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Venezuela, la destra abbaia ma il popolo non la segue
di Geraldina Colotti
“Se un cane morde un uomo non fa notizia, ma se un uomo morde un cane, sì”. La frase data del 1882, viene attribuita a John B. Bogart, caporedattore del New York Sun e viene solitamente citata nelle prime lezioni di giornalismo per introdurre i reporter al favoloso mondo dell’informazione modello nordamericano. Da quando, però, la storia, da scontro di interessi fra le classi è stata trasformata in “narrazione”, e l’informazione in una merce al servizio dei grandi oligopoli, che la gestiscono e frammentano nei centri di smistamento globale, il trucco è quello di trasformare i fatti in uno spettacolo da baraccone, occultandone l’origine e le cause, per costruire “matrici d’opinione”.
Il Venezuela, e prima ancora Cuba, esempio di resistenza e prospettiva generale, ne sono una prova: qualunque latrato, emesso ad uso mediatico dai personaggi agiti da Washington viene moltiplicato fino a sembrare, a seconda degli obiettivi – mostrare forza, commuovere o convincere - un ruggito, o il guaito di un animaletto perseguitato, o la canea minacciosa di una muta che attacca.
Lo schema si intensifica, in Venezuela, a ogni appuntamento elettorale. A cinquant’anni dal golpe in Cile dell’11 settembre 1973, l’imperialismo Usa la pensa ancora come Kissinger che così diceva qualche mese prima della vittoria di Allende alle elezioni del 1970: “Non vedo perché dobbiamo aspettare e permettere che un paese diventi comunista solo per l’irresponsabilità del suo popolo”. Un’”irresponsabilità” che il popolo venezuelano si è assunta da 25 anni, votando ripetutamente il socialismo bolivariano, e per questo continua a sopportare un assedio multiforme, tanto feroce quanto inutile, definito con il termine di “sanzioni”, ma che deve intendersi con quello di “misure coercitive unilaterali”.
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Cina. La versione del PCC: “Otto idee sbagliate sull’espansione della domanda interna”
di Chen Long
Traduciamo questo articolo apparso il 16 agosto su 学习时报 Study Times, il giornale ufficiale della Scuola Centrale del Partito Comunista Cinese.
Mentre i dati sul rallentamento economico cinese facevano discutere tutto il mondo, sono state lanciate varie proposte per gestire l’annoso problema dei consumi interni, in crescita da decenni ma comunque molto squilibrati rispetto alla crescita degli investimenti.
Come segnala la newsletter Pekingnology che ha tradotto l’articolo per primo in inglese, la firma dell’articolo è di Chen Long, che risulta essere ricercatore della Chinese Academy of Financial Sciences, ma anche un nome maschile talmente comune da poter essere considerato un nom de plume usato per porre il punto di quello che l’apparato statale pensa sul dibattito attorno allo stimolo dei consumi.
Aldilà di considerare popolari o impopolari i giudizi di Chen Long, di considerarli giusti o sbagliati, ne pubblichiamo la traduzione per dare un mezzo per capire quale sia il tipo di dibattito interno alla Cina in questo momento e per quali motivi le autorità di Beijing non stiano attuando determinati “suggerimenti” che arrivano dall’estero.
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Svelare otto idee sbagliate sull’espansione della domanda interna
Nella prima metà del 2023, la performance economica cinese generale è stata positiva, l’innovazione ha continuato a guadagnare forza. Rimangono in ogni caso sfide e pressione sul raggiungimento dello sviluppo di alta qualità a causa di complessi fattori domestici e internazionali. La contraddizione principale dell’attuali meccanismo macroeconomico cinese è l’insufficiente domanda interna.
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L’estate sta finendo, anche a scuola
di Autori Vari
La Neoscuola delle libertà
di Daniela Di Pasquale
Qualche anno fa, il comico Corrado Guzzanti realizzò alcuni fortunati sketch televisivi in cui simulava gli spot elettorali della berlusconiana Casa delle Libertà, dove tutto si poteva fare liberamente, anche le più assurde indecenze, chiosando alla fine con il motto “È la Casa delle Libertà, facciamo un po’ come c…. ci pare”.
Ecco, quello che sta accadendo alla scuola italiana in questo periodo storico è più o meno la stessa cosa, presa d’assalto com’è da esperti pedagogisti di varia forma e natura che hanno aperto le porte a un libertarismo insulso, corredato da un buonismo indulgente senza senso. È iniziata l’era della Neoscuola delle libertà, dove si può fare un po’ come ci pare: è l’autonomia scolastica, bellezza! Tanto nessuno va a verificare se gli studi su cui si basano le elucubrazioni dei sedicenti esperti siano convalidate o meno da tutta la letteratura scientifica; è molto più comodo delegare la nostra cultura professionale e comunitaria ai teorici dell’apprendimento.
Oggi pochissimi osano contestare la degradazione della professionalità docente a cui stiamo assistendo negli ultimi anni. Agli insegnanti ci si rivolge come a dei profani e questa delega agli specialisti in ogni settore è diventata una sorta di religione di Stato, come scrisse Ivan Illich (che riprendo da Boarelli): ecco allora che il professionista-sacerdote impone soluzioni a chi non ha saputo nemmeno riconoscere il problema.
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Robert Kaplan: pensare tragicamente
di Lelio Demichelis
Senza ordine non vi è società e l’ordine è l’essenza della civiltà. E senza tradizione non vi è ordine né gerarchia. E la gerarchia è la base per l’ordine sociale e politico. Altrimenti si cade nell’anarchia. Ma è davvero così o questi sono solamente luoghi comuni di cui ci nutre il conformismo e la propaganda del potere?
Non dovremmo dire invece che senza un disordine positivo e performativo – non il caos per il caos, ma un pensiero critico che dis-ordina appunto l’ordine ingiusto – non vi è vera civiltà e civilizzazione? Ma poi: quale ordine? Quello meravigliosamente imperfetto della democrazia? Quello apparentemente perfetto dei totalitarismi, delle teocrazie o dell’Intelligenza Artificiale? Quello costruito dalle discipline e dalla biopolitica secondo Michel Foucault – o dallo human engineering oggi digitale? Quello fondato socraticamente su ragione, pensiero critico e dialogo?
Su tutto – e ormai dentro tutti noi – c’è in realtà il potere e l’ordine moderno e postmoderno o ipermoderno della rivoluzione industriale e del tecno-capitale, ben rappresentato da Charlie Chaplin nell’incipit di Tempi moderni (film del 1936), con le masse di lavoratori che escono dalla metropolitana, tutti andando ordinatamente al lavoro, muovendosi come un gregge assoggettato all’ordine im-posto da un orologio, cioè dalla forma e norma matematica e calcolante del pastore-capitale; e dove l’unica differenza tra allora e oggi è che oggi abbiamo lo smartphone, ma sempre il nostro lavoro e la nostra vita sono organizzati, comandati e sorvegliati dal tecno-capitale mediante un dispositivo tecnologico e insieme normativo e conformante che ci detta tempi e modi del nostro dover vivere, un dispositivo fatto credere smart quando è invece alienante come forse mai nella storia umana.
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BRICS, Johannesburg attraverso la documentazione ufficiale, guardando al 2024
di Gianmarco Pisa*
Il recente vertice dei Paesi BRICS in Sudafrica, da buona parte degli osservatori giustamente definito «storico», ha segnato una tappa di sviluppo particolarmente significativa nell’evoluzione delle relazioni all’interno della piattaforma e, in generale, nella prospettiva della cooperazione sud-sud e degli equilibri internazionali.
Una chiara indicazione di tali conseguimenti è contenuta nella comunicazione diramata dalla presidenza sudafricana del vertice con la quale, lo scorso 24 agosto, sono stati annunciati i più importanti risultati conseguiti: si è deciso «di incaricare i Ministri delle Finanze… di prendere in esame la questione delle valute locali, degli strumenti e delle piattaforme di pagamento»; si è raggiunto un accordo «sui principi-guida, gli standard, i criteri e le procedure del processo di espansione dei BRICS» vale a dire della trasformazione progressiva dei BRICS in un vero e proprio BRICS+ con l’ingresso di nuovi Paesi. Si è deciso poi, a conclusione del vertice, di «invitare la Repubblica Argentina, la Repubblica Araba d’Egitto, la Repubblica Federale Democratica dell’Etiopia, la Repubblica Islamica dell’Iran, il Regno dell’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti a diventare membri a pieno titolo dei BRICS dal 1° gennaio 2024» e di «sviluppare ulteriormente il modello di partenariato dei BRICS e un elenco di ulteriori Paesi potenziali partner», in modo da ampliare il numero di Paesi che entreranno a fare parte di questo sistema.
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L’assalto al cielo. Militanza e organizzazione dell’Autonomia operaia
di Valerio Guizzardi e Donato Tagliapietra
Parte I
Come dare, e organizzare, percorsi di rottura al cuore dello sviluppo capitalistico? Quali i comportamenti potenzialmente sovversivi su cui costruirli, oggi? Quali punti di metodo ancora inattuali trarre dall’esperienza militante di quella generazione politica che per ultima ha tentato l’“assalto al cielo”?
Sono le domande implicite che hanno mosso il terzo incontro del ciclo MILITANTI, tenuto a Modena sabato 13 maggio. Una bella, intensa, arricchente chiacchierata con Valerio Guizzardi e Donato Tagliapietra, militanti autonomi degli anni Settanta – di Rosso, la prima e più originale formazione dell’Autonomia operaia, e dei Collettivi politici veneti per il potere operaio, la più larga, radicata e duratura organizzazione politica dell’Autonomia – autori dei due libri che troverete in fondo a questa prima parte del loro intervento.
Una chiacchierata che fin da subito non ha voluto essere sul passato, per “reduci” o “nostalgici” fuori tempo massimo, ma immediatamente sul presente, per ragionare su alcuni dei nodi che chiunque abbia l’ambizione di conquistare una prassi militante adeguata ed efficace dentro e contro il proprio tempo si trova inevitabilmente a dover affrontare.
I comportamenti di rifiuto e il salario sganciato dalla produttività. La società che diventa fabbrica e la ricerca della soggettività operaia. Il radicamento nel territorio e nella composizione di classe, e l’esercizio del contropotere. La spontaneità di movimento e la disciplina di progetto politico. L’organizzazione autonoma e l’autonomia di classe. L’uso materiale della forza e la forza materiale del significato vivo dell’essere “compagni”.
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Diario della crisi | Gli spettri del debito cinese
di Christian Marazzi
In questa estate infuocata, una possibile tempesta (non solo meteorologica) potrebbe abbattersi sul sistema finanziario globale. Christian Marazzi analizza i rischi connessi al possibile scoppio di una bolla immobiliare in Cina. Il crescente indebitamento di alcuni colossi del real estate evidenziano le difficoltà dell’economia cinese a riprendersi dopo i lock-down del Covid. Anche se il sistema finanziario cinese è chiuso e non vi è libera circolazione dei capitali (per loro fortuna), le ripercussioni sui mercati finanziari globali potrebbero essere rilevanti. Tutto ciò si inquadra in un processo di ridefinizione degli assetti geopolitici, stretti tra il tentativo Usa di mantenere l’egemonia economico-finanziaria (sempre più in difficoltà) e l’aspirazione dei paesi Brics di costruire un mondo multipolare
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Il superciclo del debito
Intervistato da Eugenio Occorsio sulla crisi cinese (la Repubblica, 19 agosto), l’economista americano Kenneth Rogoff (Harvard) fissa così i termini della questione: “Purtroppo sta verificandosi quanto, con altri economisti come Larry Summers, avevamo immaginato da tempo: il ‘superciclo del debito’, lo stesso che aveva messo in ginocchio gli Stati Uniti nel 2008 e l’Europa nel 2010, ora si abbatte sulla Cina. Le conseguenze possono essere molto dolorose per tutti”. Il premio Nobel Robert Shiller, intervistato sempre da Occorsio il 21 agosto, introduce un altro fattore nella spiegazione della crisi in Cina, per ora circoscritta al settore immobiliare: “A questo punto non rimane che attendere i risultati delle misure d’emergenza approntate a Pechino, compreso il cambio di narrazione.
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Politica che comanda l’economia. Il segreto della Cina
di Redazione Contropiano - Guido Salerno Aletta
Ragionare in termini ideologici (non “teorici”, che è all’opposto attività molto seria) porta sempre i un buco nero del pensiero da cui non si sa più come uscire.
È quel che avviene quasi sempre quando si prova a dare un giudizio sulle società “di transizione” dal capitalismo come lo conosciamo qui in Occidente (il neoliberismo praticamente senza freni) ad altre forme più o meno “progettate”.
In genere ci si ferma quasi subito di fronte alla domanda “è socialismo oppure no?”. Siccome la domanda è posta quasi sempre in termini, appunto “ideologici” – come se una società reale potesse corrispondere a criteri astratti, per altro molto variabili da “pensatore” a “pensatore” – la risposta non può che essere sempre negativa. Sia che si parli dei Soviet negli anni Venti o successivi; sia che di parli di Cina (nei vari periodi post-rivoluzione); sia che si discuta di paesi latino-americani (da Cuba “in giù”).
In effetti si deve dire che nessuna di queste società è “perfettamente socialista”. E neanche i gruppi dirigenti di quei paesi sono così ingenui da sostenerlo.
Stanno guidando società complesse – certo molto di più dei ristretti circoli di “pensatori” che le giudicano – con risultati assai diversi tra loro. Del resto sono ognuna il risultato di evoluzioni, tradizioni, culture, risorse differenti. E nessuno mai, salvo che nei sogni solitari notturni, può pensare che basti uno schiocco di “decreti rivoluzionari” per avere il mondo perfetto.
La premessa serve ad introdurre un piano di riflessione molto più concreto e “laico”, non ideologico, appunto.
E l’occasioni giusta ci sembra questo articolo – come sempre acuto – di Guido Salerno Aletta apparso su MilanoFinanza, che certo è non il tempio del comunismo…
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Brics+ o bric-à-brac?
di Piero Pagliani
Il recente vertice BRICS tenutosi in Sud Africa a Johannesburg è stato valutato in modi molto differenti. Non si è trattato solo di una contrapposizione di vedute tra “antimperialisti” e “filoimperialisti”, ma in entrambi i due schieramenti, se così si possono definire, si sono espresse voci discordi tra loro [0].
Non sono in grado di aggiungere molto di nuovo nel merito, anche perché ciò che è emerso dal vertice in modo ufficiale o ufficioso è sicuramente molto meno di quanto è stato fatto e detto in ambiti riservati. Cose di cui vedremo solo più in là gli effetti.
Posso solo suggerire di cercare di traguardare questo vertice e i suoi risultati, per lo meno quelli che appaiono alla luce del sole, sotto un'angolatura che è poco considerata benché si suggerisca in modo evidente: il vertice di Johannesburg non poteva che riflettere i travagli dell'epoca corrente che è quella che vede il dispiegarsi del caos sistemico che ha sostituito l'ordine della Guerra Fredda e dell'egemonia incontrastata degli Stati Uniti che si è imposta per alcuni decenni alla fine del confronto tra Stati Uniti e Unione Sovietica, un'egemonia che si è dispiegata con la triade neoliberismo-globalizzazione-finanziarizzazione. Una triade che ha contraddistinto il modo in cui il sistema capitalistico occidentale ha cercato di contrastare la crisi sistemica generata dai venti (o per alcuni, trenta) “anni d'oro” di accumulazione capitalistica seguiti alla fine della Seconda Guerra Mondiale, cioè all'evento che pose termine alla crisi sistemica precedente.
Andrò per sommi capi, non necessariamente consequenziali.
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Tutti gli "indizi" che gli Usa cercano un sostituto di Zelensky
di Fabrizio Poggi
Secondo il libanese “Al-Binaa”, altri segnali sarebbero giunti a confermare quanto si ripete da tempo: gli USA sarebbero alla ricerca della strada per disfarsi di Vladimir Zelenskij. La diversa retorica dei media occidentali, osserva Al-Binaa, testimonierebbe che USA e NATO cominciano ad ammettere il mutato equilibrio di forze nel mondo. Indicativi, sarebbero i colloqui dello scorso 21 agosto del presidente degli Stati maggiori riuniti USA Mark Milley in Vaticano, ricevuto dal papa. Il forse troppo ottimista (e certamente molto fantasioso) redattore del quotidiano di Beirut ipotizza che Milley avrebbe ammesso il fallimento della controffensiva ucraina e avrebbe addirittura chiesto consiglio a Bergoglio su una possibile “uscita dignitosa” americana dall'Ucraina. I due avrebbero discusso, appunto, del modo «di disfarsi dell'attuale presidente ucraino» e nientepopodimeno che di un fantascientifico «accordo, secondo cui gli USA smantellerebbero i propri sistemi antimissilistici in Polonia, Romania e Turchia».
Come si dice dalle nostre parti, “tutto pol'esse”; anche se è quantomeno spassoso pensare a uno yankee in ginocchio a “chiedere consiglio” a chicchessia ed è difficilissimo non solo credere, ma anche solo immaginarsi gli USA intenti a ritirare proprie armi, almeno che non sia per riposizionarle in altre lochescion ritenute al momento più favorevoli.
In ogni caso, la scorsa settimana, anche la presidente ungherese Katalin Novak ha fatto visita al papa, dopo di che ha dichiarato che «presto arriverà il momento per la soluzione del conflitto in Ucraina». Pronunciato dalla “beniamina” di Viktor Orban, il presagio dovrebbe mettere sul chi va là almeno Vladimir Zelenskij, tanto più che Novak, più o meno negli stessi giorni, nel corso della terza conferenza internazionale della cosiddetta “Piattaforma di Crimea”, ha detto chiaro e tondo al capo della junta nazigolpista che, a guerra finita, la Transcarpazia costituirà una preziosa risorsa per gli ungheresi e per Budapest.
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Vademecum alla riforma scolastica del PNRR
di Marco Bonsanto
§1. Tra pochi giorni prenderà avvio un nuovo anno scolastico. Ma la situazione che insegnanti, studenti e famiglie si ritroveranno a vivere sarà molto diversa da quella degli anni precedenti.
Nel silenzio pressoché totale di istituzioni, sindacati e organi di informazione sta infatti per entrare in vigore l’ennesima, distruttiva riforma della Scuola italiana, peggiore persino della “Buona Scuola” di Renzi.
Pianificata dal governo Draghi su mandato europeo e implementata in perfetta continuità dal Governo Meloni, fa parte a tutti gli effetti del PNRR, il piano straordinario di investimento dell’UE finalizzato a ridare fiato agli Stati membri provati dalla Pandemia. In realtà, il PNRR è un colossale piano di indebitamento delle nazioni europee, obbligate a trasformare le loro istituzioni, economie e società in direzione delle politiche sanitarie, alimentari, energetiche, digitali e, non ultime, anche belliche, decise dalle lobby d’Oltreoceano che detengono i brevetti delle relative tecnologie.
Mai come in questo frangente storico è risultato più palese l’asservimento delle élite nazionali ed europee agli interessi geopolitici statunitensi e all’avidità delle corporation che ormai ne detengono il controllo. Prima la Pandemia, ora la guerra contro la Russia, testimoniano senza mezzi termini l’assenza completa d’iniziativa e d’indipendenza dell’UE dagli interessi americani; ne svelano la funzione di “caporalato” nei confronti dei singoli Stati membri ridotti ormai a semplici colonie.
Ed è in questo contesto “neo-coloniale” che vanno lette le pesanti trasformazioni cui dà seguito il PNRR.
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God bless America
di Miguel Martinez
I
“Dolce è il sonno del lavoratore, abbia egli poco o molto da mangiare; ma la sazietà del ricco non lo lascia dormire.“
Libro dell’Ecclesiaste
Forse vi è arrivata voce della diffusione senza precedenti, della canzone Rich Men North of Richmond, lanciata senza alcun apparato o scopo commerciale da un giovane che canta sotto il nome di Oliver Anthony: del sud degli Stati Uniti, Oliver Anthony ha i problemi di una nazione intera – obeso, sottoccupato, con problemi di salute mentale forse legati anche a un incidente quando si fece male alla testa in un incidente in fabbrica.
Ho detto diffusione, e non successo.
Oliver Anthony vive in un camper, con moglie e due figli senza corrente elettrica: off the grid.
Dalla parte sua, solo un cane bianco e uno nero e Dio, cui ha promesso di non bere più, se fosse riuscito a comunicare il suo messaggio.
Ne nasce una canzone profondamente rivoluzionaria, come può essere tutto ciò che nasce da dentro, e non per gentile concessione dall’alto.
Chi ama profondamente l’America, odia l’impero americano.
Certo, noto nella canzone una battuta contro quelli che campano di sussidi, che non sorprende in chi li deve comunque mantenere con lavori tremendi, ma va visto nel contesto.
Ho venduto la mia anima lavorando tutto il giorno / facendo gli straordinari per quattro soldi / per potermene stare seduto qui e sprecare la mia vita / trascinarmi a casa e annegare i miei guai.
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Ancora Tronti? Ma 100 volte Panzieri (con i suoi limiti)!
di effesse
Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa nota polemica sulle commemorazioni di Tronti, che contiene diversi spunti interessanti per un bilancio critico dell’operaismo italiano. (Red.)
“Ci ha lasciato Mario Tronti. È stato un onore lavorare insieme in Parlamento e potermi confrontare con lui anche negli ultimi anni, imparando sempre qualcosa. Una mente raffinata, una vita coerente coi suoi ideali, un difensore della buona politica, avversario di ogni populismo. Un amico affettuoso, una persona fuori dall’ordinario. Ciao Mario, ci mancherai. Mi mancherai.” – Maria Elena Boschi
Il 7 Agosto si è spento a 92 anni l’ex senatore (del Partito Democratico) Mario Tronti omaggiato nel comunicato Ansa come “uno dei principali fondatori ed esponenti del marxismo operaista teorico degli anni sessanta”1. Sull’onda della conferma di questa notizia, si sono susseguiti commiati e celebrazioni del noto filosofo romano da tutti i principali esponenti, politici, sindacali e sociali riconducibili all’area di centro-sinistra (leggasi, in proposito, il commosso ricordo di Maria Elena Boschi riportato all’inizio). Come avviene in questi casi, anche ciò che rimane della “sinistra radicale” – istituzionale o movimentista che sia – non si è fatta scappare l’occasione per strappare qualche trafiletto giornalistico cercando di opporre una visione alternativa del defunto in questione presentato come uno dei più importanti intellettuali “innovativi” ed “eretici” del ‘9002. In questo marasma di dichiarazioni, tipico di chi da decenni ha ormai abbandonato qualsivoglia rapporto con la lotta di classe – e le sue asprezze – per l’estensione di commenti sui social network, proveremo a ricostruire, sia pur sommariamente, la parabola teorica e politica (perché per i marxisti questi due aspetti non possono essere considerati separatamente) di Mario Tronti per tirare, infine, delle conclusioni sullo stato di confusione che sembra ancora regnare tra i diversi epigoni – alcune volte anche con vezzi intellettuali – che cercano di ricondursi indebitamente alla tradizione comunista.
Una volta terminato il Secondo Conflitto Mondiale, il “rifondato”- con la “Svolta di Salerno” – Partito Comunista Italiano (sottolineiamo italiano) togliattiano uscì enormemente rafforzato dalla guerra di liberazione nazionale contro i nazisti ed i fascisti italiani.
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I BRICS raddoppiano: un mondo multipolare è più vicino?
di Paolo Arigotti
A fine agosto, precisamente tra il 22 e il 24 del mese, si è tenuto a Johannesburg il vertice dei BRICS, il quindicesimo a partire dal 2009, quando il gruppo venne formalmente costituito; al tavolo i leaders dei (per ora) cinque stati membri: Brasile, Russia, Cina, India e Sudafrica[1], tutti rappresentati ai massimi livelli, con l’eccezione della Federazione russa per la quale era presente il ministro degli Esteri Sergey Lavrov (il presidente Vladimir Putin ha partecipato in videoconferenza). E proprio in Russia, nella città di Kazan, si terrà a ottobre 2024 il prossimo vertice.
Il documento finale, articolato in 94 punti, e approvato dai partecipanti è ricco di contenuti interessanti, per quanto la decisione più importante scaturita dal meeting resti l’allargamento del club, che dal primo gennaio del 2024 accoglierà sei nuovi membri: Arabia Saudita, Argentina, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Etiopia, Iran. Come si legge nei comunicati ufficiali, i leader politici in questo modo “…hanno raggiunto il consenso sui principi guida, gli standard, i criteri e le procedure del processo di espansione dei BRICS”[2]; Sanusha Naidu, ricercatore presso l’Institute for Global Dialogue, think tank sudafricano, ha parlato di “…implicazioni geoeconomiche, geostrategiche e geopolitiche”, con importanti riflessi sulle politiche in Medio Oriente, sulle relazioni tra Cina e India e nel settore energetico.
Le trattative sull’ingresso dei nuovi membri non sono state semplici, lo ha ammesso lo stesso Putin nel suo intervento, vista la diversità delle posizioni dalla quale partivano i singoli governi: se l’India aveva un approccio più restrittivo, aprendo al massimo a tre nuovi ingressi, la Cina sarebbe stata favorevole a dieci nuove adesioni
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Mutazioni del capitalismo globale: un’analisi congiunturale
di Sandro Mezzadra e Brett Neilson[1]
1. In questione è per noi ancora una volta il capitalismo. La “distruzione creativa” ne caratterizza e ne sospinge lo sviluppo, diceva Schumpeter. Ma già Marx aveva inscritto il capitalismo, nei Grundrisse, nel segno della “rivoluzione permanente”. Nella crisi dei primi anni Settanta del secolo scorso questa rivoluzione ha assunto un ritmo nuovo, tra finanziarizzazione, “rivoluzione logistica”, nuove geografie produttive, trasformazione dello Stato e di modelli sociali consolidati in molte parti del mondo. Cominciava a delinearsi quella che, dopo la fine dell’Unione Sovietica, si sarebbe chiamata globalizzazione. Il pensiero critico e rivoluzionario ha tentato di afferrare queste trasformazioni e di fissarle in un concetto, spesso focalizzandosi su quel che il capitalismo non è più (“postfordismo”, ad esempio) ma tentando anche di offrire nuove definizioni, “capitalismo cognitivo” o più di recente “capitalismo delle piattaforme”, per dare soltanto due esempi. Non intendiamo qui discutere i meriti e i limiti di queste e altre formalizzazioni teoriche, che quantomeno nei casi più interessanti hanno comunque il merito di portare l’attenzione su nuove composizioni emergenti del lavoro, su una nuova figura dell’antagonismo costitutivo del rapporto di capitale. Solo, registriamo un ritardo, come se ci fosse uno scarto rispetto alla velocità e al carattere per certi aspetti proteiforme del capitalismo contemporaneo, le cui trasformazioni spiazzano continuamente i modelli, l’“esposizione” potremmo dire ancora con Marx, costringendo a riaprire la “ricerca”.[2]
Per affrontare questo “ritardo” scegliamo di collocare il nostro lavoro nella congiuntura, consapevoli del fatto che, come ha scritto Louis Althusser, prendere seriamente questo concetto comporta un azzardo (considerata la mutevolezza che caratterizza la congiuntura) e al tempo stesso richiede di “tener conto di tutte le determinazioni, di tutte le circostanze concrete esistenti, passarle in rassegna, farne il rendiconto e il confronto”.[3]
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Il Niger e il neocolonialismo europeo in Africa: sul futuro di un’illusione
di Eusebio Filopatro
Il 26 luglio 2023 gli uomini della guardia presidenziale nigerina hanno catturato il presidente Mohamed Bazoum, dando inizio ad un colpo di stato.
L’evento ha brevemente spostato i riflettori verso il Sahel, una delle regioni più trascurate e povere del mondo, che pure con buone ragioni è stata definita la frontiera meridionale d’Europa (da ultimo in una lettera di Roberta Pinotti a Repubblica).
Nella presente serie di articoli mi propongo (1) di contestualizzare il golpe nigerino nella sua storia e motivazioni, e in particolare sullo sfondo della travagliata dissoluzione del neo/postcolonialismo francese, (2) di valutare le prospettive e le difficoltà di un eventuale intervento ECOWAS, e (3) di inserire queste considerazioni nello scenario internazionale più ampio, in particolare rispetto alle aspirazioni realistiche che l’Europa se non l’intero Occidente può mantenere rispetto al suo (dis)impegno in Sahel e in Africa.
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I. Niger: Le ragioni di un golpe
In un articolo del 1989, Guy Martin ricostruiva le relazioni franco-africane da un punto di vista spinoso: l’estrazione dell’uranio. Martin introduceva la questione del Niger chiarendo senza troppi giri di parole che esso “può anche essere descritto come un'enclave neocoloniale dominata dagli interessi politici, economici, culturali e strategici francesi” (p. 634). In conclusione, alla sua disanima, Martin suggeriva anche un’interpretazione inquietante quanto plausibile del golpe del ’74:
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Mario Moretti: la dignità della sconfitta
di Vincenzo Morvillo
«La vera sconfitta non è aver perso [la rivoluzione ndr]. La vera sconfitta è l’aver introiettato l’idea della sconfitta. Di non poter vincere e cambiare le cose».
Un bagno di realtà durissimo che dovrebbe far riflettere chiunque si professi oggi comunista ed aspiri ad un sovvertimento del sistema capitalistico vigente e delle sue iniquità sociali.
Un bagno di realtà che non viene da una persona qualunque. Ma da uno di quelli che la rivoluzione hanno provato a farla per davvero.
Anzi da colui che da sempre è stato identificato come il capo delle Brigate Rosse.
Quel giudizio così definitivo, ma anche così desolante nella sua drammatica veridicità, lo pronunciava Mario Moretti durante un incontro che tenne, nel lontano 2004, con i ragazzi di Via Pace.
Una classe di aspiranti giornalisti interessati alla storia delle Brigate Rosse e al rapimento Moro. La registrazione dell’incontro la si può trovare su Youtube. Otto puntate di un’ora ciascuna (qui sotto il link).
Settantasette anni, quarantadue dei quali passati dietro le sbarre, Moretti torna ogni notte a dormire in carcere, vivendo in regime di semilibertà.
Un uomo di una coerenza etica e politica esemplare. Come d’altronde tante altre compagne e tanti altri compagni brigatisti.
«Potrò aver sbagliato tutto ma so di essere sempre stato dalla parte giusta. Quella degli oppressi», dichiara senza reticenza.
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L’allargamento dei Brics, l’alba di un mondo nuovo?
di Alessandro Visalli
Quello che si è manifestato a Johannesburg appare essere un punto di svolta simile a quello degli anni Settanta[1]. Con l'ingresso nei Brics da gennaio 2014 si completa il passaggio dell'Arabia Saudita in nuove alleanze, preludio per l'annunciata chiusura delle basi americane (a giugno annunciata da Bin Salman[2]) e del consolidamento delle transazioni in altra valuta del petrolio. Insieme al gigante arabo entrano anche altri attori di primo piano come l'Egitto, gli Emirati Arabi e l'Iran, in Sud America l'Argentina. Infine, l’importante, sotto il piano simbolico, Etiopia[3].
Impossibile sottovalutare l'evento, se pure atteso (e che spiega lo sforzo per escludervi Putin incriminandolo[4]): tra le cose più importanti c’è che l'Occidente collettivo (ed in particolare l'Europa) perde ogni residua influenza sull'Opec+[5] e quindi sulla geopolitica dell'energia, aspettiamoci benzina a parecchi euro ed energia a valori stabilmente alti (con buona pace di coloro che si attardano contro il cambiamento climatico 'inventato', senza capire che è questione letteralmente di sopravvivenza e non solo del pianeta[6]); in Africa a questo punto abbiamo, da Nord a Sud, tutte le principali potenze schierate contro l'Occidente imperiale[7], o almeno capaci di rivendicare maggiore indipendenza da questo, nessuno può immaginare anche militarmente di andare in Africa contro Egitto, Algeria e Sud Africa insieme, o in Medio Oriente contro Arabia Saudita, Iran, Emirati, e i relativi alleati (senza considerare che ha fatto domanda anche la Turchia); si saldano due colossi d'ordine come Arabia Saudita e Iran (capolavoro della diplomazia cinese) e con Egitto e Emirati diventano il polo inaggirabile della regione; nel cortile di casa degli Usa si saldano Brasile e Argentina, in pratica il centro del subcontinente ha cambiato collocazione.
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Oppenheimer di Nolan, l’uomo onda-particella: solo un film di “propaganda”?
di Giulia Bertotto
In un senso crudo che non potrebbe essere cancellato da nessuna accezione volgare o umoristica, i fisici hanno conosciuto il peccato”[1]
L’ultimo colossal di Christopher Nolan, ispirato al libro American Prometheus di Kai Bird e Martin J. Sherwin, è uscito nelle sale italiane il 23 agosto, mentre il Giappone sversava acqua radioattiva nel Pacifico e il capo della Wagner, Prigohzin, moriva in un incidente aereo. Un’inquietante combinazione di realtà e cinema, mentre la Terza guerra mondiale avanza.
Il fisico Robert Oppenheimer, a capo del Progetto Manhattan, che inventò la bomba atomica, viene accostato alla figura di Prometeo, il titano che rubò il fuoco agli dei per darlo agli uomini; l’archetipo del ribelle a Dio, della tracotanza della creatura contro il Creatore, che nella mitologica greca porta lo stesso messaggio di rottura e insieme emancipazione della prima coppia edenica nella tradizione ebraica. In un simbolico morso/furto l’uomo acquistò la libertà attraverso la coscienza e assunse la colpa, divenne capace di arte e incline al sadismo. L’uomo viene reso capace di libero arbitrio, ossia della possibilità di scegliere tra il bene e il male, l’unico animale contro-natura, perché paradossale, cosciente. Ecco l’uomo, già corpuscolare e ondulatorio insieme.
Oppenheimer è il Prometeo del Novecento, che dona agli uomini la combustione primordiale[2]. Ad essere precisi la elargisce agli Stati Uniti, e bisogna fare presto, prima che la bomba a fissione nucleare sia realizzata dai nazisti.
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La crisi del capitalismo: “ha stato la Cina”
di Ascanio Bernardeschi*
«Qualche paese, ossessionato dal mantenimento della propria egemonia, ha fatto di tutto per paralizzare i mercati emergenti e i paesi in via di sviluppo. Chi si sta sviluppando rapidamente diventa il suo obiettivo di contenimento; chiunque stia recuperando diventa il suo obiettivo di ostruzione. Ma tutto questo è inutile, perché ho detto più di una volta che spegnere la lampada degli altri non porterà luce a sé stessi.» (Il Presidente cinese Xi Jinping al 15° summit dei BRICS a Johannesburg in Sudafrica)
Il contesto generale
Il prossimo vertice dei paesi del BRICS di Johannesburg avrà un paio di argomenti assai temuti dal blocco occidentale a guida statunitense: quello della creazione di una nuova moneta che rimpiazzi il dollaro negli scambi internazionali e nelle riserve delle banche centrali e quello dell’allargamento dell’organizzazione: 23 paesi hanno già chiesto di aderire e altri hanno informalmente espresso interesse.
Primo argomento. Questa nuova moneta, o più precisamente unità di conto, basata su un “paniere” di monete dei singoli paesi aderenti al BRICS, dovrebbe non solo essere impiegata da tali paesi e dai nuovi candidati, ma sarebbe utilizzabile da qualsiasi altro paese lo desideri, mettendo seriamente in discussione la supremazia del dollaro che fino a oggi aveva consentito agli States di vivere alle spalle del resto del mondo stampando moneta.
I due argomenti stanno in stretta connessione. Per esempio è estremamente importante sapere che fra i paesi che hanno chiesto di aderire all’organizzazione ci siano l’Arabia Saudita, l’Iran e l’Algeria i quali, uniti alla Russia, detengono le maggiori risorse energetiche del mondo. È importante perché verrebbe meno il motivo principale, accanto a quello costituito dalla potenza militare Usa, del dominio del dollaro, cioè il suo uso esclusivo per acquistare petrolio (i cosiddetti petrodollari).
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La scacchiera di Brzezinski
di Enrico Tomaselli
La grande partita anti-russa, le cui linee strategiche furono battezzate da Brzezinski oltre 25 anni fa, sembra aver superato (almeno in questa fase calda) il suo acme e si avvia ad un finale non proprio esaltante per l’occidente collettivo. Sullo scacchiere internazionale, infatti, sembra aleggiare lo scacco matto; resta solo da capire quando avverrà, e dove. La casella della mossa finale potrebbe essere Kharkov o, magari, Odessa.
* * * *
Spiazzati dalla guerra
Ci sono molte ragioni che spiegano l’afonia degli intellettuali occidentali, e delle stesse chiese cristiane, di fronte a quella che il Papa ha definito come terza guerra mondiale. Ma sono fondamentalmente due le ragioni per cui tale afonia si accompagna – non a caso – a quella di un movimento pacifista che non è mai stato così silente, anzi del tutto assente.
La prima è che questa guerra – diversamente da quella contro l’Iraq, o quella contro la Serbia – è percepita diversamente rispetto alle altre; mentre quelle erano guerre d’aggressione imperialista, in cui l’occidente era l’aggressore (cosa resa ancor più evidente dalla asimmetria dei conflitti), e quindi toccavano le corde della coscienza antimperialista, e più in generale della coscienza tout court, in questo caso – e non solo per effetto della propaganda – l’occidente si percepisce come l’aggredito.
La seconda è che questa guerra (im)pone la necessità di una riflessione differente, perché, sia pure confusamente, se ne coglie la portata assai più profonda, paragonabile a quella che ebbe la seconda guerra mondiale.
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Comunisti: la nostra comprensione dei fenomeni si conforma al materialismo dialettico?
di Giannetto Marcenaro*
A margine dell’intervento del direttore Giannini, pubblicato nella ricorrenza della morte di Friedrich Engels
A margine del brillante intervento del direttore Giannini, pubblicato nella ricorrenza della morte di Friedrich Engels, nel quale si sottolinea con la dovuta insistenza quanto l’emarginazione della figura di Engels dal percorso intellettuale e filosofico di Karl Marx sia stata una tendenza promossa da «un vasto fronte politico e filosofico», in sostanza coincidente al cosiddetto “Marxismo occidentale”, possono essere di utilità alcune osservazioni sulle questioni acutamente sollevate da Giannini, in particolare riguardo all’importanza di evidenziare il ruolo cruciale avuto da Engels nello sviluppo del materialismo dialettico, e alla funzione scientifica inestimabile che tale concetto epistemologico porta con sé.
Fu Engels, infatti, nel suo progetto sulla “Dialettica della Natura”, a cercare in origine di dare un ordine intelligibile preciso a tale concetto, prima che Lenin ne esponesse, per quanto succintamente, e mai in modo sistematico, il principio generale e il carattere essenziale, che fu poi ulteriormente chiarito da Mao Zedong nella prima metà del 20° secolo.
Appare di estremo rilievo a riguardo l’osservazione del direttore Giannini, sulla scia del professor Domenico Losurdo, riguardo al «nesso tra le nette posizione engelsiane volte alla necessità storica della violenza rivoluzionaria e alla necessità della presa del potere [del] proletariato (e alla liceità della sua difesa con la forza) e il vasto tentativo di liquidare Engels» da parte «della filosofia borghese e del marxismo revisionista», e al fatto che si sia usata la «linea concreta» della «violenza rivoluzionaria, senza la quale mai si potrebbe scardinare il sistema borghese», sostenuta ne “L’ideologia tedesca”, ma appunto anche nel “Manifesto del Partito Comunista” – cioè due testi scritti a quattro mani da Marx ed Engels – per separare l’uno dall’altro, e imputare a Marx o una visione escatologica del processo storico, o una visione economicista della dinamica rivoluzionaria.
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Mario Tronti: il Regno, se noi lo vogliamo
di Marcello Tarì
Vi ho voluto bene, adesso vado
Sono stato un comunista
Avevo un sogno, una speranza
Arrivederci amore, addio (Baustelle, L’uomo del secolo).
Mario Tronti è morto il 7 agosto, nella sua casa di Ferentillo, a 92 anni da poco compiuti; un’«età da patriarchi» disse per i 90 anni di Ingrao[1], così come poi dovette dire di sé stesso con un pizzico della sua consueta ironia, tagliente e dolce allo stesso tempo.
Per buona parte del piccolo e grande pubblico, il suo nome è legato al suo primo e giovanile libro, Operai e capitale, pubblicato da Einaudi nel 1966[2], che fu in seguito definito «la bibbia dell’operaismo». Un libro che, comunque lo si voglia giudicare, segnò, a ridosso del ’68, e specialmente delle grandi lotte operaie del 1969, una grande novità ma anche una forte rottura teorica nel marxismo del secondo Novecento, questo secolo duro e difficile a cui lui è sempre rimasto fedele.
L’opera prima
In quelle pagine Tronti compiva infatti la cosiddetta «rivoluzione copernicana» nell’interpretazione del conflitto epocale tra capitale e lavoro: prima viene il soggetto operaio e le sue lotte, dopo il capitale e il suo sviluppo; quindi, al partito va la tattica, al movimento operaio la strategia, proprio quella che in uno dei passaggi più celebri e densi di conseguenze chiamò la «strategia del rifiuto».
C’era già, a ben guardare, in quel rovesciamento di prospettiva, un aspetto della radicalità evangelica a cui più tardi Tronti avrebbe fatto direttamente riferimento: i primi saranno gli ultimi e gli ultimi saranno i primi.
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I BRICS hanno cambiato l’equilibrio delle forze, ma non cambieranno da soli il mondo
di Vijay Prashad
Nel 2003, alti funzionari dal Brasile, dall’ India e dal Sudafrica si sono incontrati in Messico per discutere dei reciproci interessi nel commercio di farmaci.
L’India era ed è uno dei maggiori produttori mondiali di vari farmaci, compresi quelli utilizzati per il trattamento dell’HIV-AIDS; il Brasile e il Sudafrica avevano entrambi bisogno di farmaci a prezzi accessibili per i pazienti affetti da HIV e da una serie di altri disturbi curabili.
Ma a questi tre Paesi è stato impedito di commerciare facilmente tra loro a causa delle rigide leggi sulla proprietà intellettuale stabilite dall’Organizzazione Mondiale del Commercio.
Pochi mesi prima del loro incontro, i tre Paesi hanno formato un gruppo, noto come IBSA, per discutere e chiarire le questioni relative alla proprietà intellettuale e al commercio, ma anche per confrontarsi con i Paesi del Nord globale per la loro richiesta asimmetrica di cessare i sussidi agricoli dei Paesi più poveri. Il concetto di cooperazione Sud-Sud ha fatto da cornice a queste discussioni.
L’interesse per la cooperazione Sud-Sud risale agli anni ’40, quando il Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite istituì il primo programma di aiuti tecnici per favorire il commercio tra i nuovi Stati post-coloniali di Africa, Asia e America Latina.
Sei decenni dopo, proprio in concomitanza con la nascita di IBSA, questo spirito è stato commemorato dalla Giornata delle Nazioni Unite per la Cooperazione Sud-Sud, il 19 dicembre 2004.
In quell’occasione, le Nazioni Unite crearono anche l’Unità speciale per la cooperazione Sud-Sud (dieci anni dopo, nel 2013, questa istituzione fu rinominata Ufficio delle Nazioni Unite per la cooperazione Sud-Sud), che si basava sull’accordo del 1988 sul Sistema globale di preferenze commerciali tra i Paesi in via di sviluppo.
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Modelli di organizzazione economica e conflitti militari
Note in margine a La guerra capitalista
di Salvatore D'Acunto
Nel volume La guerra capitalista, gli autori Brancaccio, Giammetti e Lucarelli (2022) sostengono che alle radici delle recenti tensioni internazionali vi siano gli imponenti processi di centralizzazione dei capitali che hanno caratterizzato l’ultimo trentennio, e la sempre più marcata tendenza del fenomeno a travalicare i confini degli schieramenti geo-politici. I paesi usciti vincitori dalla competizione sui mercati globali (in particolare Cina, paesi arabi e Russia) starebbero usando i saldi attivi in dollari accumulati negli anni scorsi per ‘scalare’ la proprietà dei capitali americani, e il governo degli Stati Uniti starebbe reagendo a questa minaccia con variegate restrizioni all’ingresso dei capitali stranieri nella proprietà dell’industria nazionale e con misure protezionistiche di politica commerciale. Secondo il punto di vista degli autori, questo conflitto economico starebbe generando una spirale di ritorsioni a catena, moltiplicando in tal modo il rischio di veri e propri conflitti militari. Questo modello interpretativo viene messo a confronto con le principali interpretazioni concorrenti circa il ruolo degli interessi materiali nella genesi dei conflitti militari, e si discutono alcune interessanti implicazioni dell’analisi rispetto al problema del design delle istituzioni di regolazione delle relazioni economiche internazionali.
* * * *
Un elemento comune a molte delle narrazioni dell’impetuoso ritorno dei venti di guerra in Europa è l’adesione dei commentatori ai canoni della drammatizzazione romanzesca o cinematografica, con il focus interamente centrato sul conflitto tra personalità connotate in senso moralistico: paladini della libertà versus autocrati fanatici, oppure ‘denazificatori’ versus persecutori di minoranze etniche.
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Jeffrey D. Sachs: Come Stati Uniti e Israele hanno distrutto la Siria (e lo hanno chiamato "pace")
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Alessio Mannino: Il Manifesto di Ventotene è una ca***a pazzesca
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Alessandro Mariani: Quorum referendario: e se….?
Michelangelo Severgnini: Le nozze tra Meloni ed Erdogan che non piacciono a (quasi) nessuno
Michelangelo Severgnini: La Libia e le narrazioni fiabesche della stampa italiana
E.Bertinato - F. Mazzoli: Aquiloni nella tempesta
Autori Vari: Sul compagno Stalin
Qui è possibile scaricare l'intero volume in formato PDF
A cura di Aldo Zanchetta: Speranza
Tutti i colori del rosso
Michele Castaldo: Occhi di ghiaccio
Qui la premessa e l'indice del volume
A cura di Daniela Danna: Il nuovo volto del patriarcato
Qui il volume in formato PDF
Luca Busca: La scienza negata
Alessandro Barile: Una disciplinata guerra di posizione
Salvatore Bravo: La contraddizione come problema e la filosofia in Mao Tse-tung
Daniela Danna: Covidismo
Alessandra Ciattini: Sul filo rosso del tempo
Davide Miccione: Quando abbiamo smesso di pensare
Franco Romanò, Paolo Di Marco: La dissoluzione dell'economia politica
Qui una anteprima del libro
Giorgio Monestarolo:Ucraina, Europa, mond
Moreno Biagioni: Se vuoi la pace prepara la pace
Andrea Cozzo: La logica della guerra nella Grecia antica
Qui una recensione di Giovanni Di Benedetto