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Perdita di potere e deriva autoritaria dell’Occidente
di Roberto Iannuzzi
Dal rinnovato militarismo alla repressione delle proteste universitarie, ultimo presidio di democrazia, le élite occidentali si mostrano incapaci di leggere la mutata realtà globale
Con una spesa militare globale che continua a crescere, avendo toccato lo scorso anno la cifra record di 2,443 trilioni di dollari, la parte del leone continuano a farla i paesi occidentali e i loro alleati (dove risiede un sesto della popolazione mondiale), i quali contribuiscono a circa due terzi di essa.
Ciò non sembra rassicurare i nostri leader su nessuna delle due sponde dell’Atlantico, malgrado il pacchetto da 95 miliardi di dollari recentemente approvato dal Congresso USA per sostenere militarmente Ucraina, Israele e Taiwan.
Difendere l’egemonia occidentale
Da oltreoceano continuano a giungere appelli, debitamente rilanciati dai politici del vecchio continente, affinché l’Europa si riarmi per impedire una sempre più probabile vittoria russa in Ucraina, che potrebbe preludere nientemeno che a un attacco di Mosca alla NATO.
Ultimo a lanciare l’allarme, in ordine di tempo, è stato l’ex premier britannico Boris Johnson, il quale ha affermato che, se Kiev verrà sconfitta dai russi, “sarà una totale umiliazione” per i paesi occidentali, e anche “un punto di svolta nella storia, il momento in cui l’Occidente perderà definitivamente la sua egemonia”.
I timori di Johnson non sono nulla di nuovo. I leader occidentali sono terrorizzati all’idea di perdere la supremazia mondiale.
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Note su “Categorie della politica” di Vincenzo Costa
di Linda Dalmonte
Della scomparsa della diade destra/sinistra si può parlare in diversi modi, e con scopi più o meno espliciti. Nel dibattito degli anni Ottanta, segnato dalla fine del comunismo nella storia mondiale e dal trionfo della democrazia liberale, la critica alla distinzione destra/sinistra poteva maturare in seno all’orizzonte della perdita di alternative reali, di fronte alla quale si aveva buon gioco nel dichiarare la fine delle ideologie minimizzando le differenze politiche, tanto più se all’alba di quel nuovo Manifest destiny verso un mondo unico e omogeneo, presuntivamente pacificato secondo le categorie del mercato. In questa contingenza, destra/sinistra si sarebbero ridotte a semplici varianti del neoliberalismo: due alternative vuote, artificiosamente reimpostate di fronte al fatto della globalizzazione, e di cui – perfino dal versante socialista – si sarebbe potuta ribadire una «natura inservibile»[1] di contro a Bobbio e al criterio – resosi presto pilastro teorico – dell’eguaglianza come valore discriminante. E non solo perché, a conti fatti, «esse applicano le stesse ricette economiche e sociali»[2], in linea cioè con la prosecuzione del modo di produzione capitalistico e dell’equilibrio di mercato; ma, più radicalmente, per la loro strumentalità al nuovo spazio economico: c’è il sospetto di una nuova tassonomia fatta ad arte per riorganizzare la politica in maniera innocua, così da respingere come “radicali” ed “estremiste” le alternative reali, escluse dal bipolarismo costruito. Tanto da suscitare una tesi, scriveva Costanzo Preve, «molto più folle e scandalosa, quella della profonda affinità di fondo tra cultura di sinistra e il “fatto della globalizzazione”»[3]. Oppure, questa la tesi di Vincenzo Costa, da far pensare a una ricaduta oligarchica, a «una regressione a un’organizzazione concettuale ottocentesca e all’articolazione politica che precedette l’introduzione del suffragio universale e la conseguente affermazione dei partiti popolari di massa» (p. 12).
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La grande frattura tra gli ebrei americani
di Peter Beinart
Questo articolo è stato pubblicato originariamente dal New York Times. Ringraziamo l’autore e la direzione del giornale per avere autorizzato la traduzione, curata da Giovanni Pillonca
Negli ultimi dieci anni circa, un tremore ideologico ha scombussolato la vita degli ebrei americani. Dal 7 ottobre è diventato un terremoto. Riguarda il rapporto tra liberalismo e sionismo, due fedi che per più di mezzo secolo hanno definito l’identità ebraica americana. Negli anni a venire, gli ebrei americani dovranno affrontare una sollecitazione crescente a fare una scelta tra queste due opzioni.
Dovranno affrontare questa sollecitazione perché la guerra di Israele a Gaza ha accelerato una trasformazione nella sinistra americana. La solidarietà con i palestinesi sta diventando essenziale per la politica di sinistra quanto il sostegno al diritto all’aborto o l’opposizione ai combustibili fossili. E come accadde durante la guerra del Vietnam e la lotta contro l’apartheid sudafricano, il fervore della sinistra sta rimodellando la corrente principale del pensiero liberale. A dicembre, la United Automobile Workers ha chiesto un cessate il fuoco e ha costituito un gruppo di lavoro sul disinvestimento per considerare i “legami economici del sindacato col conflitto”. Nel mese di gennaio, la task force del Comitato Nazionale L.G.B.T.Q. ha chiesto un cessate il fuoco. A febbraio, la leadership della Chiesa episcopale metodista africana, la più antica denominazione protestante nera della nazione, ha invitato gli Stati Uniti a sospendere gli aiuti allo Stato ebraico. In tutta l’America blu [le zone degli Usa in cui prevale il voto democratico, ndt], molti liberali, che una volta sostenevano Israele o evitavano l’argomento, stanno facendo propria la causa palestinese.
Questa trasformazione rimane nelle sue fasi iniziali. In molte importanti istituzioni liberali – in particolare nel Partito Democratico – i sostenitori di Israele rimangono non solo i benvenuti ma sono anche maggioranza. Ma i leader di quelle istituzioni non rappresentano più gran parte della loro base. Il leader della maggioranza democratica, il senatore Chuck Schumer, ha riconosciuto questa divisione in un discorso su Israele all’aula del Senato la scorsa settimana.
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Provaci ancora, Emmanuel
di Gianandrea Gaiani
Macron ci riprova e torna a parlare di inviare truppe francesi e di altre nazioni aderenti NATO in Ucraina ma più lo ripete meno risulta credibile.
La prima volta le affermazioni del presidente francese scatenarono un vivace dibattito in Europa ed ebbero il merito di evidenziare come gli alleati dell’Ucraina fossero disposti al massimo a un “armiamoci e partite” o, se preferite, a combattere i russi fino all’ultimo ucraino.
Tutte le nazioni dell’alleanza precisarono che non avrebbero inviato proprie truppe a combattere nelle trincee del Donbass con l’esclusione di Polonia e repubbliche baltiche che non esclusero un futuro coinvolgimento diretto nel conflitto. Circolarono voci di un reggimento dell’Armèe de Terre pronto a partire e qualche indiscrezione riferì di truppe francesi nell’area di Odessa: nulla di confermato se non la presenza al fronte di qualche migliaio di combattenti stranieri, per lo più provenienti da Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna e Georgia, ma inquadrati nella Legione Internazionale che combatte al fianco di Kiev e che alcune fonti russe stimano avere oggi la consistenza di circa 3.100 uomini.
La russa Foundation to Battle Injustice (non proprio una fonte neutrale) stima che vi sia un numero elevato di soldati e ufficiali delle nazioni aderenti alla NATO in Ucraina: ben 6.800, di cui 2.500 americani, 1.900 canadesi, 1.100 britannici e circa 700 francesi che avrebbero compiti di consulenza, addestramento, incarichi nei comandi ucraini e forse anche operativi.
La stessa fonte inoltre ritiene siano circa 13.000 i “mercenari” stranieri che eseguono anche ordini diretti provenienti da strutture di comando NATO.
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La rivoluzione fallita di Karl Polanyi
L’ordine mondiale liberale sta crollando ancora una volta
di Thomas Fazi
Pochi pensatori del XX secolo hanno avuto un’influenza così duratura e profonda come Karl Polanyi. “Alcuni libri si rifiutano di andare via: vengono sparati fuori dall’acqua ma emergono di nuovo e rimangono a galla”, ha osservato Charles Kindleberger, lo storico dell’economia, a proposito del suo capolavoro La Grande Trasformazione. Ciò rimane più vero che mai, a 60 anni dalla morte di Polanyi e a 80 dalla pubblicazione del libro. Mentre le società continuano a lottare per i limiti del capitalismo, il libro rimane senza dubbio la critica più tagliente mai scritta al liberalismo del mercato.
Nato in Austria nel 1886, Polanyi crebbe a Budapest in una prospera famiglia borghese di lingua tedesca. Anche se quest’ultimo era nominalmente ebreo, Polanyi si convertì presto al cristianesimo – o, più precisamente, al socialismo cristiano. Dopo la fine della prima guerra mondiale, si trasferì nella Vienna “rossa”, dove divenne redattore della prestigiosa rivista economica Der Österreichische Volkswirt (economista austriaco), e uno dei primi critici della scuola neoliberista, o “austriaca”, di economia, rappresentata tra gli altri da Ludwig von Mises e Friedrich Hayek. Dopo la conquista nazista della Germania nel 1933, le opinioni di Polanyi furono ostracizzate socialmente e si trasferì in Inghilterra, e poi negli Stati Uniti nel 1940. Scrisse The Great Transformation mentre insegnava al Bennington College nel Vermont.
Polanyi si proponeva di spiegare le massicce trasformazioni economiche e sociali a cui aveva assistito durante la sua vita: la fine del secolo di “pace relativa” in Europa, dal 1815 al 1914, e la successiva caduta nel tumulto economico, nel fascismo e nella guerra, che era ancora in corso al momento della pubblicazione del libro.
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Extinction Internet
di Geert Lovink
Internet sta accelerando i problemi del mondo ed è ormai destinata a una morte prematura. Ma un’altra fine è possibile, se ammettiamo che c’è bellezza nel collasso
Può la cultura di Internet allo stato attuale resistere all’entropia e sfuggire alla registrazione infinita mentre fa fronte alla propria fine senza fine? Questa è la domanda che ci ha lasciato in eredità il filosofo francese Bernard Stiegler, scomparso nell’agosto 2020. Un’antologia su questo tema, intitolata Bifurcate: “There Is No Alternative”, è stata scritta durante i primi mesi del COVID-19: portata a termine poco prima della sua morte, è basata sul suo lavoro e redatta in consultazione con la generazione di Greta Thunberg. Bifurcate è anche un progetto per la giustizia climatica e l’analisi filosofica, firmato collettivamente sotto lo pseudonimo Internation. “Biforcare” significa dividere o bipartire in due rami. È un appello a ramificarsi, creare alternative e smettere di ignorare il problema dell’entropia, un quesito classico della cibernetica. Conosciamo il disordine nel contesto della critica di Internet come un problema dovuto al sovraccarico cognitivo, associato a sintomi psichici quali la distrazione, l’esaurimento e l’ansia, aggravati a loro volta dalle architetture subliminali dei social media estrattivisti. Stiegler chiamò la nostra condizione l’Entropocene in analogia con l’Antropocene: un’epoca caratterizzata dal “massiccio aumento dell’entropia in tutte le sue forme (fisiche, biologiche e informative)”. Come Deleuze e Guattari avevano già rilevato, “Non ci manca certo la comunicazione, anzi ne abbiamo troppa; ci manca la creazione”. Il nostro compito, perciò, è creare un nuovo linguaggio per comprendere il presente con l’aspirazione di fermare e superare l’avvento di molteplici catastrofi, esemplificate dal concetto plurimo di Extinction Internet.
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Dal Vietnam alla Palestina: la guerra è tornata come un boomerang nel “giardino” statunitense
di Giacomo Marchetti
La Casa Bianca si sta spazientendo sulla necessità di raggiungere un cessate il fuoco a Gaza. Il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca, John Kirby, ha insistito martedì sui negoziati al Cairo per un patto tra Israele e Hamas che consentirebbe una tregua nella Striscia di Gaza in cambio del rilascio di ostaggi. “Se avremo un cessate il fuoco, potremo ottenere qualcosa di più duraturo e forse porre fine al conflitto (a Gaza)… ma tutto ciò inizia con un accordo per la restituzione degli ostaggi alle loro famiglie”, ha dichiarato in una conferenza stampa.
Al di là della scena internazionale, questo messaggio ha anche una motivazione politica interna.
Nel momento in cui i sondaggi del Presidente Joe Biden non sono in crescita, per la Casa Bianca il raggiungimento di un accordo è vitale, soprattutto nel bel mezzo di una campagna elettorale e mentre le proteste universitarie pro-palestinesi, sempre più diffuse, si scatenano contro il sostegno di Washington a Israele.
L’ “oltranzismo” dell’attuale governo israeliano potrebbe costare caro all’attuale amministrazione statunitense che, come un qualsiasi apprendista stregone, ha attivato delle forze che ora non riesce a governare facendo da ostetrica alla nascita del fascismo ebraico dentro e fuori i confini di Israele.
In questo caso le élite statunitensi sono recidive, basti pensare al supporto dell’insorgenza islamica contro l’Afghanistan democratico in funzione anti-sovietica.
Ma non sembrano appunto, avere imparato molto dai propri errori.
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Ucraina: Un’ulteriore guida per i perplessi
Non lo sapevano. Ma ora lo sanno
di Aurelien
La scorsa settimana abbiamo analizzato cosa potrebbe accadere in Ucraina. Un armistizio, ovvero un accordo su come e quando terminare i combattimenti, dovrà essere negoziato a breve, anche se non sarà semplice da realizzare e potrebbe facilmente fallire. Tuttavia, supponendo che entro la metà del 2025 (o qualsiasi altra data vogliate proporre se ritenete che sia troppo presto) ci sia un armistizio e che i combattimenti siano finiti, cosa succederà? Questo è l’argomento del saggio di oggi.
Le questioni principali sono due. La prima riguarda le circostanze dell’armistizio stesso e il rapporto tra la situazione militare e le decisioni politiche che dovranno essere prese. Comincia a delinearsi la situazione che avevo previsto da tempo: gli ucraini si stanno ritirando da un certo numero di posizioni chiaramente indifendibili e alcune unità sembrano aver ceduto e si sono ritirate senza ordini. Con la crescente carenza di manodopera, equipaggiamento e munizioni, e dato che non si può combattere solo con i soldi, è probabile che entrambi questi processi continuino. Tuttavia, non c’è nulla di deterministico o matematico nella decisione di arrendersi, ed è per questo che è effettivamente impossibile prevedere anche solo una data approssimativa. La storia, che per quanto imperfetta è l’unica guida che abbiamo, suggerisce che ciò che determinerà la data sarà la perdita di speranza e di unità tra l’élite al potere, e questo potrebbe avvenire tra un mese o tra un anno.
Supponiamo quindi, per amor di discussione, che a un certo punto i russi abbiano il pieno controllo della regione del Donbas e che l’UAF si sia ritirata da Kharkov e Odessa. I russi hanno interrotto le operazioni offensive di terra, a eccezione di un’occupazione simbolica di Odessa per prendere il controllo del porto, ma continuano ad attaccare le aree posteriori dell’Ucraina e le infrastrutture del Paese. Ok, e allora? E chi decide?
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AL COMPAGNO CARLO FORMENTI
Lettera aperta di Fosco Giannini
Carissimo Carlo, carissimo compagno Formenti,
ho avuto l'onore di conoscerti personalmente solo da pochi anni e il conoscerti come persona ha confermato in me la grande stima che già nutrivo per il tuo lavoro politico-teorico, che invece avevo già “frequentato”. Conoscendoti, dunque, ho potuto apprezzare, moltissimo, sia l'uomo, il compagno, che l'intellettuale.
Nonostante la tua scelta di dichiarare pubblicamente la tua non adesione (che personalmente mi fa molto male, proprio per la stima che ho nei tuoi confronti) al Movimento per la Rinascita Comunista, non nutro certo sentimenti avversi verso di te. Rimane, intera, la stima e, anche se non ci siamo frequentati tanto, anche l’affetto, cresciuto verso di te per un tuo particolare modo d’essere: quello di rimanere, senza “posa” alcuna, un “giovane rivoluzionario”.
E’ mia colpa non aver interloquito con te negli scorsi giorni, quando, con molta correttezza, hai posto il problema di pubblicare sul tuo blog la dichiarazione di non adesione al MpRC. Mi scuso sinceramente e, a mia parziale scusante, ti dico solo che, in questa fase del nostro lavoro politico, con tante iniziative su buona parte del territorio nazionale, con l’obiettivo della riuscita della nostra Assemblea dell’11 maggio a Roma e con la costruzione in atto di nuove e importanti relazioni con altri gruppi/movimenti comunisti, non ho il tempo nemmeno per la mia vita, per la mia compagna, per le mie figlie.
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Plusvalore che grida allo scandalo. Deleuze e Derrida, empiristi raffinati
di Leo Essen
I
Nel 1967 Suzanne de Brunhoff scrive un libricino su Marx e la moneta che cade sotto lo sguardo di Deleuze, il quale ne fa il perno della sua lettura del tramonto dei Trente Glorieuses.
In Francia, negli stessi anni, alcuni economisti, riuniti sotto l’etichetta Circuitistes, cercano di inquadrare in una teoria monetaria moderna l’uso da parte dei governi della leva monetaria e valutaria per sostenere un industrialismo che arranca.
L’inflazione rende obsoleta ogni analisi che ritiene la moneta uno strumento neutro. La moneta ha un potere. Essa non ha solo il ruolo di misurare e quantificare il volare di scambio, ma ha anche un potere performativo.
La moneta non misura allo stesso modo se spesa dal proletario o se spesa dal capitalista, non ha lo stesso potere (d’acquisto), e non lo ha in virtù del fatto che non acquista la stessa merce. Il segno che misura il quanto di merci che posso acquistare non è neutro, non è stabile. Non è un mero metro che funziona allo stesso modo se usato da me o se usato dal mio vicino di casa. Quando si dice che l’inflazione in Italia è al 2%, oppure che lo spread è del 3% si parla come se l’effetto di questo aumento fosse uniforme per tutte le persone. E invece non è così. E lo sappiamo bene.
È l’ingresso del potere – della lotta di classe – nell’analisi della moneta.
Queste analisi, lo dico per inciso, si muovono sul terreno di un raffinato empirismo. Considerano la moneta come oggetto parziale. Non considerano la moneta ideale, la moneta senza corpo (ammesso che una cosa del genere possa darsi), la moneta usata in quanto unità di conto, moneta scritturale dei ragionieri (scontata l’evidenza lampante che anche la moneta scritturale ha una empiricità irriducibile), ma la moneta empirica, individuale, che tengo in tasca, e che nelle mie mani ha un potere diverso da quello che ha nelle mani di un altro individuo.
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L’intreccio dei paradigmi strategici
di Alastair Crooke - strategic-culture.su
Molti europei vorrebbero un'Europa nuovamente competitiva, che fosse un attore diplomatico, piuttosto che militare
Theodore Postol, professore di Scienza, Tecnologia e Politica di Sicurezza Nazionale al MIT, ha fornito un’analisi forense dei video e delle prove emerse dall’attacco dimostrativo dell’Iran con droni e missili del 13 aprile contro Israele: Un “messaggio”, piuttosto che un “assalto”.
Il principale quotidiano israeliano, Yediot Ahoronot, ha stimato il costo del tentativo di abbattere la salva di missili e droni iraniani in 2-3 miliardi di dollari. Le implicazioni di questa cifra sono sostanziali.
Il professor Postol scrive:
“Ciò indica che il costo della difesa contro ondate di attacchi di questo tipo è molto probabilmente insostenibile contro un avversario adeguatamente armato e determinato”.
“I video mostrano un fatto estremamente importante: tutti i bersagli, droni o altro, sono abbattuti da missili aria-aria”, [lanciati per lo più da aerei statunitensi. Secondo quanto riferito, circa 154 velivoli erano in volo in quel momento] che probabilmente usavano missili aria-aria AIM-9x Sidewinder. Il costo di un singolo missile aria-aria Sidewinder è di circa 500.000 dollari”.
Inoltre:
“Il fatto che molti missili balistici non intercettati siano stati visti brillare al rientro nell’atmosfera ad altitudini inferiori [un’indicazione di ipervelocità], fa capire che, in ogni caso, gli effetti delle difese missilistiche David’s Sling e Arrow di [Israele], non sono stati particolarmente efficaci. Pertanto, le prove a questo punto mostrano che essenzialmente tutti o la maggior parte dei missili balistici a lungo raggio in arrivo non sono stati intercettati da nessuno dei sistemi di difesa aerea e missilistica israeliani”.
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Effetti culturali dell’economia neoliberista II
di Luca Benedini
(Seconda parte: una forma di patriarcato più sofisticata, oltre che una basilare occasione per rifocalizzarsi sull’incompatibilità strutturale che c’è tra pensiero socialista e cultura patriarcale)*
Ruoli di genere e neoliberismo
Oltre alla “novità” culturale costituita dalla combinazione tra la precarietà liberista sviluppatasi diffusamente nell’Ottocento e le aspirazioni consumiste divenute popolari in concomitanza col boom tecnologico ed economico novecentesco (boom che non casualmente è maturato proprio con l’allontanarsi dell’economia di mercato dal liberismo ottocentesco e che sempre non casualmente si è in buona parte dissolto proprio col ritornare del liberismo nella sua nuova forma collegata all’“edonismo reaganiano”...), vi è un altro aspetto culturale in cui l’attuale società neoliberista si è mostrata orientata fortemente alla novità: le modifiche che stanno avvenendo nei ruoli di genere sia nel modo di vivere delle classi dominanti sia soprattutto – fatto socialmente più significativo perché riguarda miliardi di persone – nell’ambito della “cultura di massa”.
1. Il nòcciolo della questione
Durante l’ultimo paio di secoli, moltissime voci nel movimento femminista hanno sottolineato come per millenni le società organizzate in modo patriarcale abbiano cercato di indurre nelle donne una tendenza alla dipendenza emotiva da figure maschili come il padre inizialmente e il marito poi, tendenza cui si affiancava il contraltare costituito nella vita pubblica da altre figure dominanti tipicamente maschili, come i capi politici, religiosi e militari e in tempi relativamente recenti i dirigenti d’impresa [40]. Nella vita pratica ciò si esprimeva in un’esistenza femminile incentrata sulla vita di famiglia (e in particolare sull’occuparsi dei famigliari, della casa e dei dintorni), mentre nel caso in cui per un motivo o per l’altro una donna operasse anche al di fuori di tale contesto la sua posizione avrebbe dovuto rimanere comunque subordinata – direttamente o indirettamente – a qualche figura solitamente maschile.
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Perché l'America fatica a mantenere il dominio globale
Appunti su un numero della rivista Limes
di Carlo Formenti
Premessa
Il numero 3 (marzo 2024) di “Limes”, la prestigiosa rivista italiana di geopolitica, dovrebbe essere una lettura obbligata per gli intellettuali e i militanti marxisti che vogliano comprendere a fondo quali sfide orientano le attuali scelte di politica internazionale degli Stati Uniti. A incuriosirmi al punto da acquistare il corposo fascicolo (compro “Limes” solo saltuariamente) sono stati, più del titolo “Mal d’America”, i tre sottotitoli; “Il peso dell’impero mina la repubblica”, “Il Numero Uno non si piace più”, “Come perdere fingendo di vincere”. Li ho trovati stuzzicanti, anche se ad alcuni potrebbero sembrare un modo criptico e allusivo di evocare le contraddizioni che riducono le speranze di chi auspica che il XXI possa essere un nuovo secolo americano. Inoltre mi rendo conto del fatto che possano suonare depistanti alle orecchie d’una cultura comunista ancorata all’analisi “classica” (variamente aggiornata) dell’ imperialismo, appiattita sui meccanismi economici tardo capitalisti e poco propensa a valutare il peso dei fattori “sovrastrutturali”. Motivo per cui si perde la possibilità di capire le motivazioni del nemico che, da un lato, vengono ridotte a un chiacchiericcio ideologico che serve a mascherarne i suoi “veri” obiettivi, dall’altro, vengono depurate dalle tensioni e dalle contraddizioni che le attraversano, neutralizzandone la complessità.
Un’attenta lettura di queste trecento pagine consente a mio avviso di evitare la duplice trappola appena descritta. In primo luogo perché è lo stesso statuto della geopolitica a favorire un approccio “realistico” ai problemi, sfrondandoli (in parte) degli (inevitabili) pregiudizi valoriali.
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La tensione tra Israele e Iran non giova alla causa palestinese
di Il Pungolo Rosso
Abbiamo voluto attendere che si concludesse lo scambio di colpi tra Israele e Iran per dire la nostra, che – però – a vicenda per il momento conclusa, resta identica: nonostante le possibili (e realmente esistenti) illusioni a riguardo, l’innalzamento della tensione tra i due stati non giova alla causa palestinese.
Un indizio di fondamentale importanza dovrebbe essere nel fatto che è stato il regime sionista a prendere l’iniziativa di colpire duro a Damasco abbattendo mezza ambasciata iraniana e alcuni alti ufficiali del regime di Teheran. Un avvertimento dato in due direzioni: verso gli Stati Uniti e l’Europa; verso l’Iran. Ai suoi protettori la banda di Netanyahu (e la sua finta opposizione) hanno mandato a dire: noi siamo in grado, e siamo determinati, se necessario, a far deflagrare la guerra in tutto il Medio Oriente, ben sapendo voi Stati Uniti, voi Unione Europea, non siete pronti a questo. Ricatto pesante. Ai prudentissimi ayatollah (che, ricordatelo, avevano sconsigliato Hamas dall’agire in modo offensivo, e che fino alla fine di marzo hanno tenuto un profilo d’azione molto basso) lo stato sionista ha mandato a dire: continuate a restare prudenti, perché noi siamo in grado di colpirvi duro (il sottinteso riguarda le centrali di arricchimento dell’uranio e quant’altro di strategico possa essere colpito). Altro ricatto pesante.
Dopo l’attacco del 1° aprile, era impossibile, per Teheran, restare con le mani in mano, salvo perdere la faccia. La risposta è stata accorta, spettacolare, di sicuro dannosa per il mito di invincibilità di Israele – già fatto a pezzi dall’offensiva della resistenza palestinese del 7 ottobre -, ma nello stesso tempo prudente. Un piccolo capolavoro tattico, nell’esclusivo interesse dell’Iran come potenza regionale, senza nessuna ricaduta positiva per il popolo palestinese. Anzi.
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Foreign Affairs è “putiniana” e i russi continuano a bombardarsi da soli
di Gianandrea Gaiani
Nei giorni scorsi ha fatto scalpore, ma forse in Italia non abbastanza, l’articolo di Foreign Affairs in cui Samuel Charap e Sergey Radchenko hanno ricordato i punti salienti della trattativa tra Russia e Ucraina che grazie alla mediazione turca erano giunte a fine marzo del 2022 a un accordo per interrompere le ostilità dopo poco più di un mese di guerra.
Come ricorda Roberto Vivaldelli su InsideOver, il magazine americano ha dedicato, con tanto di documenti e testimonianze inedite, un lungo articolo ai negoziati. “Alcuni osservatori e funzionari (tra cui, soprattutto, il presidente russo Vladimir Putin) hanno affermato che sul tavolo c’era un accordo che avrebbe posto fine alla guerra, ma che gli ucraini se ne sono allontanati a causa di una combinazione di pressioni da parte dei loro protettori occidentali e delle supposizioni di Kiev sulla debolezza militare russa” nota Foreign Affairs ammettendo che “i partner occidentali di Kiev erano riluttanti a lasciarsi coinvolgere in un negoziato con la Russia”, in particolare “in un negoziato che avrebbe creato nuovi impegni per garantire la sicurezza dell’Ucraina”.
La bozza di accordo visionato da Foreign Affairs prevedeva un’Ucraina “neutrale e priva di armi nucleari”, che avrebbe rinunciato a “qualsiasi intenzione di aderire ad alleanze militari o di permettere la presenza di basi militari o truppe straniere sul proprio territorio”.
I possibili garanti della sicurezza ucraina sarebbero stati i 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (inclusa quindi la Russia) insieme a Canada, Germania, Israele, Italia, Polonia e Turchia.
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Le tante faglie che attraversano gli Stati Uniti d’America
di Paolo Arigotti
La Treccani definisce[1] faglia la “frattura in un corpo roccioso, caratterizzata dal movimento relativo fra i blocchi adiacenti che essa separa”. Ma non siamo qui per parlare di geologia, bensì di un altro tipo di fratture, intese in senso politico e sociale, che da tempo interessano gli Stati Uniti d’America. Non ci occuperemo, pertanto, di questioni collegate alla politica internazionale, ma a una serie di criticità interne alla federazione a stelle e strisce.
Ai primi di novembre, precisamente il giorno 5 - come da tradizione il primo martedì dopo il primo lunedì del mese - gli statunitensi saranno chiamati per la sessantesima volta nella loro storia a scegliere (con un elezione di secondo grado) il prossimo Presidente, e stando così le cose la sfida sarà la stessa di quattro anni fa: Joe Biden contro Donald Trump, anche se a parti invertite, visto che stavolta è il primo a occupare la prestigiosa residenza al numero 1600 di Pennsylvania Avenue, Washington D.C. Se l’attuale Amministrazione sembra ancora proiettata alla politica internazionale – ricordiamo il recente voto della Camera dei rappresentanti, col contributo decisivo della maggioranza repubblicana guidata dallo Speaker Mike Johnson, che ha approvato un nuovo pacchetto di aiuti destinato a Ucraina, Israele e Taiwan (con qualche briciola destinata agli aiuti umanitari, magari per le stragi provocate dalle stesse armi incluse nelle misure licenziate)[2], che finirà per lo più appannaggio dell’apparato militare industriale a stelle e strisce[3] - sembrano ben altri i problemi coi quali deve fare i conti l’americano medio.
Per introdurne uno, particolarmente avvertito in “casa repubblicana”, pensiamo all’immigrazione clandestina, che solo pochi mesi fa rischiava (e non è detto che non lo possa fare ancora) di innescare un vero e proprio scontro istituzionale tra centro e periferia: ci stiamo riferendo al Texas[4].
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L’Unione europea, tra mito e realtà
di Gianmarco Pisa
Comprendere l’Unione europea significa comprendere il processo storico e le basi materiali della sua costituzione, la sua configurazione politica e la sua proiezione internazionale: un compito al quale i comunisti e le comuniste in Europa, e segnatamente in Italia, non possono sottrarsi.
Definire la natura, oggi, dell’Unione europea, la sua configurazione politica e la sua proiezione internazionale, e, all’interno di questa, mettere a fuoco il ruolo che svolge nel mondo contemporaneo, in cui si muove come organizzazione regionale di Stati e nel quale svolge un ruolo come attore politico, è, senza dubbio, un impegno al quale i comunisti e le comuniste in Europa, e segnatamente in Italia, non possono sottrarsi.
Va dunque, in premessa, impostata la definizione del perimetro, a partire dalla essenziale distinzione tra Europa e Unione europea: vale a dire tra Europa, come spazio geografico e culturale significativamente articolato, plurale e complesso (46 Stati, oltre 700 milioni di persone, oltre 200 lingue parlate, una composizione politica e culturale peculiare e composita), e Ue, come organizzazione istituzionale sovranazionale, di carattere politico ed economico, costituita a partire dalle Comunità europee venutesi formando negli anni Cinquanta (che conta oggi 27 Stati membri, una popolazione di meno di 450 milioni di persone, 24 lingue ufficiali). Comprendere l’Unione europea significa cioè comprendere il processo storico e le basi materiali della sua costituzione e della sua configurazione.
Le basi materiali dell’Ue
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Democrazia o barbarie: perché una prospettiva di democrazia radicale è indispensabile (3/3)
di Pierluigi Fagan
Tutti gli uomini sono intellettuali, si potrebbe dire perciò;
ma non tutti gli uomini hanno nella società la funzione degli intellettuali.
A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Quaderno 12 (XXIX) § (1)
Noi esseri umani viviamo su un pianeta. Negli ultimi settanta anni, ci siamo triplicati e lo abbiamo fatto partendo già dalla ragguardevole cifra di 2,5 miliardi di persone. Un evento del genere non è mai avvenuto nella storia umana, per dimensione e velocità del fenomeno. Nel 2050 ci saremo quadruplicati e quindi il fenomeno sarà ancora più denso e veloce, un solo secolo per quadruplicarci.
Dentro la definizione collettiva di umanità, ci sono le civiltà. La nostra, la civiltà occidentale ed europea in particolare, è passata dal pesare circa un terzo dell’umanità di inizio XX secolo, a un sesto. Ha cambiato in suoi pesi interni visto che gli europei si sono maggiormente contratti in favore dell’area anglosassone. È precipitosamente invecchiata. Oggi il quarto dei duecento stati nei quali è ripartito il mondo in sistemi giuridico-politici statali, mostra indici di riproduzione men che dimezzati, sono tutti paesi sviluppati e ipersviluppati, c’è dentro tutta l’Europa, inclusa la parte orientale che mostra tali indici per ragioni diverse dall’ipersviluppo sebbene di pari intensità negativa.
La nostra metafisica influente si è molto concentrata sull’essere e gli enti, ma ogni ente è ontologicamente fatto e dedito a relazioni o -a due vie- interrelazioni. Ci è tornato utile semplificare e bloccare l’essere e gli enti come in uno scatto fotografico. Se avessimo considerato, come avremmo dovuto fare, l’essere in sé e l’essere in relazione, la questione si sarebbe di molto complicata. Oggi, realisticamente, non possiamo più fare a meno di non considerarlo.
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I “Concilianti”
di Carla Filosa
A chi sarà stato in Piazza dei Partigiani la mattina del 25 aprile sarà stato offerto un volantino con su scritto “Riconciliazione”. E’ diventato di moda, nel dibattito televisivo, ma anche altrove, porre la necessità di una riconciliazione nazionale, come avvenuto in Germania. Dal dopoguerra a oggi, in Italia ciò non è avvenuto come esito della guerra civile, o come si preferisca chiamare l’intervento della Resistenza nella sconfitta del nazi-fascismo. I giovani volantinanti in questione hanno suscitato tenerezza, sebbene con un po’ di disappunto per la loro fresca ingenuità, mentre sul contenuto del volantino c’è di che argomentare.
Se la riconciliazione venisse proposta con le persone che furono protagoniste 79 anni fa dello scontro bellico, ben pochi anziani troveremmo ancora in grado di condividere la proposta di una stretta di mano, che nell’arco di tutta la loro vita è mancata, o non è mai stata una priorità, un desiderio, un bisogno reale vissuto da una società civile, condotta a scelte politiche per lo più insabbiate o comunque obbligate a negare verità scomode. Gli amministratori e i funzionari del periodo fascista furono in molti casi reintegrati nei loro posti, o amnistiati.
Con i morti, sopraggiungerebbe poi una valutazione storica, necessariamente priva di interlocuzione, guidata da criteri quanto più possibile oggettivi, legata a circostanze, eventi e condizioni umane irripetibili, che non darebbero adito a “conciliazioni” rese ineseguibili dal mutamento incommensurabile e irreversibile del tempo trascorso.
La conciliazione ipotizzabile è dunque solo nel presente, con i coevi, ma qui si pone il problema centrale. Rispetto a cosa dovrebbe avvenire una conciliazione e in funzione di che, a favore di chi?
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Il Keynesismo eclettico di Federico Caffè
di Paolo Paesani
Paolo Paesani dà conto di un incontro svoltosi alla Facoltà di Economia della Sapienza di Roma per presentare una nuova edizione degli scritti di Federico Caffè. Nel suo resoconto, Paesani si concentra sul concetto di Keynesismo eclettico come chiave di lettura per comprendere il contributo scientifico e umano di Federico Caffè e l’influenza che egli ha esercitato su generazioni di economisti italiani, uniti a lui nel comune riferimento al pensiero di Keynes e dei primi Keynesiani di Cambridge.
* * * *
Pochi giorni fa, la voce di Federico Caffè è tornata a risuonare nell’aula V della Facoltà di Economia della Sapienza di Roma a lui intitolata. È avvenuto durante la proiezione di un filmato, curato da Augusto Frascatani e Mario Tiberi, che accompagnava la presentazione di un volume dal titolo Federico Caffe – Un economista per gli uomini comuni (Nuova edizione). Il volume, curato per la Futura editrice della CGIL da Nicoletta Rocchi e Giuseppe Amari, recentemente scomparso, offre un quadro d’insieme del pensiero di Federico Caffè, dei suoi scritti accademici, dei suoi interventi sulla stampa, nonché della rete di maestri, amici, colleghi, avversari che Caffè ha incontrato nel corso della sua vita, e dei ricordi che ha lasciato nei suoi allievi e nei tanti che hanno tratto ispirazione dalle sue parole.
I relatori che si sono alternati sul podio si sono soffermati su aspetti diversi del pensiero di Caffè, insistendo sull’importanza da lui attribuita alla piena occupazione e al miglioramento delle condizioni materiali di vita delle persone comuni e al confronto con colleghi, studenti e autorità di governo. A chi scrive è toccato il compito di riflettere sulla parte del volume dedicata ai maestri, agli amici e agli allievi di Federico Caffè in una prospettiva di Storia del pensiero economico.
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La propaganda del "diritto di autodifesa di Israele" è il miglior alleato della guerra
di Luca Busca
Premessa
Il fervido dibattito in merito alla questione palestinese vede una sempre maggiore fetta di popolazione indignarsi nei confronti di quello che a tutti gli effetti ha assunto le caratteristiche di un genocidio. Nonostante un intenso battage mediatico chiamato a promuovere il sostegno a Israele, quasi tutti hanno ormai capito che continuando così la guerra non finirà mai e la questione palestinese rimarrà sempre aperta. Diverso il discorso quando al dibattito partecipano anche soggetti appartenenti alla comunità ebraica. La maggior parte, almeno di quelli che conosco io, è su posizioni antitetiche a quelle di Netanyahu e spesso di area pacifista.
Malgrado ciò sono pochissimi coloro che si dissociano dal genocidio in atto. Questa strana posizione oscillante tra la voglia di pace e lo sterminio è riassumibile nel motto strombazzato da tutti i media occidentali: “il diritto all’autodifesa di Israele”. Personalmente non mi sorprende il contenuto di questa opinione, né le traballanti motivazioni a suo sostegno, perché trovo perfettamente normale che un gruppo fortemente identitario, come è la comunità ebraica, si compatti intorno a un’idea anche se non completamente condivisa.
Ogni opinione poi è degna di rispetto per chi, come me, non crede nel sistema delle competenze e della delega a terzi del sapere e del pensiero critico, né crede in alcun dogma di carattere religioso o scientifico. In sostanza per chi, invece di credere, pensa è facile convincersi che lo facciano anche gli altri. In questo caso mi sorprende, però, la scarsa coscienza in merito a due fattori che caratterizzano l’espressione di qualsiasi opinione inclusa quella del “diritto all’autodifesa di Israele”.
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“Laboratorio Palestina” – L’incredibile resoconto del giornalista Antony Loewenstein
di Roberto Iannuzzi
Come l’industria israeliana delle armi e della sorveglianza di massa testa nei Territori palestinesi occupati sistemi che vengono esportati e utilizzati in tutto il mondo
Secondo due recenti inchieste israeliane, le forze armate di Tel Aviv hanno fatto ampio ricorso a due sistemi fondati sull’intelligenza artificiale nel corso della loro devastante operazione militare a Gaza.
“The Gospel”, il primo, elabora milioni di dati per identificare a gran velocità edifici ed altre strutture da cui potrebbero operare i miliziani palestinesi, trasformandoli così in bersagli da distruggere.
Il secondo, denominato “Lavender”, individua invece sospetti membri dell’ala militare di Hamas e della Jihad Islamica, processando anche in questo caso infinità di dati che vanno dalle intercettazioni telefoniche all’adesione a gruppi Whatsapp.
Il programma stila così una graduatoria di probabile appartenenza, che va da 1 a 100. Gli individui che figurano ai vertici di tale classifica vengono sorvegliati da un sistema chiamato “Dov’è papà?”, il quale invia un segnale quando il “sospettato” rientra a casa, dove viene bombardato (insieme alla sua famiglia).
The Gospel e Lavender sono solo le ultime due spaventose incarnazioni di un’industria sempre più fiorente, che applica tecnologie di ultima generazione all’ambito bellico, e che vede Israele all’avanguardia mondiale nel settore.
Come lo Stato ebraico sia divenuto uno dei maggiori esportatori di armi, ed abbia rivoluzionato l’industria bellica attraverso il connubio fra le startup tecnologiche e il settore pubblico della difesa, utilizzando i Territori palestinesi occupati come un laboratorio per testare nuovi armamenti e rivoluzionari sistemi di sorveglianza, è una storia che da tempo sarebbe stato giusto raccontare.
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La fine della modernità. Logiche della dipendenza e dei sistemi-mondo
di Alessandro Visalli
La centralità militare, tecnologica e della formazione del capitale[1] nell'Occidente collettivo ha avuto un inizio con l'aggiramento spagnolo del blocco turco e la distruzione delle americhe e sta giungendo dopo cinque secoli a fine. La dipendenza e assorbimento dei capitali periferici, e l'intero sistema morale, ideologico e sociale che vi è stato costruito sopra (la stessa coppia Occidente/Oriente che lo organizza) è presentata davanti agli occhi del mondo e rigettata ogni giorno di più. Il Re è ormai nudo, per questo ruggisce di rabbia come si vede a Kiev come a Gaza.
Utilizzerò Dussel[2] per cominciare il cammino in un labirinto con molti ingressi ma nessuna uscita. Una protesta di noi figli verso la vecchia madre[3], necessaria per farci adulti. Di noi moderni verso il retaggio che ci ha fatti e che scopriamo, ogni giorno di più, grondante e polveroso a un tempo. Inoltre, figlie degli antichi padri, sia anche chiaro, di quel Cortez la cui lucida armatura nascondeva un cervello senza cuore. Ma il dominio dell’Occidente è entrambe le cose allo stesso tempo: il volto aggrottato di un Padre autoritario, pronto a punire, e il dolce sorriso astuto di una Madre possessiva che trattiene nel suo grembo della quale non si può mai essere degni. Noi figli e figlie dobbiamo finalmente vederlo, se vogliamo liberarci e contribuire, finalmente, a rilasciare gli ostaggi. D’altra parte, questi ormai sono capaci di farlo da sé. Resta solo di augurare buona vita al nuovo mondo multipolare.
Se, però, qualunque cosa noi proveremo il Mondo alla fine farà da sé, e noi non siamo i maestri di nessuno per dire come deve fare, ci resta il compito di capire, vagliare e superare il nostro retaggio. Da noi e per noi.
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Per la dittatura delle minoranze
di Rocco Ronchi
Riflettere sulla crisi mondiale della democrazia muovendo dall’Italia – e utilizzando una formula recentemente coniata per far tacere le minoranze – non è provincialismo. L’Italia, come si suole ripetere, è stata un laboratorio per la storia mondiale. Qui, infatti, nei primi vent’anni del Novecento, è stato elaborato il prototipo che sarà incessantemente perfezionato nei vari “modelli” che seguiranno, dal fascismo storico al nazismo tedesco (che si autodefiniva correttamente “fascista”) al peronismo, all’attuale dilagante sovranismo populista (da Trump a Putin, da Bolsonaro a Milei ecc.ecc.). La storia ha messo alla prova il prototipo, stressandolo con crash test inimmaginabili, ma senza mai invertirne però la tendenza di fondo, piuttosto rettificandola, correggendola, adattandola al nuovo ambiente tecnologico, rendendola sempre più raffinata ed efficace. Possiamo chiamare “fascismo” questo fenomeno globale che chiude nell’angolo le “democrazie”. Va però tenuto sempre presente che con tale etichetta non si intende un “modello” o un “archetipo” ma, appunto, un prototipo o una tendenza. Solo i fascisti da baraccone che ogni anno si ritrovano a Predappio, indossando camicie nere e calzando improbabili copricapi, assumono il fascismo come un modello da ripetere. I veri fascisti il fascismo invece non lo ripetono affatto ma lo continuano a creare in forme nuove, con un linguaggio diverso, con concetti adeguati ai tempi e con una violenza di nuovo tipo. Per questo non costerà loro molta fatica “dirsi, infine, antifascisti” come reclamano a gran voce i benpensanti di sinistra, quasi che bastasse una parola pronunciata al cospetto delle telecamere per cambiare di segno a un immane processo storico. E se lo faranno non sarà per malafede ma per onestà intellettuale. Con tale ammissione, infatti, intenderanno in cuor loro una presa di distanza dagli errori compiuti nel passato nello sviluppare una tendenza che assecondano e che promuovono.
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Aspettando Rafah
di Enrico Tomaselli
Nell’imminenza dell’attacco israeliano a Rafah, l’ultima città palestinese non ancora completamente distrutta, proviamo ad analizzare le tattiche dell’IDF alla luce della particolare natura della società israeliana, di cui l’esercito è uno specchio fedele. Tenendo presente il gioco delle parti che sempre si tiene tra Washington e Tel Aviv.
La guerra biblica che Israele sta conducendo contro i palestinesi, come era facilmente prevedibile, sta raggiungendo il suo limite, senza aver conseguito un solo obiettivo. Naturalmente la propaganda sionista – e quella occidentale di rincalzo – negano tutto il negabile: le ingenti perdite militari, la fuga dal paese degli israeliani con doppia cittadinanza, la crisi socio-economica conseguente alla guerra, la mancata liberazione dei prigionieri israeliani a Gaza, l’impossibilità di smantellare la rete di tunnel della Resistenza, e ovviamente il fatto che l’IDF non sia stato capace di infliggere a questa perdite superiori a un 20% della sua forza combattente.
Ma ovviamente negare la realtà non serve a trasformarla. E, per di più, non dura a lungo. Quello che è accaduto in questi sei mesi e mezzo è che l’esercito per mezzo secolo ritenuto uno dei più potenti al mondo (nonché “l’esercito più morale del mondo”, nelle parole degli attuali leader sionisti) ha perso l’onore; quello militare, dimostrandosi incapace di sconfiggere un nemico infinitamente inferiore per armamenti, e quello umano, comportandosi sempre più come una banda di criminali di guerra.
Per comprendere Israele, bisogna guardare alla sua storia e alla sua società, e l’Israel Defence Force è non solo un elemento fondamentale della società israeliana, ma ne è anche uno specchio.
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