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Basta propaganda: siamo seri, almeno coi morti
di Paolo Bellavite
Si sa che personalmente non sono contrario ai vaccini per partito preso, tanto che ho iniziato la “carriera” di vaccinologo nel 2017 con un libro intitolato “Vaccini sì, obblighi no”. Se dovessi riscriverlo, sceglierei il titolo “Vaccini se, obblighi no”, dove il “se” indica la valutazione accurata dei rischi e dei benefici. Comunque non sono un “novax”, sono solo contrario agli obblighi vaccinali, tomba della scienza e dell’etica medica, e sono contrario alla disinformazione. Non può esservi libertà di scelta se non c’è corretta informazione.
Uno degli argomenti di maggiore interesse per l'opinione pubblica riguarda gli effetti avversi dei vaccini e in particolare la mortalità. Per questo vale la pena commentare un articolo di Antonio Socci, comparso su Libero del 13 Ottobre, intitolato “Ma perché qualcuno ha più paura del vaccino che del COVID? Una riflessione statistica”. Tale articolo è emblematico di quale confusione si possa generare su un argomento così delicato e per questo prendendo spunto da questo ritengo utile trattare in modo tecnico alcuni aspetti della questione. Per brevità, pubblico il testo nel mio fascicolo in “Sfero” in attesa di altre eventuali possibilità di pubblicazione.
Socci analizza il tema delle morti improvvise, che definisce “uno dei temi più diffusi, fra i Novax, forse quello che più alimenta la paura e il rifiuto della vaccinazione”. I cosiddetti “Novax” sono accusati di rilanciare sui socials le notizie di cronaca relative a morti di persone che da pochi giorni hanno fatto il vaccino, come se ciò fosse espressione di ignoranza di statistica. Successivamente, l'autore si lancia in considerazioni tecniche in difesa delle vaccinazioni che lasciano stupiti per la loro scarsa consistenza scientifica.
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“L’essenza, per le fondamenta”. Contro la gabbia del “biopotere”
Alessandro Testa intervista Alberto Sgalla
Alberto Sgalla, nato in Ancona il 24.11.1948, dove vive, già docente di discipline giuridiche-economiche in istituiti tecnici e licei a Varese e Ancona, ha pubblicato in rivista saggi di filosofia politica e 4 romanzi (Il colore del vuoto, ed. Transeuropa 2000; Senza commozione, ed. Pequod 2005; Federico Onori, ed. Cattedrale 2009; Café Le Antille, ed. Italic Pequod 2014). Ha militato nel corso degli anni ‘70 nell’area “operaista”, con un’attenzione al pensiero di Hegel e un’ispirazione leninista.
Ci piacerebbe cominciare quest’intervista chiedendoti una riflessione sullo Stato Postmoderno, sulla sua evoluzione come sovrastruttura e sui suoi legami con la maniera specifica con cui si è evoluto il capitalismo.
Siamo entrati in una nuova epoca, che non è definibile se non con il prefisso post- (postindustriale, postmoderna, postfordita, postumana, postverità eccetera), epoca di transizione da un non-più al trionfo dell’indefinito, del senza-identità, segno del caos della crisi, della società dell’incertezza, dove tutto è cedevole, disperso, movimento che non conduce da nessuna parte, se non all’accumulazione di profitti e poteri privati. Occorre comunque dare significato alle trasformazioni e la critica comunista resta la migliore per capire “lo stato di cose presenti”, critica totale, affermativa, vitale.
Con il postmoderno è avvenuta:
– la marxiana sussunzione reale della società al capitale, che ha completamente assorbito la società in sé, la società informatizzata e automatizzata, la società ridotta a mercato e spettacolo; il capitale non ha più un esterno, non ha niente fuori di sé, si presenta come forza produttiva primaria, separata dal lavoro, che sembra destinato ad uscire definitivamente di scena;
– la modificazione della natura dello sfruttamento dalla quantità alla qualità, con processi di creazione del valore che non trovano più al loro centro il lavoro di fabbrica;
– l’incapacità del capitale di pianificare lo sviluppo inteso come movimento dialetticamente compiuto, il capitale appare come vuoto apparato di costrizione, un parassita della cooperazione del lavoro vivo che si autovalorizza;
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La bolla del consenso
di Giorgio Antonangeli
Sono tanto semplici gli uomini e tanto obbediscono alle necessità presenti, che colui che inganna troverà sempre chi si lascerà ingannare.
Machiavelli, ‘il Principe’
Oggi come ieri vediamo le stesse dinamiche di potere e consenso: c’è un principe, o più precisamente un viceré, che pare esercitare un potere – proprio o delegato che sia – senza freni o remore. Dall’altro lato ci dovrebbe essere un Popolo i cui sensi però sono stati intorpiditi e ingannati dagli apparati della società dello spettacolo, le cui bocche di fuoco non si sono mai fermate da quando Pasolini denunciò il “genocidio culturale” e le forme di rieducazione delle masse verso l’omologazione totale.
Intanto l’accumulazione capitalista ha seguito la sua parabola: in fase espansiva prometteva un benessere diffuso, sostenuto da un’inondazione di nuovi beni di consumo, sufficiente a far ignorare la progressiva marginalizzazione non solo delle vecchie culture tradizionali, ma anche della nuova concezione di cittadinanza che tra Costituzione e Statuto dei Lavoratori, con enorme fatica si stava affermando: a forza di miraggi le lotte sindacali furono frazionate sempre più, depotenziate a scaramucce e, affinché si potesse vendere il sogno del miracolo americano, venne sviluppato un apparato culturale e mediatico per alimentare il necessario sonno della ragione, o almeno una pennichella, mentre agli inquieti, a chi non prendeva sonno, veniva presentata un’ampia gamma di sfogatoi fra cui scegliere, dall’isolamento in comunità marginali fino alla lotta armata, colore a scelta, tanto è lo stesso: alla faccia di chi usa la parola ‘complottista’ come sinonimo di fuori dal mondo, già nel ‘74 Pasolini riconduceva “le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione” allo stesso “vertice”.
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Afghanistan III
L’eredità geo-storica
di Alessandro Mantovani
La prima parte di questo lavoro potrete trovarla qui, la seconda qui
"L'Afghanistan è uno di quei luoghi del mondo su cui le persone che meno ne sanno più trinciano giudizi inappellabili" (Thomas Barfield, AFGANISTAN, A CULTURAL AND POLITICAL HISTORY, Princeton & Oxford, Princeton University Press, 2010, p. 274).
"Pochi conflitti sono stati trattati così tanto, fotografati così tanto e studiati così tanto senza facilitare né il processo decisionale né la conoscenza. Con poche eccezioni, gli studi seguono l'evoluzione delle strategie politiche per confermarle, piuttosto che informarle. Inoltre, molti studi sono compiacenti sull'intervento occidentale, demonizzano il movimento talebano e sono impregnati di paradigmi obsoleti e talvolta semplicistici” (Adam Baczco, Lo Stato e la guerra in Afghanistan 1978-2012, Irsem Fact Sheet No. 19, luglio 2012, http://www.defense.gouv.fr/irsem).
Uno degli effetti di vent’anni di presenza occidentale in Afghanistan è stato quello di favorire una pletora di studi su di un paese di cui pochissimo si sapeva, ed ancora poco si sa. Anche se la più parte è come vedremo viziata da una pregiudiziale griglia di lettura “tribalista” ed “etnicista1, non
mancano ovviamente i validi contributi2, in virtù dei quali ho calibrato il tiro rispetto alle mie valutazioni di quindici anni fa3.
A partire dalla destituzione di Daud del 1978, passando per l’invasione russa, la guerra civile, l’effimero primo regime talebano, fino alla sconfitta odierna dell’Occidente, l’Afghanistan ha vissuto un eccezionale periodo di conflitti, riforme e controriforme: non solo distruzione, miseria e morte ma anche, come in tutte le guerre (e le economie di guerra) grandi trasformazioni, di cui il tanto stamburato incremento dell’esportazione dell’oppio non è che un aspetto: dimensioni essenziali di queste trasformazioni l’esacerbazione della questione fondiaria, l’esplosione dell’urbanizzazione e la crescita dell’emigrazione, che verranno trattate in appositi articoli.
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La libertà al di là della retorica della libertà
di Andrea Zhok
Ieri, stremato dall’ennesimo scempio argomentativo ascoltato nell’ennesima discussione su Green Pass e dintorni avevo pensato di provare a redigere (di nuovo) una sorta di vademecum con domande e risposte, magari solo per un senso di ordine mentale. Tuttavia ho l’impressione che siamo oramai andati oltre il livello in cui questo livello di ragioni poteva avere preminenza. Se non hanno attecchito a sufficienza da due mesi a questa parte, oramai siamo arrivati ad un livello ulteriore.
Sul piano di merito al di là dei mille argomenti di dettaglio in cui ci si può perdere, per stabilire l’illegittimità del Green Pass nella sua versione italiana bastavano due argomenti, semplici, e che chiunque avesse fatto un minimo sforzo di approfondimento poteva acquisire subito.
Per definire sul piano scientifico l’illegittimità del GP basta stabilire che:
1) anche i vaccinati contagiano;[1]
2) nessuno è nella posizione di garantire la piena sicurezza dei preparati da inoculare ora in uso.[2]
Non ci voleva assolutamente niente altro. Ed entrambi i punti sono accertati al di là di ogni possibile dubbio (vedi un po’ di riferimenti in nota).
Il primo punto elimina alla radice la presunzione di dover “tenere alla larga” il non inoculato in quanto potenzialmente lesivo (in effetti non godendo della protezione del farmaco il non inoculato è più facilmente la parte lesa.)
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Il General intellect nella Divina Commedia di Dante
di Gennaro Scala
Per quale motivo Dante colloca l'invettiva contro Firenze all'inizio del Canto XXVI dell'erno, qual è il suo rapporto con la parte dedicata ad Ulisse? Considerata l'attenzione di Dante per questi particolari, pensiamo solo alla teoria politica dei due soli posta esattamente al centro della Commedia (Pur. XVI), non può essere casuale che la più dura invettiva contro Firenze sia collocata all’inizio del «canto di Ulisse». Partiremo con questo interrogativo, che mi è servito da orientamento nella labirintica creazione dantesca in cui, tra le figure memorabili della Commedia, si staglia quella di Ulisse, cercando di capire meglio il significato dell'invettiva:
Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande,
che per mare e per terra batti l’ali,
e per lo ’nferno tuo nome si spande!
Com'è noto, i versi richiamano la targa del Palazzo del Capitano del Popolo (Bargello), fatto costruire nel 1255 dal «Governo del primo popolo», in seguito alla sconfitta dei cavalieri ghibelllini. Un passo dell'iscrizione ricalcava quasi alla lettera i versi della Pharsalia di Lucano riguardanti la potenza romana: «que mare, que terras, que totum possidet orbem».
Dante, appartenente all'Arte dei medici e degli speziali (fra le Arti maggiori) fu uno dei sei priori, la massima carica nel governo detto del Secondo popolo di Giano della Bella, che istituì gli Ordinamenti di giustizia che escludevano dal governo della città i “magnati” appartenenti alle grandi famiglie. Gli anni che vanno dal Governo del primo popolo fino alla fine del secolo furono di grandi trasformazioni, videro il rapido ingrandimento della città e il sorgere di una proto-borghesia composta soprattutto da grandi mercanti e imprenditori appartenenti alle Arti maggiori, e artigiani appartenenti alle Arti minori, la «gente nova» dai «subiti guadagni».
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Comunismo, democrazia e liberalismo
di Carlo Formenti
Note a margine di un libro postumo di Domenico Losurdo e di un’intervista ad Alvaro G. Linera
Nota introduttiva
Nel dibattito teorico interno al campo marxista, la questione del rapporto fra comunismo e democrazia liberale è intricata, controversa e divisiva. Non solo perché eredita le scorie ideologiche di passaggi storici come la rottura fra Seconda e Terza Internazionale, la guerra fredda, la svolta eurocomunista e il crollo dei regimi socialisti, ma soprattutto perché il trionfo del pensiero unico negli ultimi decenni è riuscito, da un lato, a inscrivere nel senso comune l’equazione comunismo=totalitarismo (vedi la delibera del Parlamento Europeo che equipara comunismo e nazismo), dall’altro lato, a liquidare ogni interpretazione alternativa del termine democrazia, ormai univocamente associato ai regimi liberal liberisti dei Paesi occidentali (e ciò malgrado le analisi di autori come Colin Crouch e Wolfgang Streeck (1) abbiano ampiamente descritto il divorzio fra democrazia e liberalismo che si è celebrato dopo la svolta neoliberista).
Liberarsi delle pastoie ideologiche di cui sopra non è semplice, tanto è vero che, anche intellettuali che non rinunciano a indicare nel socialismo l’alternativa a un capitalismo sempre più aggressivo e predatorio, esitano ad assumere posizioni radicali e, di fronte all’offensiva ideologica del nemico di classe, ripiegano su posizioni difensive, come se, per legittimare le proprie idee, dovessero dimostrare che il futuro che prospettano, non solo è compatibile con i principi e i valori liberaldemocratici, ma ne rappresenta addirittura il compimento. Qui non mi confronterò con questi atteggiamenti giustificatori, discuterò invece le più serie motivazioni con cui Domenico Losurdo - in un’opera postuma di recente pubblicazione (2) – argomenta a sua volta che i comunisti non dovrebbero svalutare le conquiste del liberalismo, bensì appropriarsene.
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Nell’Inferno del Capitale
di David Harvey
David Harvey sui debiti di Marx nei confronti di Dante (con una puntata su Shakespeare). E sul nodo fondamentale del rapporto tra liberazione dal lavoro e accettazione del progresso tecnologico
Il centocinquantesimo anniversario della pubblicazione del libro primo del Capitale di Marx (settembre 1867) ha rischiato di provocare una serie di nuove e ingegnose interpretazioni di ciò che Marx stava facendo nel Capitale in generale e nel primo volume in particolare. Una prima scarica di colpi in quella che si annuncia come una grande battaglia per ridefinire l’eredità di Marx, sia intellettuale che politica, è venuta dalla penna del politologo William Clare Roberts, che si cimenta con il magnum opus di Marx dal punto di vista della filosofia politica e della forma linguistica e letteraria. Il libro, Marx’s Inferno: The Political Theory of Capital, è ben ponderato e scritto in modo chiaro.
Le qualità uniche del contributo di Roberts derivano da due innovazioni. In primo luogo, nota un parallelo tra l’organizzazione dei materiali del libro primo del Capitale e l’Inferno di Dante. La discesa nell’inferno del posto di lavoro e la ricerca della redenzione danno forma in modo rilevante alla narrazione di Marx, sostiene.
In secondo luogo, rifiuta l’idea che il Capitale debba essere letto esclusivamente come un saggio di economia politica. Lo tratta invece come un trattato di filosofia politica. A tal fine, si concentra sui rapporti tra Marx e i socialisti utopisti che lo hanno preceduto. Roberts conclude che Marx è andato ben oltre quella tradizione e ha raggiunto una più antica tradizione di repubblicanesimo come non-dominio nella sua ricerca di un’alternativa politica.
Se non altro, questi due punti di vista rendono la lettura fantasiosa e piacevolmente gradevole, anche se alquanto controversa.
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Dieci anni fa l'assassinio di Gheddafi. Una pagina nera della storia d'Italia
di Marinella Correggia
Libia, 20 ottobre 2011: le brigate jihadiste appoggiate dalla Nato catturano e assassinano il leader libico Muammar Gheddafi che insieme ai suoi stava cercando di allontanarsi dalla città di Sirte, l’ultima roccaforte, ridotta in macerie da un’azione congiunta Nato-”ribelli” (così venivano definiti i miliziani che pure si erano già rivelati tagliagole fondamentalisti e razzisti – da non dimenticare la deportazione di un’intera città, Tawergha, popolata da libici di origine subsahariana). “We came, we saw, he died - Siamo venuti, abbiamo visto, è morto”: l’allora segretario di Stato Usa Hillary Clinton parafrasava così, ridendo, la nota frase latina attribuita a un altro colonizzatore, Giulio Cesare.
Nel 2011, i cento anni dall’invasione coloniale italiana della Libia furono dunque commemorati con un’ennesima guerra di aggressione iniziata il 19 marzo 2011 nella menzogna, andando avanti per lunghi mesi. Il vergognoso linciaggio di Gheddafi suggellò l’ennesima “missione umanitaria” della NATO, capace di fare più di diecimila morti e di gettare quello che era un relativamente prospero paese in un abisso di miseria, violenza, sopraffazione. Gli effetti a catena in termini di diffusione del terrorismo sedicente islamico si sono visti poi non solo in Libia (ricordiamo le colonne di fuoristrada con la bandiera nera Daesh alla conquista di Sirte) e in Siria (dove tuttora la guerra iniziata nel 2011 non è finita) ma anche in tutta l’Africa subsahariana. Il continente, un tempo esente da questo flagello e portatore di un islam solidale, è ora colpito in pieno non solo nella sua parte occidentale (Mali, Burkina Faso, Niger, Nigeria…) ma giù, fino in Mozambico e Tanzania, con stragi efferate, popolazioni sfollate, fame e miseria aggiuntive.
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Ti ricordi del 15 ottobre… Due movimenti e un paese in caduta libera
di Jack Orlando
È il 15 ottobre del 2011. A Roma. Una turba inferocita devasta il centro storico. Il tentativo di convogliare l’opposizione sociale alle misure di austerity sotto un cartello di compatibilità riformista va in fumo, assieme a un blindato dei carabinieri, in frantumi con la celeberrima madonnina di coccio. L’indignazione ha ceduto il passo alla rabbia. E menomale.
È un biennio movimentato, quello del 2010-2011, in mezza Europa.
Nel portare avanti lo scontro c’è una composizione eterogenea di lavoratori, disoccupati, teppisti, occupanti di casa e democratici arrabbiati, ma soprattutto c’è una grossa componente di giovanissimi, a cavallo tra le scuole superiori e l’università, reduci e colpo di coda dell’Onda studentesca che, nel loro piccolo, hanno appreso l’arte dell’esercizio della forza in piazza, sanno come respirare in mezzo ai gas lacrimogeni, sanno avanzare e indietreggiare, erigere una barricata e disselciare un viale. Una componente che vive quel giorno anche come un salto di qualità, un possibile inizio.
Invece il salto è un inciampo. Si cade a terra tra i distinguo e i “però”, tra le dissociazioni e le dietrologie, tra le scuse al capo dello Stato e il paternalismo forcaiolo dei salotti TV.
Un giorno è poca roba nel grande schema delle cose, eppure quel giorno il mondo guarda Piazza San Giovanni, una festa di fuoco e pietre che volano, i giornali sono in fibrillazione, i commentatori tra lo scatenato e l’attonito, la politica dissimula il brivido sulla schiena con una caterva di contumelie e intimidazioni. La Grande Minaccia, il pericolo per la democrazia, è una gioventù che ha scritto sul suo vessillo di guerra “non chiediamo il futuro ci prendiamo il presente!”.
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Sull’assalto neo-fascista alla Cgil, il prima e il dopo
di Tendenza internazionalista rivoluzionaria
1. A differenza della vulgata di stato e dell’anti-fascismo democratico (o di stato), la protesta di sabato 9 a Roma ha due aspetti che non coincidono: l’attacco neo-fascista alla sede della Cgil, la grossa folla dei manifestanti.
Che l’attacco fosse preordinato, è ovvio. Sia stato preordinato solo da Forza Nuova o no, l’essenziale è che è stata attaccata la sede della Cgil, non quella di Confindustria o del governo, i due poteri che hanno voluto e imposto il “green pass”.
Perché questo bersaglio? Di sicuro per approfondire la divisione tra i lavoratori iscritti a Cgil Cisl e Uil, in larga maggioranza aderenti al programma di vaccinazione, e i lavoratori non vaccinati, molti dei quali non sindacalizzati. Il “green pass” è il mezzo escogitato dal governo Draghi per spingere questi lavoratori alla vaccinazione così da eliminare ogni intralcio alla “ripresa” e per attizzare la divisione tra lavoratori vaccinati e non vaccinati, attribuendo ai padroni la potestà di licenziare anche per ragioni “sanitarie”. Nell’indicare la Cgil come prima responsabile di questa odiosa misura non sanitaria, i falsari di Forza Nuova hanno cercato di rendere ancora più profondo il solco tra proletari vaccinati e non vaccinati tracciato dal governo.
Ma il disegno politico che li ha portati in questa direzione va ben oltre il contingente della pandemia e del no al “green pass”. Forza Nuova, Casa Pound e altri gruppi della galassia neo-fascista, ciascuno con le sue proprie particolarità, puntano a raccogliere consensi, inquadrare e indirizzare in senso reazionario quelle componenti sociali, anche proletarie, che la crisi globale nella quale siamo immersi ha bastonato e gettato allo sbando, riempiendole di paure per il presente e per il futuro, e di risentimenti nei confronti di chi da tempo li ha abbandonati e traditi.
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L’anomalia di un pianeta che cresce
Cronache marXZiane n. 5
di Giorgio Gattei
1. Come ho raccontato nelle precedenti Cronache marXZiane, sono stato rapito nel 1968 dalla astronave “la Grundrisse” che mi ha trascinato sul pianeta Marx dove ho dimorato per parecchi anni studiandone la complessa composizione geologico-economica, che è fatta di prezzi di mercato (la “crosta”), di prezzi di produzione (il “mantello”) e di un “nucleo” di neovalore-lavoro che è poi la sua eccezionalità. Infine sono andato ad intervistare Saggio Massimo (del profitto) che mi ha parlato di sé e degli altri due Saggi (del pluslavoro e del profitto) che coabitano con lui sul pianeta, ma di cui lui resta il più importante tanto che lo chiamano, non a caso, Saggio Massimo. Al mio ritorno sulla terra non sono però rimasto convinto di quanto mi aveva detto a proposito della sua impossibilità di caduta tendenziale per la propria formulazione algebrica:
max r = R = m / q
dove alla crescita della Composizione del capitale rispetto al lavoro (q = K/L) per la logica necessaria dell’accumulazione del Pluslavoro/Profitto realizzato si oppone un andamento altrettanto a crescere della Produttività del lavoro (m = Y/L: il reddito rispetto al lavoro), essendo di fatto quel pianeta non solo un luogo di detenzione lavorativa, ma pure un posto di creatività ed innovazione che fa sì che il lavoro sia sempre più produttivo. Eppure non ne sono rimasto persuaso perché mi frullavano per il capo due frammenti di pensiero del primo grande “mappatore” del pianeta, quel Karl Marx che poi gli ha dato il nome, secondo cui la possibilità di compensare un andamento con l’altro «ha dei limiti insuperabili: la caduta del saggio profitto può essere ostacolata, ma non annullata» e poi anche che «il vero limite del pianeta è il pianeta stesso», insinuando che doveva esserci anche dell’altro oltre alla indeterminazione di cui si faceva forte Saggio Massimo.
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Crisi climatica e scosse telluriche
di Piero Pagliani
Sul finire (si spera) della crisi pandemica, Greta Thunberg è tornata a farsi sentire, più arrabbiata che mai. Mi dà l'idea di una creatura che incominciando a ragionare più autonomamente sia uscita fuori dal controllo dei propri occhiuti e interessati creatori. Speriamo che sia così. Fatto è che sta spiazzando i detentori di potere, che sembra stiano capendo in ritardo che la giovane Greta non è probabilmente più quella che se ne andava, con gran tripudio di tutti i media mainstream, a New York su un ecologico catamarano, spartano ma da 4 milioni di euro, messole a disposizione da un ricchissimo principino patron dell'ecologissima Formula 1 a Montecarlo e azionista della società di voli in elicottero del Principato di Monaco (cosa che le fece toccare un minimo locale di credibilità – speriamo che non ripeta più imprese simili e abbia capito che essere un ricchissimo signore di Montecarlo e uno sfruttatore/consumatore estremo di risorse è la stessa cosa, catamarano o non catamarano).
* * * *
Dopo il caldo insistente di questa estate, i meteorologi informano che con molta probabilità avremo un inverno con temperature sotto la media (con ritorno della neve in pianura). Colpa della Niña, cioè del raffreddamento della temperatura delle acque superficiali dell'Oceano Pacifico centrale ed orientale.
Chi è interessato a capire come la Niña e il suo fenomeno opposto, cioè il Niño, o se vogliamo il clima in generale, influenzino le vicende umane, sociali, economiche, politiche e geopolitiche, può leggere con profitto il libro “Olocausti tardovittoriani. El Niño, le carestie e la nascita del Terzo Mondo” (Feltrinelli, 2002) di Mike Davis.
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"Le prospettive in Afghanistan non sono così funeste come vorrebbe una certa narrativa"
di Alberto Bradanini
Le informazioni che giungono quotidianamente alla nostra attenzione su questo martoriato paese sono frammentate, spesso filtrate o manipolate.
In un mondo ormai orwelliano le parole hanno perso il loro significato proprio. Pace, progresso e libertà si usano per descrivere guerra, distruzione e schiavitù. Occorre muoversi in punta di piedi.
Oggi la conoscenza è ritenuta una facile acquisizione, mentre a uno sguardo attento non può sfuggire che siamo sudditi del regno della manipolazione, i cui pilastri sono costituiti da flash televisivi, articoli sotto dettatura, social network dominanti, inviati improvvisati. Davanti a una narrativa di segno unico, solo una minoranza tenta di uscire dal labirinto visitando biblioteche, librerie o qualche sito politicamente scorretto, sfidando il tedio ancor prima dell’inattendibilità.
Le distorsioni semantiche assumono poi un aspetto ancor più tragico quando si ha a che fare con universi lontani e ignoti come l’Afganistan, di cui ormai parla con dovizia di particolari persino il droghiere sotto casa. Su temi di politica estera, la Grande Menzogna è universale e sistematica.
Giornali e tv dei paesi occidentali attingono le notizie di base (o il silenzio su alcuni eventi, secondo convenienza) da tre agenzie di stampa, Reuters, AP (Associated Press), AFP (Agence France Presse), tutte con base finanziaria e proprietaria a Wall Street, allineate dunque agli interessi imperiali e corporativi americani.
Nel 1848, il Manifesto di Marx ed Engels affermava che un fantasma si aggirava per l’Europa e il suo nome era comunismo. Oggi un diverso fantasma si aggira per il Vecchio Continente (e non solo), e il suo nome non è comunismo, ma più banalmente confusione/impotenza: la nave in cui siamo imbarcati sembra ingovernata e senza meta, sebbene poi così non sia, poiché una potente oligarchia la guida da remoto a tutela di privilegi infiniti, mentre i bisogni dei popoli vengono ancora una volta calpestati.
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La centralità della riproduzione
di Christian Marazzi
Proseguiamo, con la trascrizione dell’intervento di Christian Marazzi, la pubblicazione dei contributi formativi del modulo «Crisi e riproduzione del capitale» della Summer School organizzata da «Machina» a inizio settembre 2021, promosso congiuntamente dai curatori delle sezioni «transuenze» e «vortex».
Al centro di questo ciclo di lezioni il rapporto tra continuità e discontinuità del capitalismo nella crisi aperta dallo shock pandemico. Covid 19, questo uno degli assunti del modulo, ha fornito ulteriore evidenza alla centralità odierna della «questione della riproduzione». Ai relatori e alle relatrici (oltre a Marazzi il percorso ha coinvolto Alisa Del Re, Sandra Burchi, Leopoldina Fortunati, di cui saranno prossimamente pubblicati i contributi, oltre agli economisti Fumagalli, Del Prieto e Brancaccio, già pubblicati qui) si è richiesto preliminarmente un inquadramento concettuale, poiché con lo stesso termine (riproduzione) ci si riferisce sovente a livelli del discorso differenti. Tra riproduzione sistemica, sociale, degli individui e delle loro capacità (e aggiungiamo, della specie e degli equilibri ecologici), in una società interamente plasmata dai rapporti capitalistici ci sono evidenti reciproche funzionalità, però vi sono anche aspetti peculiari e specifici.
Qui si parla soprattutto di riproduzione delle persone e della loro capacità di lavorare e dare valore. Il richiamo alla centralità odierna della riproduzione nel circuito della valorizzazione capitalistica potrebbe in questo senso fuorviare. Non dobbiamo scoprirla oggi, dopo cinquant’anni di critica femminista. Si tratta però di leggerne le trasformazioni e le forse inedite prerogative, alla luce delle trasformazioni intervenute nella sfera del produrre, dell’accumulazione, della valorizzazione. Tra le suggestioni a monte del ciclo d’incontri si richiama anche l’ipotesi, formulata da Romano Alquati in un testo del 2002 recentemente pubblicato da DeriveApprodi (Sulla riproduzione della capacità umana vivente), in cui l’autore ipotizzava che la riproduzione della capacità-umana si stesse progressivamente ponendo, per la prima volta, come luogo diretto e principale della valorizzazione capitalistica.
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La Cina è ad un punto di svolta?1
di Michael Roberts
Questa settimana si sono aggravati i problemi del debito che affliggono il mercato immobiliare cinese dopo il default di un’altra agenzia immobiliare causato dalle sue obbligazioni e dopo che Evergrande, il gruppo immobiliare più fortemente indebitato al mondo2, ha protratto per un secondo giorno la sospensione delle sue azioni senza dare spiegazioni. Fantasia Holdings, un’agenzia di medie dimensioni, che solo poche settimane fa ha rassicurato agli investitori di non avere "problemi di liquidità", ha dichiarato in una presentazione effettuata in Borsa che lunedì "non ha effettuato il pagamento" di un'obbligazione da 206 milioni di $ in scadenza quel giorno, innescando formalmente un default formale. L'insolvenza si aggiunge ai timori che la crisi di Evergrande possa diffondersi includendo un numero elevato di agenzie immobiliari cinesi, che rappresentano gran parte del mercato obbligazionario asiatico ad alto rendimento.
Il 23 settembre Evergrande non ha pagato degli interessi su un'obbligazione off-shore, innescando una proroga di 30 giorni prima di un default formale, e non ha ancora fatto alcun annuncio in merito. Ma anche prima che la crisi del debito del China Evergrande Group mandasse in tilt il settore immobiliare del paese, le società immobiliari cinesi erano impegnate nel riuscire a guadagnare abbastanza per pagare gli interessi sul loro debito. Alla fine di giugno, secondo i calcoli di Reuters basati sui dati Refinitiv, la quota aggregata di copertura degli interessi dei 21 grandi gruppi immobiliari cinesi quotati a Hong Kong è sceso a 0,94, il peggior risultato da almeno un decennio3.
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Lo stormo snobbato di cigni neri che popola le catene globali di approvvigionamento
di Fabrizio Russo
In retrospettiva sembra oggi impossibile che le principali autorità monetarie ed una pletora di osservatori mainstream qualificati non siano riusciti a cogliere, in un tempo peraltro ragionevole e quindi “per tempo”, la progressiva evoluzione delle condizioni di scenario delle principali economie occidentali da sostanzialmente deflattive – caratteristica propagata con forza pervasiva dal lungo processo di globalizzazione – a fortemente inflation-friendly.
Di cosa stiamo parlando? Della serie di eventi che si è stratificata nel giro di una decina di trimestri! Elenchiamoli, in modo sommario, iniziando da uno dei primi seri avvenimenti che hanno intaccato alla base il processo di globalizzazione – che forse sta declinando ma più probabilmente sta solo mutando profondamente – come oggi lo conosciamo: la guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, cominciata dall’Amministrazione Trump nel tentativo di ribilanciare lo squilibrio commerciale USA verso l’ormai affermata potenza economico-produttiva asiatica.
Mi permetto di definire questo evento come “serio” perché, sebbene avessi da tempo – anche per formazione accademica – iniziato a riflettere sul tema dell’inflazione, è da quel momento che ho preso seriamente l’ipotesi di una ripartenza sostenuta, del ciclo dei prezzi al consumo, o perlomeno di una loro forte fiammata.
A partire dal luglio 2018 l’introduzione di dazi su diverse produzioni cinesi (inizialmente il 25% su 34 mld di USD in controvalore) ha infatti comportato un immediato aumento dei prezzi lordi all’importazione. L’economia USA all’epoca marciava a velocità ancora sostenuta ed una parte significativa degli aumenti si è riversata sui consumatori finali, come è possibile verificare dal seguente grafico di Goldman Sachs diffuso da CNBC:
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Marx, Il Capitale, I (1-4).
Una guida per principianti.
di Antonino Morreale
Premessa
Prendiamo qui in esame il primo libro del Capitale1. Ci occuperemo dei primi quattro capitoli: 1. la merce, 2. il processo di scambio, 3. il denaro, 4. la trasformazione del denaro in capitale.
Quanto basta per entrare appena nell’argomento centrale dell’opera2 . Avremo però modo di esporre alcune questioni essenziali. Marx, infatti, rivendica a questi primi capitoli due dei suoi maggiori contributi alla scienza economica3: la duplice natura del lavoro contenuto nella merce, e la “forma di valore”.
1. La circolazione semplice nella “immane raccolta di merci”.
L’ipotesi di questo studio è che i primi quattro capitoli del Capitale possano essere analizzati, senza forzature, come una sola unità. L’unitarietà è data dal livello stratigrafico costruito da Marx, e sul quale ha lavorato, quello della “circolazione semplice delle merci”. Marx dedica molta cura a delimitarlo. Partendo dalla “merce”, ci conduce alla genesi del “denaro”, per giungere fino alla “compravendita della forza-lavoro”, con cui, una netta discontinuità, un” salto”, chiude una storia e ne comincia un’altra.
La ricchezza delle società in cui domina il modo di produzione capitalistico si manifesta fenomenicamente come una “immane raccolta di merci”, la merce singola come sua forma elementare. La nostra indagine comincia perciò con l’analisi della merce”4.
Illimitata in estensione, quindi, ma dallo spessore sottile, appena una “superficie”, quella della circolazione delle merci. E ancora nulla da dire, per ora, su ciò che sta “prima”, il passato precapitalistico; né su quel che sta “sotto”, la produzione; ma, solo la circolazione semplice delle merci nella società capitalistica.
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Un prospettiva sulle mobilitazioni contro il Green Pass a Trieste
di alcune compagne e compagni di Trieste
Riceviamo e diffondiamo:
Premessa
Scriviamo questo contributo per provare a mettere nero su bianco l’esperienza che stiamo facendo da aprile, ed in particolare nell’ultimo mese e mezzo, all’interno del movimento contro il Green Pass a Trieste, sperando possa essere utile per il dibattito.
Si tratta di un percorso che, per quanto ci è noto, ha acquisito una serie di specificità che lo differenziano da alcune altre piazze calde nel resto d’Italia, o che perlomeno lo smarcano da una lettura univoca, soprattutto adottando un punto di vista militante. Dopo i recenti fatti romani, infatti, è ritornata ad imporsi su tutto il movimento contro il lasciapassare verde l’ombra di un’egemonia fascista o comunque la sua interpretazione come un fenomeno piccolo borghese, assimilabile alle piazze dei commercianti per le riaperture, organizzate nell’ultimo anno e mezzo.
Qua a Trieste, invece, abbiamo intravisto e attraversato delle potenzialità nuove, che danno forma ad un movimento per certi versi assimilabile ai gilet jaunes francesi, con una forte connotazione di classe e ben distante dalle derive destrorse che dominano la narrazione mediatica. Non si tratta di negare l’esistenza – in potenza – anche di queste derive, ma al contrario di aprire la complessità di questo movimento, senza ridurla ad un ammasso confuso di pulsioni egoiste, facile preda di gruppi neofascisti e della destra aperturista.
Nascita
Dalla primavera del 2021, e per tutta l’estate, si sono susseguite a Trieste diverse piazze che hanno messo in discussione la “verità sui vaccini” e finanche l’esistenza stessa – o la nocività – del virus Sars-Cov2. Diffuse prevalentemente tramite messaggi nelle chat, queste manifestazioni sono state organizzate, di volta in volta, da gruppi come il Movimento 3v (partito nato per opporsi agli obblighi vaccinali che proprio qua a Trieste ha visto il miglior risultato alle recenti elezioni comunali, guadagnando il 4,5 % dei voti – anche se con affluenza bassissima del 45%), o dall’Associazione Alister, storico presidio locale impegnato nella critica ai vaccini.
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Fight the FIRE – in memoria di David Graeber
di Leo Essen
I
Il 23 settembre, nel primo anniversario della morte di David Graeber, in un incontro promosso dalla Royal Society of Arts di Londra, gli economisti Michael Hudson e Thomas Piketty hanno discusso del debito, un tema caro a Graeber.
Secondo Piketty, in futuro ci sarà di nuovo un altro consolidamento del debito - un massiccio consolidamento del debito.
Come avverrà questo consolidamento?
Nella storia recente, dice Piketty, ci sono due episodi di azzeramento del debito, tutti e due davvero impressionanti.
Il primo si verificò durante la Rivoluzione francese. Il sistema politico (l’amministrazione) non riusciva a far pagare chi avrebbe dovuto pagare le tasse, allora esplose il debito. La rivoluzione fu la soluzione. Essa consolidò il debito, in parte attraverso l’inflazione, in parte attraverso la tassazione. Nello stesso tempo finirono i privilegi fiscali dell’aristocrazia.
Il secondo episodio si verificò dopo la seconda guerra mondiale, tra il 1945 e il 1950. La maggior parte delle economie dei paesi ricchi era gravata da un debito pubblico enorme, ancora più grande di quello di oggi. Alla fine, dice Piketty, si scelse, insieme, di non pagare il debito. Ciò accadde usando diverse strategie – inflazione, cancellazione, etc. La Germania, in particolare, vi riuscì, da una parte, promuovendo una riforma monetaria, e, dall’altra, attraverso una tassazione progressiva dei detentori di ricchezze molto alte. Non era un sistema perfetto, ma, rispetto ad altri modi adottati in passato, dice Piketty, era certamente uno dei modi più equi o, almeno, non iniqui.
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Allarme son fascisti
di Piotr
Anche l'Huffington Post e il Corriere della Sera, pur adusi a lanciare gridolini alla groupie a beneficio del governo Draghi, se ne sono accorti.
Ecco il vicedirettore dell'Huffington Post:
«A una settimana dal voto, la protesta, entrata in sonno nelle urne, si è rovesciata nelle strade. [...] Diciamoci la verità: una parte del dibattito pubblico, che chiama in causa classi dirigenti e intellettuali, si è illusa del ritorno alla “normalità”, come se tutto fosse finito, in un’orgia di retorica sulla “ripartenza” che oscura il dato di fondo di questa crisi. E cioè che la pandemia non è l’inceppo di un motore da riaccendere, ma la devastazione di un paese da “ricostruire”, con fatica: economicamente, socialmente, moralmente.»
Questo invece è Giovanni Bianconi sul Corriere della Sera:
«Ma accanto a queste abituali presenze, è comparso qualcosa di diverso. In strada, pronte a fronteggiare i celerini in tenuta antisommossa, c’erano persone a viso scoperto, uomini e donne non più giovani che gridavano esasperati, immobili e quasi indifferenti al getto degli idranti. Presenze quasi “spiazzanti” per chi deve resistere e se del caso caricare. […] A sostegno, o a rimorchio, di chi potrebbe fomentare e strumentalizzare i disordini c’è una parte di popolazione — minoritaria, ma capace di cambiare volto ai raduni — decisa a non arrendersi alle decisioni del governo. Persone che hanno poco o niente a che fare con le frange violente conosciute, ma che evidentemente sono pronte alla sfida.»
1. Diecimila persone a Roma, cinquemila a Milano, mille a Belluno (Belluno!). E il martedì precedente quindicimila persone a Trieste. Numeri forniti dalle questure. Non passa giorno che migliaia di cittadini italiani non scendano in piazza per protestare contro il green pass draghiano.
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Commissariare il parlamento
di Alessandro Somma
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza e le sue condizionalità
Presentato come un segno della solidarietà e generosità dell’Europa unita, il Pnrr è in verità tutt’altro. In questa prima parte del contributo vedremo perché i soldi di cui si parla sono in realtà pochi e tutti da restituire, per poi illustrare le condizionalità cui sono collegati: innanzi tutto quelle che impongono una sana governance economica, ovvero l’austerità. Nella seconda parte ci dedicheremo alle condizionalità che riguardano la tutela della concorrenza e che comportano liberalizzazioni e privatizzazioni. Concluderemo riflettendo sulla finalità prima del Pnrr: impedire la partecipazione democratica in quanto ostacolo al definitivo consolidamento dell’ortodossia neoliberale.
Pochi soldi tutti da restituire
Tra gli strumenti predisposti dall’Unione europea per affrontare la crisi determinata dall’emergenza sanitaria, occupa un posto di rilievo il Next generation Eu: un pacchetto di sovvenzioni e prestiti per 806,9 miliardi di Euro ai prezzi correnti, erogati nell’ambito del quadro finanziario pluriennale per il periodo 2021-27 (il cui valore è di complessivi 2018 miliardi). La parte più consistente di questi denari verrà distribuita dal Fondo per la ripresa e la resilienza (Recovery and resilience facility), la cui dotazione ammonta a 723,8 miliardi[1], così suddivisi: 338 miliardi in sovvenzioni a fondo perduto e 385,8 miliardi in prestiti da restituire.
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Il Circolo Panzieri di Modena e l’enigma dell’organizzazione
L’operaismo emiliano dalla fabbrica al territorio
di Matteo Montaguti*
La recente scomparsa di Marcello Pergola, protagonista insieme a Paolo Pompei e Guido Bianchini della vicenda dell’operaismo emiliano, può essere l’occasione per ricordare un patrimonio di esperienze per molto tempo relegato ai margini della ricostruzione e della memoria sugli anni Sessanta e Settanta, che solo da poco tempo, grazie all’interesse crescente di giovani ricercatori e iniziative editoriali, comincia a essere riscoperto. Al centro di questo scritto si Matteo Montaguti è infatti il Circolo Panzieri, qui considerato non come luogo fisico ma come percorso politico di una collettività militante, tra le esperienze più significative del «lungo Sessantotto» di Modena. Animato da figure intellettuali dallo spessore di Pompei e Pergola, ha saputo esprimere tratti di originalità politica non solo a livello locale: è stato infatti protagonista, fin dalla seconda metà degli anni Sessanta, di traiettorie di respiro nazionale nell’ambito della costellazione operaista poi cristallizzatasi in Potere operaio, contribuendo a forgiare e sperimentare quel «pensiero del conflitto» ancora oggi preziosamente inattuale.
* * * *
A Paolo Pompei (1937-2003)
e Marcello Pergola (1933-2021)
Operaismo sotto la Ghirlandina: breve storia del Circolo Panzieri [1]
Il primo nucleo di operaisti modenesi, essenzialmente costituito da intellettuali-militanti per la gran parte insegnanti e provenienti dalle file del Psiup, comincia a muovere i primi passi a partire dal 1965, nel tentativo – ancora sotto le rispettive sigle partitiche – di stabilire un approccio diretto con gli operai di alcune fabbriche attraverso l’attività della conricerca, elaborata negli anni precedenti intorno alla rivista «Quaderni rossi».
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Pnrr, chi l’ha visto?
Alba Vastano intervista Andrea Del Monaco*
Intervista ad Andrea Del Monaco, esperto in Fondi Europei. “Per avere i prestiti del Recovery Mario Draghi dovrà fare le “riforme”: non solo quelle buone, ma principalmente (mirando alla contrazione del deficit) il taglio delle pensioni, una nuova tassazione sulle case, nuove privatizzazioni (in primis sanità) e flessibilizzazione ulteriore del lavoro. La Commissione Europea potrà sospendere i pagamenti del Recovery Fund qualora uno Stato Membro non abbia corretto il disavanzo eccessivo o qualora non abbia adempiuto ad un programma di aggiustamento macroeconomico (un memorandum di austerità)”
‘Sono in arrivo dall’Europa miliardi di euro e l’economia italiana ripartirà alla grande’. E’ la storiella che ci raccontano lorsignori, i nostri governanti, dai notiziari mainstream. C’è qualche dubbio che così non sarà. Non sta per scendere dalla slitta Babbo Natale con la gerla piena di doni. Per saperne di più su queste promesse di pioggia di euro e su quanto di vero vi sia nelle news filtrate dai media chiediamo lumi sulla questione ad Andrea Del Monaco, fra i maggiori esperti in fondi europei.
* * * *
Alba Vastano – Il Piano nazionale Ripresa e Resilienza sembra sia in fase di attuazione. Nell’attesa di saperne di più sarà opportuno fare un excursus che ricordi cos’è il Mes e come si è arrivati al Recovery Fund (Next generation Eu).
Andrea Del Monaco – Il MES, Meccanismo Europeo di Stabilità è un trattato internazionale, sottoscritto nel 2012 (per l’Italia dal Governo Monti) e ratificato alla fine da tutti i 27 gli Stati Membri: non è un trattato europeo perché allora la Gran Bretagna non lo sottoscrisse. Il MES è il terzo degli strumenti creati nella crisi post 2008 e ha “aiutato” Cipro, Grecia e Spagna. De facto è un fondo salva-banche: formalmente ha salvato le banche greche e spagnole, debitrici delle banche francesi e tedesche; sostanzialmente i contribuenti europei, pagando il MES, hanno salvato le banche francesi e tedesche creditrici delle banche greche e spagnole. Il MES e gli altri due strumenti salva-banche sono costati all’Italia 60 miliardi di Euro.
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L’uomo della necessità
di emmeffe
La relazione conclusiva di Carlo Bonomi all’assemblea nazionale della Confindustria del 23 settembre è uno di quei documenti che dovrebbero essere studiati per intero nei manuali di filosofia politica. Ci sono tre tipi di animali politici nella fauna italiana, scrive il Filosofo: l’Uomo della Provvidenza, l’Uomo della Possibilità, infine c’è l’Uomo della Necessità.
L’Uomo della Provvidenza, come è noto, fu Benito Mussolini. In che senso incarnava la figura della Provvidenza? Nel senso che, alla società del periodo, la rivoluzione proletaria sembrava davvero alle porte, serviva un intervento miracoloso, anti-storico, per salvare la borghesia e schiacciare le rivendicazioni operaie. Bonomi finge di non ricordare il sostegno che la sua Confindustria diede all’ascesa del fascismo, schernendosi dietro all’affermazione anti-fascista: «mai più uomini della provvidenza»!
Gli «uomini del possibile» sono quelli che nascono da una società democratica che liberamente sceglie una o l’altra opzione politica. Dove è ancora possibile la scelta. Ma ai padroni non piacciono nemmeno loro, in quanto, spiega il Filosofo, hanno «un occhio sempre mirato al consenso di breve periodo», cercano di «evitare scelte coraggiose», temono eccessivamente «delusione e scontento». Sono «campioni mondiali di un’unica specialità»: «Il calcio alla lattina, il rinvio eterno al futuro di qualunque soluzione efficace».
Infine c’è Lui, l’Uomo della Necessità. «Ecco, Mario Draghi è uno di questi uomini, uomini della necessità». E parte la serenata. Il padrone si mette a recitare la parte del cortigiano, ricorda la lunga disonorata carriera del nostro Presidente del Consiglio, dalla Banca d’Italia al Financial Stability Board, fino ai nove anni al timone della Banca Centrale Europea. Lunga vita all’Uomo della Necessità:
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