedeva il voto.
In convulsione è soprattutto Rifondazione: perché la sciagurata ha partecipato al governo? Non ci doveva andare, doveva appoggiarlo dall'esterno. Ma non vedo che cosa sarebbe cambiato: o ne votava volta per volta le leggi, rinunciando a portarvi dall'interno anche quel poco che è riuscita a introdurvi, oppure non le votava, e il governo sarebbe caduto fra gli strepiti contro la sua «irresponsabilità».
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Scopriamo le carte per la nuova rappresentanza
Tiziano Rinaldini
Dopo il disastroso risultato elettorale e le non meno disastrose dinamiche che ne sono derivate all'interno dei partiti dell'Arcobaleno, è non solo comprensibile, ma auspicabile ricercare rapporti unitari tra le forze di sinistra e costruire luoghi di relazioni (forum) tra i «movimenti» o le associazioni, le organizzazioni, ma non si può confondere questo con il problema di una nuova forza politica della sinistra. Su questo piano si pongono questioni inevitabili per chiunque se ne dichiari interessato.
La prima di queste questioni è il riconoscimento che non si può non prendere atto che al problema non è interessato chi ritiene che la prospettiva politica della sinistra vada ricercata per l'oggi e per il domani nella riproposizione pura e semplice delle identità delle esperienze con cui nel '900 è stata prevalentemente interpretata la storia del movimento operaio, né chi a fronte di questa crisi della rappresentanza ritiene che ciò sia positivo non perché apre il problema di ripensarne forme e contenuti, ma perché lo ritiene uno sbocco che finalmente ci libera da un falso problema. Sono posizioni, linee di pensiero e di pratica politica notoriamente presenti, rispettabili e con cui confrontarsi, ma non certo interessate a un processo di costruzione di una nuova rappresentanza politica della sinistra.
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«Attenti al valore del contratto»
Antonio Sciotto
Il sociologo Gallino e il testo dei sindacati: il livello nazionale è l'unico che crea una reale redistribuzione, la riforma rischia di indebolirlo. Bene la rappresentanza, ma manca una ricetta per i precari
Profondo conoscitore del mondo del lavoro e delle imprese, il sociologo Luciano Gallino ha analizzato il testo di riforma dei contratti approntato da Cgil, Cisl e Uil, e nota subito «un'importante assenza», relativa al ruolo del contratto nazionale. Dall'altro lato, ritiene poco chiari e inefficaci, concetti come l'«inflazione realisticamente prevedibile» e la contrattazione «accrescitiva» di secondo livello, basata su parametri quali la «redditività» o la «produttività».
Professore, come verrebbe ridisegnato il sistema contrattuale?
Leggendo il testo, mi pare che ci sia un'assenza importante, relativa a un ruolo incisivo del contratto nazionale: perché la funzione fondamentale del primo livello è stata, storicamente, quella di tutelare la distribuzione del reddito tra salari da un lato, e profitti e rendite dall'altro.
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Immaginario e senso comune
di Enrico Livraghi
L'alluvione ha investito tutti. Ha spazzato via la sinistra cosiddetta arcobaleno (impronuciabile sintagma), ma ha fatto franare anche la supponenza autocratica del PD di Walter Veltroni (un vero e proprio stratega da pizzicheria). E però non ha lasciato indenni neppure i movimenti, che infatti, se non hanno mai smesso di formicolare, ora sono obbligati a dirigere lo sguardo oltre le macerie.
Dunque, questo si sente dire: ripartiamo dai movimenti. Lo dicono perfino quelli che si erano distratti, e che oggi, après le déluge, intrappolati nella ritualità verticistica dei redde rationem, cercano una ben faticosa palingenesi. Riportiamo dunque in primo piano quella prassi di intercettazione del mutamento, quella capacità di percezione dei frantumi antropologici che solo chi è immerso nei pori fisici del tessuto sociale è in grado oggi di praticare. Rimettiamo almeno in gioco la ricerca sul campo, vale a dire quella lente di ingrandimento che può portare in primo piano l'origine e le conseguenze della scomposizione cosiddetta postfordista delle forme del lavoro, ossia i travestimenti e le metamorfosi odierne del processo di auto-valorizzazione del valore.
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Lo tsunami finanziario
di F. William Engdahl
I. IL DEBITO IPOTECARIO SUBPRIME E’ SOLO LA PUNTA DELL’ICEBERG
Parte 1: la dolorosa lezione della Deutsche Bank
Perfino i miei amici esperti banchieri mi assicurano che a parer loro il momento peggiore del cataclisma da cui sono state colpite le banche statunitensi è oramai superato, e che la situazione sta lentamente tornando alla normalità. Ma nel loro roseo ottimismo manca la percezione dell'ampiezza del deterioramento in atto sul mercato mondiale del credito, che ruota attorno al mercato americano dei titoli garantiti, e in particolare a quello delle COD (Collateralized Debt Obligations) e delle CMO (Collateralized Mortgage Obligations). Ogni attento lettore ha senz'altro sentito dire "Si tratta di una crisi del mercato statunitense del debito ipotecario subprime". Ma quasi nessuno di quelli che conosco ha capito che il problema dei subprime è solo la punta di un colossale iceberg, ora in lento scioglimento. Vi faccio un esempio recente per spiegarvi la mia convinzione che lo "tsunami finanziario" stia solo cominciando.
Pochi giorni orsono la Deutsche Bank ha subito un rude colpo quando un giudice dell'Ohio (USA) ha emesso
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L'economia keynestana oggi (1977)
di Lorenzo Rampa
ISEDI - Istituto Editoriale Internazionale
Su gentile segnalazione di Lino RossiIl successo di una teoria si misura sulla sua capacità di spiegare alcuni fatti e risolvere alcuni problemi che le teorie precedenti avevano lasciato inspiegati ed irrisolti. Da questo punto di vista quella keynesiana è stata una teoria di grande successo, in quanto ha messo a disposizione strumenti di analisi capaci di spiegare e strumenti di intervento capaci di risolvere le crisi e la disoccupazione.
Per tutti i trent'anni successivi alla pubblicazione della Teoria Generale i Governi dei paesi capitalistici riuscirono a mantenere una situazione di (quasi) piena occupazione mediante politiche keynesiane (spesa pubblica in deficit, stimolo e sostegno degli investimenti, ecc.).
Per gli economisti divenne inevitabile essere "keynesiani": anche per coloro che continuarono ad ispirarsi alla teoria neoclassicache Keynes aveva così puntigliosamente attaccato.
Probabilmente ciò è stato reso possibile, oltre che dal successo pratico delle sue raccomandazioni, anche dalla sua fiducia che, una volta ristabilita la piena occupazione, la teoria neoclassica si sarebbe di nuovo affermata "da quel punto in avanti".
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Così l’Occidente produce la fame nel mondo
di Luciano Gallino
Tempo fa l´allora presidente della Banca Mondiale, James Wolfensohn, ebbe a dire che quando la metà del mondo guarda in tv l´altra metà che muore di fame, la civiltà è giunta alla fine. Ai nostri giorni la crisi alimentare che attanaglia decine di Paesi potrebbe far salire il totale delle persone che muoiono di fame a oltre un miliardo. La battuta citata è così diventata ancor più realistica. Con una precisazione: la nostra metà del mondo non si limita a guardare quel che succede. Si adopera per produrre materialmente lo scenario reale che poi la tv le presenta.
Sebbene varie cause contingenti – i mutamenti climatici, la speculazione, cinesi e indiani che mangiano più carne, i milioni di ettari destinati non all´alimentazione bensì agli agrocarburanti, ecc. – l´abbiano in qualche misura aggravata, la fame nel mondo di oggi non è affatto un ciclo recessivo del circuito produzione alimentare-mercati-consumo. Si può anzi dire che per oltre due decenni sia stata precisamente la fame a venir prodotta con criteri industriali dalle politiche americane ed europee.
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