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Ordinare il caos
di Enrico Tomaselli
C’è un passaggio, nell’intervista rilasciata da Lavrov a Tucker Carlson, che mi ha colpito [1], ed è quando dice che gli Stati Uniti creano il caos e poi vedono come utilizzarlo. Effettivamente, e soprattutto a partire dalla caduta dell’URSS, la politica estera statunitense sembra assolutamente uniformata a questo principio base, creare il caos (nella più assoluta indifferenza per ciò che poi significa per milioni di persone), e solo successivamente porsi il problema di come trarne concretamente vantaggio. Naturalmente si potrebbe aprire un’ampia riflessione su ciò, sulle ragioni profonde che lo determinano, ma non è ovviamente questa la sede opportuna. Vale qui semplicemente il tenere a mente questa caratteristica della politica imperiale americana, poiché spesso si tende ad attribuirvi una progettualità strategica che semplicemente non c’è, laddove – appunto – c’è invece la convinzione che il caos sia sempre e comunque foriero di opportunità, e che in linea di massima avvantaggi sempre gli USA più che i suoi avversari.
Se guardiamo adesso a quanto sta accadendo in Siria, tenendo presente questo assunto, possiamo provare – in linea puramente teorica e astratta – a ordinare il caos, ovvero a cercare di identificare il senso degli avvenimenti.
La premessa necessaria (ma che non implica alcuna spiegazione complottista) è che negli accadimenti di questi giorni c’è, sotto molti aspetti, un margine di inspiegabile – o meglio, di non spiegato, non chiarito.
Guardando ai fatti in ordine cronologico, il primo gap è: come è stato possibile che l’intelligence di tre paesi (Russia, Iran e Siria) non abbia avuto alcuna contezza di ciò che si stava preparando nella provincia di Idlib? O ancora meglio, come è stato possibile che siano stati sottovalutati a tal punto i segnali che, sicuramente, erano stati rilevati? In questo – e sottolineo ancora una volta, senza alcun suggerimento complottista – c’è in fondo una certa similitudine con il 7 ottobre e l’operazione Al Aqsa Flood. Probabilmente un mix di sottovalutazione del nemico e sopravvalutazione di sé stessi.
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In Siria il punto di congiunzione tra le guerre in Ucraina e Medio Oriente
di Gianandrea Gaiani
L’offensiva scatenata nel nord della Siria il 27 novembre dalle milizie jihadiste guidate dal gruppo Hayat Tahrir al-Sham (HTS), un tempo noto come Fronte al-Nusra e inserito nella rete di al-Qaeda, finora sostenute o protette dalla Turchia nella provincia di Idlib, non può essere valutata solo per il suo aspetto di conflitto regionale.
La situazione in cui ha ripreso il via su vasta scala il conflitto siriano deve infatti venire collocato nel più ampio contesto conflittuale e di destabilizzazione che si estende dall’Ucraina alla Georgia, da Gaza alla Siria, da Israele all’Iran.
I miliziani raccolti intorno all’HTS con le diverse fazioni filo-turche, hanno lanciato un’offensiva-lampo contro le forze governative siriane, conquistando decine di villaggi nelle province di Aleppo, Idlib e Hama, l’aeroporto militare di Abu Dhuhur (tra Hama e Aleppo), ed espugnando gran parte della città di Aleppo anche se in quella città sono ancora presenti forze governative e nei sobborghi e nell’aeroporto si sono schierate le milizie curde.
Le forze di autoprotezione curde (YPG – nella foto qui sopra), che con alcune milizie tribali sunnite costituirono le Forze Democratiche Siriane (FDS), sostenute dagli Stati Uniti, con l’obiettivo di combattere l’ISIS e controllare i territori orientali, sono oggi impegnate a evacuare circa 200 mila cittadini curdi dai territori e dai quartieri della città caduti nelle mani dei jihadisti che hanno riconquistato anche Tal Rifaat, a nord di Aleppo, da anni in mano alle milizie curde.
Il comandante delle FDS, Mazloum Abdi ha detto il 1° dicembre che “gli eventi nella Siria nord-occidentale si sono sviluppati rapidamente e all’improvviso, mentre le nostre forze hanno dovuto affrontare attacchi intensi da più parti. Con il crollo e il ritiro dell’esercito siriano e dei suoi alleati, siamo intervenuti per aprire un corridoio umanitario tra le nostre regioni orientali, Aleppo e la regione di Tal Rifaat per proteggere la nostra gente dai massacri. Ma gli attacchi dei gruppi armati appoggiati dall’occupazione turca hanno interrotto questo corridoio”, ha affermato Abdi. “Continuiamo a resistere per proteggere la nostra gente nei quartieri curdi di Aleppo“, ha aggiunto.
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Dopo il cessate il fuoco in Libano, Netanyahu è a corto di carte da giocare
di David Hearst* - Middle East Eye
Impantanato a Gaza, fermato in Libano, Netanyahu ha già iniziato a spostare l'attenzione di Trump sulla necessità di attaccare l'Iran
Quando il defunto segretario generale di Hezbollah, Hasan Nasrallah, è stato ucciso da 10 bombe che hanno distrutto un bunker a 60 metri di profondità, le strade di Israele hanno esultato.
“Oh Nasrallah, ti distruggeremo, a Dio piacendo, e ti rimanderemo a Dio insieme a tutti gli Hezbollah”, erano le parole di una canzone diffusa da un condominio di Tel Aviv.
Un bagnino annunciò ai bagnanti: “Con felicità, gioia e allegria, annunciamo ufficialmente che il ratto Hassan Nasrallah è stato assassinato ieri. Il popolo di Israele è vivo”. E, in linea con la saggezza diffusa all'epoca, The Spectator proclamò: “Nasrallah è morto e Hezbollah è distrutto”.
Solo due mesi dopo, l'umore in Israele è molto diverso. Solo 11 giorni fa, il ministro della Difesa, Israel Katz, aveva dichiarato che l'obiettivo era disarmare Hezbollah e creare una zona cuscinetto nel sud del Libano.
L'esercito non ha garantito nessuna delle due cose e gli israeliani lo sapevano.
Alla domanda su chi avesse vinto dopo quasi 14 mesi di combattimenti, il 20% degli israeliani intervistati ha dichiarato di ritenere che Israele abbia vinto, mentre il 19% ha detto che è stato Hezbollah. Il 50% delle persone ha dichiarato che i combattimenti si concluderanno senza un chiaro vincitore, mentre l'11% ha detto di non saperlo.
L'operazione che ha ucciso Nasrallah è stata denominata: “Nuovo Ordine”. E per stabilire una narrativa di vittoria, oggi persiste il mito che Hezbollah sia stato “battuto e sminuito” da 13 mesi di guerra. Indebolito e isolato, era alla disperata ricerca di un cessate il fuoco, ha commentato con sicurezza il New York Times.
Fughe di notizie letali
La prima e la seconda fila di leader di Hezbollah sono state effettivamente decimate.
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Ucraina, i giorni dell’incertezza
di Roberto Iannuzzi
Kiev sta perdendo la guerra. Il lancio russo del missile Oreshnik è un “game changer”. Ma, in attesa di Trump, USA e Gran Bretagna sembrano non voler cogliere gli ammonimenti di Mosca
A partire dalla fine di ottobre, e ancor più dopo la vittoria di Donald Trump alle presidenziali americane, l’amministrazione Biden ha cominciato ad alzare la posta in gioco in Ucraina.
Il 22 ottobre ha approvato un finanziamento di 800 milioni di dollari a favore dell’industria bellica di Kiev per la costruzione di droni a lungo raggio in grado di colpire in profondità il territorio russo.
L’8 novembre ha autorizzato il Pentagono a schierare ufficialmente contractor USA in Ucraina per mantenere in efficienza i sistemi d’arma americani in dotazione all’esercito di Kiev.
Nove giorni dopo, ha autorizzato l’impiego di missili USA a lungo raggio per colpire obiettivi in territorio russo.
E il 19 novembre ha annunciato che avrebbe fornito all’esercito ucraino mine antiuomo per rallentare l’avanzata delle truppe di Mosca, sebbene nel 2022 si fosse impegnata a limitarne l’impiego.
Biden ha anche cancellato 5 miliardi di debito al governo di Kiev, ed in generale sta compiendo ogni sforzo per rafforzare il più possibile l’Ucraina prima dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca.
Missili NATO contro la Russia
L’episodio che ha fatto più scalpore, in ogni caso, è costituito dall’autorizzazione a colpire il territorio russo con missili americani a lunga gittata.
Due giorni dopo, sei missili ATACMS sono stati lanciati contro un deposito di armi nella regione russa di Bryansk (cinque sarebbero stati intercettati).
A stretto giro di posta, è arrivato l’annuncio che Gran Bretagna e (seppur con meno convinzione) Francia avrebbero seguito l’esempio americano mettendo a disposizione i propri missili cruise (Storm Shadow e Scalp, rispettivamente) per colpire obiettivi in territorio russo.
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De-dollarizzazione, BRICS e il significativo esperimento cinese
di Danilo Silvestri*
La decisione del Ministero delle Finanze cinese del 5 novembre scorso di emettere titoli di Stato denominati in dollari proprio in Arabia Saudita avviene in un momento storico significativo. Non solo perché segue immediatamente il XVI Summit BRICS di Kazan (22-24 ottobre) e coincide con le elezioni americane (5 novembre), ma anche perché questa decisione rivela alcune atipicità significative per il sistema internazionale nel suo insieme.
Partiamo dal contesto: durante il Summit di Kazan si è discusso ampiamente dei deficit strutturali del sistema finanziario globale, sono state avanzate alcune possibili soluzioni e si è anche fatto riferimento alla necessità di superare la centralità del dollaro statunitense quale valuta di riferimento per la comunità internazionale. La de-dollarizzazione, cioè il progressivo abbandono del dollaro, è una delle sfide più significative per la comunità internazionale, e vede i BRICS in prima linea in questo processo.
Per capire perché questo evento sia così interessante, procederemo a ritroso. Dopo aver illustrato le ragioni della sua atipicità, presenteremo alcune ipotesi per il sistema internazionale e la posizione che potrà assumere, in questo contesto, la Cina. Dopodiché, confronteremo la posizione cinese con il ruolo effettivo giocato dagli Stati Uniti nel sistema finanziario internazionale, per poi affrontare il problema da un punto di vista strutturale, soffermandoci sul significato della centralità del dollaro e sugli squilibri che ciò comporta per l’intero sistema. Infine, tenteremo di delineare quali scenari futuri potrebbero aprirsi a partire da questo fatto passato, per lo più, inosservato.
Cosa c’è di atipico?
Con la sua operazione, la Cina ha raccolto 2 miliardi di dollari emettendo, in Arabia Saudita, titoli di Stato con scadenza a tre e cinque anni, rispettivamente a uno e tre punti base (cioè: 0.01-0.03%) in più rispetto ai titoli del Tesoro statunitense. Per questa prima emissione di obbligazioni in dollari dal 2021, la Cina ha ricevuto offerte per oltre 40 miliardi di dollari, venti volte l'importo emesso, indicando una domanda estremamente elevata per i suoi titoli.
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L’oligarchia tecnocratica al potere negli Usa. La risposta dei Brics
di Alfonso Gianni
La rivincita di Trump è stata brutale, per le modalità con cui è stata conseguita e per le sue dimensioni. C’è chi più cortesemente l’ha definita eccezionale, riferendosi soprattutto al fatto che solo un’altra volta un ex presidente americano è stato rieletto. Ma era accaduto più di cent’anni fa, precisamente nel 1893, un’altra epoca storica, quando il democratico Grover Cleveland ritornò nello studio ovale, dopo che per quattro anni vi si era insediato il repubblicano Benjamin Harrison.
Questa volta abbiamo avuto un ex presidente che non solo non ha voluto mai riconoscere l’esito delle elezioni del 2020, ma ha incitato all’assalto del Campidoglio a Washington nel giorno in cui il Congresso si apprestava a registrare la vittoria di Biden, lasciando sul terreno cinque morti (un agente e quattro manifestanti), spavaldamente sicuro della sua impunità; ha capitalizzato in campagna elettorale gli effetti degli attentati subiti – o ritenuti tali – esponendo il suo corpo leggermente ferito come una promessa di vittoria e una minaccia per i perdenti; ha rovesciato un numero incredibile di insulti sui suoi antagonisti e persino su settori dell’elettorato a cui pure sarebbe andato a chiedere il voto.
Eppure tutto questo è stato spazzato via come d’incanto dalla vittoria elettorale, così come sono stati ridicolizzati i sondaggi che fino all’ultimo prevedevano un testa a testa fra i due candidati, che non c’è mai stato. Insieme a tutto ciò sono state affossate le illusioni dei democratici, che le elezioni di Mid-term dell’8 ottobre del 2022 avevano tutto sommato premiato, permettendo loro di guadagnare quel seggio che gli dava la maggioranza al Senato e contenendo la perdita alla Camera, solo nove eletti in meno. Tanto più che si trattava di una cosa insolita, visto che quelle elezioni hanno avuto perlopiù esiti in controtendenza rispetto al partito del presidente in carica.
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Genocidio per scettici
di Flavio Del Santo*
Israele sta bombardando Gaza da oltre 13 mesi: la crisi umanitaria in tutta la Palestina, così come nelle aree limitrofe del Medio Oriente, ha raggiunto livelli critici come mai prima d’ora. L’ONU stima che oltre 43.000 palestinesi siano stati uccisi, tra cui circa 17.000 bambini, e che più di 102.000 siano rimasti feriti, mentre 1,9 milioni siano sfollati, su un totale di 2,2 milioni di abitanti nella Striscia di Gaza! [1].
Sebbene si registri una tendenza positiva nell’opinione pubblica e nella partecipazione alle iniziative che condannano sempre più apertamente queste atrocità – come i movimenti studenteschi della scorsa primavera, che hanno visto la più grande ondata mondiale di occupazioni universitarie dai tempi della guerra in Vietnam – permane una forte reazione repressiva verso le critiche a Israele, che vengono censurate o, più spesso, grottescamente bollate come forme di antisemitismo, o violentemente sedate [2].
Proprio a causa di questa forte polarizzazione nell’informazione normalmente reperibile, sembra spesso di percepire una reticenza, uno scetticismo verso le differenti narrazioni, considerate faziose e strumentali, specialmente quelle a favore di Gaza, che da sempre sono appannaggio dei nostri ambienti di sinistra internazionalista, antimperialista e antisistema. Credo pertanto che molti delle nostre narrazioni nell’interesse della verità e della pace vengano spesso etichettate come ideologiche, poco obiettive e iperboliche, e quindi largamente ignorate, quando non apertamente avversate.
Questo articolo è un tentativo di raccontare una storia proprio a quegli scettici, confusi, o coloro che volutamente si arroccano su posizioni “neutrali”. È un pezzo scritto specificamente per i moderati, come chi, ad esempio per i motivi appena elencati, si irrigidisce quando sente la parola ‘genocidio’.
Sebbene sia in generale impossibile fornire dati oggettivi completamente privi di interpretazione, e lo dico da scienziato, sarà inevitabile, a un certo punto, riconoscere la competenza e l’autorità di alcune fonti, nonché la pertinenza di alcune analisi.
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Quali sono gli scenari futuri della presidenza Trump?
di Domenico Moro
Definire gli scenari futuri della presidenza Trump è difficile perché le promesse e le dichiarazioni della campagna elettorale dovranno misurarsi con una realtà che per gli Usa è molto complessa.
Per capire perché Trump ha vinto elezioni dobbiamo rifarci al quadro generale. Gli Usa stanno attraversando da tempo una fase di declino, che è sia economico sia di egemonia. La Russia e soprattutto la Cina stanno sfidando il dominio storico degli Usa. Ma sono molti gli Stati del Sud del mondo che mettono in discussione il vecchio ordine mondiale risalente agli Accordi di Bretton Woods del 1944, che sancirono il dominio degli Usa e del dollaro a livello mondiale.
Per frenare tale declino gli Usa, spinti soprattutto dalla corrente neoconservatrice, negli ultimi decenni hanno adottato una politica imperialista aggressiva che non ha risolto la situazione ma ha accelerato il loro declino. Questa strategia aggressiva è stata propugnata dal blocco dominante in modo bipartisan. Ma, di fronte agli insuccessi della strategia adottata fino a ora, è cresciuta all’interno dell’élite dominante una tendenza che è orientata a cambiare rotta.
Di fatto, si è prodotta, a causa della crisi degli Usa, una spaccatura all’interno della classe dominante, che ha rotto il tradizionale consenso bipartisan che era in vigore specialmente nella politica estera. La frazione dell’élite che è per il cambiamento è ricorsa a un outsider fuori dai partiti tradizionali, Trump, e al populismo politico, sfruttando le contraddizioni economiche che hanno impoverito milioni di americani. La virulenza della campagna elettorale, con i suoi toni particolarmente accesi, e i tentativi di eliminare Trump per via giudiziaria e finanche fisicamente, sono il riflesso di una forte tensione politica all’interno della classe dominante statunitense come non si osservava da molto tempo. Trump è appoggiato da diversi di settori del capitale, a partire da quelli più innovativi delle criptovalute e delle big tech, rappresentati da Elon Musk, ma anche da Jeff Bezos, il patron di Amazon, che ha impedito al quotidiano di sua proprietà, l’autorevole Washington Post, di dare il tradizionale appoggio ai democratici e a Kamala Harris, facendo poi i complimenti, per nulla scontati, a Trump una volta che questi è stato eletto.
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Perché Amerika si scrive con il kappa. Due libri di Salvatore Minolfi
di Mimmo Porcaro
Che la guerra russo-ucraina sia soprattutto l’effetto di un insieme di scelte occidentali, e che queste siano l’esito di tendenze profonde presenti da decenni nelle due sponde dell’Atlantico, è cosa di cui tutti, compresi coloro che devono per mestiere negare l’evidenza, sono consapevoli. Ma non tutti si chiedono da quanto tempo tali scelte maturino e quanto siano profonde e irreversibili le tendenze che esse esprimono: domande cruciali per chi voglia contrastare le une e le altre.
Nel suo recente, agile lavoro dedicato proprio al conflitto in corso, Salvatore Minolfi affronta di petto tali questioni e lo fa (anche sviluppando una sua precedente e più complessa ricostruzione del dibattito strategico statunitense post ’89) col metodo proprio dello storico: ossia attraverso l’attenta lettura dei documenti prodotti dall’amministrazione Usa e dall’affollato mondo di quegli “attori multiposizionati” (accademici, consulenti, think tank) che, variamente connessi sia alla politica che agli affari, codeterminano in maniera significativa le scelte dell’egemone mondiale[1]. E carta canta, verrebbe da dire: la chiarezza con cui in questi documenti vengono espresse le intenzioni delle élite Usa smentisce da sola qualunque teoria del complotto, mostrando come tutte le cose essenziali siano dette e fatte alla luce del sole.
Si vedano ad esempio, trai molti documenti citati dall’Autore, lo studio dell’influentissima Rand Corporation, significativamente intitolato Extending Russia, che riproponendo nel 2019 una versione aggiornata della strategia afghana anti-Urss, invita a costringere Mosca ad azioni militari talmente onerose da portare al collasso della Russia[2]; oppure il documento strategico 2021 della Casa Bianca dove si esplicita l’intenzione di dar vita a un nuovo ordine attraverso “distruzione e costruzione” anche riprendendo apertamente la strategia delle presidenze Bush: ossia la commistione tra merci, capitali e guerra[3].
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Viaggio alle origini della rivalità fra Israele e Iran
di Roberto Iannuzzi
Gli eventi che hanno portato alla fusione di due questioni relativamente distinte, seppur legate dalla comune lotta anticoloniale: il conflitto israelo-palestinese e la questione iraniana
Il conflitto seguito all’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, all’inizio confinato principalmente a Gaza, si è progressivamente esteso al Libano, allo Yemen e al Mar Rosso, alla Siria e all’Iraq.
In questo contesto, la rivalità fra Israele e Iran, per anni manifestatasi come uno confronto indiretto e combattuto “per procura” su numerosi teatri mediorientali, sta sfociando in un pericoloso scontro diretto fra i due paesi, che potrebbe coinvolgere gli Stati Uniti e far deflagrare l’intera regione.
A prescindere dalla crescente espansione e intensificazione delle operazioni belliche nei teatri sopra citati, è stata la campagna israeliana di omicidi mirati a danno di esponenti di spicco del cosiddetto “asse della resistenza” filo-iraniano a provocare per la prima volta risposte dirette contro Israele da parte di Teheran.
Com’è noto, tale asse include Hamas e la Jihad Islamica in Palestina, Hezbollah in Libano, la Siria del presidente Bashar al-Assad, diverse milizie sciite in Iraq, il gruppo Ansar Allah (meglio noto come gli “Houthi”) nello Yemen, e naturalmente l’Iran.
Due episodi, in particolare, hanno rappresentato altrettanti punti di svolta in questa contrapposizione: il bombardamento israeliano del consolato iraniano a Damasco lo scorso 1° aprile, e quello violentissimo sulla Dahiya (il sobborgo meridionale) di Beirut del 27 settembre.
Nel primo sono rimasti uccisi tre generali della forza Quds della Guardia Rivoluzionaria iraniana (IRGC, secondo l’acronimo inglese). Il secondo ha eliminato fisicamente Hassan Nasrallah, segretario generale di Hezbollah, insieme ad alcuni dirigenti del gruppo e a un altro generale iraniano.
Entrambi questi attacchi hanno provocato una risposta missilistica iraniana diretta contro il territorio israeliano, evento mai verificatosi prima nella storia dei due paesi. La prima rappresaglia si è consumata nella notte fra il 13 e il 14 aprile, la seconda, militarmente più incisiva, in quella del 1° ottobre.
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Trump, o della bancarotta globale del progressismo neoliberale
di Alberto Toscano
La clamorosa disfatta dei Democratici e la reincorazione di Trump sanciscono l’impossibilità di archiviare l’ascesa planetaria della politica reazionaria come un fenomeno transitorio. Al contempo, sollecitano l’urgenza di un’analisi approfondita, che non si limiti all’invettiva ma permetta di comprendere il perché siamo arrivati a questo punto, e dunque come sia possibile invertire la rotta. Alberto Toscano – autore dell’illuminante Tardo fascismo, dal 29 novembre nelle librerie – individua le origini del trumpismo nel fallimento del «progressismo neoliberale», politica che va da Macron a Harris. Una politica antifascista, conclude l’autore, non può perciò limitarsi a declamare continuamente il fascismo dell’avversario, ma necessita la costruzione di una logica diversa da quella del solo calcolo elettorale [1].
* * * *
La clamorosa sconfitta di Kamala Harris, quella che Benjamin Netanyahu e Viktor Orbán hanno salutato come una storica rimonta politica[2], spegne ogni speranza sull’idea che l’ascesa planetaria della politica reazionaria sia un fenomeno passeggero. Una campagna elettorale che celebrava la sua continuità incondizionata con il Partito democratico dei Clinton, di Obama e di Biden si è sgretolata di fronte a un candidato che ha sguazzato nelle accuse di fascismo con un’allegria ancora maggiore rispetto alle sue precedenti campagne elettorali, invocando la fucilazione dei rivali, giocando con la dittatura e soprattutto annunciando deportazioni di massa degli immigrati come suo principale obiettivo politico. L’imminente falò dei diritti e dei benefici sociali delineato dal Project 2025 non ha scatenato nelle urne una resistenza sufficiente. E nemmeno la dichiarata simpatia di Trump per i generali di Hitler o il carnevale di volgarità razziste al Madison Square Garden.
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Trump ha dato il colpo di grazia a Scholz e alla Germania?
di OttolinaTV
Finita quella colossale arma di distrazione di massa che è il gigantesco e costosissimo teatrino delle elezioni statunitensi, possiamo finalmente tornare a occuparci della sostanza; in ossequio alle macchinazioni del grande manovratore, per qualche mese è stato messo un tappo alla pentola delle gigantesche contraddizioni scatenate dal declino dell’impero e dalla feroce guerra economica che, inevitabilmente, lo accompagna. Finita la tregua armata è tornato il tempo della resa dei conti, a partire dal fronte più caldo in assoluto: le conseguenze della guerra economica che gli USA hanno dichiarato a quella che abbiamo definito l’anomalia tedesca. Neanche il tempo di terminare lo spoglio ed ecco che in Germania, inevitabilmente, arrivava il terremoto; talmente prevedibile che prima che Scholz stesso annunciasse definitivamente l’uscita dalla coalizione semaforo del liberale ministro delle finanze Lindner, proprio qui su Ottolina avevamo previsto che una crisi del governo tedesco era questione di ore. Nel frattempo, a qualche migliaio di chilometri di distanza, Pechino annunciava un pacchetto da 1.400 miliardi di dollari per ristrutturare il debito delle amministrazioni locali e, nel cuore dell’impero, Jerome Powell, il presidente della FED che nel 2018 era stato nominato proprio da Trump, ma che già a pochi mesi dalla nomina era entrato in collisione col tycoon dal ciuffo arancione, ha preso decisioni e fatto dichiarazioni che, in modo del tutto irrituale, contrastano vistosamente con le principali linee di politica economica annunciate dal neoeletto presidente. Il trionfo di Trump (da parte mia del tutto inatteso, per lo meno nella sua entità), quindi, ha cambiato tutto? Per dirla con un francesismo manco col cazzo: tutti i nodi che, a poche ore dall’elezione di Trump, sono venuti al pettine sono il frutto di processi decisamente più lunghi e strutturali; di fronte alle contraddizioni – spesso irrisolvibili – che questi processi, inevitabilmente, hanno causato e stanno causando, la quota di potere che spetta all’amministrazione USA (che è solo una parte del potere nel suo complesso e, tutto sommato, manco la più rilevante) deve decidere la sua prossima mossa, che (inevitabilmente) causerà altre contraddizioni che obbligheranno l’amministrazione USA a decidere, nei limiti delle sue possibilità, la mossa successiva.
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Trump, la guerra e le illusioni
di Leonardo Mazzei
Un voto figlio del caos
Dunque, Trump è stato rieletto. La portata dell’evento è chiara. Meno, molto meno, le sue effettive conseguenze. L’inevitabile profluvio di articoli e commenti che ne è seguito a caldo poco aiuta. Se banalità, recriminazioni, speranze e delusioni sono la norma in questi casi, più complesso stavolta trovare il bandolo della matassa sulla svolta che verrà impressa alla politica americana. La difficoltà non nasce solo dal personaggio Trump, ma dal vero caos che attraversando il mondo arriva al cuore di un impero americano che non ha più la certezza del suo dominio illimitato.
E’ questo caos che ha prodotto Trump, non il contrario, come invece vorrebbero le autistiche anime belle del progressismo europeista. L’ha prodotto per riportare l’ordine, ma come il suo predecessore ben difficilmente ci riuscirà.
Il caos è figlio di una crisi che non è solo economica. Più esattamente, esso è figlio dell’incapacità di dare risposta a quella crisi. Un’incapacità che unisce sia la cupola globalista (in genere intricata con le sinistre transgeniche), che il populismo liberista di destra. Quest’ultimo si presenta come “populista” quand’è all’opposizione, rivelando immancabilmente la sua natura ultra-liberista (dunque antipopolare e sistemica) quando arriva al governo. Meloni docet!
La crisi che attanaglia l’Occidente ha infatti un nome: neoliberismo. Quel sistema non è solo ingiusto, esso semplicemente non funziona. Ma, per una maledetta congiuntura storica, la sua crisi si è prodotta nel punto più basso della lotta per l’uguaglianza e la giustizia sociale. Da qui l’accanimento terapeutico nel riproporre, ogni volta a dosi maggiori, tutte le mostruosità sociali dell’ultimo quarantennio. Il neoliberismo ha fatto cilecca? Diamoci dentro con un neoliberismo rafforzato, concettualmente senza limiti (alla Milei, per intenderci), meglio se inserito in una cornice fortemente autoritaria. Questo riflesso tipico dei dominanti ben lo conosciamo dalle nostre parti. Un esempio: l’Unione Europea è un fallimento? Niente paura, quel che occorre è semplicemente “più Europa”. E via di seguito.
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Le condizioni politiche di un nuovo ordine mondiale
di Maurizio Lazzarato
Con gli articoli di Maurizio Lazzarato «Perché la guerra?» e di Andrea Pannone «La Borsa, il "comitato d'affari della borghesia" e la guerra» Machina ha impostato un dibattito volto a riflettere su guerra e crisi, oggi.
La nostra attuale impotenza politica è la conseguenza diretta dell’esclusione delle guerre e delle guerre civili dalla teoria critica, essa stessa risultato di un’altra esclusione: quella delle lotte di classe, cioè della questione della rivoluzione. Porre il problema della guerra significa, oggi, porre il problema del mercato mondiale.
Quando la guerra, la guerra civile, il genocidio e il fascismo ritornano clamorosamente nelle nostre cronache (e con essi, paradossalmente, la «possibilità impossibile» della rivoluzione) ci scopriamo impotenti perché, se è vero che questi processi sono l'evidente risultato della produzione capitalistica, è inspiegabile spiegarli con le sole categorie della critica dell’economia politica. Che rapporto hanno le guerre con il capitalismo e la sua produzione? Costituiscono incidenti del suo sviluppo o elementi strutturali? E ancora: che rapporto esiste tra lo Stato – che ha il potere di dichiarare e gestire la guerra – e il Capitale? É ancora valido un concetto di produzione che marginalizza lo Stato e la sua sovranità? Si può continuare a considerare lo Stato come elemento puramente funzionale e subordinato alle esigenze dell’accumulazione di capitale?
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La Bibbia e la ruggine. Quali ragioni nella vittoria di Donald Trump?
di Gianmarco Pisa
Spunti di analisi e di riflessione sui principali contenuti, sociali e politici, della rielezione di Donald Trump.
Molte le ragioni e le “connotazioni sociali” della vittoria presidenziale di Donald Trump negli Stati Uniti: ragioni che si possono (si devono) discutere e problematizzare; che non possono tradursi in giustificazioni e compiacimenti; che non modificano il profilo del presidente eletto, un profilo reazionario, con una proposta politica che prospetta soluzioni al disagio e alla sofferenza di ampia parte della popolazione statunitense ma concretizza provvedimenti a vantaggio dei ceti abbienti, di precisi segmenti dell’élite economica nordamericana; che si ammanta di una convincente retorica “antisistema”, pur essendo, come nella migliore tradizione populista, parte integrante di (una specifica componente) di quel medesimo “sistema”. Non è la logica “sistema-antisistema”, dunque, a spiegare il risultato elettorale e il successo politico di Trump; molto meglio possono farlo l’analisi delle contraddizioni e delle polarizzazioni sociali e delle condizioni e degli effetti delle profonde e pesanti diseguaglianze sociali che attraversano in maniera lacerante gli Stati Uniti.
Il successo politico, intanto, è incontrovertibile, al punto che Trump stesso, nel “discorso della vittoria”, ha annunciato l’intenzione di unire, superare le divisioni, esasperate dai toni e dai temi della campagna elettorale, proprio in virtù del “successo” conseguito. Un’affermazione forse sfuggita a diversi commentatori, ma non banale, nella logica che muove l’impianto politico del personaggio e del suo entourage (che non è quello, evidentemente, del tradizionale establishment repubblicano). Lo dicono i dati. Nel momento in cui scriviamo, a Trump sono attribuiti 295 grandi elettori (maggioranza: 270); netto il successo nel voto popolare, con 72.641.564 voti pari al 51%, contro Kamala Harris ferma a 67.957.895 voti pari al 47.5%, con un vantaggio di oltre quattro milioni di voti popolari; conquista la maggioranza al Senato (52 vs. 44) e presumibilmente anche alla Camera (206 vs. 191). In più del 50% delle oltre 3.000 contee degli Stati Uniti vi è stato un significativo spostamento verso Trump. Ribalta, in sostanza, l’esito, in termini di voto popolare, delle elezioni del 2016, quando la Clinton ottenne quasi tre milioni di voti in più; adesso sono oltre quattro milioni in più per Trump.
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