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È l’imperialismo umanitario che ha creato l’incubo libico
di Chris Hedges* – Scheerpost
“Siamo venuti, abbiamo visto, è morto” ironizzò Hillary Clinton quando Muammar Gheddafi, dopo sette mesi di bombardamenti degli Stati Uniti e della NATO, fu rovesciato nel 2011 e ucciso da una folla che lo sodomizzava con una baionetta. Ma Gheddafi non sarebbe stato l’unico a morire. La Libia, un tempo il paese più prospero e uno dei più stabili dell’Africa, un paese con assistenza sanitaria e istruzione gratuite, il diritto per tutti i cittadini a una casa, elettricità, acqua e benzina sovvenzionate, insieme al tasso di mortalità infantile più basso e alla alta aspettativa di vita nel continente, insieme a uno dei più alti tassi di alfabetizzazione, si è rapidamente frammentata in fazioni in guerra. Attualmente ci sono due regimi rivali in lotta per il controllo della Libia, insieme a una serie di milizie canaglia.
Il caos che seguì l’intervento occidentale vide le armi degli arsenali del paese inondare il mercato nero, molte delle quali sequestrate da gruppi come lo Stato Islamico. La società civile cessò di funzionare. I giornalisti ripresero immagini di migranti provenienti dalla Nigeria, dal Senegal e dall'Eritrea picchiati e venduti come schiavi per lavorare nei campi o nei cantieri edili. Le infrastrutture della Libia, comprese le reti elettriche, le falde acquifere, i giacimenti petroliferi e le dighe, caddero in rovina. E quando ci sono piogge torrenziali come Storm Daniel – la crisi climatica è un altro regalo all’Africa da parte del mondo industrializzato – che ha travolto due dighe decrepite, muri d’acqua alti 20 piedi si sono precipitati giù per inondare il porto di Derna e Bengasi, provocando fino a 20.000 morti secondo Abdulmenam Al-Gaiti, sindaco di Derna e circa 10.000 dispersi.
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Una storia del conflitto politico
di Joseph Confavreux
Riceviamo e pubblichiamo volentieri la traduzione, a cura di Salvatore Palidda, di un recente articolo di Joseph Confavreux. Si tratta della recensione di «Une histoire du conflit politique», di Julia Cagé e Thomas Piketty, un libro ritenuto da più parti importante perché sfida la politologia con un approccio multidisciplinare assai poco praticato
Nelle librerie venerdì 8 settembre, Une histoire du conflit politique (Le Seuil), a cura di Julia Cagé e Thomas Piketty, è già ai vertici delle vendite di “saggistica”. Perché questa zona arida di geografia elettorale incontra un tale successo, anche se le sue conclusioni sono raramente controintuitive e la parte esigente del mondo della ricerca ne giudica molti degli elementi sintetizzati come già noti? La risposta è dovuta solo in parte alla notorietà dei suoi autori e ai meccanismi ben rodati di una promozione che riserva al gruppo Le Monde e a Radio France il diritto di rompere l’embargo prima della pubblicazione a cui sono chiamati a resistere altri giornalisti. Il successo di pubblico e mediatico del libro è dovuto soprattutto al fatto che sono pochi i ricercatori che sperano niente meno che trovare soluzioni concrete alle disfunzioni della democrazia francese, all’impasse della vita politica del paese e alle disuguaglianze che ne minano i contorni. Il lavoro estende spesso alcune analisi e proposte già sviluppate in Il capitale nel XXI secolo di Thomas Piketty (2018) e Il prezzo della democrazia di Julia Cagé (Baldini & Castoldi, 2020).
Ancora meno numerosi sono i ricercatori che sviluppano database tanto voluminosi quanto nuovi per supportare le loro dimostrazioni – pur disponendo delle risorse finanziarie e umane. Il lavoro di Cagé e Piketty, con il sito eccezionale per accessibilità ed esaustività ad esso allegato (unehistoireduconflitpolitique.fr), costituisce infatti uno strumento che talvolta va oltre quelli della statistica pubblica.
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Un'analisi della situazione attuale dello scontro armato tra NATO e Russia
di Sergey Slessarenko*
L’operazione militare russa in Ucraina dura ormai da più di 500 giorni; la maggior parte dei conflitti moderni che attraversano quel limite si protraggono. Dopo il 26 aprile 2022, quando presso la base aeronautica di Ramstein in Germania si è svolto il primo incontro dei rappresentanti di 40 paesi occidentali sulla questione delle forniture di armi all’Ucraina, questo conflitto si è trasformato in uno scontro armato tra Russia e Occidente. Di conseguenza, uno scontro così lungo si sta trasformando in una corsa di complessi militare-industriali e le sue prospettive possono già essere valutate.
Nel marzo di quest’anno, Michael McCaul, presidente della commissione per gli affari esteri della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti, ha affermato che dei quattro pacchetti di aiuti stanziati per l’Ucraina per 113 miliardi di dollari, circa il 60% è andato al complesso militare e militare-industriale degli Stati Uniti per modernizzare le scorte di armi e attrezzature militari. Sembrerebbe che dopo tali iniezioni la produzione del complesso militare-industriale avrebbe dovuto crescere come lievito, ma ciò non sta accadendo.
600 milioni di dollari sono andati direttamente alla Direzione delle Capacità di Produzione della Difesa del Pentagono. Di tale importo, 45,5 milioni di dollari sono andati ad Arconic per espandere la produzione di alluminio di alta qualità. Il fatto è che la Russia controlla oltre il 75% del mercato mondiale dell’alluminio di alta qualità, necessario per la produzione di aerei a reazione e varie attrezzature militari. Ora l’accesso degli Stati Uniti all’alluminio russo è limitato.
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L’Ucraina è in ginocchio e l’Europa alla canna del gas
Giorgio Monestarolo intervista il gen. Fabio Mini
La guerra in Ucraina continua senza che se ne veda la fine. Ma dal febbraio 2022, data di inizio di questa ultima cruenta fase, molto è cambiato, nei luoghi delle operazioni belliche e nello scenario internazionale. Ci sono, al riguardo, analisi critiche anche dall’interno delle forze armate impiegate nei combattimenti. In particolare negli Stati Uniti, ma non solo. Tra le altre spicca, in Italia, quella di Fabio Mini, generale di corpo d’armata a riposo, già capo di stato maggiore del Comando Nato per il Sud Europa e, dall’ottobre 2002 all’ottobre 2003, comandante delle operazioni di pace a guida Nato in Kosovo, nell’ambito della missione KFOR (Kosovo Force). Mini interviene nel dibattito pubblico da vent’anni (è del 2003 il suo primo libro, La guerra dopo la guerra. Soldati, burocrati e mercenari nell’epoca della pace virtuale, pubblicato da Einaudi) e collabora con varie testate, tra cui Limes, la Repubblica e il Fatto Quotidiano. Da ultimo ha pubblicato, per Paper First, Europa in guerra. Sulla situazione dell’Ucraina lo ha intervistato, per Volere la Luna, Giorgio Monestarolo.
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A un anno e mezzo dallo scoppio del conflitto in Ucraina, la guerra sembra essere contenuta a mezzi convenzionali. Secondo molti osservatori, significa che la “deterrenza” sta funzionando, cioè il timore di un conflitto nucleare sta effettivamente mantenendo la guerra entro una cornice gestibile. Nel suo libro, L’Europa in guerra, Lei ritiene invece che la deterrenza non funzioni e che il rischio di una escalation nucleare sia reale.
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Il ponte dell’estrattivismo
di Antudo
Berlusconi non ha fatto in tempo, non è riuscito a veder posare neppure la prima pietra. Eppure, a dirla con franchezza, se quell’onore – si fa per dire – a qualcuno sarebbe dovuto toccare, è solo per l'ennesima prova di giustizia persecutoria che quel qualcuno non potrà mai più esser lui, il primo tenore tra i cantori delle Grandi Opere per un Grande Paese. In una delle frequenti visite profetiche a Messina, nel lontano 2009, tra l’inaugurazione di un plastico e l’altro, l’Unto del Signore si spinse a dire: “Abbiamo mantenuto l’impegno preso con i siciliani, con i calabresi, con tutto il Sud. Il ponte sullo Stretto da oggi è legge e domani sarà realtà”. È davvero una sorte ria quella che vuole il cavallo di battaglia del cavaliere per antonomasia sia finito oggi nelle mani di una triviale controfigura del tutto incapace di far ridere. Certo, prova a spararle grosse anche lui, quel guitto di quart’ordine: il “ponte degli italiani” sarà “la più grande operazione anti-mafia”. Niente da fare. Dall’ex giovane padano non fuoriesce che una parodia patetica della vecchia inarrivabile canaglia di Arcore che, a suo modo, l’ossessione della gioventù ha cercato di coltivarla fino alla fine dei suoi giorni e che di mafia e antimafia sapeva, lui sì, vita, morte e soprattutto miracoli. In questo articolo, il movimento Antudo sottolinea il carattere estrattivista della grande truffa che Matteo Salvini oggi riprova a cavalcare, armato però solo della consueta rozza propaganda e della bieca retorica che serve a coprire la macchina del bluff di sempre con una dozzina di miliardi.
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L’estrattivismo è una forma di accumulazione del capitale finanziario attraverso l’appropriazione della natura e dei beni comuni per convertirli in beni di consumo. […]
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Gomblotto: come le fantasie di complotto alimentano il regime
di Luca Busca
Excusatio non petita, accusatio manifesta
Chiedo venia per l’uso, peraltro occasionale, della prima persona singolare. In un articolo giornalistico questo espediente finisce per svilire la presunta oggettività che l’esposizione di una notizia dovrebbe restituire. Scrivere in prima persona colloca immediatamente l’opera nel mondo immaginario della fantasia o in quello reale dell’espressione di un opinione. Il secondo caso si avvicina molto alla narrazione che segue, racconto che tecnicamente sarebbe stato difficile realizzare in modo impersonale. In secondo luogo, in considerazione della lunghezza quello che segue assomiglia più a un piccolo saggio che a un articolo.
Ciò premesso, questo lavoro costituisce l’epilogo di due articoli da me scritti per Sinistrainrete (divide-et-impera-il-grande-complotto e una-dissidenza-dissennata-dissipa-il-dissenso) in cui esprimevo una forte incredulità in merito a come una larga fetta del dissenso, creato dalla scellerata gestione della pandemia prima e della guerra poi, si perdesse dietro “complottismi” palesemente inesistenti, screditando e indebolendo la diffusione della ribellione. Mi risultava del tutto incomprensibile come si potesse ancora negli anni ’20 del terzo millennio negare l’esistenza di una questione ambientale o, in altri casi, escluderne l’origine antropica per poi imputarla alle scie chimiche chiaramente generate dall’uomo, cadendo nella trappola della reductio ad unum dei cambiamenti climatici. Non ero in grado di decifrare la permanenza del complotto giudaico massonico e del potere occulto del “Deep State” nell’area critica nei confronti del pensiero unico neoliberista. Né come potesse sopravvivere quest’aura destrorsa, conservatrice, tradizionalista e fortemente cattolica in un movimento che si definiva “anticapitalista”.
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Crisi e teoria critica. Qualche modesto appunto
di Alessandro Visalli
Abbiamo assolutamente bisogno di una nuova teoria critica, che non dimentichi le lezioni dei nuclei più alti della storia delle lotte per l’emancipazione (e per quanto mi riguarda di quelle della vasta e multiforme tradizione marxista, ma si potrebbe aggiungere altro come la lezione della psicoanalisi e le teorie del potere e del conflitto, le migliori riflessioni sulla liberazione, le esperienze anticoloniali, e via dicendo), ma che sia anche all’altezza delle sfide presenti (in primo luogo all’altezza della sfida della rottura di queste tradizioni e del fallimento dei tentativi di ‘mobilitazione liberale’[1]).
Ne abbiamo bisogno perché il mondo è in un agghiacciante labirinto e nessuno riesce a capire in che modo uscirne. Dalla fucina della storia è giunto al presente un groviglio inestricabile di problemi rinviati nel continuo equilibrio dinamico di un sistema sociale che non ha mai cessato di trasformarsi, in modo via via accelerato dalla rottura dell’Antico Regime, ma in realtà sin dall’allargamento commerciale del XV secolo. Nel continuo turbinio della lotta per l’affermazione di gruppi sempre diversi, e dello sviluppo materiale e tecnologico che ha tenuto in tensione costante le élite nazionali e i vari outsider, più o meno locali. Facendo un notevole salto temporale si può dire che, guardandolo con senno di poi, avevamo avuto un trentennio di “quasi calma” nell’immediato dopoguerra. Il compromesso sociale, scaturito dal ricordo delle mobilitazioni operaie e sociali del secolo precedente, e dai milioni di morti ed immani distruzioni delle due guerre, è però alfine crollato sotto la spinta di un mondo che cambiava troppo velocemente. Ancora non abbiamo compreso bene perché.
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Il Digital services act. Addio articolo 21 della Costituzione?
di Carlo Magnani
Il 25 agosto è entrato in vigore il Digital Services Act, per ora per le piattaforme online più grandi (quelle con più di 45 milioni di utenti), sino a che sarà applicabile a tutti gli operatori di servizi online a partire dal 17 febbraio 2024. I soggetti interessati sono tutti gli intermediari online, i motori di ricerca e le piattaforme di comunicazione sociale (mercati online, social network, piattaforme di condivisione di contenuti, app store e piattaforme di viaggio e alloggio online) che saranno soggetti a obblighi specifici e crescenti in ragione della dimensione della impresa.
Tanto i lavori preparatori di adozione che l’entrata in vigore sono stati accompagnati da una enfasi – la solita, quando si tratta di prodotti confezionati dalla Unione europea – che non ha lesinato toni entusiastici ed euforici. Finalmente nuove regole e nuovi diritti sul web, maggiore tutela per gli utenti per ciò che attiene la protezione da contenuti illegali (terrorismo, pornografia, truffe online, vendita prodotti pericolosi), dall’incitamento all’odio (ovviamente, immancabile), ma anche da contenuti non illegali ma qualificati come dannosi (la disinformazione).
Il metodo prescelto per attuare tali regole – che rimandano comunque alle legislazioni nazionali per ciò che va considerato illegale, cioè penalmente o amministrativamente rilevante – è quello della co-regolamentazione. Quindi, non una vigilanza esterna da parte di soggetti istituzionali terzi, ma il coinvolgimento diretto delle piattaforme attraverso procedure concertate con organismi tecnici dipendenti direttamente dalla Commissione europea.
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C’era una volta un chatbot
di Andrea Daniele Signorelli
Tra i tanti ruoli che ChatGPT ha rapidamente iniziato ad assumere nelle vite dei milioni di utenti che lo utilizzano su base quasi quotidiana, ce n’è uno probabilmente inatteso. Per molti, il sistema di OpenAI con cui è possibile conversare su ogni argomento, e spesso in maniera convincente, è diventato un amico, un confidente. Addirittura uno psicologo. Una modalità non prevista (almeno esplicitamente) da OpenAI, ma scelta da un numero non trascurabile di utenti, che si relazionano a ChatGPT come se davvero fosse un analista. Per impedire un utilizzo giudicato (per ragioni che vedremo meglio più avanti) improprio e pericoloso, OpenAI impedisce al suo sistema di intelligenza artificiale generativa di offrire aiuto psicologico, che infatti di fronte a richieste di questo tipo si limita a fornire materiale utile da consultare. Ciò però non ha fermato gli “utenti-pazienti” che, su Reddit, si scambiano trucchi e tecniche per sbloccare ChatGPT affinché fornisca loro consigli psicologici.
Joseph Weizenbaum e il suo chatbot ELIZA
Un risvolto che potrebbe sorprendere molti. Uno dei pochi che sicuramente non si sarebbe sorpreso e che avrebbe avuto moltissimo da dire sull’argomento è Joseph Weizenbaum, scienziato informatico e docente al MIT di Boston, scomparso nel 2008. Colui che già parecchi decenni prima della sua morte aveva preconizzato – o meglio, affrontato e approfondito in prima persona – molti degli aspetti che portano le persone a relazionarsi in maniera intima con le macchine e le cause di questo comportamento.
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Un focus sulla guerra
Paolo Arigotti intervista Elena Basile
Elena Basile, diplomatico di carriera dal 1985, ha ricoperto diversi incarichi presso le ambasciate di Madagascar, Canada, Ungheria, Portogallo. Dal 2013 al 2017 è stata ambasciatrice d’Italia a Stoccolma, per poi assumere lo stesso incarico presso la sede diplomatica di Bruxelles. Attualmente lavora come analista di politica internazionale ed ha avviato una collaborazione come free lance per Il Fatto quotidiano. Fra i suoi libri ricordiamo: Donne nient’altro che donne (1995), Una vita altrove (2014), Miraggi (2018), pubblicato anche in lingua francese, In famiglia (2022) e Un insolito trio (2023), che sarà presentato il prossimo lunedì 18 settembre (ore 17,30), al chiostro del Teatro Piccolo di Milano, alla presenza di Moni Ovadia il quale converserà con l’autrice sui temi del libro.
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Ambasciatrice Basile, grazie per averci concesso questa intervista. La prima domanda si riallaccia inevitabilmente all’attualità: a che punto è la guerra in Ucraina, pure alla luce del sostanziale fallimento della controffensiva di Kiev?
Non credo, malgrado lo stallo delle operazioni militari, che sia facile pervenire a un cessate il fuoco e a un armistizio.
E’ vero che gli americani portano già a casa un importante bottino di guerra (Profitti energetici e del complesso militare industriale, separazione dell’Europa dalla Russia, vassallaggio dell’UE e fine dei sogni di autonomia strategica e difesa europea), è vero che la ‘war fatigue’ potrebbe pesare sulla campagna presidenziale di Biden già minacciata dalla salute mentale dello stesso il cui stato è ormai di dominio pubblico, ma non si investono 101 miliardi in una guerra per portare a casa un armistizio che lascia Kiev in condizioni peggiori di quanto era all’inizio del conflitto.
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Un appello all’azione: Lezioni dall’Ucraina per le forze armate del futuro
di Katie Crombe & John A. Nagl
Traduciamo questo recentissimo articolo di due studiosi dell’U.S. Army War College, apparso nel numero di autunno del trimestrale dell’istituzione accademica dell’Esercito statunitense, “Parameters”.
Un anno fa, nell’autunno del 2022, lo United States Army Training and Doctrine Command ha incaricato un piccolo gruppo di studiosi di seguire il conflitto russo-ucraino, dividendosi le principali aree di studio. Gli articoli specifici ad esse dedicati usciranno in futuro.
Questo che presentiamo è un articolo che riassume ed evidenzia i più rilevanti risultati di quegli studi. È difficile sottovalutarne l’importanza, perché in estrema sintesi, gli studi raccomandano un’urgente e radicale riforma strutturale dell’Esercito degli Stati Uniti, comprensiva di un passaggio da una forza esclusivamente volontaria – come sono oggi tutte le forze armate NATO – al ritorno un reclutamento fondato sulla leva obbligatoria parziale.
Quest’ultima raccomandazione consegue alla valutazione dell’elevatissimo livello di perdite che subirebbero le forze NATO in un conflitto analogo a quello in corso in Ucraina, che il capitolo a ciò dedicato prevede in 3.600 perdite al giorno, ossia più di 100.000 perdite al mese.
Nella IIGM, le FFAA statunitensi subirono un totale di 405,399 morti, di cui 291,557 in battaglia, e 670,846 feriti, v. https://dcas.dmdc.osd.mil/dcas/app/summaryData/casualties/principalWars
Buona lettura. Roberto Buffagni
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Per una sanità pubblica e universale
di Chiara Giorgi
Agli ultimi posti Ocse per finanziamenti, il nostro modello di welfare socio-sanitario va rifondato sul benessere delle persone, in termini di salute, di assistenza, di istruzione, di previdenza. Al seminario del Laboratorio su salute e sanità si è iniziato a tracciare un quadro d’azione per rispondere a questa esigenza
La sanità pubblica italiana attraversa tempi molto difficili: è in corso un’accelerazione di quei processi che da tempo stanno minando alcuni principi costitutivi del nostro Servizio sanitario nazionale (SSN), mettendone a repentaglio attività e tenuta. È bene ricordare che quest’ultimo, nato dai conflitti degli anni Sessanta e Settanta, ha segnato il momento di maggiore qualificazione democratica del welfare italiano ed è stato improntato da universalità di copertura, equità di accesso e uguaglianza di trattamento, globalità dell’intervento sanitario, uniformità territoriale, controllabilità e partecipazione democratica, finanziato tramite la fiscalità generale progressiva. I cambiamenti subentrati a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso in Italia e nel contesto internazionale, con la riorganizzazione del capitalismo in chiave neoliberale, hanno segnato una inversione di rotta, le cui conseguenze più gravi sono state portate alla luce dalla pandemia da Covid-19. Quest’ultima ha reso infatti evidenti le inadeguatezze delle condizioni precedenti: i limiti che si sono mostrati nel servizio sanitario pubblico a fronte dell’impatto dell’emergenza sono derivati soprattutto dal suo depotenziamento, dallo spazio lasciato alla sanità privata, dall’indebolimento della medicina territoriale, che aveva informato la fisionomia originaria del SSN.
La pandemia sembrava aver riportato al centro dell’attenzione pubblica il diritto alla salute, fisica e psichica, individuale e collettiva. In questa chiave essa poteva essere l’occasione per tornare a potenziare l’assetto sanitario nazionale sotto più profili, compreso quello essenziale delle attività di prevenzione e delle cure primarie.
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Il distruttore di mondi: Oppenheimer secondo Nolan
di Roberto Paura
L’uomo, lo scienziato, l’intellettuale, il pacifista che rese possibile la guerra atomica in un biopic
Proviamo a fare un esperimento mentale, di quelli che gli storici chiamano “storia controfattuale” e gli appassionati di fantascienza “ucronia”. Immaginiamo che la scoperta della fissione nucleare, avvenuta nel 1938 in Germania, non si fosse verificata alla vigilia della Seconda guerra mondiale ma, poniamo, dieci anni prima. Siamo stati abituati a immaginare un mondo in cui Hitler ottiene l’atomica prima degli americani, come quello tratteggiato in L’uomo nell’alto castello di Philip K. Dick (1962) e nella serie televisiva che ne è stata tratta, perché era l’incubo che ossessionava gli uomini di Los Alamos e che anche dopo Hiroshima e Nagasaki li convinse ad aver agito bene: se non lo avessero fatto, se Albert Einstein e Leo Szilard non si fossero impegnati a convincere il presidente Roosevelt a investire nella fabbricazione della bomba, vivremmo – si diceva – in un mondo dominato dal nazismo. Eppure, per quanto a lungo si sia favoleggiato di possibili sabotaggi da parte degli scienziati atomici tedeschi del programma nazista per la bomba atomica, la verità più prosaica era che persino Werner Heisenberg, che ne guidò gli sforzi, si convinse che difficilmente una reazione a catena potesse sostenere altro che un reattore per la produzione di energia, come mostrano anche le registrazioni dei dialoghi dei fisici tedeschi prigionieri a Farm Hall dopo la caduta del Terzo Reich, che mostrano l’incredulità alla notizia dei bombardamenti atomici americani. No, i nazisti non stavano costruendo una bomba e l’idea fu liquidata da Hitler e dal suo ministro degli armamenti Albert Speer come una fantasia da scienziati pazzi.
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György Lukàcs: Storia e coscienza di classe ha 100 anni. Ma non li dimostra
di Laura Pennacchi
Laura Pennacchi, sullo sfondo di un suo viaggio memorabile a Budapest a fine anni ‘60 per conoscere Lukàcs, ci mostra la perdurante attualità di Storia e coscienza di classe, a 100 anni dalla pubblicazione, restituendoci la figura di un grande maestro e intellettuale. Da tenere a mente ancora oggi: la dimensione spirituale del potere; il ruolo della conoscenza e della soggettività; la progressiva reificazione del sociale e del naturale nel capitalismo, favorita dal convincimento della calcolabilità di tutto, dal dominio dell’economico e dall’alienazione degli individui da sé
Sono passati cent’anni dalla pubblicazione, nel 1923, di Storia e coscienza di classe di György Lukàcs e a me sembrano un nulla, così come mi sembra un nulla il tempo trascorso da quando scopersi, alla fine degli anni ’60, quella che si era rivelata una delle più controverse, ma anche più influenti, opere del marxismo del Novecento. La sua straordinarietà derivava dal fatto che in quel testo il giovane Lukàcs aveva condensato elementi della comune riflessione con Rosa Luxenburg – la dialettica di movimento e scopi, la coscienza luogo privilegiato di maturazione, la prassi strumento in primo luogo educativo – in una teoria della storia e della società come totalità costruita attorno alla generalizzazione della “forma merce” (dalla cui concettualizzazione rimase influenzato anche l’Heidegger di “Essere e tempo”) e ai processi di “feticizzazione”, “reificazione”, “alienazione” che ne erano scaturiti, dando un rilievo cruciale agli elementi sovrastrutturali rispetto a quelli strutturali e facendo saltare la stessa distinzione tra struttura e sovrastruttura. L’enigma della merce sta nel fatto che un rapporto, una relazione tra persone viene reificata, riceve cioè il carattere della cosalità e quindi “un‘oggettualità spettrale’ che occulta nella sua legalità autonoma, rigorosa, apparentemente conclusa e razionale, ogni traccia della propria essenza fondamentale: il rapporto tra uomini”. Dall’ambito produttivo la struttura di merce si estende all’intera vita della società, diventa una categoria universale dell’essere sociale e le leggi che regolano il mondo delle cose e i rapporti tra le cose “pur potendo a poco a poco essere conosciute dagli uomini si contrappongono ugualmente ad essi come forze che non si lasciano imbrigliare e che esercitano in modo autonomo la propria azione”.
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Il disadattamento delle élite occidentali
Intervista a Roberto Iannuzzi
Il sito italiaeilmondo.com ha iniziato a rivolgere quattro domande a Aurelien[1], e continua a proporle, identiche, a diversi amici, analisti, studiosi italiani e stranieri. Oggi risponde Roberto Iannuzzi, che ringraziamo sentitamente per la sua gentilezza e generosità. Roberto Iannuzzi è stato ricercatore presso l’Unimed (Unione delle Università del Mediterraneo). Il suo ultimo libro, Se Washington perde il controllo. Crisi dell’unipolarismo americano in Medio Oriente e nel mondo, è uscito nell’aprile 2017. Qui il collegamento con la raccolta di tutti gli articoli sino ad ora pubblicati [Giuseppe Germinario, Roberto Buffagni].
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1) Quali sono le ragioni principali dei gravi errori di valutazione commessi dai decisori politico-militari occidentali nella guerra in Ucraina?
Per comprendere quali sono state le ragioni degli errori occidentali (e bisogna distinguere quelli americani da quelli europei) nella crisi ucraina, è necessario partire da una premessa: l’Occidente attraversa una profonda crisi politica, economica, sociale e culturale, il cui spartiacque è rappresentato dal tracollo finanziario del 2008. Se l’11 settembre aveva segnato la crisi “culturale” (se mi si passa il termine) della globalizzazione nell’era unipolare americana, allorché l’omogeneizzazione senza precedenti imposta dal modello globalizzato occidentale aveva ceduto il passo alla logica dello “scontro di civiltà”, il tracollo finanziario del 2008 ha fatto emergere le gravi crepe presenti nelle fondamenta economiche di tale modello. Gli americani escono da quella crisi non solo con una credibilità a pezzi – agli occhi soprattutto del mondo non occidentale – riguardo al loro sistema finanziario ed al modello di globalizzazione da essi propagandato, ma anche con due guerre enormemente dispendiose e fallimentari alle spalle, in Iraq e Afghanistan.
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In terra ostile: il destino della modernità occidentale e i suoi critici
di Carlo Magnani
Il pubblico de “La fionda” è costituito per lo più da persone che – come lo scrivente – “vengono” da sinistra, si sono cioè formate sui testi e sui temi classici della sinistra novecentesca, votandone i partiti storici o le frattaglie derivanti da scissioni e rifondazioni varie. Tutte queste persone sono però altamente insoddisfatte della sinistra, in tutte le sue varianti, nella sua configurazione attuale: europeismo a prescindere, oblio dei diritti sociali e precarizzazione del lavoro, atlantismo “senza se e senza ma”, sono alcuni dei punti di forte critica verso la narrazione progressista. Questo pubblico può risultare, al massimo dell’eresia, ben propenso verso il “momento populista”, vedendo nell’attenzione a temi socialmente sentiti da larghe masse della popolazione collocate fuori dalla fatidica “Ztl” una opportunità per ri-creare finalmente una “vera” sinistra. Questa breve premessa solo per illustrare che il compito che mi sono dato – segnalare ai lettori de “La fionda” il libro di Boni Castellane “In terra ostile” – è una impresa ardua, che va però compiuta. Come sostenere di fronte a tale comunità la bontà di una riflessione che si colloca del tutto al di fuori dei margini del perimetro della sinistra, anzi, che sta proprio dalla parte opposta?
Boni Castellane è un nome di fantasia, impiegato da un opinionista che scrive sul quotidiano “LaVerità”: il successo della rubrica ha dato l’abbrivio per una iniziativa editoriale sfociata nella pubblicazione del libretto titolato appunto “In terra ostile”. A sentire l’anonimo Autore, molto attivo su X (ex Twitter), le vendite hanno ad oggi raggiunto, dopo una seconda edizione, quota 15.000, che non solo per la saggistica ma anche per la narrativa costituisce per il mercato nazionale una quota quasi eccezionale: nessun giornale o media ne ha chiaramente parlato.
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Le difficoltà della Germania e quelle dell’Ue
di Vincenzo Comito
Districarsi nella crisi tedesca non è facile. Al centro va messa la questione dell’auto, industria strettamente legata alla componentistica italiana. Di sicuro la crisi è europea, riguarda la guerra in Ucraina, ma anche l’incapacità dimostrata finora dall’Europa di capire quale strada intraprendere, stretta tra Cina e Usa
Negli ultimi mesi i giornali si sono dedicati con particolare attenzione agli sviluppi economici recenti del paese teutonico. Forse i titoli più significativi in proposito sono quelli di un numero recente dell’Economist: “L’economia tedesca usava ispirare invidia, presto ispirerà solo preoccupazione” o di quello pubblicato da Die Zeit, “Il Made in Germany è finito”.
Ieri ed oggi
A partire grosso modo dal l’inizio del nuovo secolo e fino quasi alla fine della seconda decade dello stesso la crescita del Pil tedesco è stata superiore a quella di tutti gli altri grandi paesi europei.
Come sottolineato da più parti, il successo del modello economico del paese si basava su almeno quattro ingredienti. Intanto sulla leadership tecnologica nell’industria, in particolare in alcuni suoi settori, i veicoli, la chimica, la meccanica tra gli altri; poi sulla competitività di costo dei suoi prodotti, risultato dovuto, tra l’altro, da una parte al fatto che al momento del varo dell’euro il cambio con il marco fu fissato ad un livello molto favorevole alla Germania, dall’altra alla larga disponibilità di fonti di energia russa a buon mercato; ancora, tale successo era dovuto alla stabilità geopolitica e al costante sviluppo dell’economia mondiale guidato dall’Asia e in particolare alla crescita del commercio internazionale; infine, alla forte coesione sociale e politica interna.
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La pedagogia del potere: come le classi dominanti operano per impedirti di comprendere chi comanda
di Chris Hedges*
Mi trovo in un'aula di un carcere di massima sicurezza. È la prima lezione del semestre. Ho di fronte 20 studenti. Hanno trascorso anni, a volte decenni, in prigione. Provengono da alcune delle città e comunità più povere del paese. La maggior parte di loro sono persone di colore.
Nei prossimi quattro mesi studieranno filosofi politici come Platone, Aristotele, Thomas Hobbes, Niccolò Machiavelli, Friedrich Nietzsche, Karl Marx e John Locke, quelli spesso liquidati come anacronistici dalla sinistra culturale.
Non è che le critiche rivolte a questi filosofi siano errate. Erano accecati dai loro pregiudizi, come noi siamo accecati dai nostri. Avevano l'abitudine di elevare la propria cultura al di sopra delle altre. Spesso difendevano il patriarcato, potevano essere razzisti e, nel caso di Platone e Aristotele, appoggiavano una società schiavistica.
Cosa possono dire questi filosofi sui problemi che affrontiamo: il dominio aziendale globale, la crisi climatica, la guerra nucleare e un universo digitale in cui le informazioni, spesso manipolate e talvolta false, viaggiano istantaneamente in tutto il mondo? Questi pensatori sono reliquie antiquate? Nessuno nella facoltà di medicina legge testi medici del 19 ° secolo. La psicoanalisi è andata oltre Sigmund Freud. I fisici sono passati dalla legge del movimento di Isaac Newton alla relatività generale e alla meccanica quantistica. Gli economisti non sono più radicati a John Stuart Mill.
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Come combatterà la NATO
di Enrico Tomaselli
La direzione in cui sta evolvendo la dottrina militare statunitense – e quindi della NATO – in vista dei nuovi confronti militari per i quali si sta attrezzando, serve a dare un'idea non solo delle strategie geopolitiche perseguite, ma anche di come queste impatteranno sulle società occidentali. Oltre a mostrare tutti i limiti del pensiero strategico nel declinante impero
Già qualche anno addietro, il Pentagono ed il Dipartimento della Difesa si erano posti il problema di aggiornare la dottrina operativa militare statunitense, poiché quella in uso (l’AirLand Battle) risaliva agli anni ‘80; ed era “ormai ben oltre la sua data di scadenza” [1]. L’esperienza della guerra in Ucraina, a cui i comandi USA partecipano pienamente a livello strategico, e dalla quale traggono informazioni dirette a livello tattico, ha reso ancora più evidente questa necessità. Capire come questa trasformazione si stia orientando, quali lezioni abbia tratto del conflitto in corso, può in qualche misura aiutare a comprendere molto altro, rispetto a quelle che saranno le guerre future che impegneranno le forze armate NATO, e quindi le strategie geopolitiche di Washington.
Fondamentalmente, l’idea su cui si sta fondando il nuovo Joint Warfight Concept (Concetto di Combattimento Combinato) rappresenta una prima, radicale rivoluzione concettuale. Se, infatti, a partire dalla fine della guerra fredda la dottrina strategica americana è sempre stata basata sulla prospettiva di guerre asimmetriche (contro avversari tecnologicamente ed industrialmente assai più deboli), concretizzando così l’impostazione ideologica degli USA come polizia mondiale, adesso il JWC viene esplicitamente concepito in funzione di guerre simmetriche, contro un avversario di pari potenza e capacità [2]. Per converso, sembra permanere un vizio ideologico-culturale, ovvero la presunzione di una propria indiscutibile superiorità, che si manifesta sia esplicitamente, sotto forma di dichiarazioni ufficiali (“superiamo gli avversari grazie a un pensiero, a una strategia e a una manovra superiori”, “l’unico vantaggio che non potranno mai smussare, rubare o copiare, per quanto ci provino, perché è insito nel nostro popolo, è l’ingegno americano” [3]), sia implicitamente, nell’insistere su un modello di warfare tecnologico – mostrando in questo di non aver appreso appieno la lezione ucraina.
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Quello che anche un bambino dovrebbe sapere sulla teoria del valore di Marx
di Michael A. Lebowitz
La legge del valore funziona in modi misteriosi. Per alcuni marxisti, essa è alla base di tutto ciò che dobbiamo sapere sul capitalismo.[1] Ma, così come Karl Marx affermava di non essere marxista, allo stesso modo avrebbe potuto dire: «Questa non è la mia legge del valore».
È tutta una questione di allocazione* del lavoro
«Che sospendendo il lavoro, non dico per un anno, ma solo per un paio di settimane, ogni nazione creperebbe, è una cosa che ogni bambino sa. E ogni bambino sa pure che le quantità di prodotti, corrispondenti ai diversi bisogni, richiedono quantità diverse, e quantitativamente definite, del lavoro sociale complessivo». Karl Marx [2]
Ogni bambino ai tempi di Marx potrebbe aver sentito parlare di Robinson Crusoe. Quel bambino potrebbe aver sentito dire che sulla sua isola Robinson doveva lavorare per non morire, che aveva «bisogni [di vario genere] da soddisfare». A tal fine, Robinson doveva «compiere lavori utili di vario genere»: costruiva mezzi di produzione (utensili), cacciava e pescava per il consumo immediato. Si trattava di funzioni diverse, ma tutte erano soltanto «modi differenti di lavoro umano», il suo lavoro. Dall'esperienza, sviluppò la Regola di Robinson: «Proprio la necessità lo costringe a dividere esattamente il proprio tempo fra le sue differenti funzioni». In questo modo, imparò che la quantità di tempo dedicata a ciascuna attività dipendeva dalla sua difficoltà, cioè dalla quantità di lavoro necessaria per ottenere l'effetto desiderato. Date le sue esigenze, imparò come allocare il suo lavoro per sopravvivere.[3]
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“Sistema di credito sociale” cinese: tutte le menzogne e le ipocrisie dell'occidente
di Leonardo Sinigaglia
Sin dall’inizio del suo primo mandato a Segretario Generale del Partito Comunista Cinese, Xi Jinping diede grande attenzione al tema della legalità, sostenendo l’unità dialettica tra il processo globale di riforma e il rafforzamento dello Stato di diritto, una visione i cui riflessi si possono notare nella lotta alla corruzione, nel rafforzamento della disciplina e nell’impegno per regolamentare il mondo digitale. Pochi mesi dopo essere stato eletto Segretario Generale, parlando ad una sessione di studio dell’Ufficio Politico, affermò come “la costruzione di una società moderatamente prospera in ogni suo aspetto [avesse] reso più forte l’esigenza di un governo secondo la legge”, rendendo necessario ottenere “una legislazione più scientifica, un’applicazione più severa della legge, un potere giudiziario più giusto e una maggiore osservanza della legge da parte di tutti i cittadini” e promuovere “un controllo, un governo e un’amministrazione dello Stato basati sulla legge, [...] uno Stato, un governo e una società fondati sul diritto, al fine di creare una nuova situazione di Stato di diritto”[1]. La difesa dei cittadini da arbitrio e abusi dei funzionari, dal potere delle tangenti e dall’incertezza di un diritto non codificato si qualificavano come parti integranti di quella prosperità comune che il Partito Comunista Cinese si prefiggeva di costruire, ma allo stesso tempo lo sviluppo del principio di legalità avrebbe anche sostenuto “il solido sviluppo economico e sociale del nostro paese e [aperto] più ampi spazi di sviluppo per il socialismo con caratteristiche cinesi"[2].
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Draghi e l’Unione Europea, affondati dalla guerra
di Claudio Conti - Guido Salerno Aletta
O Mario Draghi ha perso i suoi superpoteri oppure non li aveva mai avuti, ma l’avevano disegnato così…
A leggere la tremenda tranvata riservatagli da Milano Finanza non c’è atto, svolta, “successo”, “invenzione” di SuperMario che non abbia prodotto disastri. E da un punto di vista esclusivamente capitalistico, sia ben chiaro.
A scrivere è ancora una volta Guido Salerno Aletta, che citiamo spesso perché non è un “analista da centro studi”, ma l’ex vicesegretario generale di Palazzo Chigi e tante altre cose; ossia persona che ha visto (e cogestito) incontri e scontri internazionali, trattative, misurando interessi nazionali e/o aziendali differenti o addirittura contrapposti. Un “uomo del fare”, insomma, sul versante istituzionale.
La critica esplicita a Mario Draghi, dopo la sua recente sortita sull’Economist di cui abbiamo già parlato, è insomma la traduzione quasi “divulgativa” di una insofferenza ormai generale verso un certo tipo di governance che ha prodotto la situazione attuale.
È anche, in modo indiretto, un ripudio della stagione neoliberista, della svalutazione del ruolo dello Stato a totale vantaggio delle imprese (e delle multinazionali, in specie finanziarie), del “mercantilismo” che ha dominato per quasi 40 anni in Europa e che ha sagomato – squilibrandoli oltre ogni limite – i rapporti di forza tra i vari paesi.
Di fatto, dunque, una demolizione del mito “positivo” della stessa Unione Europea, che di quella stagione è stata l’infrastruttura semi-statuale.
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11 settembre 1973, Cile: la solitudine del cittadino
di Tomàs Moulian
L’11 settembre il governo presieduto da Salvador Allende viene rovesciato dall’esercito sotto la guida di Augusto Pinochet. Ma cosa è successo alla società cilena? Come andare avanti, se non dimenticando? Oggi su Scenari un estratto di “Una rivoluzione capitalista. Il Cile, primo laboratorio mondiale del neoliberismo” di Tomás Moulian
La riverniciatura del Cile
1. Oblio
Un elemento decisivo del Cile Attuale è la compulsione all’oblio. Il blocco della memoria è una situazione che si ripete in società che hanno vissuto esperienze limite. Lì questa negazione del passato genera la perdita del discorso, la difficoltà della favella. Mancano le parole comuni per nominare il vissuto. Trauma per gli uni, vittoria per gli altri. Un’impossibilità di parlare di qualcosa che viene denominato in maniera antagonistica: golpe, pronunciamento, governo militare, dittatura, bene del Cile, catastrofe del Cile.
Per alcuni, a volte le stesse vittime, il dimenticare viene vissuto come il riposo, la pace dopo lunghi anni di tensione, la sicurezza dopo tanta incertezza. Il calore sicuro di un focolare dopo una lunga camminata sotto le intemperie. Che senso avrebbe rivivere il dolore? riproporre ad ogni istante l’incubo? Perché riprendere un tema che divide e produce astio, a volte paura, in persone impregnate di lutto e di lacrime?
Per altri, per molti dei convertiti che oggi si fanno strada su alcune delle piste del sistema, l’oblio rappresenta il sintomo oscuro del rimorso di una vita negata, che appanna il senso della vita nuova. Questo oblio è un mezzo di protezione contro ricordi laceranti, percepiti per qualche istante come incubi, reminiscenze fantomatiche del vissuto. È un oblio che si incrocia con la colpa del dimenticare.
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IA. Frammenti del dialogo tra Sam Altman e Lex Fridman
di Eugenio Donnici
Prologo (1)
Lex Fridman apre il dialogo con Sam Altman sull’IA e afferma che ci troviamo nel punto più alto di una profonda trasformazione sociale, di cui nessuno, incluso lui stesso, conosce gli esiti a priori. In molti percepiscono che il cambiamento si propaghi all’interno delle nostre vite.
Il passaggio cruciale avviene, quando nel novembre 2022, un’azienda californiana chiamata OpenAI, il cui CEO è Altman, ha lanciato ChatGPT, una chat capace di conversare con i suoi utenti con la stessa naturalezza di un essere umano.
La macchina simula il ragionamento umano e genera un testo scritto, connesso con le nostre richieste.
Che cos’è ChatGPT? Che cosa la rende appetibile?
Tale chatbot fa parte dei modelli GPT (Generative Pre-trained Transformer), tecnicamente chiamati LLM (Large Language Model) e basati sul machine learning. I LLM sono algoritmi di deep learning addestrati generalmente su milioni di testi provenienti da varie fonti: libri, articoli di giornale e siti web. La tecnica del deep learning consiste nell’utilizzare una rete neurale artificiale, cioè un modello matematico che si ispira al funzionamento delle reti neuronali biologiche, per comprendere il significato di un testo e generare un output, in base al modo in cui formuliamo le domande.
In che modo s’addestra la macchina ad apprendere?
Il processo prende corpo dal RL-HF, ossia Renforcement Learning whith Human Feedback, cioè le macchine imparano attraverso i riscontri umani che funzionano come rinforzi.
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Il capitale nella crisi: una riflessione su “Ecologia-mondo e crisi del capitalismo. La fine della natura a buon mercato” di Jason W. Moore
di Alice Dal Gobbo
Esce quest’anno per Ombre Corte la riedizione di quello che è ormai diventato un classico dell’ecologia politica: Ecologia-mondo e crisi del capitalismo. La fine della natura a buon mercato di Jason W. Moore (a cura di Gennaro Avallone). Va innanzitutto sottolineato che questo libro, così importante per evidenziare il taglio politico e geopolitico dell’ecologia-mondo di Moore, non esisterebbe senza la dedizione e l’impegno di Gennaro Avallone, che ha selezionato e tradotto dei saggi altrimenti “sparsi”, legandoli assieme attraverso un lavoro di riflessione, tessitura e sintesi. Uscito per la prima volta nel 2015, questo libro ha accompagnato pratiche e dibattiti attorno alla crisi ecologica in relazione al capitalismo, proprio nel momento in cui i movimenti per la giustizia climatica cominciavano a strutturarsi e guadagnare spazi di protagonismo. Quando la crisi ecologica è stata definitivamente individuata dal dibattito e dai movimenti come fallimento del capitalismo: non soltanto come effetto collaterale ma come implicazione profonda delle sue logiche di dominio, sfruttamento e appropriazione.
Questo volume ha anche attraversato due crisi profondissime che si innestano sulla più ampia destabilizzazione climatica, e che le sono intrecciate in modo complesso: la pandemia Covid-19 e la guerra cosiddetta Russo-Ucraina (forse la Terza Guerra Mondiale). Da un lato, questi avvenimenti hanno segnato una parziale battuta d’arresto nella potenza che i movimenti per la giustizia climatica erano riusciti a esprimere nel 2019, e ancor di più nell’interesse verso questo tema da parte delle istituzioni.
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