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Gig-economy: se il codice è legge
di Gianluca De Angelis
Questo contributo è tratto da un intervento proposto in occasione della conferenza internazionale Logistics: Labour, Infrastructures, Territories, tenutasi il 3 e il 4 Aprile 2017 e organizzata dal Dipartimento di Filosofia, Sociologia e Psicologia Applicata dell’Università di Padova[1]
Ci siamo trovate a maturare la nostra coscienza
civica, il nostro impegno sociale all’interno di u
contesto dominato da un linguaggio che non siamo
noi a parlare. È il linguaggio che parla noi, perché è
un linguaggio costruito e manipolato retoricamente
per definire i confini in quel mondo: i diritti che hai,
quanto li puoi esercitare, le relazioni che costruisci e
il modo di gestirle. Se tu contravvieni ai codici ne
vieni espulsa perché quel mondo è costruito come
narrazione per essere il mondo. E quando sei fuori
da quell’universo ti viene anche strappata la lingua
per dire quello che ti è successo e ti viene rovesciata
addosso la responsabilità. La frusta dell’oltre, appunto.
da Il bene, il male e i loro campioni;
Luca Rastello
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Dal femminismo dell'élite alle lotte di classe nella riproduzione
G. Souvlis e A. Čakardić intervistano Cinzia Arruzza
Cinzia Arruzza insegna Filosofia presso la New School for Social Research di New York. Il suo libro più recente è Storia delle storie del femminismo (con Lidia Cirillo, 2017). Tra gli altri suoi testi ricordiamo Le relazioni pericolose (2010) e Il genere del capitale (nella Storia del Marxismo a cura di S.Petrucciani) che è stato uno dei Libri dell’Anno 2016 di PalermoGrad.
Puoi dirci in breve qualcosa sulle esperienze della tua formazione intellettuale e politica?
Questa è una domanda difficile, perché sono diventata un’attivista all’età di tredici anni, e a partire da allora questo fatto non ha mai smesso di dare forma alla mia vita, nella sua interezza. Se dovessi identificare le esperienze che hanno maggiormente influito sul mio impegno politico e sul mio modo di pensare, potrei fornire l’elenco che segue. Anzitutto, il fatto di provenire da una famiglia povera siciliana, il che mi ha messa a contatto con l’ingiustizia e le diseguaglianze di classe, con il sessismo, con il razzismo culturale ‘soft’ nei confronti della gente del meridione (specialmente negli anni Novanta, quando la Lega Nord ebbe un’impennata sulla base di un programma antimeridionale). Quando avevo meno di vent’anni, i punti di svolta nel mio processo di politicizzazione furono le conversazioni con un insegnante di storia e filosofia della scuola superiore, che era un vicino di casa e un amico, la lettura del Manifesto del partito comunista, quella di Stato e rivoluzione di Lenin, e la partecipazione, da studentessa della scuola superiore, alla lotta degli operai di una fabbrica della Pirelli della mia città, che stava chiudendo e stava licenziando centinaia di operai che non avevano alcuna speranza di trovare un altro lavoro, dato il livello di disoccupazione in Sicilia.
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Il Capitale secondo Vilfredo Pareto
di Sebastiano Isaia
Nicola Porro ha letto – o riletto – Il Capitale di Vilfredo Pareto, un saggio critico scritto dall’eminente sociologo ed economista italiano nel 1885, e ripubblicato quest’anno dall’editore Aragno, e ne è rimasto letteralmente estasiato: «È favoloso vedere la lucidità di Pareto e scorgere in alcune sue critiche al marxismo, alcuni tic che ancora contraddistinguono il pensiero dominante e collettivistico di oggi». Già solo questo ammirato giudizio ci fa comprendere quanto poco Porro abbia compreso Il Capitale marxiano, e questo, come vedremo, anche sulla pessima scia di Pareto (1). Con quanta superficialità e assenza di cultura storica Porro si approccia a Marx e al cosiddetto marxismo è ben rivelato dagli spassosi passi che seguono: «Alla fine dell’Ottocento Karl Marx è una star. È un Saviano [che faccio, rido?], si parva licet [ah, ah, ah!], su scala globale: è la cosa giusta, scritta nel momento giusto, e appoggiata dai salotti giusti. Sono in pochi a contestarlo [come no!]. Il socialismo è agli inizi, ma gode di grande fama». Ai «salotti giusti» è sufficiente aggiungere i «poteri forti» i «giornaloni» e i salotti radical-chic, ed ecco Marx trasformato in un Bertinotti qualunque, in un protagonista della scena politico-mediatica dei nostri miserabili tempi. Ma che film storico ha visto il signor Porro? Affari suoi, comunque, e del resto lui scrive per un pubblico che non vuole ragionare criticamente, ma desidera piuttosto intrupparsi in una delle tifoserie che movimentano la scena politica di Miserabilandia.
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Per un approccio a “Sulle orme di Marx” di G. Carchedi
di Mauro Luongo
La recente pubblicazione del lavoro di Guglielmo Carchedi “Sulle orme di Marx. Lavoro mentale e classe operaia”, da parte delle Rete dei Comunisti e Noi restiamo, è una scelta politica- editoriale che non passa inosservata.
Quello di Carchedi è un lavoro che, in piena continuità con la sua elaborazione, potremmo definire di “frontiera”, il cui ancoraggio al metodo analitico marxiano, alla dialettica, si impone prepotentemente nella ricerca di categorie analitiche idonee a comprendere il modello di accumulazione nella attuale fase di sviluppo. Non dovrebbe essere necessario ma, a scanso di equivoci, non si tratta di un lavoro di filosofica teoretica, una speculazione intellettualistica sulla conoscenza, bensì di una ponderata e articolata, pur nella sua forma sintetica dell’opuscolo, indagine sulla funzione della conoscenza nel processo di produzione del valore e del ruolo svolto dall’appropriazione capitalistica del sapere, conoscenza-informazione, nel punto più alto del generale processo di produzione nell’attuale modello di accumulazione, la cosiddetta economia digitale.
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“Houston, abbiamo un problema”
Andrea Aimar
Le trasformazioni tecnologiche di Industria 4.0 ci pongono di fronte due strade: subire questo progetto di trasformazione guidato dall’interesse di pochi oppure tentare di guidarlo nell’interesse di tanti. Un dibattito in vista del G7 di settembre a Torino
Sono nomi di computer ad alta potenza di calcolo, software, start up, piattaforme: YuMi, StasMonkey, Watson, Tug, Sedasys, Coursera, Shutterstock, Digits, Warren, e-discovery, Baxter, Iamus, Workfusion, Sawyer. Rappresentano il presente dell’innovazione e l’anticipazione di un futuro probabile dove il lavoro umano diminuirà.
49% [1]o 47%[2]le ipotesi più radicali, 9% [3]quelle più caute, 35%[4] per chi preferisce una via di mezzo: dietro le percentuali i posti di lavoro che verrebbero bruciati dall’innovazione tecnologica. Tecnologie delle reti e dell’informazione, robot, macchine potentissime, big data: è più o meno questa la ricetta che si aggira per il mondo promettendo rivoluzioni digitali e industrie 4.0.
Chi minimizza ricorda l’introduzione del telaio meccanico a fine Ottocento e l’automazione degli anni ‘70 e ‘80: sembrava la fine del mondo ma era solo l’inizio di qualcosa di nuovo. Si bruciano posti di lavoro ma si ritrovano da altre parti. Ma assai più del “vissero tutti felici e contenti” sembra convincere la narrazione a la “Houston, abbiamo un problema”.
A guardarla da vicino, questa rivoluzione guidata da algoritmi intelligenti, sembra davvero un’altra storia.
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Il consenso logora chi non ce l'ha
Specialmente se non ha (più) idea di come ottenerlo
di Quarantotto
1. In un articolo intitolato significativamente "Il partito democratico rimane sull'orlo del collasso", Zero Hedge cita Bloomberg in un passaggio che mi pare riassuma il punto fondamentale:
"Un presidente come Donald Trump che ha i sondaggi di gradimento storicamente più sfavorevoli, può almeno consolarsi per questo: Hillary Clinton sta facendo peggio.
La rivale democratica del 2016 è vista con favore solo dal 39 percento degli Americani nell'ultimo Bloomberg National Poll, due punti sotto allo stesso Presidente in carica! Si registra così il secondo peggior indice di gradimento per la Clinton da quando viene seguita da questo tipo di sondaggio nel settembre 2009.
La ex segretaria di Stato era sempre stata una figura controversa, ma questa inchiesta mostra che ha addirittura perso di popolarità tra quelli che l'avevano votata a Novembre.
Più di un quinto dei votanti per la Clinton affermano di avere una visione negativa di lei. Per fare un paragone, solo l'8 percento dei probabili votanti per lei dichiaravano di sentiri così nel sondaggio finale di Bloomberg prima delle elezioni, mentre solo il 6 percento dei votanti per Trump asseriscono ora di valutarlo in modo sfavorevole.
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L’Internazionale Situazionista: merce, desiderio e rivoluzione
di Sandro Moiso
Gianfranco Marelli, L’AMARA VITTORIA DEL SITUAZIONISMO. Storia critica dell’Internationale Situationniste 1957- 1972, Mimesis Edizioni 2017, pp.456, € 26,00
A sessant’anni esatti dalla Conferenza di Cosio d’Arroscia (Imperia) del 28 luglio 1957 che ne stabilì di fatto la nascita, l’Internazionale Situazionista continua a costituire una sorta di oggetto volante non identificato della teoria politica e della critica radicale dell’arte, della cultura e della società capitalistica avanzata.
Anche se il suo equipaggio, nel corso dei suoi quindici anni di vita, comprese complessivamente non più di 70 persone (di cui soltanto sette donne), “Navigare sul mare della storia del situazionismo non è certo facile” come afferma Gianfranco Marelli al termine del suo lungo, dettagliato, appassionato e sofferto studio di quello che può essere ancora definito come uno dei movimenti più radicali della seconda metà del ‘900 e forse l’unico le cui principali formulazioni possano ancora costituire, almeno in parte, un’eredità immarcescibile per l’azione sociale antagonista nel secolo in cui siamo entrati, quasi senza accorgercene, ormai da un ventennio.
Gianfranco Marelli si occupa dell’argomento da più di venti anni e l’attuale pubblicazione di Mimesis costituisce la ristampa, ampliata e arricchita (72 note a piè di pagina e 50 pagine in più rispetto alla precedente) del testo pubblicato per la prima volta nel 1996 dalle Edizioni BFS di Pisa.
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Contro il regime del salario
Sul dominio del tempo tra fabbrica e metropoli
di Eleonora Cappuccilli
Un nuovo regime di produzione che mette a valore l’autonomia e l’autoimprenditorialità; una nuova società dell’io; una nuova economia che si poggia sul lavoro gratuito: questa è l’immagine superficiale dell’economia politica ai tempi del neoliberalismo. Poi c’è il dominio violento che fa leva sul potere pastorale; la rete come modello dello sfruttamento; il lavoro salariato malpagato e ricattato: questa è la faccia nascosta del regime del salario attuale, quel puzzle di condizioni di vita e lavoro dentro e contro cui siamo costretti a muoverci. Guardando da entrambe le prospettive il neoliberalismo appare come un enigma irrisolto, eppure proprio la convivenza di due modelli inconciliabili sembrerebbe costituire la ricetta del suo successo senza storia e senza fine. Lungi dall’essere un insieme monolitico e onnicomprensivo, il neoliberalismo si dà sotto vesti differenti, in luoghi sconnessi. Di volta in volta, mostra un lato diverso per ingannare gli astanti, convincendoli di poter trovare la soluzione allo sfruttamento, anzi, meglio, la chiave per innescare la rivolta, se solo si posizionassero correttamente. In questa rincorsa al nuovo paradigma, si rischia di perdere la bussola per strada.
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Ripensare la politica fiscale
di Andrea Terzi
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Finanza, economia reale e politica anti-ciclica
Dieci anni fa cominciava a muoversi la colossale frana finanziaria che avrebbe portato, tra l’altro, al tracollo di Bear Stearns e al fallimento di Lehman Brothers, due tra le maggiori banche d’affari del mondo. In un ciclo economico alimentato principalmente dal debito privato, la fragilità finanziaria finì per avere un formidabile impatto sull’economia reale. Dopo Lehman, l’economia mondiale cambiava decisamente passo, entrando in una profonda recessione. A quel punto, si manifestava fatalmente la vulnerabilità della politica economica nell’area euro fino al punto da mettere a repentaglio la sopravvivenza stessa della moneta unica.
La lunga crisi non è affatto archiviata. Passata la recessione, la crescita negli Stati Uniti è stato troppo modesta per poter riagguantare il sentiero tendenziale (FIGURA 1).
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La classe tra primo e secondo operaismo
Operaio massa e operaio sociale a confronto
di Daniele Ilardi
In alcuni suoi scritti di fine anni ’50, l’operaista Romano Alquati modella alcune categorie essenziali per le analisi sull’ organizzazione capitalistica del lavoro e la conflittualità operaia: la più importante di queste è sicuramente la “composizione di classe”. Infatti è possibile leggere l’intero percorso operaista a partire dalla teoria composizionista, sviluppo della teoria marxiana sulle classi, fornendo le basi per l’avvento delle figure storiche di Tronti e di Negri. Essa consiste nell’analisi del nesso tra connotati oggettivi e soggettivi della forza lavoro, cioè tra una particolare composizione tecnica e una specifica composizione politica. La prima designa i livelli sociali di produzione, la quantità e la qualità dei bisogni della forza lavoro; la seconda considera i comportamenti politici, sociali e morali in grado di determinare bisogni e forme di lotte necessarie alla classe operaia.
A distanza di molti anni, la teoria composizionista rimane uno dei temi operaisti più riconosciuti, soprattutto per il rilievo che assumerà a partire dagli sviluppi del pensiero trontiano in Classe Operaia. In seguito all’esperienze in fabbrica statunitensi e francesi, per Romano Alquati l’inchiesta sulla composizione di classe coincideva con l’intervento politico: essa si doveva far carico di organizzare la lotta operaia. Da questa connessione nasce la pratica di inchiesta ideata da Alquati: la con-ricerca.
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Appunti politici: Visalli e i migranti
di Ennio Abate
Questi appunti si confrontano con l’articolo di Alessandro Visalli, Poche note sulla questione dell’immigrazione: della svalutazione dell’uomo. apparso sul suo blog e segnalatomi da Cristiana Fischer (E. A.)
Ma in sostanza che dice o suggerisce Visalli sulla questione dei migranti?
Vediamo prima il suo ragionamento. Con l’integrazione nell’Europa e la mondializzazione, Il sistema produttivo italiano (io aggiungerei ‘capitalista’), risulta «schiacciato da una parte dalla pressione competitiva generata dai prodotti ad alta specializzazione e contemporaneamente basso costo del nord Europa […] e dall’altra da quelli a media specializzazione e basso prezzo derivanti dai mercati asiatici». E si sta dividendo in almeno tre settori: uno piccolo che si trova delle nicchie nel gioco competitivo internazionale e occupa sempre meno lavoratori; un altro, che si rivolge al mercato interno, esporta prodotti poveri e a bassa tecnologia, non fa investimenti e sfrutta sempre più intensamente i lavoratori; e uno enorme – quello dei servizi – dov’è «massima la frammentazione, la precarietà, e la bassa produttività e dove gli investimenti sono assolutamente nulli».
A questo punto entrano in scena i migranti. Visalli ricorre a uno studio del 2014 dell’ Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) per dirci che per loro «l’Italia negli ultimi quindici anni è il paese con maggiore capacità di attrazione» proprio «a causa di una persistente domanda di forza lavoro a bassa qualifica e bassi salari».
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La nostra economia dell’obsolescenza
di Steven Gorelick
Un mio amico indiano racconta una storia riguardo all’aver guidato una vecchia Volkswagen Beetle dalla California alla Virginia durante il suo primo anno negli Stati Uniti. In una singolare tempesta di ghiaccio in Texas è finito fuori strada, lasciando l’auto col parabrezza rotto e portiere e parafanghi malamente ammaccati. Quando è arrivato in Virginia ha portato l’auto in una carrozzeria per una stima della riparazione. Il proprietario le ha dato un’occhiata è ha detto: “E’ irrecuperabile”. Il mio amico indiano è rimasto sconcertato: “Come può essere irrecuperabile? L’ho appena guidata fin qui dal Texas!”
La confusione del mio amico era comprensibile. Anche se “irrecuperabile” suona come una specie di termine meccanico, è in realtà un termine economico: se il costo della riparazione è superiore a quanto varrà l’auto dopo, la sola scelta economica “razionale” e portarla dallo sfasciacarrozze e comprarne un’altra.
Nelle “società a perdere” del mondo industrializzato, questo è uno scenario sempre più comune: il costo di riparazione di stereo, elettrodomestici, utensili elettrici e apparecchi di alta tecnologia supera il prezzo di comprarne di nuovi.
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I comunisti, le ragioni e la forza
di Rete dei Comunisti
Parlare di Partito Comunista qui ed ora non è certo cosa facile e da l’idea di parlare di un altro mondo e di un’altra epoca tanto è stata devastante la storia delle organizzazioni comuniste di questi ultimi decenni in Italia ma anche nel resto dell’Europa. Questa constatazione e lo stato d’animo che ne deriva, che ha spinto molti militanti a rivolgersi verso altri orizzonti anch’essi bruciati in tempi molto rapidi, ci deve invece spingere ad operare un salto di qualità teorico nell’affrontare la questione del partito che in realtà è la questione di come le classi subalterne resistono e reagiscono allo stato attuale delle cose. Parlare di partito significa dunque parlare della classe con cui abbiamo a che fare, reale e non mitologica, ma significa avere anche una idea dei processi generali e di quelli storici che stanno modellando il mondo attuale.
Se abbiamo dato una lettura dei processi storici legata al rapporto contraddittorio tra sviluppo delle forze produttive e rapporti sociali di produzione individuando fasi egemoniche e fasi di crisi non possiamo non leggere sotto questa luce anche la storia delle organizzazioni del movimento operaio.
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Povertà e debito, gli strumenti del controllo sociale
di Andrea Fumagalli
Negli ultimi mesi sono stati pubblicati due libri che trattano della povertà e del debito: due condizioni oggi sempre più interdipendenti e strutturali.
Il primo è un bel saggio di Marco Fama, giovane ricercatore dell’Università della Calabria: Il governo della povertà ai tempi della (micro)finanza (Ombre Corte, Verona, 2017, pp. 180, Euro 15,00, prefazione di Stefano Lucarelli, postfazione di Carmelo Buscema).
Il titolo è già di per sé esplicito. Marco Fama ha condotto ricerche sul microcredito, sulla finanziarizzazione, sulla povertà e sullo sviluppo rurale in Messico e Nicaragua durante il suo dottorato in sociologia dei fenomeni politici[1]. Ha potuto così acquisire una solida base analitica per estendere il discorso sul fenomeno della povertà anche ai paesi occidentali a capitalismo maturo. Al punto che nel primo capitolo l’autore compie una vasta panoramica delle trasformazioni dei mercati finanziari come strumento di biopotere sugli individui.
Il concetto di povero ha sempre avuto un significato ambiguo e ambivalente.
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I caratteri variegati della democrazia
Salvatore Biasco
Le riflessioni di Salvati sullo stato della democrazia in Occidente sono da par suo penetranti e piene di suggestioni analitiche. Il suo punto di vista, anche dove non convinca pienamente, è innegabile che contenga sempre un elemento di verità. Non sono, tuttavia, le singole affermazioni - delle quali, appunto, accetto il contenuto di verità - a spingermi a scrivere queste note, ma la necessità di inquadrare meglio il senso complessivo dell’articolo e l’ispirazione che muove quelle riflessioni, in una sorta di ragionamento ad alta voce. Non ho capito se il suo bersaglio polemico (o meglio la correzione di giudizio che Salvati auspica) sia diretto a coloro che ripropongono l’adozione integrale di un approccio «socialdemocratico», o indirizzato a demitizzare il «mito» dei «Trenta gloriosi» dal punto di vista della qualità democratica, a introdurre una categoria di giudizio da non dare per acquisita (l’eccezionali-tà delle condizioni esterne), o a mettere in guardia da facili semplificazioni di analisi di un fenomeno complesso.L’incipit è una domanda sulle ragioni che spieghino il coro di analisi sul peggioramento odierno della qualità democratica nei capitalismi occidentali. Salvati non è evidentemente convinto che quel peggioramento vada preso per scontato, non perché non veda gli aspetti problematici della democrazia oggi, ma perché ritiene che nei due secoli in cui è stata il sistema politico prevalente ha manifestato, talvolta anche con maggiore gravità, i problemi che oggi appaiono così evidenti.
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L’effetto contagio dei movimenti urbani globali
Intervista a David Harvey
Intervista al geografo marxista sulla traiettoria del suo pensiero e gli snodi politici del presente
L’intervista è stata realizzata giovedì 29 giugno a Bologna, dove Harvey era presente per la Summer School «Sovereignty and Social Movements» organizzata dall’Academy of Global Humanities and Critical Theories
. Abbiamo evidenziato col grassetto i passaggi politici a nostro avviso più significativi dell’intervista, che spazia dall’interpretazione di Marx all’analisi del capitalismo, dalla relazione tra mutazioni dello Stato e della città nel contesto neoliberale fino a una riflessione sui movimenti. Su di essi il geografo marxista analizza in particolare la dinamica di repentina diffusione delle mobilitazioni urbane a livello globale, come la sequenza di insorgenze del 2011-2013, indicando la necessità di cogliere quali elementi di profondità l’abbiano resa possibile. È su questo elemento che ci pare Harvey ponga una delle domande cruciali, ossia quale politica sia possibile costruire su questi processi. Una domanda tutt’ora senza risposta ma sulla quale rimane decisivo continuare ad interrogarsi.
Una versione ridotta di questa intervista è uscita su Il Manifesto il 13 luglio col titolo "Il contropotere è cittadino".
* * * *
I: Cominciamo dalle origini della tua elaborazione, che parte da Cambridge - dove non ti muovevi all'interno di un approccio marxiano – e a fine anni Sessanta muove sulla sponda opposta dell'Atlantico, a Baltimora.
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Sinistra e tema migratorio: una analisi ed alcune proposte
di Riccardo Achilli
Ricevo da Riccardo Achilli il seguente testo che sono lieto di ospitare sul blog [av]
“Le nazioni più ricche sono tenute ad accogliere, NELLA MISURA DEL POSSIBILE, lo straniero alla ricerca della sicurezza e delle risorse necessarie alla vita, che non gli è possibile trovare nel proprio paese di origine. Le autorità politiche, in vista del bene comune, di cui sono responsabili, possono subordinare l'esercizio del diritto di immigrazione a diverse condizioni giuridiche, in particolare AL RISPETTO DEI DOVERI DEI MIGRANTI NEI CONFRONTI DEL PAESE che li accoglie. L'immigrato E' TENUTO A RISPETTARE con riconoscenza il patrimonio materiale e spirituale del paese che lo ospita, ad obbedire alle sue leggi, a contribuire ai suoi oneri". Catechismo della Chiesa Cattolica, passo 2.241.
Premessa: l’insufficiente stato dell’arte della riflessione a sinistra
Il tema dell’immigrazione è di grande criticità nel pensiero della sinistra. Di fronte alla crescita di ciò che, con una certa superbia intellettuale, si etichetta come “populismo di destra” o xenofobo, che in tutta Europa (e non solo, basti pensare a determinati temi posti da Trump nella campagna elettorale degli USA) si è radicato in una quota non indifferente delle classi popolari che dovrebbero essere la base di rappresentanza stessa della sinistra, essa balbetta. Balbetta per motivi comprensibili, per certi versi “nobili”.
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Renzi: dalla Leopolda alla Rai
di Federico Repetto
La comunicazione di Renzi
Mentre Berlusconi e Grillo sono divenuti dei politici-star in tempi relativamente lunghi, Renzi ci è riuscito in tempi straordinariamente brevi. Per poterlo fare, egli ben presto ha creato un proprio brand politico personale, usando tutti gli strumenti più aggiornati del marketing. Ingredienti simbolici di questo brand sono il primato del merito e del talento, l’autenticità, la gioventù, l’innovazione, il cambiamento, le nuove tecnologie, ecc. Lo stesso cognome di Renzi è trasformato in un logo: una r frecciata, indicante appunto la svolta e il cambiamento, che appare nel suo sito personale (cfr Barile Brand Renzi, 2014, p. 26 sgg. e 82 sgg).
Renzi, a partire almeno dalla sua partecipazione alle “Invasioni Barbariche” nel 2008, accumula capitale comunicativo anche grazie alla conoscenza di esperti di immagine e di spettacolo (p.es. Giorgio Gori, già a capo di Canale 5 e il regista Fausto Brizzi). Ma anche grazie alla sua capacità di associare la propria immagine a star come Benigni e Jovanotti.
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Quale Moneta fiscale? Un confronto tra alcune proposte
di Enrico Grazzini
Dopo aver pubblicato l’articolo sulla moneta fiscale di Bossone, Cattaneo, Costa e Sylos Labini, anche Enrico Grazzini interviene sull’argomento e commenta alcune delle diverse proposte sul campo
In questo articolo mi propongo di chiarire perché l’architettura della moneta unica europea è strutturalmente squilibrata e genera crisi. E perché la moneta fiscale, nella versione pubblicata da Micromega e promossa dal compianto Luciano Gallino, possa rappresentare la soluzione ai problemi dell’euro. Mentre altre versioni di moneta fiscale possono invece essere impraticabili.
Le cause genetiche e strutturali della fragilità dell’euro sono queste:
1. La moneta europea è diventata la leva principale per imporre l’egemonia tedesca sulle economie periferiche, ovvero lo strumento per imporre una forma di colonialismo commerciale, monetario e finanziario. E’ noto che l’euro è stato creato a Maastricht con criteri dettati dalle classi dirigenti tedesche, cioè a immagine e somiglianza del marco, una delle monete più forti e stabili al mondo insieme al franco svizzero e allo yen giapponese. L’euro, in quanto moneta creata per essere forte e stabile, come il marco, non solo contrasta l’inflazione ma è intrinsecamente deflattivo e comprime lo sviluppo della maggior parte dei paesi dell’eurozona. Tuttavia per l’industria tedesca, molto competitiva, l’euro è una moneta debole, svalutata rispetto al vecchio marco, e favorisce perciò il surplus commerciale con l’estero. Grazie all’euro, la Germania può praticare senza eccessivi vincoli la sua politica mercantilistica: e con i suoi surplus esporta disoccupazione e deflazione.
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Cosa ci insegnano le "Tesi di Lione"
di Eros Barone
Se il socialismo scientifico segnò una svolta dì portata decisiva nella storia del movimento operaio internazionale, scoprendo l'"algebra della rivoluzione", non vi è dubbio che le tesi del III congresso del P.C.d'I. (denominazione, questa, che non è affatto equivalente a quella di PCI, giacché indica non un partito nazionale, ma la sezione nazionale di un partito mondiale), tenutosi in condizioni di illegalità a Lione tra il 20 e il 26 gennaio 1926, costituiscano la più avanzata e matura formulazione, attraverso un organico sistema di equazioni, del problema della rivoluzione proletaria nella storia del movimento operaio italiano.
In effetti, a chiunque chieda quali siano i testi con cui sia possibile formarsi un'idea esatta dell'autentica tradizione comunista, proletaria ed internazionalista, del nostro Paese non si può che consigliare di leggere e rileggere, cioè studiare, questo scritto fondamentale che segnò la vera nascita teorico-politica del P.C.d'I., sia come attiva sezione dell'Internazionale Comunista sia come fattore operante della dinamica nazionale, attraverso la rottura con l'estremismo settario ed opportunista di Bordiga [1].
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L’ideologia della governance
di Olimpia Malatesta
Alcune riflessioni sull’Europa e sull’ordoliberalismo a partire da un libro recente
«Governance» è una delle parole maggiormente utilizzate nel lessico politico contemporaneo. Ricorre con frequenza nei documenti ufficiali dell’OCSE, della Banca Mondiale e dell’Unione Europea e designa il passaggio dalle forme decisionali verticistiche e «Stato-centriche del policy making (tipiche del fordismo)» a forme di coordinazione politica ed economica orizzontali in cui i programmi da attuare vengono concordati attraverso reti che intrecciano diversi livelli: locale, regionale, statale, europeo e globale. Inserendosi nell’ampio novero di studi governamentali sul neoliberalismo, il libro di Giuliana Commisso, dal titolo La genealogia della governance: Dal liberalismo all’economia sociale di mercato (Asterios, 2016), si pone l’obiettivo di far luce sul significato e i limiti della governance, espressione nient’affatto disinteressata di un mondo che si vorrebbe post-ideologico. A tale scopo l’autrice individua nelle categorie concettuali foucaultiane lo strumento più adatto per ripercorrerne l’origine e si cimenta in un impegnativo riepilogo dei principali nodi teorici del pensatore francese, riuscendo a restituire la complessità del «dispositivo potere-sapere», a ricostruire la nascita della ragion di Stato nella sua accezione di pratica di governo e ad evidenziare il passaggio da questa alla governamentalità liberale prima e a quella neoliberale poi.
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Donald Trump, «vedette» pseudopopulista della società dello spettacolo
di Michele Nobile
1. La questione Trump
È normale che le elezioni presidenziali negli Stati Uniti alimentino aspettative e timori nei confronti di questo o quel candidato al ruolo di leader della superpotenza mondiale. Tuttavia Barack Obama e Donald Trump hanno suscitato reazioni emotive fuori dell’ordinario e cariche di un’enorme valenza politica. Da Obama, il messia nero, tanti si aspettavano la liquidazione del cosiddetto neoliberismo, allora sprofondato nella più grave crisi del dopoguerra, e un nuovo New Deal. A Trump è invece imputato l’intento di voler operare un fondamentale cambiamento del sistema politico degli Stati Uniti, di voler alterare, se non la sacrosanta e più che bicentenaria Costituzione formale, la Costituzione materiale del Paese; da qui i discorsi su un nuovo regime variamente aggettivato: populista, autoritario, bonapartista, criptofascista, fascista… E ciò non soltanto per via delle sue proposte ma - forse ancor più - per l’impressione suscitata dal suo stile comunicativo, dall’immagine che egli ha voluto trasmettere.
Se la memoria non m’inganna un tale livello di emotività, che potrebbe dirsi isterico, non si verificò neanche a proposito delle elezioni di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan, una coppia che realmente segnò una discontinuità storica.
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Il lavoro ai confini dell’Europa
di Devi Sacchetto
Per un lungo periodo le analisi sulle trasformazioni produttive si sono concentrate sullo spostamento delle strutture produttive dal cosiddetto nord al sud del mondo. In particolare a partire dal 1990, lo spostamento di capitali dall’Europa occidentale, Nord America e Giappone verso l’Asia, l’Europa orientale e l’America Latina ha subito una forte accelerazione grazie soprattutto alle imprese multinazionali. Negli anni più recenti, tuttavia, alcuni studi basati sulle catene del valore e sulle reti di produzione globali (Barrientos et. al. 2011; Henderson et al. 2002) hanno sottolineato come le strutture produttive si siano articolate, anche geograficamente, in modo molto complesso. In questo articolo presentiamo i risultati di due ricerche rispettivamente sul settore elettronico e su quello delle calzature, per evidenziare come le reti produttive globali si sviluppino non solo dal nord al sud del mondo, ma anche in direzione inversa. In particolare sosteniamo che l’organizzazione di queste reti è basata sul contesto socio-istituzionale delle diverse aree mondiali e sulla composizione della forza lavoro.
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Merito fra dono e debito
di Renata Puleo
Breve biografia di una parola e del suo successo. E’ possibile meritare qualcosa, che sia premio o castigo, senza il concorso dell’Altro?
Nel mio gruppo – da quando abbiamo iniziato a lavorare sulla valutazione, sull’INVALSI, sul servizio nazionale di valutazione – ci siamo sempre mantenuti su due piani di ricerca.Con appartenenze politiche e sindacali diverse e un retroterra marxista in comune, abbiamo puntato la barra sui cambiamenti antropologico culturali indotti dal neoliberismo, cornice senza la quale è impossibile comprendere quel che è avvenuto e avviene nella scuola. In questo orizzonte di senso abbiamo lavorato agli aspetti tecnici, ai dispositivi: i test, i frameworks europei, le guide a questo e quest’altro, provando a smascherarne la falsa ideologia scientifica, oggettiva, che li ispira.
Anche oggi, nella comunicazione che segue, mi muoverò su due livelli, una disamina sul merito, come metafora funzionale alla elaborazione di un consenso idiota, nel senso che non sa le parole, e un breve commento di carattere giuridico in cui, di quelle stesse parole, proverò a dare eco.
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Due parti, diverse per registro e per riferimenti. In entrambe gli attori sono quelli che si muovono intorno alle vicissitudini del merito, come parola chiave e complesso di pratiche.
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Quanto lunghe sono le nostre radici?
di Pierluigi Fagan
Riflessioni sulla lettura di D.L.Smail, Storia profonda, Bollati Boringhieri, Torino, 2017
Daniel Lord Smail, professore ad Harvard, ha ereditato dal padre (a sua volta professore di storia) una passione istintiva per la -grande storia naturale dell’umanità-. Portata avanti l’indagine nei corsi si è risolto a buttare giù una introduzione per un volume di storia naturale che ne riportasse i contenuti ma poi si è accorto che l’una e l’altra, introduzione e storia, metodo e contenuto, avrebbero dato vita al classico mattone sulle seicento pagine. Ha quindi deciso di scrivere una libro di sola riflessione metodologica sull’ipotesi di “storia profonda”, la riunificazione di tutti i domini della storia (geologia, biologia, paleoantropologia, linguistica e storia dei fatti umani) alla ricerca di quel sfuggente oggetto che è la fenomenologia dell’umano.
Il tempo che prendiamo in esame, la sua durata o estensione, è la condizioni di pensabilità prima della profondità storica. Darwin non avrebbe mai potuto intuire e poi sviluppare la sua teoria, se poco prima i geologi non avessero cominciato a dilatare a dismisura il tempo naturale. Fu in un certo senso, lo sviluppo urbano a portare a quegli scavi da cui affiorarono resti atipici di animali che infiammarono il dibattito sulle classificazioni ai tempi di Cuvier.
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