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Eros della guerra
di Emiliano Brancaccio, Elisa Cuter
Da oggi è in libreria il libro dell’economista Emiliano Brancaccio Le condizioni economiche per la pace (Mimesis, Milano). Nel libro è contenuto un dialogo con Elisa Cuter (una degli editor di questa rivista), di cui riportiamo un estratto.
* * * *
Elisa Cuter: Un tempo si diceva “fuck for peace”, che in versione edulcorata e pubblicabile divenne “make love, not war” grazie a un’intuizione di Penelope Rosemont e altri attivisti, e poi fu riciclato in diverse varianti, tra cui la più hippy probabilmente era “put flowers in your guns”. Questi slogan ebbero un enorme successo mondiale alla fine degli anni Sessanta, nel pieno delle proteste contro la guerra in Vietnam. Viceversa, oggi non sono soltanto dei motti sbiaditi, sono proprio indicibili. Nemmeno il più gretto censore perderebbe tempo a passarci il bianchetto, visto che appaiono talmente assurdi che nessuno oserebbe farli entrare nel gergo pacifista. Insomma, mettere la liberazione dell’amore contro la schiavitù della guerra prima funzionava e adesso proprio no. Questo cambiamento mi pare un fatto rilevante, che rende la questione non di costume ma proprio politica, nel senso che sembra cogliere un mutamento storico essenziale. Quindi voglio domandarti: perché oggi anche solo sussurrare lo slogan “make love, not war” sembra un anacronismo senza senso, una roba da pazzi?
Emiliano Brancaccio: Perché all’epoca tutti mettevano il naso per aria e sentivano l’odore seducente della “rivoluzione”. Oggi la sensazione generale è che l’aria sia stata ripulita, sia diventata asettica, immune al morbo rivoluzionario. Questa sensazione non descrive necessariamente la realtà, eppure è reale: è una “evidenza”, nel senso ideologico che ci ha spiegato Althusser. La specificità dell’ideologia è esattamente quella di imporre senza averne l’aria, poiché presenta le “evidenze” come cose che non possiamo negare, di fronte alle quali ci viene solo di esclamare: “è evidente: la rivoluzione è impossibile”.
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Oltrepassare il secolo lungo
di Luigi Alfieri
Il “paradigma moderno” è legato a un’epoca già finita. Il sistema che gli corrisponde non è sostenibile. È necessario, e perciò possibile, un paradigma antropologico basato sul trinomio cura, rispetto del limite, condivisione
Quello che definisco qui il “paradigma moderno” si basa su una visione profonda dell’uomo, un’antropologia fondamentale, da cui siamo ancora molto condizionati e che continua a sembrarci evidente, un dato indiscutibile di realtà. Invece, come ogni antropologia, è una costruzione culturale, legata a un’epoca che si avvia alla fine, anzi nella sostanza è già finita.
Uccidibilità, desiderio, produttività
Questo paradigma può essere riassunto in tre concetti, ciascuno dei quali esprime quello che si ritiene essere un tratto sostanziale dell’uomo: ‘uccidibilità’, ‘desiderio’, ‘produttività’. L’uomo è per essenza uccidibile, desiderante e produttivo. Tutti questi concetti sono ravvisabili già nel primo grande filosofo della modernità, Hobbes, ma appaiono, con infinite varianti, quasi in ogni sforzo di pensiero, comprese forme ‘sovversive’come il marxismo o la psicoanalisi. Fino a tutto il Novecento e ancora adesso, in un nuovo secolo che non è ancora riuscito a rendersi davvero nuovo. Se Hobsbawm sostiene che il Novecento comincia nel 1914 e finisce nel 1991[1], bisogna probabilmente obiettargli che nasce sì nel 1914 con l’industrializzazione della guerra (su basi comunque assai più antiche), ma si avvia alla fine solo in questi anni Venti del XXI secolo con la catastrofe climatica (e forse con la guerra nucleare). Mi sembra davvero difficile negare che sia il secolo peggiore della storia umana, e questo costringe a interrogarsi sull’intera epoca che in questo secolo culmina, su quella appunto che chiamiamo ‘modernità’. Torniamo dunque ai tre concetti costitutivi della modernità. Come si rappresenta a se stesso l’uomo moderno?
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Dopo il “caso” Soumahoro, ecco il “caso” Bachcu
di Algamica*
Sui giornali online dell’11 aprile e su tutti i quotidiani del giorno successivo abbiamo dovuto leggere che un nuovo pericoloso criminale immigrato è stato arrestato dopo un lunga indagine della polizia e della sezione dell’antimafia durata, stando alla cronaca dei fatti imputati, ben due anni.
L’immigrato in questione, ora agli arresti presso il carcere di Regina Coeli e in attesa del pronunciamento da parte del GIP, non è un immigrato qualsiasi, ma è Nure Alam Siddique detto “Bachcu” famoso per essere un leader storico della comunità Bengalese in Italia la cui associazione, Dhuumcatu, nel corso di trent’anni (dagli anni ‘90 ai giorni nostri) è stata punto di riferimento per l’organizzazione delle lotte non solo degli immigrati connazionali, ma anche per indiani, pakistani, filippini, nord africani, rom, albanesi e latino americani. In sostanza dopo il “l’affare Abou Soumahoro”, un altro pesce ancora più grosso della lotta trentennale degli immigrati in Italia cade sotto la sferza del potere poliziesco e della magistratura, in nome della difesa della legge vigente nel nostro paese. I quotidiani del perbenismo democratico Occidentale si sfregano le mani proponendo tutti lo stesso titolo: “arrestato portavoce e paladino storico e della comunità bengalese di Roma”.
Quali i fatti imputati per cui è agli arresti fin dalla notte tra il 10 e 11 aprile?
Chiariamo sin da subito, che per uscire dalla cosiddetta clandestinità l’immigrato che già lavora in nero è costretto a pagare troppo spesso la documentazione necessaria al datore di lavoro, al proprietario di casa, ecc.
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Mentre l’Ucraina affonda, l’Unione Europea si orienta verso un’economia di guerra
di Giacomo Gabellini
Il 12 aprile, l’Institute for the Study of War, think-tank ultra-atlantista riconducibile all’eminente rappresentante neoconservatore Frederick Kagan, ha riconosciuto che «l’esaurimento delle difese aeree fornite dagli Stati Uniti derivante dai ritardi nella ripresa degli aiuti militari statunitensi all’Ucraina, combinato con i miglioramenti nelle tattiche di attacco russe, hanno portato a una crescente efficacia degli attacchi missilistici e droni russi contro l’Ucraina senza un drammatico aumento delle dimensioni o della frequenza. di tali scioperi […]. In assenza di una rapida ripresa degli aiuti militari statunitensi, le forze russe possono continuare a infliggere gravi danni alle forze ucraine in prima linea e alle infrastrutture critiche ucraine nelle retrovie, anche con il numero limitato di missili». Ne consegue che «la sempre più efficace campagna di attacchi russi in Ucraina minaccia di limitare le capacità di guerra a lungo termine di Kiev e di stabilire le condizioni operative affinché la Russia possa ottenere vantaggi significativi sul campo di battaglia».
Considerazioni dello stesso tenore sono state formulate il giorno successivo dal comandante in capo delle forze armate ucraine Oleksandr Syrsky, secondo cui la situazione sul fronte orientale dell’Ucraina è «significativamente peggiorata negli ultimi giorni» a causa della penuria di munizioni che affligge l’esercito ucraino e dei sempre più intensi sforzi offensivi della Russia, che approfittando del clima caldo e secco ha incrementato portata e ritmo dei suoi attacchi corazzati nelle aree di Bakhmut, Lyman e Pokrovsk.
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C’è chi fa dell’aggressione la sua ragione di esistenza--- --- DOMANDA: CHI HA COMINCIATO?
di Fulvio Grimaldi
Quella in fondo all'articolo è la copertina del docufilm che ho girato in Iran. Si racconta chi è questo popolo antico e giovanissimo, fa parlare giovani, donne, combattenti, dirigenti. Smantella il menzognificio in cui hanno cercato di rinchiudere l’opinione pubblica per prepararla all’aggressione che Israele da sempre sollecita e che altri vedono come propedeutica all’armageddon finale. E’ a disposizione per presentazioni e ordini.
Mio commento: https://www.youtube.com/watch?v=gvyrvE8Q1U4
Byoblu-Mondocane 3/22, in onda domenica alle 21.30. Repliche, salvo imprevisti, lunedì 9.30, martedì 11.00, mercoledì 22.30, giovedì 10.00, sabato 16.30, domenica 9.00
Un’analisi di quanto successo prima, durante e dopo la “notte dei fuochi” iraniana che ha colpito Israele nella sua giugulare, la superiorità militare: una base del Mossad e le due basi dell’aeronautica da cui era partito l’attacco al territorio iraniano nella sede diplomatica di Damasco con relativo assassinio di 14 persone.
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Reflazione salariale e sovrapproduzione: l'ultima sfida della Cina
di Pasquale Cicalese
Ieri ho letto da Enrico Tomaselli un post di AuroPronobis (non so se questo è il suo nickname) sulla ipercompetititvità della Cina e delle lagnanze Ue e Usa sulla sovrapproduzione. In effetti, stando al post, che invito a leggere, c'è la conferma dell'adozione del plusvalore relativo marxiano (istruzione, alte spese in R&S, innovazione, salto tecnologico, catena industriale totale) e reflazione salariale. Tutto giusto. Ma dobbiamo essere realisti. Stando ai dati dell'import degli ultimi 3 anni in effetti una tematica di sovrapproduzione esiste perché i consumi, sebbene siano a livelli che noi ce li sogniamo, non sono al passo con la produttività totale dei fattori produttivi (PTFP), dell'ipercompetitività sui mercati esteri, e la stessa reflazione salariale, iniziata con la Legge sul Lavoro del 2008, di cui parlo in Piano contro mercato, ha segnato il passo.
Intendiamoci. La reflazione salariale esiste tuttora, ma manca l'altra gamba. La sovraproduzione sin dal 2013 i cinesi cercano di gestirla attraverso la Belt and Road (la Via della Seta) che non è altro che aumentare gli interscambi commerciali con i paesi interessati.
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Assange, le “non garanzie” USA
di Michele Paris
Nelle scorse settimane si erano intensificate le voci di una possibile risoluzione del caso di Julian Assange, con il presidente americano Biden che aveva anche ammesso di valutare la richiesta del governo australiano di lasciare cadere definitivamente le accuse contro il fondatore di WikiLeaks. Per il momento, il governo di Washington sembra essere però deciso a continuare la battaglia per ottenerne l’estradizione dal Regno Unito. Martedì, infatti, nell’ultimo giorno utile stabilito dall’Alta Corte di Londra, il dipartimento di Giustizia USA ha presentato ai giudici le “rassicurazioni” richieste a fine marzo circa il trattamento legale che verrà riservato ad Assange una volta giunto in territorio americano.
Erano due le questioni sollevate dalla Corte in risposta alle istanze della difesa. Gli Stati Uniti dovevano cioè garantire che nel processo che attende Assange non verrà richiesta una condanna alla pena di morte e che non ci saranno discriminazioni in base alla sua cittadinanza non americana.
Questo secondo punto potrebbe essere quello decisivo nel procedimento in corso. Il trattato di estradizione tra USA e Regno Unito si basa sulla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e se uno o più diritti fissati da quest’ultima rischiano di non essere garantiti nel paese dove l’imputato dovrebbe essere trasferito, la richiesta di estradizione viene respinta.
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G7, come ballare mentre il Titanic affonda
di Pasquale Vecchiarelli
Un commento alla passerella ormai del tutto fuori luogo dei potenti della terra. Ormai il protocollo, le frasi di rito sembrano sempre più farsesche e stridenti se confrontate con la pochezza delle proposte e il disordine bellicista all’orizzonte
Aree rosse, sommozzatori, zone blindate ma anche visite dell’isola, foto ricordo con vista sui faraglioni, gelatino, pizza, tanto buon vino e grasse risate. Questo è il diario di viaggio del primo giorno del G7 esteri a Capri. Certamente si potrebbe obiettare che criticare il “protocollo” è poca cosa, anche perché è una prassi consolidata che ormai sembra far parte del normale corso del mondo ma, che volete, siamo gente forse di altri tempi. Gente che si vergognerebbe, e non poco, a mostrarsi lieti e sorridenti, ipocritamente impegnati in foto di rito e appassionati discorsi sulla fuffa quando il mondo è letteralmente sul baratro della guerra mondiale. Fanno davvero rabbia questi finti risolini stampati sulle facce di politicanti al servizio dell’imperialismo, questo mostrarsi ipocritamente affaccendati mentre -si sa- tutte le decisioni sono prese altrove. A dire il vero anche il mainstream ha difficoltà a montare i servizi giornalistici di queste assise sempre più inutili dei potenti del mondo -inutili, s’intende, a risolvere le questioni di fondo che interessano noi proletari- perché deve essere terrificante anche per la morale dei giornalisti più asserviti al potere dominante staccare dall’immagine di bambini palestinesi mutilati per passare ai faccioni tronfi e pieni di sé che godono della meravigliosa vista che offrono i faraglioni di Capri.
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Ponte di Messina, dalla commedia alla farsa
di Stefano Lenzi
Smontato da 534 pagine di osservazioni redatte da esperti di 9 atenei e presentate dalle associazioni ambientaliste e dai comitati dei cittadini messinesi, il Ponte sullo Stretto è stato grottescamente confermato dal governo. Cosa resterà dell’incredibile progetto già accantonato 11 anni fa?
Lavorate con la fantasia, siete nelle prime file con me a teatro dell’antica Roma repubblicana a vedere l’ultima strepitosa commedia di Plauto “De ponte Messanae”, sì, “Sul ponte di Messina”. Nell’attesa dell’inizio dello spettacolo, in platea risatine degli spettatori solo per il titolo. Nelle idi di Aprile dell’Anno 200 AC (15 aprile) ci troviamo in un teatro che ha al centro della scena un’ambientazione austera, con colonne poste ad anfiteatro, siedono alti funzionari della Repubblica (compiaciuti) e popolani espropriandi (piuttosto irati). Silenzio e poi brusio, ha inizio lo spettacolo. Passato poco tempo, entra in scena un messaggero trafelato, irrompe in scena e annuncia: “Sono 240, sono 240 le richieste di integrazione del progetto, è una battuta d’arresto per il ponte sullo Stretto di Messina, non può stare in piedi!”. Si agitano alcuni dignitari. L’autorevole Pichetto (ministro), imperturbabile, risponde: “È del tutto ordinario che ci siano osservazioni e richieste di dati e informazioni tecniche”, mormorio in sala. Lancia il cuore oltre l’ostacolo Salvini (ministro): “Vado avanti dritto, i lavori partiranno entro l’estate”. Chiosa, tale Ciucci (amministratore delegato della Stretto di Messina SpA – SdM SpA): “Contiamo entro la fine dell’estate, che finisce a settembre, di avere l’approvazione del Cipess”. Fragorose risate del pubblico in sala per la protervia dei personaggi, ma soprattutto per la confusione tra estate e autunno: i protagonisti della commedia non sanno nemmeno in quale stagione collocare, nel calendario, il mese di settembre (Plauto è geniale). E non sanno nemmeno distinguere, gli attori principali, tra approvazione e apertura dei cantieri.
Facciamola breve, arriva a concludere la commedia, ormai tramutata in farsa, la dea ex machina Minerva – dea della saggezza, dell’ingegno e delle arti utili…tra cui c’è l’ingegneria – che entra impetuosa e intima ai dignitari di sgomberare il campo.
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L’ebreo immaginario degli antisemiti non abita a Tel Aviv
di Fabio Ciabatti
Manuel Disegni, Critica della questione ebraica. Karl Marx e l’antisemitismo, Bollati Boringhieri, Torino 2024, pp. 448, € 26,60
Ma davvero qualcuno ha potuto sostenere che Marx era antisemita? Ebbene sì. Evidentemente è difficile resistere alla tentazione di attribuirgli anche questa infamia. Di sicuro il linguaggio del rivoluzionario tedesco è tutt’altro che politically correct quando parla dei problemi attinenti alla questione ebraica. Si pensi, solo per fare un esempio, a un’espressione come la “raffigurazione sordidamente giudaica” utilizzata nelle Tesi su Feuerbach. In ogni caso, tutta questa faccenda non meriterebbe di essere presa sul serio se non fosse che, dietro di essa, si nasconde il tentativo truffaldino di attribuire lo stigma dell’antisemitismo a tutta una tradizione politica che a Marx si richiama o, molto più spesso, si richiamava. E questo per alimentare la narrazione degli opposti estremismi, di destra e di sinistra, a beneficio di un centrismo liberale tanto nobile quanto introvabile. O, peggio ancora, il presunto peccato di Marx servirebbe a ripulire l’immagine di una destra che verso gli ebrei ha avuto storicamente un’ostilità esplicita e feroce. Come dire, tutti antisemiti, nessun antisemita.
E allora prendiamo il toro per le corna, utilizzando l’interessante testo Critica della questione ebraica. Karl Marx e l’antisemitismo di Manuel Disegni. Attraverso questo libro vogliamo partire da Marx per giungere a questioni di più stretta attualità arrivando a conclusioni che, meglio dichiararlo subito, potrebbero anche non piacere all’autore. Marx tratta apertamente dell’antisemitismo in un solo testo, per di più giovanile. Si tratta del famoso articolo intitolato Sulla questione ebraica in cui Marx non ha remore nell’utilizzare stereotipi ripresi dalla tradizione antiebraica a lui coeva. Senonché, nota l’autore, non li utilizza perché li condivide ma perché li vuole ritorcere contro chi li propugna.
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Iran contro Israele, con l’Ucraina che passa in cavalleria
di Paolo Arigotti
La notte tra sabato 13 e domenica 14 aprile 2024 l’Iran ha lanciato contro Israele un attacco con centinaia di droni e missili: si calcola che siano stati utilizzati circa 170 droni, 30 missili da crociera e 120 missili balistici[1].
Leggere in questo episodio un atto terroristico e/o un nuovo capitolo della conflittualità tra la Repubblica Islamica e lo stato ebraico sarebbe a dir poco riduttivo. Teheran, appellandosi all’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite[2], che contempla il diritto all’autotutela in attesa delle eventuali misure assunte dal Consiglio di sicurezza, ha motivato l’azione come ritorsione rispetto all’attacco del primo aprile scorso, contro la propria sede diplomatica di Damasco, che provocò la morte di tredici persone (sei delle quali cittadini siriani), tra cui il generale Mohammad Reza Zahed, ufficiale delle Guardie Rivoluzionarie e altri sei membri dello stesso corpo.
Il raid israeliano era stato criticato in termini piuttosto blandi da diversi leader occidentali, pur ricevendo la condanna del segretario dell’ONU Antonio Guterres, per la violazione della Convenzione di Vienna del 1961[3] (quella che sancisce l’inviolabilità delle sedi diplomatiche[4]); gli stessi leader occidentali, però, si sono affrettati a chiedere la condanna iraniana per le azioni del 13 e 14 aprile.[5]
In una recente intervista[6], la professoressa Hanieh Tarkian, docente di studi islamici, ha parlato di superiorità morale dell’Iran, che ha attuato una rappresaglia in conformità al diritto internazionale, prendendo di mira obiettivi militari e senza provocare vittime, oltretutto agendo in piena autonomia e senza il supporto degli alleati regionali; Hezbollah si è limitata ai consueti attacchi dal territorio del Libano.
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Da Bruxelles al G7. I guerrafondai europei: ipocriti, dilettanti e pericolosi
di S. C.
Al vertice dei ministri degli Esteri del G7 in corso a Capri, l’Alto responsabile della politica estera e di sicurezza dell’Unione europea, Josep Borrell, ha chiesto ai ministri della Difesa europei di prendere “decisioni concrete” per l’invio di più sistemi di difesa aerea all’Ucraina.
Secondo il capo della politica estera Ue (sic!), non solo gli Stati Uniti a doversi assumere la responsabilità di fornire sistemi di difesa aerea all’Ucraina. “Abbiamo Patriot e altri sistemi missilistici. Dobbiamo portarli fuori dai depositi”, ha dichiarato Borrel invitando i Paesi europei e occidentali a prendere decisioni “più rapide” per sostenere Kiev, che ha bisogno di armi che vanno fornite “molto più velocemente” per fronteggiare l’offensiva della Russia del presidente Vladimir Putin.
Forse Borrel non ha letto la disamina impietosa del generale Tricarico sul fatto che – ad esempio – la difesa antiaerea e antimissile dell’Italia già oggi sarebbe in difficoltà nel respingere di un’ondata di attacchi aerei come quella condotta dall’Iran su Israele.
Ma anche sul piano politico/diplomatico Borrel conferma di essere un guerrafondaio sul teatro bellico in Ucraina. “Non possiamo permetterci la vittoria di Putin”, ha affermato aggiungendo una sottolineatura che appare una vera e propria lapide su una seria ipotesi di negoziati per la fine della guerra in Ucraina (o per lo meno su un qualsiasi ruolo della UE su questo fronte).
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La politica estera di Macron scredita la Francia
di Andrew Korybko
L'intercettazione da parte della Francia di missili iraniani sopra la Giordania all'inizio di questo mese rappresenta l'ultimo errore di Macron che ulteriormente scredita il suo Paese sul fronte della politica estera. Nel 2018, il leader francese si attribuì il merito di aver impedito una guerra civile in Libano l'anno precedente, dopo che il suo intervento diplomatico contribuì a risolvere la crisi nata dalle dimissioni scandalose dell'ex Primo Ministro Hariri mentre si trovava in Arabia Saudita. Fu intorno a quel periodo, alla fine del 2017, che Macron iniziò anche a parlare della creazione di un Esercito Europeo.
Questi passi hanno fatto pensare a molti che la Francia stesse cercando di rilanciare le sue tradizioni di politica estera indipendente, percezione rafforzata dalle parole di Macron a The Economist alla fine del 2019, quando dichiarò che la NATO era cerebralmente morta. Gli Stati Uniti presero poi la loro rivincita sulla Francia sottraendole un accordo da miliardi di dollari per un sottomarino nucleare con l'Australia due anni dopo, per creare AUKUS. Le divergenze di visione sulla politica estera tra questi due Paesi dal 2017 al 2021 erano chiaramente diventate una tendenza.
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Si vis bellum, para bellum
di Norberto Fragiacomo
Difficile stabilire, basandosi su dichiarazioni contrapposte e video falsificabili, se la ritorsione iraniana contro Israele sia stata un parziale successo (asseriti duri colpi inferti a una base aerea nel deserto del Neghev) o un flop (99% degli ordigni abbattuti, secondo NATO e sionisti): di certo è stata un’operazione dimostrativa cui la Repubblica Islamica non aveva modo di sottrarsi, pena la perdita di credibilità politico-militare presso alleati e fiancheggiatori.
Il fatto che gli USA e alcuni paesi dell’area siano stati preavvertiti rafforza il convincimento che la leadership persiana si sia mossa con la massima cautela dopo l’attacco terroristico (così l’ha correttamente definito Massimo Cacciari) commesso da Israele contro il consolato iraniano a Damasco il primo aprile scorso – attacco che, malgrado la data, non è certo derubricabile a scherzo. I fuochi artificiali che hanno illuminato il cielo sopra Gerusalemme significano in sostanza “siamo pari e patta, finiamola qui”: il problema è che, a differenza del Pakistan (ricordiamoci dello scambio di razzi a inizio anno), lo Stato ebraico non concorda mai le regole della partita, preferendo imporle a partner e contendenti.
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Il mito dell’intelligenza artificiale
di Redazione
Per Erik J. Larson, mitizzare l’intelligenza artificiale è negativo, perché maschera un mistero scientifico con la narrazione di un progresso inevitabile. Ma è improbabile che si riesca a innovare, se decidiamo di ignorare un mistero fondamentale anziché affrontarlo.
Il mito non consiste nell’impossibilità di realizzare l’IA autentica. Da questo punto di vista, il futuro dell’intelligenza artificiale è un’incognita scientifica. Il mito consiste invece nella sua presunta inevitabilità, nel fatto che sia solo una questione di tempo, perché ormai abbiamo imboccato la strada che condurrà all’IA di livello umano e poi alla super-intelligenza. Non è così. Quella strada esiste solo nella nostra immaginazione. Eppure, l’ineludibilità dell’IA è talmente radicata nel discorso comune – alimentato da esperti dei media, maître à penser come Elon Musk e persino da molti scienziati del settore (per quanto non tutti) – che schierarsi contro è spesso considerato una forma di luddismo o quanto meno una visione miope del futuro della tecnologia e una pericolosa incapacità di prepararsi a un mondo di macchine intelligenti.
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Il Fondo Monetario smonta l’Occidente: la Russia crescerà più di tutte le economie avanzate
di Giorgia Audiello
Secondo gli aggiornamenti di aprile del Fondo Monetario Internazionale (FMI), la Russia nel 2024 crescerà più di tutte le economie avanzate del mondo, compresa quella statunitense. L’organismo finanziario internazionale prevede una crescita del 3,2%, superiore a quella di Stati Uniti (2,7%), Germania (0,2%), Francia (0,7%), Italia (0,7%) e Regno Unito (0,5%). Le stime economiche dell’FMI rappresentano un vero e proprio smacco per il blocco atlantico: hanno smontato, infatti, la propaganda dei capi di Stato e dei media occidentali, i quali dal 2022 hanno sostenuto che le sanzioni euro atlantiche imposte a Mosca avrebbero duramente colpito la sua economia, impedendogli di finanziare la guerra in Ucraina e facendola fallire. Era il 21 settembre 2022 quando l’ex presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi, affermava all’Assemblea generale dell’ONU che «le sanzioni che abbiamo imposto a Mosca hanno avuto un effetto dirompente sulla macchina bellica russa, sulla sua economia. […] Il FMI internazionale prevede che l’economia russa si contragga quest’anno e il prossimo di circa il 10% in totale a fronte di una crescita intorno al 5% ipotizzata prima della guerra».
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La Grande Guerra in arrivo: non "se" ma "quando"
di Konrad Nobile
Il 2024 ha visto un deciso “salto di qualità” nei toni guerreschi usati dalle istituzioni europee e, in genere, occidentali.
Minacce e dichiarazioni fino a poco fa inimmaginabili sono diventate via via realtà, in un crescendo allarmante che pare confermare i peggiori presentimenti sul nostro futuro.
Se infatti il presidente francese Macron ha iniziato a paventare l’invio diretto di truppe in Ucraina, da oltremanica Patrick Sanders, capo dell’esercito britannico, dichiara apertamente che il mondo è alle porte di una nuova grande guerra e che, conseguentemente, vi è la necessità di addestrare i cittadini e prepararli alla battaglia (1).
Dai palazzi di Bruxelles i vertici dell’UE rincarano e, invitando gli Stati europei a prepararsi alla guerra, chiedono di mettere il turbo all’industria bellica e “produrre armi come i vaccini” (2)(3).
Pare proprio che la direzione voluta dai vertici occidentali sia quella di preparare i loro Paesi ad andare incontro a un nuovo conflitto su vasta scala contro chi si oppone, volente o nolente, ai piani e all’egemonia dell’imperialismo (4).
Questo scenario prebellico ha iniziato a prendere concretamente forma nel fatidico febbraio 2022 quando la Russia, entrando direttamente sul suolo ucraino (sul quale la NATO ha messo le sue grinfie dal 2014, anno del golpe “Euromaidan”), ha sferzato un colpo storico all’Occidente minandone l’immagine di assoluto padrone del mondo, immagine già indebolita da tutta una serie di errori e insuccessi (5). Ora gli sviluppi mediorientali avviatisi dopo il 7 ottobre, in parte favoriti proprio dal riverberarsi dello scossone dato dalla Russia e dai derivati entusiasmi delle nazioni oppresse, galvanizzate “dall’Operazione Militare Speciale”, non hanno fatto che ampliare la portata dello scontro e la gravità dei tempi.
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Dall’Iran droni e missili contro il “cane pazzo”
di Geraldina Colotti
Il regime sionista, si sa, approfitta del ruolo di vittima perenne per imporre, con la politica dei fatti compiuti e forte del suo ruolo di gendarme degli Usa in Medioriente qualunque violazione dei diritti umani e della legalità internazionale: a cominciare da un’occupazione criminale che, dal 1948, ha espropriato ed espulso il popolo palestinese in una successione di massacri, oggi culminati col genocidio che ha ucciso più di 30.000 persone, un terzo dei quali bambini.
Questa volta, però, Netanyahu ha stabilito un altro primato, compiendo un atto di aggressione inedito: l’attacco aereo al consolato iraniano a Damasco, in Siria che, il 1° di aprile, ha ucciso 16 persone, fra cui due generali dei Guardiani della rivoluzione. Un’ulteriore escalation nella provocazione a Teheran, per allargare il conflitto in Medioriente, tirando per la giacca gli Usa e i loro alleati europei - Francia, Gran Bretagna e Germania. Il governo iraniano ha dichiarato che avrebbe esercitato il proprio diritto all’autodifesa e, il 13 sera, ha fatto partire decine di missili e droni “su dei bersagli specifici all’interno dei territori occupati”: in risposta “ai numerosi crimini commessi dal regime sionista”, nello specifico l’attacco contro la sezione consolare a Damasco. Il mattino di quello stesso giorno, le forze speciali marittime dei guardiani della rivoluzione iraniana si erano impadronite del porta-container Msc Aries, circa un centinaio di chilometri a nord della città emiratina di Foujeyra. Una nave battente bandiera portoghese, ma riconducibile alla società Zodiac che – ha fatto sapere l’agenzia stampa iraniana Irna – “appartiene al capitalista sionista Eyal Ofer”.
Dopo lo schiaffo del 7 ottobre, inflitto dalla resistenza palestinese al regime occupante, il quale ha dato inizio al genocidio programmato da Netanyahu, ci sono stati numerosi attacchi contro navi dirette a Tel Aviv che transitavano nel mar Rosso e nel golfo di Aden o che commerciavano con Israele.
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Si rafforza il processo di de-dollarizzazione del mercato petrolifero globale
di Demostenes Floros
Il 5 settembre 2023, Natasha Kaneva, resposabile JPMorgan per la strategia sulle materie prime, ha dichiarato a Business Insider che “il dollaro americano, uno dei principali motori dei prezzi del petrolio sul mercato globale, sta perdendo la sua antica importanza”[1]. Com’è noto, tra “biglietto verde” e barile sussiste una relazione tendenzialmente inversa: dal momento che il petrolio è scambiato in dollari, quando la valuta statunitense si apprezza, la domanda petrolifera tende a diminuire e con essa il valore dell’“oro nero”.
Più precisamente, gli analisti della banca statunitense hanno calcolato che, nel periodo 2005-2013, a un aumento dell’1% del valore del dollaro ponderato per il commercio ha corrisposto un calo del prezzo del petrolio di circa il 3%. Tuttavia, questo schema è significativamente mutato nel periodo 2014-2022, visto che a un aumento dell’1% del dollaro ha corrisposto un calo del prezzo del petrolio solo dello 0,2%. Ciò, ha portato Jahangir Aziz, responsabile JPMorgan per le economie emergenti, ad affermare che “complessivamente, rileviamo che l’importanza del dollaro [nell’influenzare il prezzo del barile] è diminuita significativamente tra il 2014 e il 2022”.
Questo cambiamento, evidenzia JPMorgan, è dovuto al fatto che ogni giorno sempre più petrolio non viene venduto in dollari, ma nelle valute nazionali dei partecipanti alle transazioni, a partire dallo yuan, ma non solo.
Nello specifico, secondo i dati della banca statunitense, nel 2023, il 20% del commercio globale di petrolio – pressoché 40.000.000 b/g a fronte dei circa 100.000.000 b/g consumati – è stato regolato in valute diverse dal dollaro (all’incirca 8.000.000 b/g)[2].
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Quando il polemos si fa prassi
Recensione a Lenin, il rivoluzionario assoluto di Guido Carpi
di Andrea Rinaldi
«Il cammino del rivoluzionario è pertanto un cammino anche solitario, o almeno non al centro del benvolere dell’opinione pubblica, spesso lontano dall’amicizia, sicuramente non benvisto dalla società civile, "la merda" come la chiamava Lenin. La storia di Lenin è quindi una storia di esilio, di critiche feroci, ma anche di carisma, di centralità politica da una posizione numericamente minoritaria e di coraggio tattico». Pubblichiamo oggi, nell'anniversario della scrittura delle Tesi d'Aprile, una recensione di Andrea Rinaldi a Lenin, il rivoluzionario assoluto (1870-1924) di Guido Carpi (Carocci, 2023). Sempre sulla figura del grande rivoluzionario, sarà presto disponibile per DeriveApprodi, Che fare con Lenin? curato dallo stesso Andrea Rinaldi, con contributi di Guido Carpi, Rita di Leo, Maurizio Lazzarato, Gigi Roggero, Damiano Palano, Mario Tronti.
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Majakovsky aveva paura che «una corona» avrebbe potuto «nascondere la sua fronte così umana e geniale e così vera» e «che processioni e mausolei» avrebbero offuscato la «semplicità di Lenin». Guido Carpi, che di Majakovsky e di Lenin si intende, è riuscito nell’impresa, non banale, di togliere Lenin dalla sua teca nella piazza Rossa di Mosca, rimuovere la corona e darci un libro vivo: non una ricostruzione agiografica, come nel mito staliniano, né una noiosa critica umanitaria tipica della moderna storiografia liberal, ma un’attuale rappresentazione di Lenin, fusione inscindibile di teoria e prassi, di politica e rivoluzione.
Questi due poli della lettura classica della vita e delle opere di Lenin, mito e incubo, potrebbero sembrare opposti, ma sono in realtà strettamente complementari.
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Gli spot pubblicitari delle armi hanno sostituito la strategia
di comidad
In molti hanno notato che il “99%” è un topos pubblicitario dei prodotti antibatterici, i quali dichiarano appunto di poter eliminare il 99% dei batteri. Per la verità ci sono anche antibatterici più bravi dell’Iron Dome e dell’Arrow israeliani, infatti riescono a eliminare addirittura il 99,99% dei batteri. Magari è sufficiente quello 0, 01 a fregarti, ma bisogna sapersi accontentare.
Mentre lo spot pubblicitario reclamizzava trionfalmente i successi del sistema di difesa israeliano e l’abbattimento del 99% dei missili e droni iraniani, contestualmente ci si faceva sapere che così non era. Secondo fonti dei militari statunitensi, almeno settanta droni li avrebbero abbattuti loro. A difendere il suolo israeliano contro la preannunciata rappresaglia dell’Iran c’erano anche navi e aerei britannici e francesi; ma il dettaglio sorprendente è che ci fosse persino la Giordania, la quale, pur di difendere Israele, non ha esitato a mettere a rischio la propria popolazione, in quanto ci sarebbero tre morti giordani a causa dei detriti dei droni abbattuti. In più la Giordania si è presa anche le minacce dell’Iran, che ha avvertito che, in caso di ulteriore coinvolgimento della contraerea giordana (peraltro fornita da Macron), questa sarà considerata a sua volta un bersaglio.
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La deterrenza
di Alessio Galluppi
Constatiamo che gran parte della sinistra stia guardando alla risposta militare dell’Iran nei confronti delle provocazioni armate di Israele secondo le valutazioni di Alessandro Orsini, che definisce il bombardamento dello Stato ebraico con centinaia di droni e missili come una colossale messinscena, suffragando questa deduzione con il fatto che la ritorsione della Repubblica Islamica all’azione terroristica di Israele a Damasco fosse stata preannunciata e comunicata. Solo che il famoso studioso di geopolitica non comprende la sostanza delle cose perché guarda i fatti con la lente superstiziosa dell’Occidente.
Tanto per larghi strati delle masse arabe e per i palestinesi, quanto per i residenti ebrei israeliani, l’avvenimento è stato una novità. Una novità che scuote ed esalta i primi, preoccupa e deprime i secondi. La cosiddetta deterrenza ha il suo significato: nessuno mi attaccherà mai perché avrà assoluto timore della mia terrificante risposta. Israele sta dispiegando a Gaza e a West Bank la sua furia genocida anche con l’obiettivo di riaggiustarla dopo che essa era già stata incrinata e messa in discussione la sua inviolabilità il 7 ottobre dalla sacrosanta e giusta resistenza dei palestinesi.
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Superbonus, il “buco” che non c’è
di Marco Cattaneo
Gli euroausterici vaneggiano a reti unificate in merito al “buco da 200 miliardi nei conti pubblici” che sarebbe stato prodotto dal Superbonus.
Naturalmente una prima risposta ovvia a questa affermazione è che sono stati emessi 200 miliardi di crediti fiscali, a fronte dei quali è stata però conseguita una crescita di PIL e di gettito. Parlare di “200 miliardi di buco” tiene conto di un elemento (i crediti emessi) ignorando l’altro (la crescita di gettito).
Ma in realtà l’errore dell’affermazione è ancora più basilare.
Immaginiamo che un’Italia in possesso della propria moneta decida di effettuare una manovra fiscale espansiva emettendo 200 miliardi (in lire) e distribuendoli ai residenti.
E immaginiamo che dopo un anno i 200 miliardi vengono utilizzati per pagare tasse. Si crea un buco ? no, perché l’Italia può, semplicemente, emettere altri 200 miliardi. La quantità di moneta in circolazione rimane la stessa, e non c’è bisogno di effettuare alcuna manovra fiscale restrittiva.
Poi, l’Italia può decidere di offrire al pubblico 200 miliardi di titoli di Stato. A quel punto la moneta in circolazione viene sostituita da titoli per pari importo. Cambia qualcosa nella solvibilità dello Stato ? no, perché i titoli sono rimborsabili in lire.
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La fine delle ideologie (degli altri)
di Marta Mancini
La nostra epoca non è certo contrassegnata dalla fine delle ideologie, dopo che, sbaragliata la concorrenza, la grande narrativa del pensiero unico gode di ottima salute; c'è invece da esitare sull'inconsistenza della tesi di Fukuyama della fine della storia giacché quella del mondo occidentale sembra aver trovato nel capitalismo un ancoraggio talmente saldo da impedire il benché minimo sommovimento capace di metterne in crisi gli ingranaggi. Anzi, il non funzionamento dell'attuale versione ultraliberista del capitale favorisce il rilancio dello stesso modello con una posta sempre più alta di crisi ricorrenti e acute ma mai in grado di dissolverlo.
In un passo della celebre Prefazione del 1859 a Per la critica dell'economia politica, Marx sosteneva che «il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti ... e allora subentra un'epoca di rivoluzione sociale».
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Intelligenza artificiale. O della “guerra all’umano”
di Antonio Cantaro
L’IA è sempre più una meta-tecnologia in guerra con l’umano che ci comanda di “Agere sine Intelligere”. L’uomo connesso è sempre meno un uomo relazionale. Nessun Dio ci salverà, solo una mobilitazione collettiva può farlo
Sostiene Luigi Alfieri che essere uomini è essere in relazione. L’uomo è un essere relazionale, ‘naturalmente relazionale’. Proverò ad aggiungere una postilla a questa, da me condivisa, tranchant contro-antropologia filosofica.
Naturalmente relazionale, naturalmente artificiale
Una postilla insita in un cruciale passaggio del suo discorso ‘empirico’: «L’origine immediata della mia vita è molto concreta, molto corporea, molto biochimica. Non un supremo atto creativo dell’Essere, ma l’unione sessuale di due corpi e un corpo materno dentro cui a poco a poco è maturato il mio come una sorta di parassita simbiotico. Poi una separazione dolorosa, atrocemente traumatica per entrambe le parti: un corpo emerge dall’altro, si strappa dall’altro. Ma la separazione non è totale, perché uno dei due corpi continua ad avere bisogno dell’altro, dall’altro ricava nutrimento, cura, protezione. Nessuno viene al mondo come soggetto razionale capace di libera autodeterminazione e responsabile di sé, ma come esserino inerme urlante e scalciante, capace a stento di respirare e bisognoso di tutto. Ma la cosa straordinaria è che il bisogno ottiene risposta, che qualcuno, in cambio di niente, è disposto a dare all’esserino urlante tutto ciò che gli consente di sopravvivere, di nutrirsi, di stare al caldo, di crescere, di imparare a parlare e a pensare».
L’uomo, dunque, “impara a parlare e a pensare” per il tramite di parole che non nascono da Lui, “ma che vengono da fuori”. Da un linguaggio, da un artificio che dà alle parole i suoni, un ordine grammaticale e sintattico, un senso. L’uomo è ab origine il suo linguaggio (da ultimo E. Dell’Atti, 2022), un essere naturalmente artificiale.
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