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Per una nuova stagione dei rapporti con la Russia
di Giovanni Scanagatta* e Stefano Sylos Labini**
Recentemente, il Commissario europeo per l’Energia, Dan Jorgensen, ha affermato che l’Unione europea non intende riprendere le importazioni di gas russo dopo un potenziale accordo di pace tra Ucraina e Russia. Bruxelles impedirà ai Paesi membri di firmare nuovi contratti di fornitura con Gazprom, cercando al contempo un modo per farli uscire dai contratti esistenti senza dover pagare penali per la violazione degli stessi.
Nonostante i giudizi molto negativi dell’Unione europea, la Russia è ancora il secondo maggiore fornitore di gas dell’Unione, mentre l’Italia – secondo i dati forniti dall’osservatorio energetico britannico Ember – nel 2024 ha triplicato l’importazione di gas dalla Russia rispetto all’anno precedente, passando da 2,1 a 6,2 miliardi di metri cubi. È stato di gran lunga l’incremento più consistente all’interno dell’Unione europea, dove la crescita ha raggiunto il 18 per cento rispetto al 2023 (da 38 miliardi a 45 miliardi di metri cubi). Inoltre alcuni paesi europei come Ungheria e Slovacchia sono fortemente contrari all’interruzione delle importazioni di gas russo per motivi di costi e di sicurezza energetica.
L’idea di azzerare le importazioni di gas russo è sorprendente perché siamo convinti che il raggiungimento di un nuovo ordine politico ed economico mondiale non può prescindere da un ristabilimento dei rapporti economici tra l’Unione europea e la Russia. La storia conferma ampiamente questa visione perché quando l’Europa ha provato a isolare la Russia, la prima a rimetterci è stata l’Europa. Non dimentichiamo poi che l’Italia ha sempre avuto ottimi rapporti economici con la Russia.
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Le tre grandi rotture del Novecento
di Gianmarco Pisa
Il contributo offerto dai compagni e dalle compagne della Rete dei Comunisti con il Forum – e la successiva pubblicazione degli Atti – per un “Elogio del comunismo del Novecento”, nelle sue quattro sessioni-approfondimenti tematici (prima della Seconda guerra mondiale: l’assalto al cielo; dopo la Seconda guerra mondiale: le nuove rivoluzioni, le conquiste operaie e i movimenti di liberazione dei Paesi in via di sviluppo; la regressione del movimento comunista e la controffensiva capitalista; la riemersione delle contraddizioni accumulate dalla supremazia del capitalismo), rappresenta, nel suo complesso, una iniziativa preziosa per l’approfondimento e il dialogo tra comunisti (e oltre l’ambito specifico del movimento di classe) nonché un terreno di lavoro condiviso con le soggettività del movimento che intendono sviluppare una riflessione, non apologetica e non liquidatoria, non eclettica e non dogmatica, per attualizzare l’analisi critica, marxista, e ricomporre terreni unitari.
Al di là delle – e senza l’esigenza di definire più o meno arbitrarie – periodizzazioni, un tema che conviene fare emergere e che offre elementi di riflessione e di approfondimento non scontati è offerto dalle grandi rotture che l’esperienza storica, politica e culturale del movimento comunista del Novecento ha attraversato e delle quali è stata, più volte, protagonista indiscussa.
Non va dimenticato, infatti che proprio il movimento comunista e, alla sua base, il marxismo e il leninismo hanno rappresentato, in Oriente, la concretizzazione di società e di sistemi liberi dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, in cui per la prima volta si sono realizzati diritti e istanze di emancipazione e di liberazione, e, in Occidente, il fattore maggiore nella sconfitta del fascismo storico e nell’avanzamento della democrazia.
Quali possono essere individuate, dunque, tra le grandi rotture del Novecento?
La prima anzitutto: l’avanzata del movimento di classe e l’affermazione su scala planetaria del socialismo nel periodo che va dalla fine della Seconda guerra mondiale alla metà degli anni Settanta.
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The Donald, O Guappo ‘e Cartone
di Salvatore Minolfi
Come nella proverbiale figura della commedia napoletana, Trump finge di avere un potere di cui non gode neanche all’interno della sua Amministrazione. La sua teatrale aggressività tradisce l'impotenza americana dinanzi ai nuovi equilibri del potere
A pochi mesi dall’esordio della seconda Amministrazione, i caratteri del trumpismo (la sua forza e i suoi limiti) emergono senza le sorprese che caratterizzarono la prima esperienza di governo tra il 2017 e il 2020. All’epoca, la mera esibizione di una “teoria del pazzo” (mutuata, peraltro, da Richard Nixon) poteva contare sull’effetto novità che, nelle intenzioni del Presidente, avrebbe spinto gli interlocutori a fare concessioni che altrimenti non avrebbero mai fatto[i]. Con ogni evidenza, il bluff oggi non basta più e i parametri per giudicare i successi o i fallimenti del trumpismo saranno inevitabilmente ancorati ai risultati reali effettivamente conseguiti per rimediare alla grave crisi dell’impero americano: crisi che proprio Trump sembra plasticamente riepilogare nella sua condotta erratica, nella sua ossessiva ricerca del clamore e in quella peculiare inconcludenza, che sgonfia un po’ l’immagine dei “massimalisti” che vedono nel Presidente americano l’agente o il tramite di un’improvvisa rottura storica “che si tratti della trasformazione del sistema partitico, della distruzione della democrazia americana o dell’implosione dell’ordine mondiale liberale”[ii]. E poiché di risultati veri, al momento, ancora non c’è traccia, il dibattito scatenatosi dalla fine di gennaio si è interamente modellato sui fuochi di artificio che hanno sostanziato le prime mosse della nuova Amministrazione. Tali, in effetti, devono essere considerate le sue principali iniziative internazionali: le contraddittorie posizioni assunte nel contesto della guerra russo-ucraina, nel quadro di una sostanziale continuità del supporto bellico a una guerra che Trump continua, nondimeno, a definire non sua; l’ininterrotto appoggio alla guerra di sterminio del Governo di Netanyau in Palestina (aggravato dalle sbalorditive visioni distopiche sulla “riviera” di Gaza); l’incapacità di emanciparsi seriamente dalle politiche neoconservatrici sull’Iran, nonostante la sua avversione alla prospettiva di una guerra; la parallela esibizione di una “dottrina Riyadh” basata su un “transazionalismo personalizzato e incentrato sul commercio, che rasenta il clientelismo”[iii], per la gioia delle ricche monarchie del Golfo; le minacce al Canada e alla Danimarca; l’attacco generalizzato alle pratiche del libero commercio, con la raffica di tariffe, in un’alternanza di provocazioni e ritirate tattiche; e tanto altro ancora.
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Liberarsi dal lavoro
Richiamando Rossana Rossanda, femminismo e lotte operaie negli anni ’70 e oggi
di Alisa Dal Re
Pubblichiamo il prezioso intervento che Alisa Dal Re ha svolto durante il seminario (organizzato dalla Cgil, Fondazione Di Vittorio, Comitato per il centenario della nascita di Rossana Rossanda): “Liberare il lavoro. Rossana Rossanda e le questioni del lavoro, ieri e oggi“. L’incontro si è volto all’Università Roma Tre, Scuola di Lettere Filosofia e Lingue, a Roma, il 29 gennaio 2025
Due furono secondo me gli elementi teorico-politici relativi al lavoro che caratterizzarono gli anni ’70 e seguenti in Italia: il rifiuto del lavoro e il riconoscimento della cura domestica gratuita delle donne come lavoro.
Il rifiuto del lavoro va interpretato all’interno delle rivendicazioni operaie di egualitarismo salariale, diffuse soprattutto all’inizio del decennio in questione, in contrapposizione alle posizioni di Lama e Trentin, sfavorevoli agli aumenti egualitari. Si trattava in buona sostanza del rifiuto di una data organizzazione del lavoro salariato a partire dalla forma di remunerazione e strutturazione del lavoro. Queste rivendicazioni infatti hanno segnalato la fine dell’adeguamento giuridico e politico al contratto, a una fantomatica misura del valore incarnato nella merce. Inoltre l’egualitarismo nelle rivendicazioni salariali ha svolto una funzione politica, costituendo un fronte operaio nelle lotte.
L’interpretazione di alcune forme di rifiuto del lavoro (assenteismo, allontanamento dalla disciplina contrattuale e dalla gerarchia di fabbrica, richiesta di aumenti salariali importanti ecc.) è derivata dalla scoperta di una classe operaia che si è posta contro sé stessa, mirando alla propria dissoluzione con il superamento dell’ideologia lavorista. Questa ideologia era stata costruita sulla professionalità e sul legame con il posto di lavoro, elementi resi fragili dalle trasformazioni produttive e dalla forza trasformativa delle lotte operaie. La negazione della primazia del lavoro sulla vita dava il senso al rifiuto dello sfruttamento e questo faceva emergere e valorizzare nuove soggettività.
Negli anni ’70 con il rifiuto del lavoro gli operai mettono in crisi il piano del capitale attraverso una richiesta salariale indipendente e impazzita rispetto al profitto, con la richiesta di servizi, con il rifiuto dell’orario imposto, con le autoriduzioni e la lotta contro la nocività di fabbrica (la nocività del lavoro?). Ricordate Vogliamo tutto, di Nanni Balestrini?[1] Nel territorio si diffondono le richieste di prezzi minimi e prezzi politici, di inserimento del tempo di trasporto nel tempo di lavoro, del costo del trasporto nel salario, creando una disconnessione tra salario e tempo di lavoro. Un inizio di visione del tempo di vita che diventerà il tema centrale, ad esempio, delle recenti lotte francesi contro l’aumento dell’età pensionabile.
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Europa: contro la guerra e i guerrafondai
di Paolo Ferrero
Mentre scrivo Israele ha ripreso il brutale genocidio che, da mesi e nella più totale indifferenza dell’Unione Europea, sta perpetrando ai danni del popolo palestinese. Questo massacro infinito viene ignorato mentre fa scandalo che gli USA abbiano aperto una trattativa per la pace in Ucraina senza coinvolgere l’Unione Europea (e della guerra). Addirittura, il 15 marzo è stata convocata da Michele Serra e dal quotidiano della famiglia Agnelli, “La Repubblica”, una manifestazione a favore dell’Unione Europea.
La situazione è nota: i media mainstream e i loro pennivendoli, che in questi anni hanno appoggiato senza se e senza ma la guerra tra NATO e Russia – quella combattuta utilizzando la popolazione ucraina come carne da cannone – scrivono che l’Europa è minacciata dalla Russia di Putin a causa del tradimento di Trump. Viene così diffuso un clima isterico, in cui l’apertura di una trattativa sulla fine della guerra in Ucraina viene presentata come un insopportabile gesto di arroganza nei confronti dell’UE.
Secondo questa narrazione, la minaccia Russa all’Europa e alla sua civiltà è quindi il pericolo concreto a cui occorre dare una risposta immediata. A tal fine la Von der Leyen ha sponsorizzato un gigantesco piano di riarmo dell’Europa di circa 800 miliardi di euro che il Parlamento Europeo ha prontamente approvato.
Questa campagna condotta a reti unificate dai media mainstream e dalla quasi totalità delle forze politiche di centro destra e di centro sinistra europee e nazionali costituisce in realtà la premessa ideologica per un salto di qualità nella costruzione di un’Unione Europea imperialista e guerrafondaia verso l’esterno, antidemocratica e antisociale verso l’interno. Una vera e propria proposta politica reazionaria attorno a cui il sistema di potere si sta riorganizzando. Ovviamente ogni forza e ogni schieramento interpretano il copione a partire dalla cura del proprio pubblico (più nazionalista o più europeista, più militarista o più in borghese, più progressista o più conservatore), ma la strategia di fondo non cambia: la Russia è il nostro nemico e costituisce una minaccia immediata a cui dobbiamo far fronte con un enorme programma di spese militari attorno a cui riorganizzare le relazioni sociali e il profilo complessivo dell’Europa.
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La strategia della fame nazista e quella di Gaza
di Davide Malacaria
“Cinquantotto anni di occupazione. Cinquantotto anni di una menzogna crudele e folle, i cui ideatori ci hanno preso tutto ciò che avevamo accettato di dare loro, e ora vogliono di più. Cinquantotto anni durante i quali ci siamo ripetuti che tenevamo i territori occupati perché ‘non c’è scelta’ e ‘per la sicurezza’. E di anno in anno la nostra sicurezza svaniva, diventando una barzelletta grottesca e spaventosamente gravosa”. Così su Haaretz Zehava Galon.
“In qualche modo, anche adesso, anche dopo l’orribile massacro del 7 ottobre, dopo quasi due anni di questa guerra persa a Gaza, con attacchi terroristici quotidiani in Cisgiordania [il riferimento è alle azioni dei coloni, vedi anche The Guardian ndr.], quei delinquenti ci stanno propinando la stessa menzogna. ‘È per la sicurezza!’ dichiarano Benjamin Netanyahu, Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir. Netanyahu, in realtà, sta promuovendo la sicurezza del suo governo e i suoi partner stanno promuovendo la sicurezza dei futuri insediamenti a Gaza e negli avamposti dell’orrore che le loro camicie brune hanno creato in Cisgiordania“.
La condanna della Storia
No, continua la Galon, “non è questione di sicurezza né di ostaggi: si tratta dell’uccisione di decine di migliaia di civili, tra cui tanti bambini, per godere di proprietà immobiliari a Gaza e sulle colline del Libano.
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I russi incrementano la produzione di missili Iskander e Kinzhal
di Gianandrea Gaiani
La produzione russa di missili balistici Iskander e di missili ipersonici Kh-47M2 Kinzhal è aumentata in una percentuale compresa tra il 66,67% e l’88,89% nell’ultimo anno secondo i dati raccolti dall’intelligence militare ucraino (GUR) pubblicati ieri dal Kyiv Independent. La Russia produrrebbe attualmente secondo queste informazioni dai 60 ai 70 Iskander-M e dai 10 ai 15 Kinzhal ipersonici al mese.
Nel maggio del 2024 Mosca produceva 40 Iskander-M e nell’aprile dello stesso anno 4-5 Kinzhal al mese. I dati forniti dal GUR al Kyiv Independent mostrano che le scorte russe sono stimate oggi in “quasi 600 Iskander-M e oltre 100 Kinzhal”.
Alla fine del 2022, il capo dell’intelligence militare Kyrylo Budanov ha affermato che la Russia aveva quasi esaurito i missili balistici Iskander. Entro dicembre 2024, il portavoce del GUR Andriy Yusov aveva evidenziato che la Russia aveva aumentato la produzione a un numero compreso tra 40 e 50 missili Iskander al mese.
I dati forniti dal GUR allarmano l’Ucraina e l’Occidente anche perché evidenziano che la produzione russa di missili balistici supera oggi la produzione totale di missili PAC-3 MSE per i sistemi di difesa aerea Patriot, che Lockheed Martin spera di aumentare fino a 650 all’anno entro il 2027 e certo non tutte queste armi sarebbero destinate all’Ucraina.
Come sottolinea il rapporto dell’intelligence ucraina, altri sistemi occidentali come il SAMP/T e l’IRIS-T non si sono dimostrati efficaci contro i missili balistici.
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Governo e Confindustria: amici per la pelle
di coniarerivolta
Nei momenti di difficoltà, è sempre bello sapere di poter contare sugli amici. Deve avere pensato questo la presidente del Consiglio Meloni quando ha partecipato all’assemblea nazionale di Confindustria lo scorso 27 maggio.
Del resto, è dall’inizio della legislatura che le due parti vanno d’amore e d’accordo, specie dopo la crisi inflazionistica che ha visto una politica economica del governo tutta tesa a contenere il costo del lavoro e garantire un margine di profitto accettabile per le imprese.
E quando si va dagli amici, è buona educazione non presentarsi a mani vuote, e infatti anche stavolta la Meloni ha assicurato che lo Stato si farà ancora una volta carico di garantire un certo livello di profitti per le imprese: si va dalla promessa di dirottare in sussidi alle imprese parte dei fondi PNRR che (prevedibilmente) l’Italia non riuscirà a spendere nei tempi previsti, anche per addolcire l’impatto sulle imprese stesse dei possibili dazi provenienti da oltreoceano, fino all’impegno di allentare ancora quel poco di impegno verso una transizione energetica e ambientale (ormai passata nel dimenticatoio), passando per la possibilità (peraltro tutta da dimostrare) che l’incremento della spesa militare andrà a beneficio anche delle imprese italiane.
Per rendere un minimo realistico questo appuntamento era però essenziale che entrambe le parti in commedia presentassero anche un volto “responsabile” e si mostrassero consapevoli che qualcosa ancora non va, così da creare il pretesto per Confindustria per chiedere ulteriori impegni, identificando all’uopo qualche nuovo nemico.
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Costruire democrazia o aspettare Godot
A proposito della Festa della Repubblica
di Gaspare Nevola
Ho provato a chiedere su Google “che cosa è il 2 giugno”, al primo posto è comparsa un’AI Overview che inizia con: «Il 2 giugno è la Festa della Repubblica Italiana. Si celebra annualmente per ricordare il referendum istituzionale del 2 giugno 1946, in cui gli italiani, per la prima volta, si espressero in libertà sulla forma di governo dello Stato, scegliendo la Repubblica. In quell'occasione, per la prima volta, anche le donne poterono votare>>; segue una così detta ELABORAZIONE, che invero aggiunge poche altre e generiche informazioni. Insomma, niente di che. Sarei curioso di sapere quanti italiani siano appagati da questa risposta, e presi da ben altri interessi e dalle faccende della vita quotidiana si fermino qui nelle loro aspettative di informazione. Sia come sia, in chiusura dell’AI Overview leggo: «La Festa della Repubblica non è solo una ricorrenza storica, ma un momento per riflettere sui valori della Repubblica, sulla partecipazione democratica e sulla costruzione di una società più giusta e inclusiva>>. E allora, cominciamo da qui, e a fare qualche riflessione generale. In attesa che intorno al 2 giugno del 2025 prendano corpo le celebrazioni, il discorso pubblico, le voci dei professionisti della politica e il messaggio del Presidente della Repubblica.
1.Il 2 giugno è la Festa della Repubblica italiana: una festa della nazione, come detta il calendario ufficiale. Una nazione racconta se stessa e plasma i sui caratteri identitari anche attraverso la celebrazione di feste ufficiali e ritualizzate. È importante sottolineare che tali narrazioni identitarie, da un lato, evocano il passato; dall’altro, presentano uno stretto legame con il clima politico, culturale e sociale del presente di una società.
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Il pianeta Marx meticolosamente illustrato. 1. Farsi l’idea di un fatto
Cronache marXZiane n. 17
di Giorgio Gattei
«Perché? – Perché l’universo non è una favola».
(Cixin Liu, Nella quarta dimensione, 2018)
1. A questo punto devo dar conto del significato d’esistenza di quel “pianeta Marx” che sto lentamente esplorando e descrivendo in queste mie Cronache. Ho già detto altrove che, dopo Nietzsche, siamo consapevoli che ci sono i fatti ma pure le loro interpretazioni e che noi, che viviamo nei fatti, ci muoviamo secondo le interpretazioni che ce ne facciamo. Abitiamo così in due ambiti simultanei di esistenza: quello delle esperienze concrete (che rimangono personali e indicibili, dato che soltanto noi sappiamo quanto è veramente accaduto), ma pure dentro quei concreti di pensiero di cui ha detto Karl Marx nelle uniche pagine sul metodo che ha lasciato nella Introduzione alla critica della economia politica (1857) contrapponendo al “concreto fuori di noi”, che è «sintesi di molte determinazioni, cioè unità del molteplice», un “concreto dentro di noi” che altro non è se non «la riproduzione del concreto lungo il cammino del pensiero» come lo riflette il cervello, «come un tutto del pensiero che è un prodotto dal cervello che pensa e che si appropria del mondo nell’unico modo a lui possibile, almeno fino a quando il soggetto si comporta solo speculativamente, solo teoricamente». Certamente sono i fatti che inducono al pensiero (se nulla accade, nemmeno nulla si pensa), però su quei fatti noi ci facciamo dei penseri e sono questi che indirizzano il nostro comportamento nel confronto di quei fatti.
Ma ciascuno di noi si fa una rappresentazione di quanto gli accade non soltanto per sé, ma pure per comunicarla agli altri con la parola, lo scritto o con i gesti (che sono i “comportamenti non verbali”), ma per arrivare a questo bisogna inserire il “concreto di pensiero” dentro un ordine del discorso che possiede delle regole di costruzione proprie (mentre le regole della realtà restano fuori dalla porta), dovendosi scontare con gli altri una comunanza di linguaggio, di scrittura o di gestualità, perché altrimenti non ci si capirebbe.
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Dall’Eritrea al Senegal al Burkina Faso di Traorè, il riscatto del Sahel. L'Africa prende il largo
di Fulvio Grimaldi
Felice il continente riscattato da eroi che non muoiono mai, e a volte si reincarnano: Lumumba, Nyerere, Kenyatta, Samora Machel, Agostino Neto, Nkrumah, Senghor, Mandela, Sankara, con i loro popoli in lotta e, su tutti, anche per longevità rivoluzionaria, Muammar Gheddafi. Quali assassinati dal revanscismo colonialista, quali incarcerati quasi a vita, quali rovesciati da golpe diretti da fuori, quali sopravvissuti a incessanti assedi e sabotaggi.
ggi si chiamano Abdurahamane Tani (Niger), Assimi Goita Mali, Isaias Afeworki (Eritrea), Faye e Sonko (neoletti presidente e Primo Ministro del Senegal che hanno messo in discussione la manomorta di Parigi sul paese) e, su tutti per radicalità rivoluzionaria, Ibrahim Traoré in Burkina Faso. Forse la Storia ne narrerà come dei capitani che hanno fatto prendere il largo al continente, sottraendolo alla pirateria del colonialismo di ritorno.
Un vento nuovo percorre il continente dopo l’abbattimento di Muammar Gheddafi e la frantumazione della Libia, oggi divisa tra il parlamento e governo esiliatosi a Bengasi, prodotti dall’ultima elezione tenuta nel paese, e le bande golpiste islamiste di Tripoli, impegnate nel traffico di migranti e protette dall’esercito turco. Un regime, quello del premier Abdulhamid Dbeida, caro a Meloni e soci, fondato sul gangsterismo, arroccato a Tripoli e in poco più della Tripolitania, incredibilmente legittimato dall’ONU a dispetto di Bengasi, che invece controlla il resto del paese e la maggioranza delle sue risorse (il resto viene contrabbandato dalle bande di Tripoli con piena soddisfazione di alcuni paesi europei, in primis il nostro.
Della generazione dei grandi leader e ideologi della liberazione e dell’indipendenza, resta il presidente eritreo Isaias Afeworki. Dall’alba del decennio in corso, una parte cospicua del continente ha vissuto una scossa rivoluzionaria. Scossa che promette di contagiare il resto del continente, finora in buona parte assopito in una finta sovranità ed effettiva governance neocolonialista. Quest’ultima garantita dalla capillare e massiccia presenza militare di AFRICOM, comando delle Forze USA in Africa e delle sue basi.
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Massimo Bontempelli. La conoscenza del bene e del male
Prefazione di Fernanda Mazzoli
Massimo Bontempelli: La conoscenza del bene e del male, ed. Petite Plaisance, 2025
Un libro pensato innanzitutto per gli studenti e gli insegnanti si espone al rischio di appiattirsi su un taglio manualistico prettamente informativo – opzione d’altronde assolutamente legittima, dato il contesto – che abbina alla proliferazione dei dati di varia natura la loro semplificazione concettuale e l’oscuramento della tela di fondo su cui essi si dispongono.
La finalità pedagogica, non sempre correttamente intesa, può spingere poi in direzione di un’attualizzazione brutale, cioè non opportunamente mediata sul piano culturale e storico, dei temi e problemi passati in rassegna, nell’illusorio per quanto comprensibile tentativo di rendere accattivanti argomenti indiscutibilmente ardui.
Ne risulta troppo spesso una superficialità vanamente mascherata dalla quantità delle informazioni e dal sussiego della forma espositiva che cerca di coprire attraverso la profusione del lessico specialistico la mancanza di originalità. Sono libri destinati al consumo scolastico, numi tutelari per verifiche e punteggi per gli studenti, puntello alla memoria per i docenti. Strumenti sicuramente utili agli uni e agli altri, ma nulla di più.
Un libro insegna nella misura in cui segna, cioè lascia un segno nello spirito di chi lo legge e non semplicemente sul registro, a maggior ragione se si propone di affrontare questioni filosofiche, vale a dire questioni che investono la verità, il bene, il significato del nostro essere al mondo, la coraggiosa contemplazione delle cose al di là del loro apparire, per dirla con Eraclito cui non a caso Massimo Bontempelli ha dedicato uno studio, Eraclito e noi, di prossima ristampa.
Ora, questo suo testo si inscrive a pieno titolo nella categoria dei libri che incidono, che cadono con la lama affilata di una rigorosa riflessione e di un’inesausta passione intellettuale su una materia tanto primaria ed essenziale, quanto maltrattata e trascurata.
E squarciano il velo, o meglio il sudario, dentro il quale essa è stata occultata, ai fini di rimuoverla dal piano filosofico per lasciarla andare alla deriva del gusto individuale o di un’estemporanea esperienza privata.
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Strangers in the night, but no happy ending
di Romeo Orlandi
Torna la sezione «oriente, estremo» con un articolo del curatore, Romeo Orlandi che ci parla della politica internazionale di Trump e degli attuali rapporti con la Cina. Uno scontro strategico per gli Stati Uniti per poter sostenere il proprio debito e quindi l'American way of life, che si trova però di fronte un avversario tutt'altro che remissivo e debole come l'Europa. Cosa succederà, dunque? Trattativa infinita o l’estrema tentazione del grilletto?
Correre dietro ai numeri di Trump è un esercizio sterile, misurare l’incoerenza dei dazi è fuorviante, usare il sarcasmo per le sue espressioni è imbelle. Non che le esternazioni del Presidente non si prestino a critiche o che i suoi pensieri non si presentino incoerenti o improvvisati. L’errore ha invece radici nel volere trovare un filo che colleghi le decisioni, arrovellarsi per cercare una continuità nascosta, una strategia inafferrabile, un progetto impalpabile di lungo respiro. Insomma: scandagliare i segugi analitici per capire «cosa ha in mente Trump».
Certo: lui intende Make America Great Again; uno slogan chiaro e tuttavia di difficile declinazione. Per farlo bisogna mostrare i muscoli, costringere gli altri (non importa se nemici o ex amici, le differenze si annullano) alla trattativa da posizioni di forza. Imporre le proprie regole per strappare il miglior accordo, negoziare mettendo l’interlocutore nell’angolo. E se fosse proprio questa la strategia, coniugare cioè tattica e obiettivo, senza intermediazioni? Allora, l’importante non è misurare il valore del dazio, metterlo in relazione con improbabili tabelle al flusso di merci.
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Le tre vite del sionismo (e i suoi supporter italici)
di Paolo De Prai*
Non mi ha stupito che i partiti della pseudo “sinistra” abbiano indetto una manifestazione pro Palestina il 7 giugno, perché erano molti giorni che mass-media e parlamentari, quasi improvvisamente, sono caduti dall’albero del pero e hanno scoperto il massacro a Gaza (e in Cis-Giordania? Silenzio tombale!).
Quella del 7 giugno sarà la manifestazione degli ipocriti, ma su loro torno dopo.
La corsa affannosa che sto assistendo ora è nell’accusare Netanyahu e Likud di quanto avviene e di come il loro Stato sia altra cosa, anzi si riscoprono origini nobili e democratiche nello ‘Stato sionista’.
E’ perciò il caso di rimettere nella loro giusta luce le origini e cosa veramente erano.
Il primo sionismo è quello di Theodoro Herzl, promotore del ritorno degli ebrei in Palestina Mandataria, con l’idea di “una terra senza popolo per un popolo senza terra”, peccato che la Palestina era ed è abitata dai discendenti degli antichi ebrei, nel tempo diventati cristiani o mussulmani o rimasti samaritani insieme anche ad ebrei palestinesi.
Già questa idea (“una terra senza popolo“) rivela la natura razzista del sionismo ed è chiara inquadrandola con i fatti di quel tempo.
L’idea di Herzl e dei sionisti, in un tempo di pogrom e persecuzioni varie (il caso Dreyfus, ecc), era di ritagliarsi un pezzo di impero turco con la complicità occidentale, inglese in particolare (l’Italia se ne ritagliò un pezzo in Libia).
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I benefici di una moneta locale (nel Medioevo)
di Leo Essen
Attorno al IX secolo la maggior parte dell’Europa rinunciò alla monetazione ufficiale in oro. Ai tempi di Costantino, nell’Impero romano, circolava il Solidus, una moneta di oro massiccio (soldo). Il Soldo, con il nome di Nomisma e poi di Iperperon, sostenuto dall’impero bizantino, rimase in circolazione fino alla comparsa e all’affermazione del Fiorino, rappresentando la base monetaria del commercio Inter-regionale (estero). Dunque, l’Oriente mantenne una moneta d’oro, con un valore pressoché stabile per circa 700 anni, mentre l’Occidente, nella Gallia Franca, nella Gallia carolingia e a poco a poco dappertutto, adottò un sistema quasi esclusivamente argenteo. Tracce di questo fatto sono presenti oggi in Francia dove il nome del denaro è appunto Argent.
Nonostante la conversione all’argento, in Occidente il Soldo continuò a circolare. Il Soldo, scrive Marc Bloch (Lavoro e tecnica nel medioevo), esisteva come unità di conto. Si trattava ancora in soldi, ma il pagamento avveniva in denari, secondo un rapporto generale, non però valido in tutti i paesi, di un soldo per 12 denari. Allo stesso modo quando si prevedeva un pagamento in natura, si parlava di un soldo di grano o di un soldo di cacio.
La debole o nulla monetazione in oro, dice Bloch, era forse dovuta al fatto che l’oro circolava sotto forma di monete straniere. In Occidente circolavano il Bisante (o Bezant in Francia), la moneta Bizantina, appunto; il Mangon o Mancuso (Mancusus in latino), moneta in oro araba (il Dinar manqus); il Marabbottino, una moneta d’oro nordafricana (Almoravidi).
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"Elitarismo" vs democratizzazione del sapere?
di Il Chimico Scettico
* * * *
Egregio Signore,
mi è parso che, parlando di cose doverose e costruttive, nel suo caso una risposta pubblica fosse dovuta. Sorvolerò sulla "supposta aristocrazia intellettuale" (qualche citazione e qualche riflessione farebbero aristocratizia? Non credo). Ma con l'accusa di elitarismo tocca un nervo scoperto, perché qua sopra c'è sempre stata una feroce avversione per l'elitarismo politico e, per quanto a parole, ci si è sempre spesi per la difesa della democrazia.
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Italia: una società anziana, malata e sempre più diseguale
di Redazione
Due recenti rapporti ci offrono un affresco delle condizioni in cui versa la società italiana, disegnando uno scenario di forti diseguaglianze, frammentazione sociale e crisi demografica.
Lo stato dell’economia
Secondo il rapporto annuale dell’Istat “l’Italia ha mantenuto, per il secondo anno consecutivo, un ritmo di crescita dello 0,7 per cento, che riflette un debole contributo positivo della domanda estera netta e un rallentamento della spesa per consumi e, soprattutto, per investimenti. La crescita del Pil dell’Italia è risultata inferiore a Francia e Spagna, mentre la Germania ha sperimentato il secondo anno di contrazione”. Nello stesso periodo di tempo gli Stati Uniti sono cresciuti del 2,8%, la Cina del 5 e la media dei 27 paesi dell’Unione Europea è passata da una crescita del 0,4% del 2023 ad una dell’1% del 2024. Le cause di questa crescita moderata dell’economia italiana secondo l’Istat sono da rintracciare all’interno delle dinamiche internazionali incerte e in particolare rispetto alle esportazioni, ma anche nelle caratteristiche del sistema produttivo italiano “quali la dimensione delle imprese, la specializzazione in settori tradizionali e il limitato contenuto tecnologico/innovativo dei prodotti – a loro volta negativamente associate all’efficienza e all’incremento della produttività.”
Il rapporto sottolinea come la crescita sia piuttosto diversificata a seconda dei settori produttivi. Sull’onda lunga degli incentivi fiscali e del PNRR il settore dell’edilizia e delle costruzioni ha segnato un aumento del valore aggiunto in termini reali del 1,2% (anche se nel 2023 l’incremento era stato molto più consistente: +6,9%). In positivo anche l’agricoltura con un +2%, ma con performances ancora molto al di sotto dell’economia pre-pandemica (-5,2 per cento).
Nel settore industriale poi si nota con più chiarezza l’andamento estremamente frammentato a seconda dei diversi settori produttivi. Complessivamente si riscontra una riduzione del -0,1%, mentre nel 2023 la contrazione era stata dell’1,8%. A sollevare i destini del settore sono stati “la forte crescita nei comparti della fornitura di energia (+7,3 per cento, dopo -3,1 dell’anno precedente) e dell’industria estrattiva (+6,2 per cento, recuperando il -5,2 del 2023), mentre nell’industria manifatturiera si è avuta una diminuzione dello 0,7 per cento, che segue un calo dell’1,2 per cento nel 2023.”
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100 giorni di Trump 2.0: fascista ferito, fascista pericoloso
di Guillermo Kane (Partido obrero)
Iniziamo oggi, con questo articolo, la pubblicazione di testi delle organizzazioni politiche che prenderanno parte alla Conferenza internazionale di Napoli del 14-15 giugno.
Lo scritto di Guillermo Kane (del Partito Obrero di Argentina), che traduciamo da “En defensa del marxismo” di maggio, è un’analisi ricca e molto documentata della politica dell’amministrazione Trump. Le radici di questa politica di attacco a trecentosessanta gradi all’avversario strategico degli Stati Uniti (la Cina), agli alleati, al proletariato statunitense e a quello internazionale, sono individuate, giustamente, nel declino strutturale di lungo periodo, anzitutto sul piano della produzione industriale, dell’economia statunitense. Del resto lo spostamento dell’epicentro mondiale della produzione industriale dagli Stati Uniti e dall’Occidente all’Asia, con al centro la Cina, è un dato di fatto incontrovertibile, e non proprio recentissimo.
Tanto per la sua violenza propagandistica e ricattatoria, che genera ovunque resistenze (la “guerra commerciale” è una vera guerra), quanto per i suoi effetti-boomerang sugli stessi Stati Uniti, questo attacco rischia di indebolire ulteriormente la posizione internazionale dell’imperialismo nord-americano, anche perché ha innescato seri conflitti di potere all’interno delle stesse istituzioni statali statunitensi.
In modo puntuale Guillermo Kane mette in luce quello che definisce il “bonapartismo con tendenze fasciste” di Trump [una caratterizzazione di Trump che ci pare più appropriata di quella che lo ascrive direttamente al fascismo], che mira ad un enorme accentramento di potere alla Casa Bianca e alla brutale restrizione delle libertà politiche e di lotta, lungo la linea di un maccartismo estremizzato da esportare in tutto il mondo.
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AI, Equivoci e Minacce
di Paolo Di Marco
Nei discorsi, soprattutto quelli scientifici, sarebbe sempre opportuno mettere in evidenza le premesse che si danno per vere, dichiarate o nascoste che siano. Altrimenti si rischia di sviluppare ragionamenti incontrollabili o semplicemente fasulli.
Nel caso dell’AI la catena delle premesse non dichiarate è lunga, come anche il numero di problemi che ne conseguono.
Facciamo due esempi:
– Se chiedo di costruire 4 triangoli equilateri con 6 stecchini la gran parte delle persone si arrabatterà a fare trucchi e arzigogoli approssimativi senza arrivare alla soluzione, dando per scontato che il discorso si svolga nel piano (presupposto non detto ma che viene assunto quale premessa); solo quando, per caso o intuizione viene abbandonata la premessa si trova la soluzione – che è in 3 dimensioni (un tetraedro).
– E, giusto per uscire dall’astratto e parlando di cose attuali e controverse, cosa analoga è avvenuta nel caso dell’11 Settembre, dove per molti è difficile credere che gli ingegneri e scienziati del National Institute of Standards and Technology fossero in malafede nella loro analisi; solo che la relazione del NIST non risponde alla domanda: ‘Da cosa è stato causato il crollo dei grattacieli’ bensì al quesito ufficiale la cui sintesi è ‘Sapendo che la causa del crollo sono stati gli aerei, spiegate come è avvenuto’; con questo vincolo i poveri ingegneri si sono arrabattati a cercare di far quadrare i conti, tirando per i capelli la forza dell’incendio, abbassando la temperatura di fusione dell’acciaio e tutto quello che gli poteva venire in mente per trovare delle giustificazioni. E dimenticando (forse volutamente) leggi fisiche elementari come la caduta dei gravi di galileiana memoria, che se applicata gli avrebbe mostrato che gli ultimi piani dei grattacieli cadevano con tempi di caduta libera- cosa impossibile avendo gli altri piani di sotto.
E arrivando alla ‘pistola fumante’, il WTC7, il terzo grattacielo che cade senza aerei, han dovuto anche fare a pugni con l’evidenza, inventando incendi potenti là dove c’erano solo tendine che bruciavano in 3 finestre e detriti dirompenti che nessuno riesce a vedere.
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L’Ucraina sta giocando col fuoco
di Scott Ritter - scottritter.substack.com
L'Operazione Spiderweb è andata oltre i limiti e rischia di scatenare una ritorsione nucleare russa. La risposta della Russia e degli Stati Uniti potrebbe determinare il destino del mondo
Nel 2012, il presidente russo Vladimir Putin aveva dichiarato che “le armi nucleari rimangono la più importante garanzia della sovranità e dell’integrità territoriale della Russia e svolgono un ruolo chiave nel mantenimento dell’equilibrio e della stabilità regionale”.
Negli anni successivi, analisti e osservatori occidentali avevano accusato la Russia e la sua leadership di usare in modo irresponsabile la minaccia delle armi nucleari alla stregua di un “tintinnar di sciabole”, un bluff strategico per nascondere le carenze operative e tattiche delle capacità militari russe.
Nel 2020 la Russia aveva pubblicato per la prima volta una versione non classificata della sua dottrina nucleare. Il documento, intitolato “Principi di base della politica statale della Federazione Russa sulla deterrenza nucleare“, affermava che la Russia “si riserva il diritto di usare le armi nucleari… in risposta all’uso di armi nucleari e di altri tipi di armi di distruzione di massa contro di essa e/o i suoi alleati, nonché in caso di aggressione contro la Federazione Russa con l’uso di armi convenzionali quando l’esistenza stessa dello Stato sia in pericolo“. Il documento affermava inoltre che la Russia si riservava il diritto di usare le armi nucleari in caso di “un attacco da parte di un avversario contro siti governativi o militari critici della Federazione Russa la cui interruzione potrebbe compromettere le azioni di risposta delle forze nucleari“.
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Attacco ucraino al nucleare russo, i “volenterosi” fanno gli Stranamore
di Dante Barontini
L’appuntamento di Istanbul – sulla cosiddetta trattativa triangolare tra Ucraina, Usa e Russia, formalmente mediata dalla Turchia (che è paese della Nato, ma decisamente “attore in proprio”) – non parte con grande prospettive di successo.
Sintetizzando molto, e senza neanche considerare gli avvenimenti sul fronte – dove come da tempo l’armata di Mosca avanza a piccoli passi – si devono mettere in fila questi attacchi ucraini, come ricapitolati da diversi osservatori.
– Nella regione di Bryansk, alle 10:52 ora di Mosca, i binari ferroviari sono stati fatti saltare in aria nella tratta Unecha-Zhecha. Non si contano né feriti né particolari danni.
– Sabatori notte un ponte ferroviario è crollato anche nella regione di Kursk, al confine con l’Ucraina, mentre un treno merci lo stava attraversando: ferito un macchinista.
– Sabato sera nella regione di Bryansk è stato fatto saltare un ponte sul quale viaggiava un treno passeggeri al momento dell’attacco terroristico. Si contano sette morti e decine di feriti.
– La base aerea di Olenya nella regione di Murmansk e la base aerea di Belaya nella regione di Irkutsk sono state sottoposte a un massiccio attacco di droni; i residenti locali hanno pubblicato filmati di esplosioni e incendi. Secondo i media ucraini sarebbero stati attaccate anche le basi di Dyagilevo e l’aeroporto di Ivanovo, distruggendo diversi bombardieri strategici Tu-95, nonché alcuni Tu-22 e aerei da trasporto.
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Tra guerra e negoziati le cancellerie europee scelgono la guerra
di Fabrizio Poggi
Riprendono oggi a Istanbul i colloqui russo-ucraini sul conflitto. In che clima, è facile prevedere, dopo gli avvenimenti degli ultimi due giorni, con gli attacchi terroristici ucraini a strutture civili e militari russe. A proposito di questi ultimi, vorremmo dire che, con eccessiva, a nostro parere, “delicatezza”, ColonelCassad parla di «negligenza pagata troppo cara», a proposito della relativa facilità con cui sono stati portati a termine gli attacchi ucraini (solo ucraini?!?) agli aeroporti di diverse regioni russe in cui è dislocata l'aviazione strategica di Mosca. Un tempo, con termine a nostro parere più appropriato, si sarebbe parlato di “negligenza criminale”, con teste che sarebbero saltate, non solo in senso figurato. Non dubitiamo che, anche in questo caso, vari responsabili saranno chiamati a rispondere, quantomeno con la posizione ricoperta. Ma, in ogni caso, rimangono aperte alcune questioni che, a nostro modesto parere di semplici osservatori (né militari, né politici) di quanto accade a “est del Dnepr”, rendono la faccenda della “Ragnatela” nazi-golpista imbastita, a quanto sostengono a Kiev, da diciotto mesi a questa parte, quantomeno ambigua, dal punto di vista dei possibili coinvolgimenti, interni ed esteri, a dar man forte a SBU, GUR, MOU, ecc.
Per quanto concerne i secondi, tralasciando per un momento il molto probabile contributo all'operazione da parte dei soliti “volenterosi” (volenterosi di arrivare alla guerra a ogni costo e con ogni prezzo da far pagare alle masse), basti citare la possibile implicazione di una repubblica ex sovietica quale il Kazakhstan: non solo quanto a vicinanza logistica all'area di Celjabinsk e al capannone affittato per nascondere il TIR carico di droni, quanto proprio alla sua insorta “inimicizia” nei confronti della Russia, di cui pure Mosca da tempo non fa mistero e che quindi dovrebbe quantomeno tenere sul chi va là i Servizi russi.
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Per quelli che con la bandierina ucraina stanno festeggiando...
di Andrea Zhok
Alla vigilia del nuovo tentativo di negoziato di pace tra Russia e Ucraina a Istanbul l'Ucraina ha sferrato il più grave attacco simultaneo all'entroterra russo dall'inizio della guerra.
Ci sono stati prima 2 attentati con esplosivo a linee ferroviarie civili, a Bryansk e Kursk. Nel primo caso al momento sono segnalati almeno 7 morti e 69 civili feriti. Dal secondo non sembra siano ancora pervenute notizie chiare.
Subito dopo vi è stato l'attacco simultaneo a tre aeroporti militari nelle remote regioni di Murmansk, Irkusk e Amur.
Attraverso l'inflitrazione di camion commerciali in prossimità degli aeroporti, sono stati liberati centinaia di droni che hanno colpito l'aviazione strategica russa.
Almeno 4 bombardieri nucleari sono stati certamente distrutti, ma più probabilmente 10; le fonti ucraine parlano di 41 bombardieri distrutti, il che farebbe di questo episodio una sorta di Pearl Harbour russa.
Se le cifre ucraine fossero confermate, ma anche se fossero significativamente inferiori, questo rappresenterebbe una seria riduzione del potenziale nucleare russo.
Sono certo che alcuni di quelli con la bandierina ucraina sul sito staranno brindando e felicitandosi del bel colpo.
Ora, io confesso di essere terrorizzato e se abitassi in Ucraina lo sarei infinitamente di più.
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Hype, ovvero l'economia della truffa
Sulla macchina della colpa neoliberale
di Lorenzo Mizzau
Sin dalla nascita di Machina, transuenze si è interrogato con vari articoli sulla fine del neoliberalismo o, per meglio dire, sulla rottura dell'egemonia neoliberale.
Riprendiamo questo programma di discussione con un articolo di Lorenzo Mizzau, che si concentra soprattutto, riprendendo Lazzarato, sull'economia del debito. L'ipotesi dell'autore, per dirla con le parole sue è che «in gioco ci sono precisamente le stesse tecnologie di governo, le stesse istituzioni, gli stessi discorsi che regolano il funzionamento di ciò che Foucault ha chiamato governamentalità neoliberale[12]. Eppure, c’è qualcosa come una riconfigurazione di paradigma, un nuovo assestamento di tutti questi elementi attorno a un nuovo cardine».
Il soggetto non deve capire che i maltrattamenti costituiscono un attacco premeditato alla sua identità personale da parte di un nemico antiumano. Deve essere indotto a pensare che merita le terapie cui viene sottoposto perché in lui c’è qualcosa di spaventosamente sbagliato.
W. S. Burroughs[1]Il neoliberalismo è morto. Lunga vita al neoliberalismo!
Che l’ipotesi neoliberale, oggi, faccia acqua da tutte le parti è sotto gli occhi di ciascuno. Al punto che dichiarare la bancarotta del neoliberalismo, da qualche anno a questa parte, non appare più tanto assurdo[2].
Ecco, in un rapido scorcio, il panorama che ci troviamo di fronte. Il discorso postbellico della pace, oggi, cede il passo a un nuovo discorso e a nuove pratiche di guerra. Al meccanismo postbellico del consumo, ancora attivo in Europa lungo tutti gli anni Ottanta, subentra l’introduzione forzata della miseria come way of life.
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Intelligenza artificiale e transumanesimo verso il punto di non ritorno(!)
di Franz Altomare
L'impennata tecnologica registrata grazie alla progressiva diffusione dell’Intelligenza Artificiale impone, a ogni società felicemente globalizzata, di rimanere al passo coi tempi e accelerare l’inevitabile implementazione di quest’ultimo traguardo informatico in ogni campo della vita sociale e produttiva. Il progresso non ammette ritardi! Questa è la narrazione che ci viene propinata ormai ogni giorno.
Il dibattito mainstream centrato su rischi, benefici e necessità di normazione della AI si svolge nel recinto obbligato della propaganda che recita sempre lo stesso mantra: la scienza è verità; la verità è sacra; la tecnologia è incarnazione di ciò che è vero e sacro e la sua missione è il progresso; il progresso è cosa buona e giusta, sempre e per tutti. Non ci sono altre opzioni: o sei per il progresso, e quindi per la scienza, dio unico, veritiero e misericordioso, oppure sei per la barbarie e la superstizione e per questo destinato alla dannazione eterna.
Prima di procedere con la nostra riflessione che intende soffermarsi su un aspetto specifico dell’Intelligenza Artificiale, quello della simulazione all’interno dei chatbot, diamo un breve cenno su AI act, il regolamento dell’UE approvato nel luglio 2024 ed entrato in vigore, per alcune sue parti, nel gennaio di quest’anno. La regolamentazione per legge, oltre a essere carente, non entra mai nel merito di chi possiede la AI e di come se ne può servire a fini non solo di arricchimento, ma anche, e soprattutto, di controllo e manipolazione.
In un articolo[1] di RAI News sulla pubblicazione dell’AI act in Gazzetta Ufficiale[2] si può scorgere il linguaggio entusiasta e apologetico che accompagna ogni innovazione tecnologica ricca di promesse e anticipatrice di un mondo, quello promesso dalla Quarta Rivoluzione Industriale, in cui le macchine solleveranno una volta per tutte gli esseri umani dalle loro fatiche, a partire da quella più gravosa: la fatica di pensare.
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