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Renzi usato dalla NATO come esca per l'Egitto
di comidad
Ha suscitato molti commenti il fatto che Renzi sia caduto in disgrazia presso uno dei vati dell'opinionismo ufficiale, l'editorialista Eugenio Scalfari. Oltre a manifestare aspre critiche all'incapacità di Renzi di rilanciare l'economia, Scalfari arriva a dichiarare di preferire all'attuale governo Renzi un esplicito commissariamento dell'Italia da parte della cosiddetta "Troika": la Commissione dell'Unione Europea, la Banca Centrale Europea ed il Fondo Monetario Internazionale. Scalfari non vede contraddizione tra l'obiettivo del rilancio economico ed il commissariamento, in quanto, secondo lui, la "Troika" si sarebbe ravveduta rispetto ai tempi della crisi greca, ed ora avrebbe come massimo avversario la deflazione.
I nonsensi di Scalfari sono risultati evidenti a molti commentatori. Non ha senso, ad esempio, considerare l'attuale governo Renzi come "altro" rispetto alla Troika, visto che il ministro dell'Economia ora in carica, Padoan, è un ex dirigente del FMI, cioè il principale componente della stessa Troika. Tra l'altro in Italia il Presidente del Consiglio non ha poteri da Primo Ministro, cioè non può dimissionare i propri ministri, perciò un ministro come Padoan, che assomma nelle sue mani le funzioni del Tesoro, delle Finanze e del Bilancio, si può considerare lui il vero capo del governo.
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La comunità illusoria
Paolo Favilli
«Non c'è alternativa. Falso» di Salvatore Veca. Il libro, uscito per Laterza, è una lucida critica alle ideologie dominanti per esplorare le nuove forme della lotta di classe
La collana «Idòla» di Laterza è uno dei rarissimi strumenti editoriali pensato appositamente come spazio critico dell’ideologia dominante. Tale spazio sembra quasi essere dedicato all’«esercizio della critica illuministica e del sospetto», per usare un’espressione di Salvatore Veca tratta proprio dal libro di cui si occuperà questa nota (Non c’è alternativa. Falso, Laterza).
Naturalmente la critica delle ideologie risulta tanto più fondata quanto più gli strumenti analitici utilizzati sono il frutto di una cultura alta, in grado uscire dal chiacchiericcio imperante in ambiti pubblicistico-culturali che si considerano «attuali» solo perché immersi in una temporalità quotidiana che coincide troppo pienamente con l’epoca. La contemporaneità, invece, «è quella relazione col tempo che aderisce ad esso attraverso una sfasatura e un anacronismo» (Agamben).
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L'Italia è al collasso, subito una moratoria sui vincoli europei
Luigi Pandolfi
I dati forniti dall'Istat sul Pil per il secondo trimestre e la conseguente proiezione per l'intero anno confermano lo stato comatoso dell'economia italiana. Il Premier se la caverà additando gufi, allocchi e civette o, seriamente, prenderà atto che la situazione è a tal punto grave che non bastano più mezze misure, condite in salsa demagogica, per aggredire una crisi che è strutturale e si nutre delle stesse misure che l'Europa ha adottato per fronteggiarla?
L'apertura del semestre italiano di presidenza dell'Unione e l'insediamento di Jean-Claude Juncker alla guida della Commissione non hanno introdotto elementi di novità sostanziale nell'approccio alle questioni europee più stringenti. Lo stesso dibattito che si è sviluppato sul tema della crescita non innova il tradizionale cliché sulla "naturalità" delle politiche di rigore. Di più c'è soltanto l'accento che viene posto sulla necessità che paesi come l'Italia accelerino con le cosiddette «riforme strutturali», poste a condizione per un'improbabile flessibilità da applicarsi alla gestione dei conti pubblici (dall'«austerità espansiva» all'«austerità flessibile»). Il che costituisce un'aggravante, se si considerano gli effetti recessivi ed antisociali che tali riforme potrebbero avere.
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Miseria della Popsophia
Una riflessione
di Idolo Hoxhvogli
Un intellettuale, nell’epoca della sua riproducibilità social, si occupa di popsophia. Avendo scritto molti libri, pensiamo ad esempio alla celeberrima Filosofia di Peppa Pig, è elevato dalla massa benpensante a vate, in inglese water. I frequentatori abituali dei festival si attaccano alle sue zinne, sedotti da brochure, happy hour, meeting, conferenze e tavole rotonde. Alla fine dei giochi, lo spettatore – quello non addormentato, per parafrasare alla rovescia alcune pagine di Ennio Flaiano – si accorge che il festival è una fiera, e alla fiera si compra e si consuma, piuttosto che pensare. Costui – il popfilosofo – polemizza con il realismo: a suo dire è un populismo. Eppure popoli adulanti – unti e gremiti, assiepati, imburrati e spalmati sulle piccionaie dei teatri – calcano le scene dove costui proferisce la parola popfilosofica. Calcano, sì, ma nel senso di pensare con i piedi. Il popfilosofo – non filosofo pop, in quanto i popcorn precedono l’amore per la verità – afferma: «È necessario partire da materiali spuri per risalire allo zeitgeist». Magari. Costui, sovrapponendo il vocabolario di Heidegger a Beautiful, l’analitica esistenziale a Un posto al sole e il decostruzionismo ai Teletubbies, pensa veramente di fare filosofia, e molti ci cascano: il collage è una forma d’arte, ma non tutti i collage sono arte.
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A Gaza l'imperialismo perfetto
di Comidad
La scorsa settimana una giornalista inglese, Sarah Firth, ha lasciato l'emittente Russia-Today in quanto, a suo dire, indignata dalle "menzogne" della stessa emittente sul caso del jet di nazionalità malaysiana abbattuto in Ucraina. Sembra un tipico esempio di quel senso dell'asimmetria che caratterizza l'atteggiamento occidentale. Non si capisce infatti perché il mentire debba essere un appannaggio esclusivo dei media occidentali.
Nel 1988, nel corso della guerra Iran-Iraq, la Marina statunitense abbatté un airbus iraniano e, nella circostanza, la propaganda occidentale attuò le medesime tecniche ritorsive. A quel tempo gli USA erano i principali alleati dell'Iraq di Saddam Hussein, e risposero in pratica alle proteste iraniane con un "ve la siete voluta, non si fa volare un aereo civile in mezzo a manovre militari". I media occidentali non manifestarono alcuna indignazione per le vittime, ed insinuarono che fossero stati gli stessi Iraniani a volere l'incidente per cercare di screditare il nemico.
Che l'abbattimento dell'airbus fosse invece stato un segnale di guerra totale da parte degli USA, fu dimostrato dal fatto che di lì a poco l'Iran fu costretto ad un armistizio con l'Iraq, nonostante che lo stesso Iran stesse vincendo quella guerra. Delle scuse formali ed un parziale risarcimento da parte degli USA alle famiglie delle vittime dell'airbus, arrivò solo sette anni dopo; ma il contesto era radicalmente cambiato: Saddam Hussein era diventato il super-nemico e bisognava ottenere almeno l'acquiescenza dell'Iran.
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I conti non tornano e l'Europa bussa. Che fare?
di Luigi Pandolfi
Dopo l'Istat, Bankitalia, la Confindustria ed il Fondo Monetario Internazionale ci si mette anche la Confcommercio: l'agognata ripresa non ci sarà nemmeno quest'anno ed il Pil registrerà, se tutto andrà bene, una crescita di un misero 0,3% (c'è però chi parla di una forbice tra -0,4% e +0,3%), più o meno la stessa percentuale prevista per l'aumento dei consumi grazie al bonus irpef.
Numeri freddi, che apparentemente non dicono granché. Il guaio è che sembrerebbero non dire alcunché neanche al giovane premier Renzi, che proprio qualche giorno fa ha sentenziato: "Se la crescita è 0,4 o 0,8 o 1,5 non cambia niente per la vita quotidiana delle persone".
Chi vi ricorda? A me ricorda un signore che nel momento più burrascoso della crisi economico-finanziaria che dagli Usa stava pesantemente contagiando il Vecchio Continente se ne usciva con perle come questa: "Mi sembra che in Italia non ci sia una forte crisi. La vita in Italia è la vita di un Paese benestante, i consumi non sono diminuiti, per gli aerei si riesce a fatica a prenotare un posto, i ristoranti sono pieni".
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L’eurozona e la lezione di Bretton Woods
di Alberto Bagnai
Se Nixon non gli avesse staccato la spina il 15 agosto del 1971, il sistema di cambi fissi di Bretton Woods avrebbe compiuto ieri 70 anni. Come osservava Gianni Bulgari sul Corriere della Sera del 25 marzo, una moneta unica come l’euro, non sorretta da una entità statuale né da una comune volontà politica, si riduce a un sistema di cambi fissi: la parabola del sistema di Bretton Woods può quindi darci lezioni interessanti sulla crisi dell’euro.
L’àncora del sistema di Bretton Woods era il dollaro, agganciato all’oro alla parità di 35 dollari l’oncia, e convertibile in oro su richiesta delle banche centrali. I paesi aderenti fissavano il contenuto aureo della propria moneta e quindi il tasso di cambio rispetto al dollaro. Il sistema aveva cinque caratteristiche: (1) i partecipanti si impegnavano a contenere le fluttuazioni del cambio entro il ±1% rispetto alla parità; (2) nasceva il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) con lo scopo di finanziare squilibri temporanei di bilancia dei pagamenti, che la rigidità del cambio avrebbe provocato; (3) in caso di squilibri strutturali il Fmi poteva autorizzare riallineamenti rispetto al dollaro; (4) se un paese era in posizione di surplus strutturale, il Fmi poteva autorizzare i suoi partner commerciali ad adottare politiche protezionistiche (dazi o contingenti sui prodotti del paese in surplus); (5) i residenti di un paese potevano acquistare valuta estera solo per effettuare pagamenti di parte corrente (merci e servizi) ai non residenti, ovvero, i movimenti internazionali di capitali erano ristretti. Di fatto, il dollaro diventava così lo strumento di regolamento degli scambi internazionali, assumendo il ruolo svolto dall’oro fino alla Prima guerra mondiale.
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Lavorare meno, lavorare tutti
Lelio Demichelis
Se non fosse oggi l’uomo più ricco del mondo – secondo l’ultima classifica della rivista americana Forbes pubblicata nei giorni scorsi – per gli ideologi (o gli intellettuali organici) del neoliberismo in servizio permanente effettivo, il messicano Carlos Slim sarebbe un pericoloso sovversivo perché sovvertitore del magico ordine del libero mercato e negatore della sua altrettanto magica mano invisibile.
Cosa ha detto di così scandaloso e di eretico l’uomo più ricco del mondo, messicano ma di origini libanesi e imprenditore di successo? Ha detto – parlando a un Seminario ad Asunciòn, in Paraguay – che per ridurre la disoccupazione dilagante nel mondo occidentale e per dare più qualità alla vita delle persone bisogna ridurre gli orari di lavoro.
Secondo Slim bisognerebbe lavorare solo tre giorni alla settimana. Certo, lavorando magari anche 11 ore per ciascuno di questi giorni. Ma è la prima parte del suo ragionamento che qui vogliamo sottolineare. Ridurre l’orario di lavoro. Liberarsi dalla fatica e dal peso del lavoro sulla vita.
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Insegniamo l’economia, non solo la teoria neoclassica
Alberto Mucci
La battaglia di una associazione di studenti per un curriculum che includa Schumpeter e Marx
Capelli lunghi, barba incolta e aspetto leggermente trasandato. Lo scorso anno accademico, ad ogni lezione di Filosofia dell’Economia alla London School of Economics (Lse) Thomas Vass si presentava più o meno alla stessa maniera. Durante i seminari non mancava, ad ogni occasione, di contraddire Joe Mazor, titolare della cattedra, e di mettere in dubbio la sua ipotesi di base, quella su cui era basato gran parte del suo corso.
«C’è una frase di Thomas Hobbes che mi piace molto e che mi tornava spesso a mente l’anno scorso durante le lezioni: “Consideriamo gli uomini come se spuntassero dalla terra, ed improvvisamente, come funghi, giungessero all’età adulta senza nessun tipo di legame con gli altri”»., racconta Vass in una conversazione con Linkiesta. In questo contesto il fungo indica un’idea dell’individuo come entità esistente prima della sua interazione con altri individui. Secondo l’ex studente della Lse avere alla base di una teoria un assunto come questo ha poco senso perché gli individui – come appaiono, come sono, come interagiscono e soprattutto le loro idee – si formano all’interno di un sistema complesso determinato da molteplici variabili e non possono esistere in maniera separata da quelle stesse variabili.
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Le brache, il mondo
Giovanni Gozzini
Nella mia città, Firenze, esiste un’espressione – «mettere le brache al mondo» – che viene usata per disprezzare chi cede alla vanagloriosa tentazione di voler spiegare tutto quanto accade intorno a noi. La sento spesso rammentare dai miei colleghi quando si parla di Giovanni Arrighi. Come se quello di pensare in grande venga ormai considerato un difetto pericoloso per un mestiere che si è negli ultimi tempi abituato alla modestia della dimensione micro e alla irreversibile partizione dei saperi.
Prospettiva alla quale continuo a ribellarmi inseguendo l’ambizione di spiegare il mondo, che colpevolmente continuo a pensare sia lo scopo e la ragion d’essere di ogni storico. Ad Arrighi questa urgenza veniva da una formazione, quella marxista (che è stata anche la mia), solidamente ancorata alla necessità di interpretare il mondo per cambiarlo: «mettere le brache al mondo» non era quindi effetto della presunzione bensì (quasi al contrario) il prodotto di un’etica preoccupata dell’utilità del mestiere di storico rispetto ai problemi della condizione umana.
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Medio Oriente, bombe, silenzi e architetture
Miguel Martinez
Come ho già avuto occasione di dire, ho sempre più coscienza di quanto poco riusciamo a combinare nelle nostre brevi vite.
E quindi, per quanto io abbia dedicato molta attenzione al cosiddetto Medio Oriente in passato, non posso permettermi oggi di dire quasi nulla a riguardo. Perché esprimere sdegno è tanto facile quanto inutile (fai clic e salvi un palestinese): si deve piuttosto incidere realmente, oppure almeno dire qualcosa di veramente originale.
Per dire qualcosa di veramente originale, bisogna innanzitutto concentrarsi mentalmente solo su ciò che si vuole dire, studiare, riflettere, correggere dieci volte ciò che si è scritto.
Il piccolo mondo in cui ho scelto di ritirarmi, incastrato tra le mura e l’Arno, almeno credo di conoscerlo ormai davvero; e posso dire che assieme ai nostri amici, siamo anche riusciti a incidere, a segnarne in qualche modo la storia, anche se davvero a fatica. Quindi, visto il numero limitato di anni che ho davanti, di neuroni e di minuti a disposizione, mi dedico a questo.
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I BRICS in Brasile
Alternativi o complementari all’Occidente?
Gennaro Carotenuto
Non ha senso attendersi un’agenda solidale dai BRICS, acronimo che raggruppa le principali economie non occidentali, Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa, riunite oggi nel vertice di Fortaleza, nel nord del Brasile, alla presenza di Dilma Rousseff, Vladimir Putin, Narendra Modi, Xi Jinping e Jacob Zuma, ma non ha senso sottovalutarne le capacità di trasformazione degli equilibri geopolitici mondiali. In appena dieci anni i BRICS sono passati dall’8 al 16% del commercio mondiale e l’interscambio tra i cinque paesi, secondo l’OMC, si è moltiplicato per 10, raggiungendo i 276 miliardi di dollari. Di conseguenza, anche quell’agenda finanziaria liberista che governa la logica degli enormi accordi e delle infinite sinergie tra tali grandi paesi contribuisce a disegnare un mondo dove, attraverso un multipolarismo delle opportunità, il superamento della centralità occidentale, del neoliberalismo reale e dell’FMI, divengono un fatto.
Centinaia di grandi imprenditori ed economisti, insieme a capi di stato e dirigenti politici, sono riuniti nel nord del Brasile per firmare contratti che sfioreranno solo questa volta i quattro miliardi di dollari in settori come quello agroindustriale, infrastrutturale, energetico, sanitario e delle tecnologie dell’informazione.
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Fanatismo bipartisan per Juncker
di Diego Fusaro
Jean-Claude Juncker è diventato il nuovo presidente della UE. Come commentare questo evento? La cosa migliore sarà partire dagli entusiasmi degli euroservi dei due gruppi interscambiabili del centro-destra e del centro-sinistra italiani. Il giubilo di Renzi è stato clamoroso, accompagnato peraltro dall’annuncio che l’austerità sarà meno flessibile (excusationonpetita, accusatiomanifesta?). E chi può credere ancora a queste sciocchezze? Come se non fosse ormai universalmente ovvio che l’essenza dello spirito neoliberale di cui l’UE è il compimento consiste esattamente nell’eliminazione dei diritti sociali e nella santificazione della competitività selvaggia!
Con Juncker, il criminale regime eurocratico e le oscene politiche neoliberali gettano la maschera e si mostrano apertamente per quello che sono. Il volto autoritario del finanz-capitalismo si mostra senza infingimenti. Emerge finalmente in modo nitido e incontrovertibile come l’Europa sia oggi solo un nobile nome che occulta, legittima e glorifica i crimini delle politiche neoliberali e del capitalismo trionfante; ossia quelle politiche in nome delle quali – sempre complice il teologumeno “ce lo chiede l’Europa!” – ci toglieranno fino all’ultimo diritto sociale.
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Imperialismi opposti e equivalenti?
Militant
Capita, sempre più spesso, di imbattersi anche a sinistra in analisi e commenti che provano a leggere le ripetute aggressioni neocolonialiste occidentali attraverso la lente degli “opposti imperialismi”. Fermandoci solo all’ultimo quinquennio è successo per la Libia, per la Siria e sta accadendo ora per l’Ucraina, dove il golpe fascista e l’aggressione alle popolazioni russofone vengono interpretate come il portato dello scontro fra l’espansionismo della Nato e quello russo. L’imperialismo è così spostato dal campo delle categorie economiche e scientifiche a quello più vago del giudizio morale. Putin è omofobo? Allora è imperialista. Assad è illiberale? Anche lui è imperialista. Gheddafi era cattivo? Per forza, visto che anche lui era un imperialista. Così facendo, però, ogni aggressione neocoloniale viene di fatto interpretata come uno scontro simmetrico i cui esiti dovrebbero esserci indifferenti, secondo la logica del nè con l’uno nè con l’altro. Quando non si finisce invece a parteggiare per il contendente più politically correct. Ma è proprio così? Sabato il Sole 24 ore riportava in un trafiletto la notizia della cancellazione del 90% del debito cubano nei confronti della Russia.
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L’opposizione fiscale
Ovvero: il denaro è mio e lo gestisco io
A chi si interroga sugli orizzonti di una politica di massa nell’epoca della precarietà generalizzata non sarà sfuggita la proposta di sperimentazione politica comparsa in alcuni documenti recenti, più o meno rilevanti, che indicano le prospettive dei movimenti sociali in Italia. Si tratta di fare dell’opposizione alle tasse un terreno di sperimentazione, per sottrarla all’ambiguità e all’individualismo che ha caratterizzato questa pratica fino a oggi e trasformarla in una possibilità di riappropriazione di reddito. In parole povere la nuova linea di condotta pare essere: non paghiamo le tasse! Contro i finanziamenti delle grandi opere che gravano sulla fiscalità generale e la concentrazione della rendita nelle mani di pochi, riprendiamoci quello che è nostro! Non è chiaro perché tenersi venga chiamato riprendersi o riappropriarsi, ma questo è certamente un dettaglio. Bisogna invece capire che questa sperimentazione è al passo coi tempi, perché intreccia i bisogni di un ceto medio impoverito e dello stuolo di partite IVA che innegabilmente infoltisce le fila del nuovo precariato sociale.
L’opposizione alle tasse vanta grandi padri, come i rivoluzionari americani o il campione della disobbedienza civile Henry David Thoreau.
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Moneta e linguaggio
Christian Marazzi
È lecito chiedersi se la politica monetaria espansiva, in un periodo di “trappola della liquidità”, non sia di fatto una politica a tutto vantaggio del rentier, di colui che vive di rendite finanziarie e basta
È del 18 giugno la decisione della Federal Reserve, la banca centrale statunitense, di continuare a mantenere i tassi di interesse direttori prossimi allo zero e di ridurre di dieci miliardi di dollari l’acquisto mensile di obbligazioni del tesoro e ipotecarie.
Quest’ultima misura di politica monetaria, cosiddetta non convenzionale, era stata messa in atto oltre un anno e mezzo fa per stimolare la crescita economica americana grazie all’iniezione di quantità formidabili di liquidità. Si tratta di una strategia che con il passare del tempo ha influenzato le politiche monetarie di tutte le maggiori banche centrali dall’Inghilterra al Giappone fino anche alla Bce che, tra le varie misure per stimolare la crescita, ha recentemente annunciato di volere anch’essa perseguire una politica di allentamento quantitativo.
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Il populismo tecnocratico del «rottamatore»
di Lelio Demichelis
Renzi parla al popolo e lo raggiunge con le sue brevi frasi tempestive. I giornali e i notiziari televisivi moltiplicano e ripetono i suoi messaggi. Gli avversari vi si aggrappano, i comici ne fanno un successo. Ma ora è il momento di capire: si passerà dalle parole ai fatti?
L'Italia, paese di populisti e di populismi. Ne ha conosciuti ben tre (e mezzo), nel ultimi vent'anni, un record mondiale. Populismo: che è concetto classico della politica e della sociologia ma che tuttavia è un processo culturale prima che politico. E oggi economico prima che culturale e politico, nel senso che è appunto l'economia capitalista ad essere oggi un processo culturale prima che economico, producendo - prima delle merci e del denaro - le mappe concettuali, cognitive, relazionali, affettive necessarie per la navigazione nel mercato; trasformando quello che era il cittadino dell'illuminismo in lavoratore, merce, capitale umano - ovvero in mero homo oeconomicus. Tre populismi interi: Berlusconi, Grillo e Renzi. E il mezzo populismo della Lega. Tre padri politici invocati dal popolo perché lo sorreggano, lo portino da qualche parte, gli dicano cosa deve fare, perché questo stesso popolo si ritiene incapace (o non più desideroso) di assumersi la responsabilità di essere sovrano di se stesso.
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Fermo Immagine
di Alessandra Daniele
Da quando ha subito la millantata accelerazione renziana, la politica italiana non è mai stata così immobile. Da settimane non succede niente di concreto, solo vacue chiacchiere su quanti senatori non eletti possano danzare sulla capocchia d’uno spillo, e su come debbano essere scelti, a simpatia, a sorte, a cazzo.
Ogni residua parvenza di dialettica democratica è stata azzerata come neanche durante gli anni del berlusconismo imperiale, l’unico ruolo ormai concesso alla cosiddetta opposizione è quello di questuante che piatisce per un’udienza del sovrano – magari in streaming – durante la quale fingere di discutere cose già decise altrove da un pezzo.
Caduta così la maschera dell’intransigenza isolazionista, il Movimento 5 Stelle è pateticamente ridotto a mendicare appuntamenti sempre più mortificanti. Quello di giovedì scorso gli è stato rifiutato. Ma tanto Di Maio aveva judo.
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Cheney: presto un altro 11 Settembre, ancora più letale
Giorgio Cattaneo
Il primo passo è semplice, costruire un nemico: ieri l’Islam, oggi la Russia di Putin. La seconda mossa è scritta nella storia, da Pearl Harbor al falso attacco contro navi americane nel Golfo del Tonchino, casus belli per la guerra in Vietnam. L’avvertimento questa volta viene da un personaggio particolarmente inquietante come l’ex vicepresidente Dick Cheney, secondo molti analisti la vera “mente” della gestione politica degli attentati dell’11 Settembre, perfetti per avviare l’assedio strategico della Cina con l’occupazione dell’Afghanistan e quindi ipotecare il petrolio del Golfo grazie alla campagna contro le inesistenti “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein. E’ il “Daily Mail”, il 25 giugno 2014, a rivelare che, secondo Cheney, entro il 2020 molto probabilmente ci sarà un attacco terroristico di gran lunga peggiore rispetto a quello contro le Twin Towers, attribuito al “fantasma” di Bin Laden, già emissario della Cia in Afghanistan. In altre parole: starebbe per tornare d’attualità lo stesso copione del terrore, il pretesto per una nuova guerra.
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Rampini, parliamone
di Daniele Basciu
Non è la prima volta che Federico Rampini, su Repubblica, cita la Modern Money Theory. Lo fa anche oggi, qui: LINK.
Purtroppo, come già accaduto in passato, nell’illustrare che cosa sia la MMT ne interpreta alcuni punti fondamentali in modo non corretto. Così ( tra [ ] l’originale dell’articolo di F. Rampini)
[La MMT da` un ruolo dominante alla politica monetaria per trainare l’economia fuori dalla crisi]
No. La MMT illustra come l’unica politica efficace in situzioni di crisi legate a carenza di domanda aggregata sia la politica fiscale, e non quella monetaria. La carenza di domanda aggregata deriva da deficit troppo bassi.
Allora la domanda aggregata può essere ripristinata (fino al livello corrispondente alla piena ocupazione delle risorse materiali e dei lavoratori) dal monopolista della moneta (Governo che si avvale della Banca Centrale) ampliando il deficit con un taglio delle tasse (a spesa invariata), con un aumento della spesa pubblica (a tassazione invariata), o con un mix di taglio tasse + aumento spesa. Ciascuna di queste soluzioni amplia il deficit, quale delle tre adottare è semplicemente una scelta politica.
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Una discesa nel Maelström
Vittorio Capecchi
Quando Edgar Allan Poe incontra Vittorio Rieser
“Una discesa nel Maelström” è un racconto di Poe scritto nel 1833 e pubblicato nel 1841 ed è un racconto profetico sia per la diagnosi che per i rimedi suggeriti. La storia è quella del resoconto di un marinaio che si trova risucchiato con i resti della propria imbarcazione, suo fratello e gli altri componenti dell’equipaggio in un grande vortice perenne, il Maelström. Con le parole di Giorgio Manganelli che ha tradotto questo racconto per Einaudi ecco le “sensazioni di terrore, orrore e stupore” con cui il marinaio descrive la scena:
“l’imbarcazione sembrava sospesa , quasi per magia, a metà della discesa, sulla superficie interna di un imbuto di enorme circonferenza, di profondità prodigiosa, i cui fianchi, perfettamente levigati, sembravano ebano non fosse stato per la sconvolgente velocità a cui ruotavano, e la luminosità tetra e splendida che irraggiavano sotto i raggi della luna piena”. In quella discesa il marinaio incontra “una grande quantità di rottami galleggianti” e avverte tutto il fascino del lasciarsi andare verso i bagliori di quell’abisso “di luminosità tetra e splendida”.
Poi la personalità “scientifica” prende il sopravvento e il marinaio capisce che se vuole uscire dal Maelström deve rapidamente “fare inchiesta”. Osserva gli oggetti e i frammenti che girano nel vortice di acqua intorno a lui e riscopre una “legge scientifica”: gli oggetti a forma cilindrica sono risospinti verso l’alto mentre tutti gli altri oggetti con forme diverse finiscono risucchiati nel vortice.
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Equilibrismi ucraini
Militant
Da subito abbiamo voluto esprimere una posizione netta di denuncia dell’aggressione imperialista di USA, UE e NATO organizzata contro l’Ucraina. Non per improbabili nostalgie proto-sovietiche, quanto perchè si manifesta sempre più evidente la tendenza alla guerra che caratterizza la politica della UE. Ci sembra necessario prendere di nuovo parola sull’argomento, non tanto per quel che riguarda la cronaca della questione, anche se l’evoluzione di queste ore meriterebbe un’attenzione e una mobilitazione non ordinaria, quanto per distinguere, ancora una volta, i protagonisti della guerra in corso in Ucraina e contrastare le forzate analogie tra la piazza Maidan e la legittima resistenza del popolo e della classe operaia del Donbass e di tutta l’Ucraina. E’ sotto gli occhi di tutti, giornalai di regime a parte, che in Ucraina si sia instaurato un regime di terrore attraverso un colpo di stato, che con le elezioni del 25 maggio scorso ha tentato con il pieno appoggio degli USA e della UE di ridarsi uno straccio di legittimità formale. Abbiamo assistito, infatti, alle elezioni più farsesche e tragiche della storia recente. Tragiche perchè mentre nella zona occidentale si votava per l’oligarca di turno, scelto a Washington e Bruxelles, in un regime di terrore (la messa al bando di fatto del Partito Comunista Ucraino è l’esempio più eclatante), nella zona orientale del paese 1/3 della popolazione ucraina veniva sottoposta a bombardamenti aerei e di artiglieria.
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Il FMI peggio della NATO
di Comidad
Il quotidiano "la Repubblica" qualche giorno fa, a proposito dell'ultima sortita europea di Matteo Renzi, titolava trionfalmente: "vince la linea della crescita", con in sottotitolo una frase-ossimoro attribuita a Matteo Renzi: "chi fa le riforme avrà diritto alla flessibilità".
Conta molto poco in realtà la voce grossa che Renzi avrebbe esibito di fronte alla Merkel ed alla Commissione Europea, diretta da un personaggio ormai screditato e delegittimato come Juncker. In questo caso infatti la vera "flessibilità", la vera possibilità di deroga, rispetto ai "parametri europei" consisterebbe nel non fare le cosiddette "riforme", termine che, nel gergo del Fondo Monetario Internazionale, indica una serie di misure di privatizzazione e finanziarizzazione che vanno a vantaggio delle solite lobby, ma che, nel complesso, deprimono l'economia ed impoveriscono la popolazione, diminuendo drasticamente anche il gettito fiscale. La retorica renziana del "fare" si identificherebbe quindi con il fare guai. I media contrappongono il presunto attivismo di Renzi al presunto immobilismo di Letta, ma anche quest'ultimo di guai ne ha fatti parecchi, a cominciare dalla privatizzazione delle Poste, che attualmente rappresentano pur sempre il maggior datore di lavoro in Italia.
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Telemaco e l'eredità dell'euro... con beneficio d'inventario (cum grano salis)
Quarantotto
In margine al "discorso di ieri", svolto per l'apertura del semestre di presidenza italiana dell'UE, partiamo da questo commento al post di ieri, per focalizzare come la vulgata pop della crisi, recentemente evolutasi in modo "generico" (o meglio atecnico), non vada confusa con la "consapevolezza" effettiva della stessa, nei suoi integrali ed univoci legami con l'Europa della moneta unica.
Quest'ultima, a rigor di logica, costituisce null'altro che una eredità in pesante passivo, che qualsiasi Telemaco cum grano salis accetterebbe "con beneficio d'inventario"; cioè prendendone decisamente le distanze e non facendosi carico di debiti contratti da altri ("padri della Patria") e con un'imprudenza che ha fatto il gioco di creditori in ampia male fede (se non altro nel prestare, e nel non cooperare rispetto all'assolvimento delle obbligazioni che il trattato poneva, anche e specialmente, a loro stesso carico). Ecco il commento:
"Non so se finirà nei libri di storia .... vediamo come passa l'autunno. Il discorso di ieri dimostra che Renzi conosce benissimo dove sono i nodi del problema .... e ha cominciato a prendere le distanze dall'Europa e dalla Germania (a parole). Occorre vedere i fatti. Penso che una manovra recessiva nella legge finanziara 2015 potrebbe determinarne una fine prematura."
Vedi qual'è il problema?
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Tutti per la crescita, intanto negli States…
di rk
La vulgata neokeynesiana pro “crescita” ha su questa sponda dell’Atlantico il suo dogma incrollabile: gli Stati Uniti sono usciti dalla crisi grazie alla politica economica e monetaria espansiva dell’amministrazione Obama. Il suo profeta Paul Krugman, è vero, proclama in patria che la liquidità immessa non è ancora sufficiente per risollevare la middle class (anzi, ultimamente ha avanzato dubbi più “strutturali” ma i suoi adepti europei non sembrano aver preso nota). Nessuno comunque mette in dubbio che la strada giusta è quella.
Non importa che la “ripresa” Usa (tecnicamente, udite, data da metà 2009) sia stata a tutt’oggi la più lenta e asfittica del secondo dopoguerra; che i livelli di occupazione pre-crisi siano stati recuperati dopo cinque anni (!) ma con qualifiche e salari più bassi (vedi gli interessantissimi grafici pubblicati dal New York Times); che il livello di partecipazione al mercato del lavoro sia sul 60%, il peggiore da trentasette anni; che l’erogazione di food stamps sia a livelli storici; che la middle class sia in pieno deleveraging post-abbuffata da debito con riduzione dei consumi; eccetera, eccetera.
Con tutto ciò, negli ultimi mesi anche sul versante del Pil le cose paiono mettersi non bene. Inaspettato per gli esperti, il dato del primo trimestre ha segnato un -2,9% su base annua, il peggiore dal 2009.
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La bandiera rubata del papa progressista
di Sebastiano Isaia
Una parte della borghesia desidera di portar rimedio ai mali della società per assicurare l’esistenza della società borghese. Ne fanno parte gli economisti, i filantropi, gli umanitari, gli zelanti del miglioramento delle condizioni delle classi operaie, gli organizzatori della beneficienza, i membri delle società protettrici degli animali [già allora!], i fondatori di società di temperanza e tutta la variopinta schiera dei minuti riformatori (Marx-Engels, Manifesto del partito comunista).
Nell’intervista di ieri a Papa Francesco curata per Messaggero.it, Franca Ginasoldati non resiste alla tentazione di rivolgere al Supremo Vicario la solita rivelatrice domanda: «Lei passa per essere un Papa comunista, pauperista, populista. L’Economist che le ha dedicato una copertina afferma che parla come Lenin. Si ritrova in questi panni?»
Quindi: comunismo, pauperismo e populismo messi nello stesso evangelico sacco. Amen! Il povero Lenin trattato alla stregua di un qualsiasi amico dei poveri, lui che ancora giovanissimo e con qualche capello in testa sostenne a muso duro contro gli amici del popolo la tesi secondo la quale i contadini martirizzati dalle continue carestie avevano bisogno più di coscienza rivoluzionaria, che del soccorso della borghese filantropia e del conforto della religione.
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Dietro Juncker niente
Le presunte disponibilità della Merkel sulla flessibilità europea
Domenico Moro
Gli ultimi giorni sono stati contrassegnati dall’attivismo dei governi socialdemocratici europei, guidato dalla Francia di Hollande e, in parte, anche dall’Italia di Renzi. Lo scopo di tale attivismo è scambiare l’appoggio alla nomina del popolare Jean-Claude Juncker a Presidente della Commissione Europea con allentamento dell’austerità, in modo da permettere all’Europa di uscire dalla crisi in cui è sprofondata da sette anni. La novità, invece, sarebbe la disponibilità della Merkel ad accogliere queste richieste.
La realtà dei fatti è differente. La Merkel, come sempre, ha riaffermato che i trattati non possono essere rivisti. Ha solo ricordato che i trattati stessi, nella loro configurazione attuale, permettono certi margini di flessibilità. Al di là delle interpretazioni di certi mass media di nuovo non c’è nulla. La presunta flessibilità, che consiste in una dilazione dei tempi di rientro dal deficit eccessivo è stata già impiegata, ad esempio in Francia, senza che ne sia derivato alcun beneficio reale. Inoltre, secondo la Merkel (e su questo sono d’accordo tutti, compresi Renzi e Padoan), la flessibilità bisogna meritarsela, facendo le tanto decantate riforme. Queste non sono altro che controriforme di carattere neoliberista (deregolamentazioni del mercato del lavoro, privatizzazioni, ecc.), come quelle attuate in Italia da circa vent’anni senza alcun risultato positivo.
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Lavoro, classe e movimenti nell'Italia della crisi
di Diego Giachetti
Clash City Workers, Dove sono i nostri. Lavoro, classe e movimenti nell’Italia della crisi (La casa Usher, 2014). Scritto da un collettivo che si occupa di fare lavoro d’inchiesta e di analisi al fine di connettere e organizzare le lotte che sono in corso in Italia, quello che abbiamo tra le mani è un testo controcorrente rispetto allo stato attuale degli studi sulle classi sociali prodotti dal caravanserraglio mediatico della cultura neoliberista vestita di sinistra. Si può concordare con quanto affermano gli autori: da alcuni decenni la sinistra ha rinunciato alla capacità di analizzare seriamente la struttura di classe del Paese perdendosi dietro a «tatticismi politici, a suggestivi “immaginari”, a nuove narrazioni». Non altrettanto ha fatto la classe dominante la quale ha prodotto ricerche, analisi, sondaggi, dati e ragionamenti sulla struttura e la composizione delle classi subalterne. Essa infatti per governare ha bisogno di conoscere i sottoposti, mentre questi ultimi avrebbero bisogno di riconoscere se stessi per poter cambiare la loro condizione. La borghesia non si pone tormentate domande introspettive circa l’esistenza o meno delle classi sociali, né vaga alla ricerca delle classi perdute. Ha piena coscienza che esse esistono, misura con ricerche e classificazioni il loro peso economico e sociale, per concludere che esse sono qualcosa di naturale, che è sempre esistito. Certo i numeri, le serie statistiche, le quantificazioni sono spesso una delusione per le idee con le quali si ha, a volte, la pretesa di “intuire” il sociale e l’economico. Balza subito agli occhi, ad esempio, che concetti oggi in voga quali deindustrializzazione, residualità operaia, centralità del cognitario siano nei migliori dei casi semplificazioni, oppure proiezioni soggettive di chi scrive.
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Non c’è più la buona deflazione di una volta, signora mia!
La deflazione fa male? Se lo chiede un articolo di Michele Boldrin, Giovanni Federico e Giulio Zanella pubblicato su NoisefromAmerika . Secondo i tre economisti non si può giungere a questa conclusione, e quindi gli allarmi delle banche centrali sarebbero eccessivi, perché non vi sarebbero evidenze empiriche né una solida teoria alle spalle. Ma le cose stanno davvero così?
Le presunte evidenze empiriche
Boldrin, Federico e Zanella, per dimostrare che la deflazione non è generalmente associata alla contrazione dell’attività economica, riportano alcuni grafici nei quali sono plottati gli indici dei prezzi all’ingrosso e il PIL di alcuni paesi avanzati tra il 1850 e il 1900. Un’epoca in cui l’econometria neppure esisteva e le cui serie sono state ricostruite a posteriori, a partire dagli anni ’60, sulla base di notizie frammentarie circa la produzione del grano o l’estensione delle ferrovie. I grafici in effetti sembrano dare ragione agli autori.
Possiamo fidarci di questa ricostruzione? Ben poco. Il periodo che va dal 1873 al 1879 viene chiamato “Lunga Depressione” (non lunga espansione!) e durò, secondo i dati del National Bureau of Economic Research , ben 65 mesi (per fare un confronto, la “Grande Depressione” iniziata nel 1929 ne durò “solo” 43). Essa originò dal panico finanziario del 1873, partito da Vienna e poi contagiato in tutto il mondo industrializzato — tanto per ricordarci che la finanziarizzazione e la globalizzazione dell’economia non sono un’invenzione recente . Nel 1893 un secondo panico finanziario riportò l’economia in recessione.
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«L’austerità flessibile di Renzi è una conquista risibile»
Roberto Ciccarelli intervista Emiliano Brancaccio
Rigore. Intervista all’economista che denuncia la «precarietà espansiva»: «L’accordo con Merkel la peggiorerà». «Basterebbe guardare i dati dell’Ocse e del Fondo monetario internazionale per capire che non basta una debole mediazione sui parametri europei». Sul referendum no Fiscal Compact: «Sentiero impervio, ma può accelerare le contraddizioni in un quadro europeo insostenibile»
Flessibilità nel rigore. A questo risultato è giunto l’accordo tra Renzi e Merkel a Bruxelles. In realtà riguarda i soli cofinaziamenti nazionali ai fondi Ue esclusi dal conteggio del deficit e poco altro. Nulla del fiscal compact , né dell’austerità, sembra essere stato toccato. All’economista Emiliano Brancaccio chiediamo se Renzi è riuscito a trasformare il bastone del rigore nella carota dell’austerità flessibile.
«Renzi sta solo cercando di rinviare le scadenze e non si azzarda a toccare le regole — risponde Brancaccio — Durante la campagna delle primarie aveva più volte evocato la possibilità di cambiare i trattati. Ora si limita a chiedere un’austerità un po’ più “flessibile”. In sostanza, la trattativa verte su un mero rinvio di un anno o due degli obiettivi di pareggio del bilancio. Che la richiesta venga accolta è da verificare, visto che Commissione Ue ed Ecofin risultano tutt’ora ostili. Ma anche ammesso che Renzi riesca a spuntarla, otterrebbe solo un margine in più per il deficit di 0,2 punti percentuali. Una conquista risibile rispetto alla gravità della situazione».
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