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Cosa ci dicono le catene del valore? Dipendenza, crisi industriali e predazione finanziaria
di Infoaut
Il dibattito politico profondo latita e ci si scanna per lo più su ciò che intimamente si desidera, invece che su ciò che concretamente succede. Per sbrogliare questa matassa forse dobbiamo fare un passo indietro e porci alcune domande su dove sta andando il capitalismo. In questo caso lo faremo con un occhio di riguardo al nostro paese.
Purtroppo è necessario fare alcune premesse: noi siamo ancora tra quelli che ritengono che tra guerra, politica ed economia vi sia un’intima e inscindibile relazione che va oltre la semplice acquisizione che il mercato delle armi sia un business importante o che “La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi”. Allo stesso tempo non crediamo che ci si possa sedere su una visione meccanicistica in cui è l’economia che rigidamente determina gli altri campi del ragionamento, si tratta di un “movimento” in cui questi tre fattori si influenzano a vicenda, ma all’interno del quale il capitale ha un ruolo speciale che struttura e sostanzia la natura contemporanea degli altri due (guerra e politica esistevano prima della nascita del capitalismo ovviamente, ma la loro natura attuale è inspiegabile senza comprendere il funzionamento di quest’ultimo). Ecco dunque che la guerra in Ucraina, vista molto da vicino sembra “solo” un conflitto geopolitico per alcuni, un’invasione di una tra le potenze mondiali nei confronti di un paese più debole per altri. Allo stesso modo il genocidio di Gaza può apparire per alcuni “solo” come un conflitto etnico-religioso, per altri come uno scontro tra interessi regionali, per altri ancora come una pura atrocità. Tutte queste letture hanno dei tratti di verità, ma prese da sole, senza inserirle dentro il “movimento” ci fanno perdere la bussola. Questa piccola digressione è necessaria per far comprendere il presupposto da cui partiamo, sebbene in questo articolo si parlerà in particolar modo del nostro paese.
Dunque dove sta andando l’economia che possiede questo “ruolo speciale”? Cosa ci dicono le catene del valore?
Iniziamo da ciò che salta all’occhio immediatamente sfogliando qualsiasi giornale: l’Italia è immersa in un nuovo ciclo di crisi industriali che è appena al suo inizio. Il caso più noto, ma non per forza quello più esemplificativo è quello di Stellantis. La vicenda dell’ex-FIAT è certamente paradigmatica, ma a differenza del passato non rappresenta che parzialmente la natura del capitale industriale contemporaneo in Italia, fatto di medie e piccole imprese, spesso associate in distretti, a loro volta inserite in catene del valore internazionale.
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La prospettiva dell’Amazon Capitalism
di Collettivo le Gauche
1. Una robusta introduzione al problema dell’Amazon Capitalism
Il libro collettivo del gruppo di ricerca Into The Black Box dal titolo Futuro presente. Il dominio globale del mondo secondo Amazon è una formidabile cassetta degli attrezzi, frutto di un seminario svoltosi presso l’Università di Bologna tra il 2021 e il 2022, per analizzare quello che viene definito Amazon Capitalism. L’impresa di Bezos, infatti, non è solo un negozio online in cui poter acquistare quasi ogni tipologia di merce o il principale rappresentante di servizi di consegna basati sullo slogan logistico just-in-time and to-the-point. Amazon contiene al suo interno molti più servizi. Si passa da Prime Video e Twitch a prodotti come Alexa e servizi informatici come Amazon Web Services. Senza contare gli altri investimenti di Bezos come il Washington Post nell’editoria o Blue Origin nell’industria aerospaziale. Amazon è quindi un attore economico ramificato in molte attività produttive che, sostengono i ricercatori di Into The Black Box, non si limita all’economia ma finisce per condizionare anche altre sfere come quella sociale e politica. Per questo motivo si parla di Amazon Capitalism di cui occorre indagare le caratteristiche. Infatti una simile società è capace di condizionare l’evoluzione del capitalismo esattamente come fanno imprese simili ad Amazon in altre parti del mondo, pensiamo ad Alibaba in Cina o MercadoLibre in America Latina. C’è una sorta di egemonia di questi attori economici che consente di parlare di amazonizzazione della società. Questa tesi viene supportata da tre ipotesi. La prima riguarda la capacità delle aziende Big Tech di essere il punto di sintesi delle operazioni del capitale, concetto coniato da Sandro Mezzadra e Brett Neilson su cui torneremo meglio in futuri lavori. Si tratta di tesi che dimostrano come all’interno della teoria critica si siano sedimentate analisi secondo cui non è possibile concettualizzare in termini univoci il capitalismo contemporaneo e sono focalizzate sulla molteplicità dei processi di valorizzazione contemporanei. La diversità nei processi capitalistici ha sempre fatto parte del modo di produzione capitalistico.
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La Turchia e il peggior scenario possibile
di Michelangelo Severgnini
Dal precipitare degli eventi in Siria a oggi ho meticolosamente scandagliato la stampa turca e curda, presente e passata, per ricostruire perlomeno un pezzo della verità, perlomeno fonti alla mano, ricostruendo come il crollo di Assad sia percepito da questo lato della faccenda.
Questione quanto più sotto i riflettori dal momento che moltissimi analisti hanno da subito messo la Turchia sul banco degli imputati, riconoscendola mandante di questo improvviso epilogo del governo siriano.
Tuttavia tutto ciò non trova riscontri oggettivi ed è piuttosto la facile suggestione per colmare quell’inevitabile vuoto di comprensione che si crea in ciascuno di noi. Insomma, se qualcosa non torna, è colpa dei Turchi.
Questo mio intervento è motivato dall’unico obiettivo di vederci meglio e di diradare qualche fumo. Ho vissuto anni in Turchia, paese al quale sono legato, e leggo il turco. Faccio questa premessa per scoraggiare chi voglia leggere queste righe come quelle di un difensore della politica turca, che in passato (vedi con l’Urlo a Tripoli) non ho avuto problemi a denunciare.
Piuttosto credo che un processo sommario alla posizione turca, per altro non suffragato quanto piuttosto frutto di suggestione, in questo momento favorisca quegli obiettivi secondari del conflitto in corso, ma non meno importanti, quali la rottura diplomatica tra i soggetti firmatari gli accordi di Astana (Turchia, Russia e Iran) e l’allontanamento della Turchia dai Brics.
E non voglio favorire senza motivo il raggiungimento di questo obiettivo.
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L’autocrazia ha sconfitto il neoliberismo. E ora?
di Chris Carlsson
Gli Stati uniti si preparano all’insediamento di Donald Trump. Quella cerimonia, dice Chris Carlsson, certificherà molte cose. La prima: il neoliberismo e la democrazia liberale, non solo negli Usa, sono morti. La seconda: Trump e i suoi accoliti si preparano al grande teatro della crudeltà per umiliare e mettere “al loro posto” prima di tutto donne e neri. La terza: dalla crisi delle democrazie emerge ovunque un capitalismo clientelare con un vasto apparato di sorveglianza tecnologico per controllare il dissenso. La quarta: non dobbiamo essere affranti e sentirci impotenti, questo sistema che prende forma non funzionerà, entrerà in crisi, probabilmente a partire dalle conseguenze delle crisi ambientale e climatica. “La sorveglianza ad alta tecnologia, il mercato e la manipolazione delle menti possono arrivare solo fino a un certo punto. Alla fine la capacità umana di autonomia e resistenza (e noia) sconfiggerà gli sforzi di autocrati imbranati che non comprendono la complessità sociale e pensano di poter imporre l’obbedienza alla società attraverso la repressione e la punizione. Questa roba non funziona…”. Forse ha ragione Bifo: la democrazia borghese è stata una trappola, aggiunge Carlsson, per chi pensava di cambiare il mondo. Adesso non sappiamo quando, dove e come emergeranno non solo una resistenza efficace ma soprattutto una visione del mondo e della vita che entusiasmerà tante persone, “abbastanza da spingerle a rovesciare il dominio di questa élite così platealmente folle…”. “Alla stregua di quanto fa John Holloway io dico che è la nostra umanità di fondo la base dei nostri desideri e della capacità di trasformare radicalmente il nostro modo di vivere e di ripensare il modo in cui produciamo la nostra vita insieme…”
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Caroline Elkins, Un’eredità di violenza. Una storia dell’Impero britannico
di Alessandro Visalli
Il politico conservatore Enoch Powell, in un discorso all’autorevole Royal Society il 23 aprile 1961 pronunciò queste parole:
“La vita ininterrotta della nazione inglese nell’arco di mille e più anni è un fenomeno unico nella storia: il prodotto di un insieme specifico di circostanze come quelle che in biologia si suppone diano inizio per caso a una nuova linea evolutiva. […] Da questa vita ininterrotta di un popolo unito nella sua patria insulare scaturisce, come se emergesse dal suolo d’Inghilterra, tutto ciò che appare così straordinario nelle doti e nei successi della nazione inglese. Tutto il suo impatto sul mondo esterno – con le prime colonie, la successiva Pax Britannica, il governo e la legislazione, il commercio e il pensiero – è scaturito da impulsi generati qui. Questa vita ininterrotta dell’Inghilterra è simboleggiata ed espressa da null’altro se non dalla sovranità inglese […] Il pericolo non è sempre la violenza e la forza: a esse abbiamo resistito prima e possiamo resistere ancora. Il pericolo può essere anche l’indifferenza e l’ipocrisia, capaci di dilapidare la grande ricchezza della tradizione e svilire il nostro simbolismo sacro solo per raggiungere qualche compromesso a buon mercato o qualche risultato evanescente”.[1]
Queste parole, che articolano in modo sintetico e mirabile, il ‘razzismo popolare’ così diffuso in Inghilterra è al fondamento del “nazionalismo imperiale” che connette in un unico inestricabile insieme idee sulla razza, senso di appartenenza ed ambizione di dominio. Si tratta di quello che l’autrice chiama “imperialismo liberale”, o che Tony Blair chiamò “Nuovo imperialismo liberale”, per giustificare nel 2003 la guerra in Iraq. Quella unione indissolubile, nutrita di ‘bipensiero’ alla Orwell, di ‘totalità disumana’ e ‘promessa di riforme’ che caratterizza l’universalismo liberale nella sua stessa costituzione.
Confrontarsi con questa storia di pratiche e idee, è oggi particolarmente importante, quando la mai scomparsa postura di legittimazione del diritto (ed il fardello) di portare al mondo l’emancipazione e la ‘libertà’ riprende il suo posto centrale alla vigilia della nuova Grande Guerra che si prepara e, per intanto, nelle “guerre locali” che proliferano.
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Sulle prospettive per la Siria
di Enrico Tomaselli
L’evoluzione della situazione siriana è inevitabilmente destinata a introdurre elementi di novità, non necessariamente previsti – e che, probabilmente, possono aiutare a comprendere alcune posizioni attualmente assunte da parte di soggetti coinvolti.
Le questioni fondamentali sono essenzialmente due. La prima, è la partizione in atto nel paese, in almeno tre macro aree cantonali: quella occidentale, sotto il controllo dell’HTS, quella orientale, sotto il controllo delle forze curde, e quella meridionale, sotto controllo israeliano. Questa cantonizzazione della Siria fa ovviamente gioco sia agli USA che a Israele, perché non solo mina l’unità del paese arabo, ma rafforza la presenza politica e militare di entrambe nella regione. Ma taglia fuori dai giochi la Turchia, che si ritrova ad avere la stabilizzazione di un Kurdistan siriano ai propri confini, e per di più come protettorato statunitense.
Come risulta evidente dai primi passi, Al-Julani risponde chiaramente assai più agli interessi anglo-americani (suoi veri sponsor) che non a quelli turchi; i segnali pacificatori verso Israele da un lato (nonostante la massiccia campagna di bombardamenti in atto, che non accenna a finire), e l’apertura alla collaborazione, anche governativa, con le SDF, indicano chiaramente l’allineamento del potere islamista con i disegni americani.
Del resto, e per più di una ragione, Washington intende esercitare la sua influenza sul nuovo governo siriano, ma il suo alleato di riferimento restano (almeno per il momento) i curdi. I nodi da risolvere, in questo quadro, sono ovviamente i margini di autonomia che le SDF riusciranno a ritagliarsi, anche considerando che otterranno dei ministri nel governo nazionale (altra cosa destinata a irritare non poco Ankara…), e – parallelamente – come verrà risolta la questione del disarmo delle milizie (pretesa da Al-Julani). Considerato il prevalere degli interessi statunitensi, è probabile che entrambe le questioni siano risolte nel quadro di una qualche autonomia regionale, nell’ambito della quale le milizie curde diventano le forze armate territoriali.
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Globalismo contro democrazia
di Wolfgang Streeck
Con l'avvento del globalismo neoliberista, la democrazia, come mezzo per l'intervento politico egualitario nell'economia, è caduta in discredito. Su entrambe le sponde dell'Atlantico, sono state le élite ad aprire la strada a questo processo. Vedevano la democrazia, tecnocraticamente, come "poco complessa" a fronte della "accresciuta complessità" del mondo; propensa com'era a sovraccaricare lo Stato e l'economia, oltre a essere politicamente corrotta a causa della sua riluttanza a insegnare ai cittadini "le leggi dell'economia". Secondo tale linea di pensiero, la crescita non proviene dalla redistribuzione dall'alto verso il basso: da incentivi più forti al lavoro, ma dal basso verso l'alto: in quella che è l'estremità inferiore della distribuzione del reddito, attraverso l'abolizione dei salari minimi e la riduzione delle prestazioni di sicurezza sociale; e nella fascia più alta, per contro, attraverso migliori opportunità di profitto e di guadagno, sostenute da una minore tassazione. Il processo che sottendeva a tutto questo era una transizione verso un nuovo modello di crescita, hayekiano, destinato a sostituire il suo predecessore keynesiano, nell'ambito della rivoluzione neoliberista. Come avviene per ogni dottrina economica, queste idee devono essere intese come rappresentazioni camuffate di vincoli e opportunità politiche derivanti da una distribuzione storicamente contingente del potere, travestite da manifestazioni di leggi "naturali". La differenza è che nel mondo hayekiano la democrazia non appare più come una forza produttiva, ma come una macina al collo del progresso economico. Per questo motivo, l'attività distributiva spontanea del mercato deve essere protetta dall'interferenza democratica di ogni tipo di muraglia cinese o, meglio ancora, sostituendo la democrazia con la "governance globale". La disintegrazione del modello standard del capitalismo democratico nel bel mezzo dell'avanzare della globalizzazione, è stata molto analizzata. Nel corso di circa due decenni, dalla scomparsa del comunismo sovietico, il neoliberismo ha fatto un ritorno sorprendente: Hayek, a lungo ridicolizzato e deriso in quanto leader di un culto settario, ha eclissato figure importanti degli affari mondiali, come Keynes e Lenin.
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Letture per sistemarvi per le feste
di Nico Maccentelli
Nelle prossime settimane c’è chi avrà un po’ di tempo da passare per sé. Per questo ho pensato di consigliarvi alcune letture che spaziano dalla narrativa alla saggistica. Quattro opere non troppo impegnative, ma che squarciano il velo della narrazione mainstream su una serie di argomenti che sono d’attualità da decenni.
Iniziamo con un libro che è stato presentato a Villa Paradiso la scorsa settimana e che racconta delle torture che dei compagni del collettivo politico autonomo della Barona, un quartiere di Milano hanno subito dalla polizia, dell’ignavia complice della magistratura, a seguito delle indagini sull’uccisione del gioiellere Torreggiani, di cui come chi co segue sa bene è stato incolpato Cesare Battisti, che oggi sconta l’ergastolo nelle carceri italiane dopo essere stato catturato in modo illegale in Bolivia e deportato in Italia, mostrato come un trofeo da un ministro pentastellato e sotto il ludibrio dei media e di una politica bipartisan forcaiola.
Il titolo è: Sei giorni troppo lunghi, autore Umberto Lucarelli, edizioni Milieu 2024, 112 pagine, € 13,50.
Qualcuno penserà che la tortura e le esecuzioni sommarie come quelle dei brigatisti in via Fracchia a Genova, siano retaggio di quel passato. In realtà questo sistema di potere rimetterà in campo le stesse dinamiche repressive se la situazione lo richiederà. Questo è bene saperlo. Ma anche la pratica ordinaria di repressione della “devianza” è da sempre parte del dna di polizia e carabinieri. Nella prefazione di copertina si legge: “I fatti risalgono a quaratacinque anni fa, ma da allora nulla è cambiato. Si continua tranquillamente a torturare e a uccidere, sia nelle carceri sia nelle questure, come confermano le cronache recenti da Cucchi ad Aldrovandi” Aldo Bianzino, Riccardo Rasman e altri aggiungo io, in un rosario di pestaggi e abusi violenti da parte di secondini e poliziotti. L’ultimo episodio, proprio a Milano, riguarda l’inseguimento di due ragazzi e la strana morte per strada in scooter di uno di questi: Ramy Elgami, e di cui sono stati poi incriminati i carabinieri di una gazzella. Episodio che ha dato vita a una vera e propria rivolta popolare, spacciata dalla stampa come criminalità dello spaccio e il Corvetto alla stregua di una “pericolosissima” banlieu.
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Note sul marxismo sinizzato
di Carlo Formenti
A mo' d’introduzione
Nei miei ultimi lavori – sia nei libri che in vari articoli pubblicati su questa pagina (1) – ho speso molte energie per contrastare il luogo comune – che accomuna destre e “sinistre” occidentali – secondo cui la Cina sarebbe un Paese capitalista, se non addirittura imperialista, la cui unica ragione di conflitto con gli Stati Uniti e l’Europa è la competizione per il dominio globale.
Nel caso delle destre, tale giudizio funge da argomento propagandistico, buono per scoraggiare qualsiasi simpatia nei confronti di una possibile alternativa nei confronti di un’economia, un sistema politico, una cultura e un modo di vivere che settori sempre più larghi delle popolazioni occidentali considerano intollerabile, come dimostrano il successo dei movimenti cosiddetti “populisti” e le altissime percentuali di astensione.
Nel caso delle sinistre occorre distinguere fra l’ala “progressista” neoliberale, di fatto allineata alle destre (fatta eccezione per l’impegno nei confronti dei diritti civili di individui e minoranze appartenenti alle classi urbane medio-alte), e l’ala radicale, che dedica ancora qualche attenzione agli interessi delle classi lavoratrici. La sinistra neo liberale ha definitivamente gettato la maschera votando nel Parlamento europeo l’infame delibera che equipara nazismo e comunismo. L’ala radicale, ormai priva di strumenti teorici per analizzare la realtà (l’ignoranza dei suoi quadri in materia di filosofia, storia ed economia, per tacere del pressoché totale oblio della teoria marxista, è disarmante), si limita ad annunciare che “un altro mondo è possibile” ma, non avendo la minima idea su cosa fare e come farlo per mettere in pratica tale slogan, disprezza i progetti politici che ci provano.
Rebus sic stantibus, non mi stanco di insistere sulla necessità di studiare l’unico esperimento (in verità non è il solo, ma è di gran lunga il più significativo, se non altro per le sterminate dimensioni geografiche e demografiche della nazione che lo sta attuando) che offra un esempio concreto del fatto che lo slogan della Tatcher (there is no alternative) è falso.
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Economia, politica e diritto dell’imperialismo. Quale spazio per la democrazia
di Roberto Passini
1. La vecchia critica della statualità propria di un certo pensiero marxiano e radical-libertario del Novecento non ha in gran parte più senso nell’evo della globalizzazione dei grandi oligopoli del capitale transnazionale in assetto di guerra permanente.
Nella fase di disgregazione culturale, politica, economica e sociale in cui siamo immersi lo Stato nazionale e in special modo i suoi territori, in primis le autonomie locali, sono il luogo della convivenza civile reale tra le persone e tra queste e gli enti locali di riferimento, dove la democrazia è il modo in cui si vive la vita di ogni giorno. Non appare pertanto praticabile né opportuno scindere in locali e nazionali le diverse, e talvolta eroiche, istanze aspiranti alla ripubblicizzazione di molte attività, funzioni, beni che sono germogliati in alcuni Stati e territori, tra cui il nostro paese.
La scelta di fondo comune alle diverse istanze, più o meno esplicita, è quella per il rilancio del pubblico in tutte le sue articolazioni e declinazioni (statuale, locale, non statuale-sociale) in luogo dell’onnipervasivo privato, unico totem del liberal-capitalismo che si impone dall’alto del sovrastatuale fin nei più piccoli villaggi periferici: dopodiché è giusto verificare, volta per volta, quale sia la dimensione soggettiva e territoriale ottimale al fine di tutelare e valorizzare il bene della vita in questione (per esempio acqua, beni pubblici-comuni, lavoro, ambiente, energia, infrastrutture, opere pubbliche).
Si tratta, in sostanza, di porre in essere una strategia consapevole di difesa e rilancio della sovranità popolare e delle prerogative democratico-sociali all’interno degli Stati nazionali (lo Stato sociale di diritto, o lo Stato pluriclasse con una significativa tutela del lavoro secondo Costantino Mortati).
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Il caos siriano e la follia senza metodo
di Piero Pagliani
Mentre i salafiti “liberatori” si stanno dedicando a saccheggi, massacri e vendette, così, tanto per mostrare il loro volto “moderato”, Ankara punta a conquistare le zone oggi occupate dal cosiddetto “Rojava” curdo sostenuto dagli Usa. Il ministro degli Esteri turco, Hakan Fidan, ha dichiarato che o il Pkk e l'Ypg in Siria si dissolvono o la Turchia li distruggerà.
Questo il commento di Larry Johnson, ex analista Cia ed ex funzionario dell'Antiterrorismo al Dipartimento di Stato:
«Resta da vedere se gli USA, che sono posizionati in territorio curdo, forniranno aiuti ai curdi, incluso il supporto militare, o si faranno da parte e lasceranno che i turchi li finiscano.
Credo che i russi in questo momento siano seduti davanti a un bel fuoco scoppiettante, sgranocchiando un sacchetto di popcorn e osservando il caos che si dispiega» ([1] enfasi mia).
Sono d'accordo. In questo momento Mosca sta alla finestra a vedere come si evolve la complicatissima e drammatica situazione siriana da cui si è tirata fuori. La ragione dichiarata è, come ebbe modo di dire Putin già nel 2015, che “i russi non possono essere più siriani dei siriani”. Ovverosia la volontà di combattere doveva partire dalla Siria. Così non è stato e Damasco forte di 170.000 soldati e 100.000 territoriali, con carri armati, artiglieria e aviazione, si è arresa in soli 11 giorni a meno di 30.000 guerriglieri in pick-up e qualche blindato, in modo sorprendente e inaspettato perché aveva tenuto testa da sola per 4 anni fino all'intervento russo a una coalizione di eserciti proxy di mercenari, di bande di fuori di testa e di consiglieri militari provenienti da tutto il mondo, armati, finanziati e sostenuti da UE, Nato, Usa, Australia, Arabia Saudita, Qatar, Turchia e Israele.
Le ragioni non sono del tutto chiare, almeno a me. La corruzione, spesso citata, è un fattore. Ma non penso che basti (specialmente in un esercito complesso), occorrono ordini precisi. Ecco allora chi accusa al-Assad di essersi fidato troppo della Lega Araba, in cui la Siria era stata riammessa, e addirittura delle profferte di Washington di togliere le sanzioni in cambio di un mutamento di campo.
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La grande rapina: capitalismo contro il lavoro
di Andrea Cagioni
L’impoverimento e la precarizzazione delle condizioni lavorative e di vita provocate dal capitalismo finanziario e digitale impongono un cambio di paradigma, una vera e propria transizione sistemica. Transizione sistemica che in Occidente assuma come obiettivi di fondo la proprietà e l’uso comune dei mezzi di produzione e riproduzione, una distribuzione egualitaria della ricchezza sociale, differenti finalità cui ispirare le attività produttive e riproduttive, la cura di sé, degli altri e della natura, una nuova ripartizione dei tempi di vita e di lavoro. Una transizione sistemica immaginabile a partire dalla centralità della pianificazione, intesa come strumento di politica economica in grado di controllare il mercato ed esprimere al massimo grado la supervisione politica e pubblica sui fattori di produzione e riproduzione. Attorno alla pianificazione, si delineano quattro temi: redistribuzione della ricchezza e del tempo di lavoro, proprietà e uso collettivo dei Big data, reddito di base, socializzazione del lavoro riproduttivo.
Nel saggio vengono discussi quattro temi: la finanziarizzazione, la sua variante digitale, la svalorizzazione del lavoro e il tempo della cura.
Il principale filo rosso de La grande rapina è l’imponente trasformazione operata dal capitale collettivo negli ultimi decenni in Occidente, e i suoi effetti sulle condizioni di lavoro e di vita della classe lavoratrice e delle classi subalterne. Più precisamente, si è cercato di ricostruire le logiche che caratterizzano la genesi e lo sviluppo della finanziarizzazione e del capitalismo digitale.
L’egemonia della finanza e l’uso capitalistico delle tecnologie digitali fondano i nuovi regimi di accumulazione del capitale, che si caratterizzano per la messa a valore delle facoltà riproduttive della forza-lavoro e per la privatizzazione dei Big data. Questa metamorfosi del capitale è analizzata a partire dai presupposti teorici e dai concetti fondamentali che la qualificano.
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L’implosione della Siria – parte II
di Roberto Iannuzzi
Il paese potrebbe avviarsi verso uno “scenario libico”, aggravato da un contesto regionale caratterizzato da una crescente disgregazione, sul quale continuano a soffiare minacciosi venti di guerra
Il presente articolo, sebbene possa essere letto in maniera indipendente, costituisce la seconda parte del pezzo “Dal fragile cessate il fuoco in Libano alla guerra in Siria – parte I”, consultabile al seguente link.
Vittima di un’offensiva partita dal nordovest della Siria, Damasco è caduta incredibilmente a poco più di dieci giorni dall’inizio di tale campagna. Gli eventi che hanno portato a questa svolta epocale presentano tuttora punti oscuri, ma se ne può tentare una parziale ricostruzione sulla base dei dati fin qui a disposizione.
Un pericoloso vuoto geopolitico si era aperto nel paese a causa di un governo fiaccato da anni di guerra e di sanzioni, privato delle risorse energetiche delle regioni orientali (sotto il controllo curdo e americano), e logorato da corruzione e lacerazioni interne.
Questo vuoto era stato ulteriormente accentuato dal conflitto regionale scatenato dalla crisi di Gaza, che ha messo in difficoltà i principali alleati di Damasco: l’Iran, le cui forze erano state ripetutamente colpite da Israele proprio in Siria, e Hezbollah, alle prese con la violentissima campagna militare israeliana in Libano.
La Russia, che aveva salvato il governo del presidente Bashar al-Assad intervenendo militarmente nel paese nel 2015, era a sua volta impegnata nella guerra contro Kiev, il cui esercito è sostenuto dall’intera NATO.
Di questo vuoto hanno approfittato gli avversari locali di Assad, a loro volta appoggiati da alcuni attori internazionali, fra i quali spicca la Turchia.
Alla guida di una galassia di gruppi ribelli il cui orientamento va dall’islamismo militante al jihadismo, Hay’at Tahrir al-Sham (HTS), formazione in precedenza affiliata ad al-Qaeda e apparentemente riconvertitasi a una forma di Islam nazionalista, ha lanciato un’offensiva il 27 novembre in direzione di Aleppo, seconda città del paese, dalla limitrofa provincia di Idlib.
HTS stava preparando quest’offensiva forse da un paio d’anni, ed ha approfittato delle propizie condizioni regionali e della luce verde concessa dal “patrono” turco dopo il fallimento dei negoziati di riconciliazione fra Ankara e Damasco.
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La "nuova destra" in Italia
Note sulla governance della guerra senza limitii
di Alessandro Russo
Nel numero di Crisis & Critique su “Future of Europe” avevo sostenuto che l’attuale “governo dell’euro” è il risultato della crisi dei partiti del Novecento.ii Si può dire che la “Nuova destra” sia un fenomeno dello stesso ordine? In parte lo è, ma rispetto a quattro anni fa, quando già si poteva prevedere un futuro oscuro dell’Europa, la situazione è peggiorata.
Al momento della creazione dell’euro, i partiti parlamentari europei, quelli di sinistra in testa, si subordinarono unanimemente alla nuova autorità per ricevere in cambio una legittimazione che avevano perduto, cantando in coro “ce lo chiede l’Europa”. L’euro è stato per oltre trent’anni il vero governo dell’Europa. Oggi i resti di quei partiti si inginocchiano tutti davanti all’autorità di ciò che possiamo chiamare il “governo della guerra”, e lo fanno in nome di slogan ancora più vacui come “in difesa dell’Occidente”, o “democrazia contro autocrazia”. Negli ultimi due anni gli Stati europei sono stati trascinati nei prodromi di una nuova guerra mondiale, in cui emerge in modo ancora più nefasto la decomposizione del sistema dei partiti del Novecento. L’unificazione monetaria dell’Europa, che aveva rimpiazzato la perdita di autorità dei partiti parlamentari, è stata a sua volta rimpiazzata da un’unificazione militare in preparazione della prossima guerra mondiale.
Non si tratta però soltanto della subordinazione alla supremazia militare USA, che è l’aspetto più evidente della politica estera degli Stati europei. Ciò che sta avvenendo sotto i nostri occhi è un profondo mutamento della natura stessa della guerra. Non è più la “continuazione della politica con altri mezzi”, come nella formula classica di Clausewitz, e neppure dell’inversione foucaultiana della politica come continuazione della guerra. È iniziata l’epoca della guerra come continuazione della guerra stessa, o della “guerra senza limiti”, come la chiamano i teorici militari.iii
È in atto un cambiamento epocale della guerra, così come si è costituita dal Neolitico con le prime organizzazioni statali e con i primi apparati militari specializzati.
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Sull’autostrada della seta: impressioni di un occidentale in Cina
di Vincenzo Iaccarino
Quindici giorni a cospetto del Dragone. Quindici giorni attraverso il pianeta Cina. Una lunga marcia tra tradizione e contemporaneitá, tecnologia high-tech e quartieri popolari, musei e luoghi della Storia.
Osservando, riflettendo, dialogando dove possibile con i cittadini di quella Cina Popolare sul cui sistema politico, economico e sociale tanti sono i cliché che l’Occidente liberista e la sua stampa sono capaci di assommare, tra propaganda e ideologia.
E allora sgomberiano subito il campo dai luoghi comuni. A partire dalla rete e da internet.
Non esiste nessuna regia occulta o dittatura repressiva che vieta ai cinesi di usare Google o qualsivoglia social. Semplicemente loro non li usano.
Esistono decine di offerte per l’utilizzo di smartphone con la VPN. Già in aeroporto, ad esempio, vendono le Sim con le impostazioni per poter postare su instagram “la tua vacanza“. Tutti i cinesi potrebbero averne accesso. Alcuni hotel hanno persino la Wi-Fi “sbloccata”. Ma niente.
Sarà che i cinesi di Facebook, Instagram, X e degli altri social non sanno che farsene; o forse sarà anche che i loro dati non vogliono regalarli a Google e Meta.
Oppure sarà che le loro app sono utili per fare qualsiasi cosa: dal chattare al fare pagamenti; dal prenotare un museo o vedere la programmazione dei cinema; fino a prendere metro e bus. Funzionando tutte in modo impeccabile, perfino per noi che non parliamo né leggiamo il cinese.
Sta di fatto che la rete non incontra lo stesso successo che riscuote nel nostro Occidente.
Il secondo mito da sfatare riguarda invece il cosiddetto controllo oppressivo, sia esso individuale o sociale – dalla circolazione e la mobilità interna al pericolo terrorismo, per intenderci – in merito al quale ci sono due elementi da considerare.
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Preparando il Sessantotto. Saggisti e scrittori nelle riviste della Nuova Sinistra
di Luca Mozzachiodi
[E’ uscito da poco per Pacini Editore Preparando il Sessantotto. Saggisti e scrittori nelle riviste della Nuova Sinistra (1956-1967), di Luca Mozzachiodi. Ne presentiamo l’introduzione]
Di fatto, lo storico non esce mai dal tempo della storia: il tempo si avvinghia al suo pensiero come la terra alla zappa del giardiniere”.
(F. Braudel)
I
Questo libro è una storia intellettuale, culturale e letteraria di due generazioni di autori attive durante il periodo tra gli eventi del 1956 e quelli del 1968, vale a dire tra i due tornanti che hanno drasticamente segnato la mutazione di ruolo e funzione degli intellettuali e degli scrittori in Italia, ma non solo naturalmente in Italia. L’oggetto specifico è la discussione e ricostruzione dell’insieme di teorie, proposte critiche ed elaborazioni estetico-letterarie, ma anche pratiche e di intervento politico, di un insieme di esperienze all’origine di ciò che si suole chiamare Nuova Sinistra in campo culturale.
Ne consegue, date le specifiche forme in cui questa elaborazione è avvenuta, che è anche, se non principalmente, una storia di saggisti e di riviste politico-letterarie sviluppatesi in quei dodici anni.
Probabilmente l’impostazione storiografico-ricostruttiva di largo respiro non è (o non è ancora) il modello prevalente per gli studi sulla letteratura del secondo Novecento: si privilegia infatti la tendenza, negli studi di letteratura italiana contemporanea, ma (anche se in misura considerevolmente minore mano a mano che queste ricerche si avvicinano alla pratica) anche in quelli che coinvolgono le sfere disciplinari affini come la filosofia, la sociologia, la teoria politica, a non affrontare direttamente il problema della storicità dei testi. Spessissimo si considera il testo unicamente dal punto di vista estetico, stilistico, formale, strutturale o al limite in un insieme il cui riferimento cronologico immediato è costituito da altre opere letterarie o dalle opere del corpus dello stesso autore; qualche volta, soprattutto in quegli autori che, come quelli di cui la mia ricerca si occupa, sono stati anche o principalmente saggisti, stabilendo nessi interni arbitrari e ricavando sistematicità di pensiero più solide di quanto furono in realtà.
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In vita di Luigi Mangione
di Algamica*
Per chi da sempre è impegnato idealmente in una lotta politica capita, un giorno sì e l’altro pure, commemorare morti sul lavoro oppure martiri che difendevano la causa degli oppressi e sfruttati, quando non addirittura giustiziati dalle forze di polizia di Stati democratici. Lo continueremo a fare con una certa sofferenza anche se lo abbiamo messo da sempre in conto.
In queste scarne note invece vogliamo spendere qualche parola e richiamare l’attenzione su Luigi Mangione in vita che ha compiuto un gesto “eclatante” negli Usa, che ha buttato e continua a buttare scompiglio fra i ben pensanti. Il perché è presto detto: sta riscuotendo non solo comprensione, che sarebbe, per così dire, nell’ordine delle cose in modo particolare se parte in causa in modo diretto, ovvero parente di un malcapitato che ha dovuto subire un torto da parte dell’ucciso, in questo caso tal Brian Thompson Ceo della divisione assicurativa di United Healthcare. Ma non in questi termini stanno i fatti, perché Luigi Mangione sta riscuotendo uno sconfinato plauso, forse anche inaspettato in modo particolare sempre dai benpensanti, che pone più di un interrogativo, in modo particolare perché il “killer di New York”, come viene definito dalla grande stampa assoldata dai vari establishment, non è un clochard, un barbone, un nero, un alcolizzato in preda ai fumi dell’alcool, un terrorista islamico, uno jihadista, o qualcuno sotto cura di qualche centro di igiene mentale e via di questo passo. No, ma si tratta di un giovane bianco di 26 anni, bello, ricco, laureato niente di meno che in ingegneria elettronica, che ha frequentato scuole di altissimo prestigio e di una famiglia di alto rango. Non solo, ma – chiosano i pennivendoli - «con un manifesto politico anticapitalista» dicono lor signori «nel quale rivendica il suo atto violento scrivendo: “Mi scuso per i traumi creati ma andava fatto, bisognava eliminare questo parassita”».
Lo scompiglio fra i ben pensanti non sta tanto nel gesto, figurarsi poi negli Usa dove si succedono stragi di chi spara all’impazzata “nel mucchio” proprio perché la società vive di rapporti economico-sociali capitalistici totalmente impersonali, dove perciò, è difficile se non impossibile arrivare al reo.
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Trump e l’Unione Europea: tra la pace in Ucraina e una nuova possibile crisi finanziaria
di Enrico Grazzini
Che cosa cambierà per l’Europa con l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca? Predire il futuro, e in particolare prevedere quello che farà Trump – noto, per la sua imprevedibilità e per i suoi umori discontinui – è assolutamente impossibile. Tuttavia occorre fare uno sforzo per tentare di comprendere le conseguenze della nuova situazione americana sapendo che bisognerà di volta in volta modificare le previsioni in base alle dinamiche della realtà. E’ noto che Trump non ama la UE e che appoggia tutti i politici europei nazionalisti di destra che, in una maniera o nell’altra, contrastano l’Unione, da Nigel Farage in Gran Bretagna a Viktor Orban in Ungheria a Matteo Salvini in Italia e Aleksandar Vučić in Serbia. Trump formerà con loro e con altri una sorta di “Internazionale illiberale” che condizionerà pesantemente la politica europea a partire dalla questione dei migranti. Oltre a Orbán, il primo ministro italiano Giorgia Meloni e il Cancelliere austriaco Karl Nehammer sono entrambi ideologicamente vicini a Trump, sebbene Meloni, amica del capitalista libertario e pazzoide Elon Musk, partner stretto di Trump, non condivida la posizione filo-russa di Orbán. Anche il governo olandese sostenuto da Geert Wilders, un politico anti-Islam, anti-immigrazione e populista, può diventare un alleato di Trump. Il neo eletto presidente americano favorirà con forza la disintegrazione nazionalistica della UE.
Nello scontro tra il liberalismo della UE e i nazionalismo fascistoidi interni alla UE, favorirà i regimi illiberali di destra e gli “uomini forti” (o le “donne forti”) che intendono scardinare le democrazie in Europa e svuotare dall’interno la UE. L’ideologia della destra europea più o meno estrema è in generale conforme a quella della tradizione reazionaria: Dio, Patria e Famiglia. In realtà la religione viene invocata non nel suo aspetto trascendente e liberatorio ma perché impone una disciplina superiore, intima e ferrea, l’obbedienza a una entità superiore. Anche l’amore di Patria obbliga all’obbedienza al Capo e a guardare con sospetto gli oppositori critici, le minoranze (e soprattutto gli “alieni” gli immigrati, che per definizione non hanno patria, e che quindi per definizione portano indisciplina, scompiglio, e perfino terrorismo).
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Carlo Rovelli sulla sfiducia nella scienza e nelle competenze
di Luca Busca
Carlo Rovelli è intervenuto domenica 8 dicembre a Più Libri Più Liberi per celebrare il decimo anniversario del suo libro più famoso e diffuso, Sette piccole lezioni di fisica. Il Professore, interrogato da Marco Motta, giornalista di Radio 3 Scienza, in merito alla crisi di fiducia nei confronti della scienza e delle competenze ha così illustrato la problematica.
“La reazione contro le competenze non è caduta dal cielo, ha dei motivi legittimi, fortemente legittimi. Fammi fare un esempio, a cui tengo moltissimo anche se piccolo ma da cui dipende il resto. Quando c’è stato il Covid, molte persone hanno reagito contro gli esperti che imponevano di fare qualcosa spesso in maniera scomposta e non sempre efficace per la società. In questo contesto la politica si è arroccata dietro delle decisioni giustificate dal fatto che “così dice la scienza”. Ma la scienza non ha mai detto che bisogna fare questo o quest’altro, la scienza al più dice che se tu chiudi le scuole forse muoiono meno persone. Se tu fai stare tutti a casa forse diminuisci un po’ il numero di persone morte. Questo non vuol dire che bisogna stare a casa, che bisogna chiudere le scuole. Vuol dire che questo è quello che sappiamo, poi le decisioni sono quelle politiche che coinvolgono interessi di tante persone da una parte e dall’altra.
Io non avrei voluto essere Giuseppe Conte in quella situazione lì, un momento in cui ha dovuto prendere delle decisioni difficilissime: scegliere tra una soluzione che avrebbe ucciso 50.000 italiani e una che avrebbe reso più poveri 5 milioni di famiglie. Che fare? Non è facile, è difficile. Invece di assumersi le responsabilità delle decisioni, la politica, in Italia così come in Inghilterra e altrove, ha detto: “ah gli scienziati dicono questo” e ha rinunciato alla propria funzione. Chiunque non era d’accordo con quelle decisioni, sulle quali pesano differenze di valore, differenze di interessi, complessità della società, ovviamente ha reagito: “va bene io non mi fido della scienza allora”. Questo è nello specifico quello che è successo col Covid, ma molto più in generale, secondo me, l’origine del problema è nell’atteggiamento del potere di nascondersi dietro le competenze per giustificare quelli che alla fine sono interessi di pochi.
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Alessandro Mazzone, Questioni di teoria dell'Ideologia I
Introduzione di Roberto Fineschi
A distanza di 23 anni viene riproposta l’unica monografia pubblicata in vita da Alessandro Mazzone. Il titolo, Questioni di teoria dell’ideologia, è significativamente seguito da “I”1: una seconda parte, di cui a fine libro l’Autore stesso riporta la struttura, avrebbe dovuto far seguito. Nel suo percorso intellettuale il testo fa da spartiacque tra gli inizi dellavolpiani, lo studio di Gramsci e il profondo ripensamento di temi hegeliani che, negli anni Settanta, aveva dato il suo primo corposo frutto nel complesso saggio sul feticismo del capitale2. Lo studio analitico della teoria marxiana del capitale3 - basato sulla pubblicazione della nuova edizione storico critica delle sue opere4 -, l’approfondimento delle strutture logiche portanti della teoria hegeliana porteranno a una sospensione di giudizio che non si risolverà mai pienamente, lasciando in sostanza allo stato di torso lo sviluppo di una teoria marxista dell’ideologia. Nella speranza di rintracciare nel lascito la seconda parte (che l’Autore dichiarava essere sostanzialmente pronta), per agevolare il lettore cerchiamo di ricostruire le linee portanti del suo ragionamento5.
Elaborando una “teoria dell’ideologia” Mazzone è forse uno degli autori che più seriamente ha ripreso l’impostazione gramsciana del problema del rapporto fra struttura e sovrastruttura, indagando le modalità di riflessione in se stesso del corpus storico-materiale, quindi la possibilità di una azione storica razionale. Lasciando da parte le frasi fatte sulla generica fondazione strutturale della sovrastruttura, Mazzone cerca di ricostruire i processi di mediazione che, a partire dalle determinazioni formali della riproduzione sociale, permettono di sviluppare categorie “fenomeniche” che saranno poi i soggetti agenti alla superficie della società; essi si formeranno delle ideologie e degli orientamenti sulla base della loro prassi sociale. Ciò produce delle “parvenze oggettive”, vale a dire delle ideologie in senso forte: non mero inganno, ma strutture della percezione e dell’autopercezione che sono tali in quanto socialmente praticate da soggetti storicamente determinati.
La struttura fondamentale dell’ideologia borghese è secondo Mazzone la “persona”. Il mondo capovolto non è l’oggetto alienato di una coscienza presupposta che deve riappropriasi della propria essenza; questa è anzi la tipica impostazione ideologica del problema che presuppone la sostanzialità della “persona”.
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Aggressori e aggrediti, jihadisti democratici, curdi dimenticati ed europei inconsapevoli
di Gianandrea Gaiani
Mentre dagli USA all’Europa politici e media accolgono i nuovi padroni di Damasco come eroi democratici, “ex terroristi e “jihadisti moderati”, il leader di Hayat Tahrir al Sham (HTS) Abu Mohammad al-Jolani, ha pronunciato il primo discorso da “uomo forte” di Damasco all’antica grande Moschea degli Omayyaddi, dinastia il cui Califfato fece da “modello” per l’ISIS.
Al-Jolani del resto si muove bene tra i simboli e i dogmi jihadisti di al-Qaeda e ISIS, organizzazioni presso le quali ha militari fin da dopo l’invasione anglo-americana dell’Iraq in cui combatteva gli statunitensi al fianco di Abu Musaib al-Zarqawi, leader di al-Qaeda in Mesopotamia.
Catturato dagli statunitensi venne detenuto a Camp Bucca dove conobbe Abu Bakr al-Baghdadi, insieme al quale venne liberato per poi recarsi in Siria a combattere sotto le bandiere dell’ISIS le forze di Bashar Assad.
“Questa vittoria, fratelli miei, è’ una vittoria dell’intera nazione islamica e segna un nuovo capitolo nella storia della religione, una storia irta di pericoli che ha reso la Siria un’arena per le ambizioni dell’Iran, diffuso il settarismo e alimentato la corruzione”, ha detto al-Jolani. Parole che non lasciano intendere che la Siria resterà uno stato laico anche se HTS si è impegnato per ora a garantire libertà di culto e a non imporre restrizione alle donne.
Da terroristi a paladini della libertà
Tra i più sfegatati fans degli ex qaedisti c’è la CNN e i media vicini all’Amministrazione Biden, tra i quali l’entusiasmo per la caduta di Bashar Assad, alleato di Russia e Iran, sembra cancellare anche il ricordo degli attentati di al-Qaeda negli Stati Uniti e della lunga guerra contro Osama bin Laden e i suoi seguaci. Non a caso, fonti citate dai media statunitensi valutano che presto HTS verrà rimosso dalla lista dei gruppi terroristici (l’immagine qui sotto è del 2017).
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Corea del Sud, Romania, Siria (e anche Francia e Georgia): i 5 giorni che sconvolsero il mondo
di OttolinaTV
Ottoliner, avrei voluto dirvi ben ritrovati; ma ben ritrovati una sega… Dopo aver passato 4 mesi ininterrotti incollato a quella seggiolina lì dietro, come diceva Vasco Rossi mi son distratto un attimo e, nell’arco di appena 5 giorni, nell’ordine avete dichiarato la legge marziale in una delle democrazie più vitali e dinamiche dell’Asia per provare a salvare il culo a un presidente zerbino che ha il 15% dei consensi, annullato con un golpe giudiziario il voto regolare in un Paese dell’Unione europea per salvare il culo a un altro presidente pupazzo che, a consensi, non arriva manco al 10 e, infine, nell’arco di 3 giorni, rovesciato definitivamente il governo siriano che era sopravvissuto a una guerra mondiale per procura, durata oltre 13 anni, attraverso il sostegno incondizionato a un tagliagole di Al Qaida che è magicamente diventato una popstar democratica nonostante continui a pendere sulla sua testa una taglia da 10 milioni di dollari emessa direttamente da Washington. Se mi volevate comunicare che vi stavo mancando, bastava anche meno… Nel caso della celebre canzone dell’intramontabile Vasco, la questione era piuttosto semplice: era tutta colpa d’Alfredo. Nel nostro caso, però, le cose potrebbero essere leggermente più complesse e articolate e se vi dovessi dire che ho un’idea chiara di come si siano svolte queste vicende mentirei spudoratamente, come sinceramente credo stia facendo chiunque in queste ore, invece di porsi una lunga serie di domande, millanti qualche tesi di facile comprensione buona per acchiappare qualche like (compresi, forse, gli stessi protagonisti). Una cosa che però, ormai, mi sembra non possa più essere messa in discussione da chiunque abbia un minimo di onestà intellettuale è che non si tratta di casi isolati: la guerra totale dell’impero contro il resto del mondo per rallentare il declino e ostacolare la transizione a un nuovo ordine multipolare è in pieno svolgimento, riguarda tutto il pianeta e prevede il ricorso a ogni mezzo necessario; e quel poco che ancora rimaneva in piedi del vecchio ordine liberale – se mai è esistito – è stato definitivamente spazzato via dagli eventi.
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Il fango spagnolo. Piccolo manuale sulla resistenza
di Carlos X. Blanco
Siamo in gran parte spettatori passivi di uno spettacolo imbarazzante. Lo spettacolo di un'oligarchia indecente che ha perso il contatto con la realtà e che conosce solo la lealtà al padrone che li mantiene sul palcoscenico del potere e che li rappresenta come clown arroganti.
In tutto l’Occidente è lo stesso. Si parla di “democrazia liberale”, mentre si procede a un progressivo smantellamento del Welfare State. Il “Welfare”, un tempo esisteva e corrispondeva all’offerta pubblica di alcuni servizi sostenuti dall’erario, al fine di difendere “il capitalismo” dal pericolo rivoluzionario.
La ricostruzione dell’Europa occidentale dopo il 1945, cioè quella in cui i russi accettarono di fermarsi sulla “cortina di ferro”, comprendeva qualcosa di più del famoso “Piano Marshall”: nello stesso pacchetto rientrava l’ americanizzazione intensiva dell’Europa, cioè la sua conversione in un cretino. Le rovine, le montagne di cadaveri e macerie, furono ripulite dalla tempestiva pioggia di dollari. I dollari sono serviti affinché le élite “denazificate” del nostro continente diventassero lacchè dipendenti dagli yankee. Sono diventati tirapiedi incapaci di agire con la minima autonomia di fronte alla CIA e al Pentagono, che tiravano tutte le fila. Ancora oggi questi burattini vengono pagati direttamente dalle grandi multinazionali e dalle multinazionali, dai fondi spazzini e dagli scantinati dello Zio Sam. Tutto ciò che le élite europee guadagnano, sia legalmente occupando posizioni di grande reddito e generose indennità, sia con le tangenti illegali inerenti alla loro situazione privilegiata, è denaro che scorre direttamente dalle tasche dei cittadini ai paradisi fiscali, dove i soldi sono segretamente criptati, ma i conti non sono segreti per la CIA e per le altre entità terroristiche dell'Impero Yankee. Poiché l’informazione è potere, allo scagnozzo che forma l’élite o la casta europeista e demoliberale è consentito il suo arricchimento sporco e illegale. Ma purché non rappresenti un pericolo per l’Impero. In caso contrario, attenzione! Il segreto non è più un segreto. Tutta l’élite occidentale, da Macron e Sánchez, a Meloni o Scholz, è sostenuta e minacciata allo stesso tempo dal potere atlantista-capitalista.
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Dopo Bashar
di Enrico Tomaselli
Sulla repentina caduta della Siria in mano ai terroristi jihadisti, cala il sipario. Così come sulla Repubblica Araba Siriana, e sulla dinastia Assad. Ci sono ancora non pochi punti oscuri, o non ancora definiti, che probabilmente si chiariranno nei giorni e nelle settimane a venire. Ovviamente, su tutti, il comportamento di Assad durante la crisi e sino al suo epilogo, e forse ancor più quello dell’Esercito Arabo Siriano, che non solo non ha praticamente combattuto una sola battaglia per contrastare l’avanzata jihadista, ma ha anche inscenato una pantomima mistificatoria al fine di coprire la sua decisione di consegnare il paese a Hay’at Tahrir al-Sham. Restano ancora avvolte dalla nebbia emotiva di questi giorni anche le evidenti leggerezze e gli evidenti errori commessi da Russia e Iran. Ma, appunto, molte di queste cose si chiariranno in seguito. A questo punto, in ogni caso, si tratta di tirare una linea, e guardare oltre.
La prima cosa da mettere in chiaro è che la vittoria jihadista – tanto più per i tempi e i modi in cui si è realizzata – è ben lungi dal porre fine al caos siriano; anzi, al contrario è foriera di un ulteriore rinfocolamento. L’esempio che viene immediatamente è quello della Libia. Tanto per cominciare, c’è la questione curda, che Ankara sta cercando di risolvere scatenando le sue milizie del Syrian National Army (e anche intervenendo direttamente), anche approfittando di questa fase transitoria, ma che è ben lungi dal trovare una soluzione pacifica. Oltretutto, le forze curde (che almeno per ora continuano a contare sull’appoggio statunitense) controllano una bella fetta di territorio, da nord a sud, e soprattutto parte del confine con la Turchia. Anche la questione dei rapporti (di forza) tra HTS e SNA è tutta da verificare. Probabile che si arrivi a una qualche forma di accordo [1], ma non sarà una convivenza facile; e comunque, a mio avviso, l’HTS non accetterà un ruolo subalterno alla Turchia, né una significativa influenza di Ankara in Siria, e man mano che consoliderà il suo potere ciò si accentuerà.
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Il Gioco Segreto…che ci ha regalato quarant’anni
di Paolo Di Marco
1- 1983
Correva l’anno 1983, e in Marzo Ronald Reagan, il presidente più amato della storia degli Stati Uniti, definisce l’Unione Sovietica ‘L’impero del male’; due settimane dopo lancia il progetto dello Scudo Missilistico, SDI, subito soprannominato dai giornali Guerre Stellari.
L’idea era di creare un sistema missilistico a più livelli che rendesse impossibile a un missile nemico colpire gli Stati Uniti.
Reagan gioca sulla impressione di sicurezza e tranquillità che lo Scudo avrebbe creato negli americani, senza mettere in conto, o perlomeno senza dirlo, che questo veniva a rompere l’equilibrio dinamico di ‘mutua distruzione garantita’ che aveva garantito la pace fino ad allora.
Mentre l’URSS era arrivato a ritenere l’arsenale nucleare, pur fondamentale per la sopravvivenza del paese, un mero strumento politico, negli USA erano in ballo molte opzioni militari; le principali 8 erano:
attacco preventivo per decapitare il nemico
lancio di missili (nucleari) dopo avvertimento
lancio sotto attacco mentre le testate nemiche esplodevano
inasprire ‘orizzontalmente’ spostando una guerra in Europa fino all’Asia
creare una guerra su due fronti facendo in modo che la Cina attaccasse l’URSS
preposizionare testate nucleari nello spazio
invadere l’Europa dell’Est con eserciti Nato,
e, il nuovo piano, eseguire un inasprimento progressivo delle minacce nucleari con lo scopo di controllare e vincere una guerra nucleare limitata.
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