Il sistema dei prezzi è in delirio. I quaderni di Giovanni Mazzetti
di Leo Essen
Il lavoro diventa libero. Ma cosa significa “libero”? Significa che il lavoratore non è più inserito in un sistema di signoria e servitù che gli assegna un posto e gli dice chi è. È un individuo singolare, un lavoratore che ha in sé l’inizio e il termine di ciò che è. Proprio in quanto è insieme origine e fine, egli è libero. Ogni limite è abbattuto, ogni legame è sciolto. Offrirsi come lavoratore non dipende più da alcun vincolo esterno: non dipende dalla famiglia, dal ceto, dal sesso, né da un ordine di casta o di classe.
È, come afferma Hegel (Lineamenti § 5), l’infinità priva di termini dell’assoluta astrazione, della pura universalità. Siamo al Primo Momento, al livello dell’io astratto, certo solo di se stesso: assoluta possibilità di astrarre da ogni determinazione – negatività astratta.
Sono libero: posso fare il lavoro che voglio. Nessuno può dirmi cosa fare — né mio padre, né il mio padrone, né il comandante del terreno o della casa che abito, né il reggente della corporazione a cui appartengo, né le condizioni della mia nascita, né la mia casta o il mio ceto. Non sono legato a nulla, dunque posso tutto.
Io valgo, dice il lavoratore. Ma quanto valgo? Ecco che si passa dall’indeterminatezza indifferenziata della libertà e della sovranità che si auto-determina, alla differenziazione e alla dipendenza dall’altro e all’etero-determinazione.
Quando il lavoratore si offre sul mercato incontra l’altro, allora si media con l’altro. Nella mediazione con l’altro, o con gli altri, il lavoratore vale tanto quanto un carpentiere, un idraulico, un imbianchino, un boscaiolo, un falegname, eccetera. Non è più un lavoratore che trova in se stesso la fonte del proprio valore, ma è un lavoratore in rapporto ad altri lavoratori.
Grazie a questo porre se stesso come un determinato (Lineamenti § 6) il lavoratore entra nella storia, si connette al mondo che produce e si offre come questo lavoratore determinato, con queste e queste altre capacità, si pone come un oggetto d’uso determinato che sta di fronte ad altri oggetti d’uso, si pone nella generalità.



Il presente si connota come un tempo d’asfissia politica, in quanto i rilevi critici e le analiso geo-politiche descrivono con esattezza dialettica le atroci contraddizioni del sistema capitalistico. La pratica della critica cade nella trappola dell’impotenza astratta, nel caso alla critica non segua il difficile compito della complessità. Il capitalismo ha il suo alfabeto emotivo, è un modello di consumo e morte, il sentimento che lo connota e che rinsalda il suo dominio è l’impotenza disperata. La logica padronale diffusa capillarmente insegna in modo consapevole e inconsapevole la sudditanza senza speranza, per cui si può solo sopravvivere mediante la “resilienza senza resistenza”. Ci si adatta e ci si aliena e in tale movimento l’impotenza si radica nei pensieri, nel linguaggio e nei comportamenti. In tale cornice a capitalismo integrale le dialettiche progettuali sono scomparse e al loro posto regna solo la quieta e plumbea palude del capitale nel cui grigiore i sudditi si fondono fino a pensare che l’alternativa è impossibile, per cui è necessario accettare la sudditanza padronale all’economicismo e alle oligarchie afferenti. La sola critica è in tal modo, nel migliore dei casi, il sintomo doloroso e muto del disagio senza speranza. Dopo il 1991 con la caduta dell’Unione Sovietica gli orizzonti progettuali si sono liquefatti con l’oblio della dialettica politica e con la scomparsa dei partiti comunisti. La disperazione e l’impotenza sono spesso mascherate da forme di parossismo consumistico e narcisistico che vorrebbero rimuovere il “non senso”. Costanzo Preve descrive con maestria il nostro presente senza via d’uscita; e questo è il problema/dramma principale della nostra epoca:
“Tutti gli schemi della politica sono anticipati dalla teologia”. Questa frase particolarmente intelligente l’ha pronunciata qualche tempo fa, udite udite, Pier Luigi Bersani in una trasmissione TV su La7. Quando si dice che anche l’orologio rotto due volte al giorno segna l’ora esatta. Infatti, come dargli torto? Anzi, c’è da stupirsi che ogni tanto nei talk show televisivi si riescano a formulare frasi “eretiche” come queste. Ovviamente il conduttore (in questo caso Floris) si è guardato bene dal cercare un approfondimento sul punto “teologico-politico” (l’unico che sarebbe stato opportuno indagare). Infatti, è facile dire che esiste una connessione fra “mondo religioso” e “mondo politico”; difficile è, invece, riconoscere quali siano gli effettivi rapporti vigenti fra questi due mondi, che solo apparentemente risultano distanti e contrapposti.



Siamo nei pressi di quegli ispidi passi di montagna nei quali i sentieri si biforcano. Da una parte il largo sentiero battuto dell’Occidente prosegue il suo lungo restringersi. Dall’altra un rivolo si amplia, al contempo facendosi via via più liscio e comodo. Il vecchio sentiero, da qualche tempo si fa per molti più ripido, pietroso, denso di rischi, il nuovo è cresciuto sotto molti profili all’ombra, ma nel tempo si è fatto via via più largo e forte. I due sentieri sembrano divaricarsi.
Quasi dodici anni fa (ottobre 2013) usciva, per i tipi di Jaka Book, Utopie letali, un saggio in cui analizzavo gli svarioni teorici, le derive ideologiche e i miti che stavano sprofondando le sinistre radicali nella più totale incapacità di analizzare, e ancor meno di contrastare, le strategie di ricostruzione egemonica del progetto neoliberale che, dopo la crisi del 2008 che ne aveva evidenziato contraddizioni e debolezze, era impegnato a restaurare il consenso delle larghe masse occidentali, in parte tentate dalle insorgenze populiste. In quelle pagine accusavo, nell’ordine, le teorie postoperaiste che rimpiazzano la lotta di classe con fantasmatiche “moltitudini”; l’idiosincrasia dei movimenti libertari nei confronti di qualsiasi forma di organizzazione e potere politico (stato e partito eletti a simboli del male assoluto); la fascinazione delle tecnologie digitali gabellate per strumenti di democratizzazione economica, politica e sociale; l’eurocentrismo incapace di prendere atto dello spostamento dell’asse antimperialista verso l’Est e il Sud del mondo; il dirottamento dell’impegno politico e sociale verso obiettivi rivendicativi di carattere particolaristico (libertà civili e individuali versus interessi e libertà collettive).


Marx e Nietzsche uniti nella lotta contro Hegel? Dai, non esageriamo. Piuttosto i primi due possono marciare divisi per colpire uniti il terzo, almeno secondo quanto scrive Henri Lefebvre in Hegel Marx Nietzsche o il regno delle ombre. Questo libro, pubblicato nel 1975 e per la prima volta tradotto in Italia dopo cinquant’anni, nasce dall’idea del suo autore di un “doppio sfondamento: attraverso la politica e la critica della politica per superarla in quanto tale, attraverso la poesia, l’eros, il simbolo e l’immaginario”. Uno sfondamento nei confronti dello stato di cose presenti condensato nella filosofia dello Stato di Hegel. Siamo negli anni Settanta del secolo scorso e la riscoperta di Nietzsche da parte del pensiero radicale di sinistra fa parte, potremmo dire, di un certo spirito del tempo. Basti ricordare autori come Deleuze, Guattari o Foucault. L’approccio di Lefebvre ha però una sua originalità: rileva punti di contatto e profondi discordanze tra Marx e Nietzsche senza tentare alcun tipo di sintesi. Si limita a invocare un pensiero che sappia farsi multidimensionale.
Le riflessioni sul concetto di lavoro di Andrea Zhok, docente di Filosofia morale all’Università Statale di Milano, meritano di essere prese in considerazione. Se nei decenni passati la concezione di lavoro come impegno, contributo alla vita collettiva aveva ancora un qualche spazio, oggi è stata cancellata dall’idea che esso deve essere divertimento, puro mezzo per soddisfare le nostre esigenze personali, sia primarie che secondarie. Questo cambiamento è stato generato da una serie di trasformazioni strutturali e non solo dall’imporsi di un punto di vista differente.
Quattro tesi
Il ruolo operativo del diritto è sempre stato centrale nell’ordine del discorso neoliberale. Come spesso mi accade, la prenderò alla lontana, prima di arrivare alle più recenti fasi della sua riconfigurazione. Mi propongo di passare attraverso quattro punti di snodo particolarmente rilevanti dello sviluppo della giuridificazione neoliberale. Il primo è la crisi di Weimar e in particolare, per i fini che ci proponiamo in questa occasione, la discussione che si produce tra Schmitt, Rustow e Heller. Il secondo riguarda la metà degli anni ’70, il rapporto sulla crisi della democrazia presentato alla Trilaterale redatto da Crozier, Huntington e Watanuki che dà luogo alla riorganizzazione del potere dello Stato in governance multilivello e all’avvio del programma controegemonico neoliberale su scala globale. Quanto al terzo punto di snodo, farò riferimento ai processi di costituzionalizzazione dell’austerity e ai progetti di stabilizzazione autoritaria indotti dalla crisi di accumulazione prodottasi tra il crollo dei mutui subprime del 2008 e la pandemia del 2020. Il quarto punto delle mie considerazioni concernerà infine l’impianto dei regimi di guerra e quello che qualcuno ha chiamato il divenire-fascista del neoliberalismo contemporaneo.
La scoperta dell’ossigeno: un “caso paradigmatico”
Tra i tanti critici che abbiamo alle calcagna ci sono coloro i quali, pur allattatisi al nostro seno e scopiazzando qua e la quanto andiamo sostenendo da anni, ci accusano di aver dimenticato la centralità del “fattore di classe”. Cosa questi critici intendano per “fattore di classe” non è affatto chiaro, dal momento che non sono in grado di dare rigore logico alle loro critiche. Tuttavia è evidente come essi ci stiano lanciando la scomunica: saremmo eretici perché il nostro discorso rivaluta, oltre al primato del Politico sul sociale, i concetti di popolo e nazione “a spese” di quelli di classe operaia e internazionalismo. L’accusa di eresia (una variante tutto sommato garbata dell’accusa di “rossobrunismo”) implica ci sia una “ortodossia”, ma non chiedete loro, tra i disparati marxismi, quale sia il loro. Non lo sanno, e quel che è peggio, non gli interessa saperlo. Agli arruffoni basta e avanza aggrapparsi a certa vulgata. Comunque sia, ove essi, invece di procedere per frasi fatte, accettassero un serrato confronto teorico, qui siamo ed a loro dedichiamo queste riflessioni.
Scopo del testo e articolazione

































