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Gli ultimi giorni di Gaza
di Chris Hedges
Questa è la fine. L’ultimo capitolo intriso di sangue del genocidio. Finirà presto. Settimane. Al massimo. Due milioni di persone sono accampate tra le macerie o all’aperto. Decine di persone vengono uccise e ferite ogni giorno da proiettili, missili, droni, bombe e proiettili israeliani. Mancano di acqua pulita, medicine e cibo. Sono giunti al collasso. Malati. Feriti. Terrorizzati. Umiliati. Abbandonati. Indigenti. Affamati. Senza speranza.
Nelle ultime pagine di questa storia dell’orrore, Israele sta sadicamente aizzando i palestinesi affamati con promesse di cibo, attirandoli verso la stretta e congestionata striscia di terra di quindici chilometri che confina con l’Egitto. Israele e la sua cinicamente chiamata Gaza Humanitarian Foundation (GHF), presumibilmente finanziata dal Ministero della Difesa israeliano e dal Mossad, sta trasformando la fame in un’arma. Sta attirando i palestinesi nella parte meridionale di Gaza come i nazisti convinsero gli ebrei affamati del ghetto di Varsavia a salire sui treni diretti ai campi di sterminio. L’obiettivo non è sfamare i palestinesi. Nessuno sostiene seriamente che ci siano sufficienti centri di cibo o aiuti umanitari. L’obiettivo è stipare i palestinesi in complessi pesantemente sorvegliati e deportarli.
Cosa succederà dopo? Ho smesso da tempo di cercare di predire il futuro. Il destino ha il suo modo di sorprenderci. Ma ci sarà un’esplosione umanitaria finale nel mattatoio umano di Gaza. Lo vediamo con la folla crescente di palestinesi che lotta per ottenere un pacco di cibo, che ha portato appaltatori privati israeliani e statunitensi a uccidere almeno 130 persone e a ferirne oltre settecento nei primi otto giorni di distribuzione degli aiuti.
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Le Commedie di Maggio
Riflessioni sul conflitto simulato
Riceviamo e diffondiamo questo bell’invito a “vivere nella verità”
«Intellettuali d’oggi, idioti di domani, ridatemi il cervello che basta alle mie mani»
F. De André
L’abbaglio
Le giornate di mobilitazione andate in scena lo scorso Maggio in diverse città d’Italia, aprono un momento di riflessione importante sull’utilizzo del conflitto simulato come pratica di lotta e sul significato della sua continua riproposizione.
Per lx più informatx non è niente di nuovo, il conflitto simulato è un logoro prodotto italiano che a più riprese, da quasi 30 anni, torna nelle piazze con grande carica estetica e abbaglia le telecamere.
Spesso nel dibattito militante questo tema viene ripreso ma mai rivendicato seriamente da chi lo agisce, nascosto tra confuse giustificazioni e vittimizzazioni, ammiccamenti complici del “famo gli scontri!” o fantasmagoriche narrazioni di esplosive giornate di lotta sulle piattaforme di movimento.
Questa primavera però non è servito un naso allenato per sentire la puzza, dato che la cagata è stata chiaramente proposta a favore di telecamera se non apertamente rivendicata e sbrodolata sui giornali da uno dei “capoccia”, con tanto di giustificazioni ai «poliziotti che fanno bene il loro lavoro» contrapposto a quelli che «si fanno prendere la mano» e andrebbero bacchettati (parole tanto infami non meritano di essere analizzate oltre la loro semplice citazione). 1
Questo asservimento alla politica del compromesso e dello spettacolo, che vuole piazze disciplinate e orchestrate, non è solo una fastidiosa stortura con cui fare i conti ma un’abitudine radicata che crea mostri, spezza le gambe e soffoca la Rivolta; trascinarsi questo cadavere al seguito è una fatica che, se in tempi storici più lontani si diluiva in un conflitto sociale più alto e un apparato repressivo più debole, a oggi, non possiamo più permetterci.
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La Cina, la guerra tecnologica con gli USA e la resa del WSJ
di Giuseppe Masala
Secondo l'autorevole quotidiano economico americano la Cina starebbe vincendo la guerra tecnologica con gli USA. A fare la differenza la programmazione di lungo periodo del PCC
Non è certamente passato inosservato né nelle cancellerie di tutto il mondo, né tra gli osservatori più attenti l'articolo del Wall Street Jornal del 30 Maggio dal titolo “The U.S. Plan to Hobble China Tech Isn’t Working”, nel quale si sostiene apertamente che la Cina stia vincendo la disfida tecnologica con gli USA e che la strategia di contenimento implementata da Washington si stia dimostrando del tutto inadeguata per raggiungere l'obbiettivo prefissato.
L'estensore del pregevole articolo, Christopher Mims, elenca in maniera puntuale tutte le tappe principali di questa mortale partita a scacchi che Washington ha deciso di intraprendere contro Pechino. Una partita molto sottovalutata, anche perchè si è svolta – senza esclusione di colpi – mentre tutti o quasi erano distratti dal conflitto bellico in corso in Ucraina.
Secondo Mims la strategia di contenimento tecnologico è iniziata durante la prima presidenza Trump, quando nel 2018, l’allora segretario al commercio Wilbur Ross ha tagliato la società di telecomunicazioni cinese ZTE dalla tecnologia statunitense, ad esempio in relazione ai microchip, per le preoccupazioni per la sicurezza nazionale.
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Referendum, una sveglia per gli illusi sul “popolo sovrano”
di Alessio Mannino
Che cosa insegna l’esito di questi referendum?
Conta chi, o contro chi, si promuove il voto. Il contenuto è secondario, e non si distingue un’elezione (in cui si dà una delega in bianco per il Parlamento o altri organi elettivi) da un referendum (in cui invece ci si esprime con un sì o con un no, nella più pura forma di democrazia diretta).
In ordine di importanza, la prima causa dell’astensione è stata la mancanza di credibilità dei suoi organizzatori. Ovvero la CGIL, considerata tutt’uno con il PD e la “sinistra” (mentre Radicali, +Europa, Rifondazione Comunista non sono stati neppure considerati, per la loro inconsistenza mediatica e politica). Il merito dei quesiti ha scontato questa pecca originale, che deriva da decenni di auto-affondamento delle proprie ragioni storiche da parte di un centrosinistra colpevole di aver dato l’avvio legislativo alla precarietà (pacchetti Treu, 1997, ampliati poi dal centrodestra con la legge Biagi-Maroni, 2003), con un sindacato “rosso” che, pur avendo mantenuto una linea più critica, ha abbracciato il metodo della concertazione.
L’astensionismo che ha fatto davvero male, in questa tornata referendaria, non è stato né quello fisiologico di destra, scatenato specialmente da una proposta di abbreviare i tempi della cittadinanza agli stranieri, completamente sfasata rispetto alle urgenze del dibattito, né quello, divenuto anch’esso normale, del rifiuto a priori della partecipazione al voto, che via via si è fatto sempre più stabile (alle ultime europee ha votato solo il 48% degli aventi diritto — vedremo alle prossime politiche — posto che l’astensione è perfettamente legittima e più che comprensibile).
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Non ci sono scorciatoie
di Fabrizio Marchi
Mi fa ovviamente molto piacere che tanta gente abbia partecipato alla manifestazione di ieri a Roma per chiedere la fine del genocidio in corso a Gaza. Mi fa piacere solo e soltanto per i palestinesi che hanno bisogno di qualsiasi iniziativa che sostenga la loro causa. Del resto, ubi maior, minor cessat. La questione palestinese è ben più importante di qualsiasi altra bega politica o “politicista”. E tante persone hanno scelto di partecipare ieri in solidarietà con il popolo di Gaza, anche se critiche o distanti, in molti casi, nei confronti delle forze politiche che hanno promosso l’evento.
Chiarito questo, è bene però ribadire alcune questioni fondamentali. Del resto, il nostro giornale, L’Interferenza, è nato per cercare di fare analisi politica lucida e razionale, non certo per portare acqua al mulino di nessuno. La porteremo solo se e quando si creeranno le condizioni necessarie e sufficienti per farlo, cioè se e quando nascerà una nuova forza autenticamente Socialista, popolare e di classe, in grado di costituire una reale alternativa politica ai due poli e all’ordine sociale esistente.
Quella di ieri è stata una manifestazione preelettorale, diciamo una sorta di “prova tecnica di trasmissione” del cosiddetto “campo largo” (in questo paese siamo specialisti nelle formulette…), cioè delle forze politiche che l’hanno promossa (PD e AVS con la successiva e quasi contestuale adesione del M5S) che si apprestano a competere con la coalizione di centrodestra per il governo del paese.
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Come Bruxelles finanzia e orienta l’informazione europea
di Thomas Fazi
Quasi 80 milioni di euro l’anno per costruire un ecosistema mediatico filo-europeo: così l’Ue influenza il discorso pubblico
Thomas Fazi ha analizzato il complesso sistema di sovvenzioni con cui le istituzioni europee sostengono agenzie di stampa, emittenti pubbliche e progetti giornalistici in tutta Europa. In un rapporto realizzato per MCC Brussels, un think tank ungherese, il saggista italo-inglese solleva interrogativi sulla trasparenza dei meccanismi di finanziamento, sulla neutralità degli obiettivi dichiarati e sul ruolo dell’Unione europea nel definire quella che viene considerata informazione «affidabile». Fazi ricostruisce l’impatto di questa rete di finanziamenti sull’ecosistema mediatico europeo e sulla capacità dei media di svolgere il loro ruolo di contropotere democratico.
* * * *
In un nuovo rapporto esclusivo per MCC Brussels – «La macchina mediatica di Bruxelles: il finanziamento Ue ai media e la formazione del discorso pubblico» – rivelo l’esistenza di un vasto sistema, finora scarsamente esaminato, attraverso il quale l’Unione Europea eroga ogni anno quasi 80 milioni di euro a progetti mediatici in tutta Europa e oltre.
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Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Ottava parte. I profsojuz durante la NEP: il settore privato
Gli anni che seguirono videro il sindacato schierato su nuovi fronti. La NEP aveva abolito le requisizioni ai contadini, introdotto la tassa in natura e permesso nuovamente il commercio privato, con conseguente ripristino di un’economia monetaria, insieme al reingresso in economia sia del capitale privato nazionale, incarnato nella figura del nuovo borghese, il nepman, che di quello straniero.
In tale contesto il graduale, progressivo, ripristino di un’economia sofferente in tutti i suoi settori e affamata di investimenti, si collocavano all’interno di un modo di produzione sostanzialmente capitalistico, seppur “di Stato” e fortemente orientato dalla volontà politica del partito comunista di dirigere, indirizzare, condizionare l’andamento socio-economico con tutti i mezzi e le proprie capacità di azione e mobilitazione (SOPRATTUTTO la LOTTA DI CLASSE, per esempio completamente assente nel capitalismo con caratteristiche cinesi, a cui spesso questo periodo si accosta per analogia), lungo l’asse di una transizione e trasformazione continue, orientate a gettare le basi e far crescere sino ad allora i germogli di quel modo socialistico di produzione da esso auspicata.
E in un modo capitalistico di produzione, in un modo dove si riapriva alla possibilità di investire sia da parte del capitale privato, il nepman, che di quello straniero, anche la DIALETTICA CAPITALE-LAVORO, che come abbiam visto nel corso della Guerra civile e del Comunismo di guerra a qualcuno era parsa un termine ormai superato, anacronistico, tornava ora in auge.
Contestualmente a tale “ritorno”, anche la lotta di classe e, al suo interno, la questione salariale, assumevano di nuovo una sempre maggiore importanza: in tale quadro, anche i profsojuz tornavano a giocare NON SOLO un ruolo economico chiave, in quanto luogo deputato alla definizione e risoluzione di dinamiche contrattuali e rivendicazioni salariali, MA ANCHE un ruolo politico estremamente importante, mantenendo quella funzione mobilitante, costruttiva, NON SEMPLICEMENTE TRADUNIONISTICA, bensì ORIENTATA, MEGLIO, PROIETTATA VERSO LA COSTRUZIONE DEI PRESUPPOSTI (sia in termini di dotazione di risorse, che di costruzione di competenze) PER LA TRANSIZIONE AL MODO SOCIALISTICO DI PRODUZIONE.
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Da lontano. Diario sulla distruzione di Gaza
(Istanbul 15 ottobre 2023 – Roma 15 maggio 2025)
di Ludovica Maura Santarelli
[Ludovica Santarelli è una giovane studiosa che ha da poco discusso all’Università di Roma Tre una tesi intitolata: Guerra, violenza mediatica e censura. Il caso Palestinese. Una parte del suo lavoro di ricerca si è svolto tra Istanbul e Roma. E proprio muovendosi a cavallo fra queste due città cosmo, le due antiche capitali del mondo, ha scelto di scrivere queste poche pagine, un diario intimo e allo stesso tempo politico, sulla distruzione di Gaza. Il suo sguardo, severo, tragico, privo di risarcimenti narcisistici, è quello di una generazione consapevole di trovarsi senza riparo in un’età ormai estrema. (Daniele Balicco)]
Istanbul, 15 Ottobre 2023
L’aria attorno alla stazione metro di Maltepe sembra essere tesa. Appena accanto alle scale mobili, un signore ha posizionato un mucchio di bandiere della Palestina e altri striscioni da vendere; sarà solo il primo di una lunga serie di venditori che incontrerò sulla strada per raggiungere il luogo della protesta. Poco più avanti noto i primi poliziotti; sul lato della piazza alcuni di loro si erano sistemati davanti alla camionetta, coperti da uno scudo. Mentre aspetto il mio collega, penso che abbiamo fatto bene a stampare dei tesserini da giornalista con i nostri nomi: “se si mette male, li indossiamo” mi aveva detto lui. Dal nostro punto di vista europeo, rispettivamente italiano e spagnolo, un evento del genere aveva tutte le carte in regola per sfociare in un’insurrezione; il fatto che fossimo in Medioriente non ci sembrava meno pericoloso. Ma i timori si rivelarono presto infondati.
La Turchia infatti, e in particolar modo il suo presidente Recep Tayyip Erdoğan, non ha mai nascosto il suo supporto alla nazione palestinese.
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La grande (dis)illusione tra IA e next big thing
di Roberto Paura
Per chi è cresciuto negli anni d’oro di Star Trek, a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta, l’epoca attuale dovrebbe sembrare il paese dei balocchi. Intelligenza artificiale! Realtà virtuale! Teletrasporto quantistico! Computer che parlano! Stampanti 3D! Certo, mancano le astronavi – i mega-razzi di SpaceX continuano a non essere all’altezza delle aspettative – e gli extraterrestri, ma tutto il resto è qui tra noi. Nel 1995 La fisica di Star Trek di Lawrence Krauss parlava del teletrasporto di fotoni, che due anni dopo il team di Anton Zellinger (poi premio Nobel nel 2022) avrebbe trasformato in realtà. Nel 1999 I computer di Star Trek di Lois Gresh and Robert Weinberg spiegava le difficoltà nel realizzare un’interfaccia elettronica in grado di dialogare con un utente in modo naturale, qualcosa che oggi diamo praticamente per scontato.
Ma allora perché, tutto sommato, non ci sembra di vivere nel mondo di Star Trek? Perché la realizzazione di queste grandi promesse tecnologiche non sembra star cambiando davvero il mondo? Proviamo a rispondere a queste domande attraverso alcuni studi recenti sulle next big thing di questo decennio, ossia l’intelligenza artificiale e i computer quantistici. In entrambi i casi, vedremo che la realtà è piuttosto diversa dalle promesse.
Attento a quel che desideri
Spiega Matteo Pasquinelli in un suo saggio nel volume collettaneo AI & Conflicts 02 (edito da Krisis Publishing):
“Sarebbe in effetti giusto riformulare la domanda «Una macchina può pensare?» in una forma più sensata a livello teorico: «Un modello statistico può pensare?». L’intelligenza artificiale non è affatto «intelligente». È più accurato definirla come uno strumento di conoscenza o di amplificazione logica in grado di percepire schemi che vanno oltre le competenze della mente umana”.
(Pasquinelli in Cotimbo et al., 2025)
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Manifestare? Anche col diavolo!
di Fulvio Grimaldi
YT Canale “Mondocane Video” di Fulvio Grimaldi
https://www.youtube.com/watch?v=kZqOwbKuVyw
Chi è andato al mare con buone ragioni, chi è rimasto a casa col muso, chi non si è proprio pronunciato…
E chi ha partecipato.
Questo video si prova a trovare le ragioni degli uni, ma finisce con il sostenere quelle degli altri. Di coloro che alla manifestazione del 7 giugno per la Palestina a Roma, convocata dai panciafichisti, doppiogiochisti, mezzi di qua e mezzi di là, ignavi e complici, sono andati pienamente convinti che fosse giusto, utile, bello andarci, palco o non palco.
E si sono trovati, con altri trecentomila, rappresentanza effettiva di milioni di italiani, la più grande manifestazione per la Palestina d’Italia e forse del mondo. Convocata dal diavolo? Ebbene, abbiamo marciato per la Palestina su convocazione del diavolo. E prima avevamo marciato in 100.000 contro la guerra, convocati da un cripto-diavolo. Anche perché nessuno dei bravi e giusti è stato capace di convocarci e organizzarci.
Nel nostro piccolo, ma emblematico, abbiamo goduto dell’entusiasmo di tantissime persone, di tanti pollici su, di consensi a non finire, per il nostro cartello “IO STO CON LA RESISTENZA”, con tanto di volto dell’eroe-martire di Gaza, Yahya Sinwar.
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Trump, Musk e lo scontro interno al capitalismo USA
di Alessandro Volpi*
Lo scontro tra Donald Trump ed Elon Musk, tra il presidente degli Stati Uniti e l'uomo più ricco del mondo, che è stato il suo principale finanziatore in campagna elettorale, è iniziato in sordina ed è esploso in modo roboante, con le peggiori accuse reciproche. Musk è arrivato a chiamare in causa il coinvolgimento di Trump nello scabrosissimo "affaire Epstein" e a ipotizzare di dar vita a un nuovo partito per battere l'attuale presidente. Le ragioni di questa deflagrazione sono molteplici e non facilmente sintetizzabili. Provo a elencarne alcune. La prima, a mio parere decisamente rilevante, è costituita dal segnale che Trump ha voluto dare alle Big Three, a BlackRock, Vanguard e State Street, e in generale a quel tipo di finanza, di certo non in buoni rapporti con Musk. I tre fondi sono stati, e sono tuttora, grandi azionisti di Tesla ma hanno sempre manifestato una certa ostilità verso Musk che volevano sostituire alla guida di Tesla, nonostante il suo 13%, già nel 2018 e a cui hanno rimproverato la pessima operazione di acquisto di Twitter, causa di importanti perdite di valore per la società.
Gli stessi grandi fondi, poi, non hanno certo apprezzato il deciso posizionamento di Musk a sostegno di Trump e, paradossalmente, dopo l'elezione dello stesso Trump, quando i titoli Tesla si sono impennati, arrivando ad una capitalizzazione di mille miliardi di dollari, hanno cominciato a ridurre la loro presenza azionaria nella società.
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Il volto interno del genocidio: la “mielizzazione” della ragione
di Lavinia Marchetti
Il genocidio non si compie solo con bombe e bulldozer. Richiede anche penne, tastiere, microfoni. Serve un lessico. Una narrazione. Un volto rassicurante che renda l’indicibile tollerabile.
Ogni genocidio ha bisogno di una lingua. Non solo per essere raccontato, ma per essere consentito. Per sedimentarsi nel senso comune, per aggirare l’indignazione, per sfuggire al giudizio. Serve una semantica della neutralizzazione, un codice di rimozione. Da più di un anno e mezzo lo occultano in ogni modo.
Solo ora la stampa e le persone aprono gli occhi. Perché?
Qui entra in gioco quello che chiamo il volto interno del genocidio: non i carnefici in divisa, ma gli editorialisti in giacca. Non i generali, ma i grammatici. Coloro che traducono la carne bruciata in “effetto collaterale”, i corpi dei bambini in “danni asimmetrici”, la distruzione sistematica di un popolo in “autodifesa”, insomma quelli che per giustificare omicidi di bambini smobilitano il terrorismo, trucchetto dall’11 settembre ha fatto milioni di morti con ben poche accuse no?
In questo post parlo di giornalismo, sul nostro amato governo farò un altro post, ma necessito di ricerche più approfondite (che sto facendo).
Ho scelto alcuni nomi. Non perché siano i soli, ma perché emblematici. Perché rappresentano, nella loro differenza di stile e intenzione, una rete epistemologica compatta, che sostiene, giustifica, occlude. Maurizio Molinari, Paolo Mieli, Daniele Capezzone, Giuliano Ferrara, Claudio Cerasa, Mario Giordano, Beppe Severgnini: volti diversi di uno stesso apparato discorsivo.
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Trump, visto da Pechino
di Vincenzo Comito
La Cina reagisce con savoir-faire alla guerra commerciale. Prova, anzi, ad approfittarne per presentarsi al mondo come l’alternativa al caos economico dei dazi e la garante di una globalizzazione maggiormente condivisa. È possibile un riavvicinamento con l’UE?
Può darsi che gli obiettivi complessivi che il presidente Trump mira a raggiungere con la sua campagna dei dazi non siano del tutto chiari, ma forse si può ricorrere a quanto scrive Kroebler (Kroebler, 2025) in proposito: «lo scopo della sua guerra commerciale è quello di rimuovere i vincoli imposti dall’attuale ordine economico internazionale sull’esercizio del potere unilaterale statunitense e in particolare l’esercizio del potere da parte del presidente…quello che Trump vuole soprattutto è di mostrare la sua dominazione sul mondo e di ottenere sottomissione. I paesi che non resistono attivamente ai suoi dazi verranno graziosamente risparmiati dall’imposizione di dazi troppo elevati, il paese che osa resistergli è selvaggiamente punito…».
La “crociata” contro la Cina viene da lontano
In tale quadro un paese in particolare è sotto tiro, la Cina, ai voleri da parte di chi si crede, a torto o a ragione, il padrone del mondo. Nella sostanza, peraltro, la “crociata” di Trump su questo fronte non appare in generale certo una novità. La lotta statunitense al paese asiatico è cominciata da molto tempo e, anche se essa ha acquisito contorni decisi a partire dalla presidenza Obama, tra l’altro con il suo pivot to Asia, i segni del conflitto erano evidenti già da diversi anni prima. In ogni caso da Obama in poi abbiamo assistito a un impressionante crescendo di ostilità. Ma tale offensiva è risultata del tutto fallimentare.
Il problema di fondo è che gli Usa sono spaventati dalla Cina.
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In margine alla “Marcia per Gaza”. Dalla nazione araba ad “Abramo” e ora tocca all’Egitto?
di Fulvio Grimaldi
Mentre scrivo siamo alla vigilia dello sbarco al Cairo della Global March to Gaza, mentre verso la stessa destinazione veleggia la collaudata Freedom Flottiglia. Volontari egiziani di varie associazioni sono pronti in Egitto per accoglienza e successivo spostamento ad Al Arish e, poi, l’effettiva marcia a piedi di 45 km fino al valico di Rafah, da tempo sotto controllo israeliano.
Lì, inesorabilmente, i marciatori si areneranno. Mi ci sono arenato anch’io l’altro anno, assieme a Marc Innaro (l’ottimo e perciò demansionato collega RAI) e tanti altri prima e dopo di me. Colleghi appesi all’illusione che anche in Israele, cioè nella Palestina occupata, valesse il diritto universale della libera informazione, cardine della democrazia di cui Israele sarebbe l’unico rappresentante in Medioriente. La risposta è stata l’uccisione di 220 giornalisti di Gaza.
Bisognerebbe dire che ce n’è per fortuna già tanta, di attenzione mondiale sulla carneficina di Gaza, in cui si mira a bambini, donne, ospedali, scuole, rifugi, tende e, con particolare cura, a scheletri di affamati che si avvicinano dove mercenari USA, con pezzetti di formaggio, allestiscono trappole per topi. Lo dobbiamo a coloro, colleghi anch’essi, ma stanziali a Gaza, che per averci fatto vedere l’abisso della nequizia israeliana e del dolore palestinese, sono stati disfatti davanti a un computer e un cellulare, preferibilmente nella loro casa assieme a tutta la famiglia. E così che un baldo riservista della “Golani” può vantare due genitori e dieci figli fatti a pezzi con un missile solo, meritando che il ministro Katz gli appunti sul petto l’onorificenza per meriti sionisti.
Il dato di un rapporto tra partecipanti europei e arabi alla Global March, a spanne di 20 a 1, ci presenta una realtà storica inimmaginabile tra oggi e quando ebbi modo di trasmettere a Paese Sera dispacci sugli esiti delle battaglie tra l’esercito di Dayan e la coalizione araba. Questa, sì, zeppa di giovani volontari egiziani. libici, iracheni, siriani, giordani, yemeniti, perfino kuweitiani.
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Kiev irresponsabile ci mette a rischio
di Fabio Mini
L’Ucraina ha dimostrato agli eversori che colpire in alto si può, impunemente e “low cost”. Gli alleati europei e americani si sono ficcati in una situazione scomoda, dalla quale converrebbe si sfilassero
Il presidente Trump ha rotto l’assordante silenzio sull’attacco ucraino alle basi russe dicendo di aver parlato con Putin di una eventuale risposta e divagando sull’Iran.
Intanto il potente Yermak, capo dell’ufficio di Zelensky, si è recato negli Usa per sollecitare nuove sanzioni e fornire spiegazioni sull’utilizzazione delle immagini satellitari e tecnologie statunitensi. Anche questa visita è probabilmente un gioco delle parti. In effetti, gli Usa con Biden hanno ceduto e condiviso immagini, dati e tecnologie anche più sofisticate, ma con l’impegno di non dirlo alle tv di tutto il mondo. Trump sta continuando sulla stessa linea, ma la bravata ucraina lo ha messo in difficoltà portando lo scontro al livello dei rapporti strategici diretti fra Russia-Usa. Nel colloquio fra i due leader è stata pronunciata una parola che è riverberata sia nel discorso di Putin ai governanti della federazione sia in quello di Trump sulle restrizioni agli ingressi negli Stati Uniti: terrorismo. Così il presidente russo ha definito i sabotaggi ai ponti e alle ferrovie e così ha definito gli attacchi alle basi aeree strategiche.
L’operazione militare speciale che stava per trasformarsi in guerra tra Russia e Ucraina si annuncia invece come guerra al terrorismo da qualsiasi parte provenga. In effetti l’attacco alle basi con i droni è stato un attacco di guerra diretto dai servizi segreti (Sbu) e condotto non dalle forze armate ma da operativi sostenuti da una rete di connivenza interna alla Russia, baldanzosamente ringraziata dallo stesso Zelensky.
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Il riarmo tedesco riporta l’Europa indietro di un secolo
di Roberto Iannuzzi
Per ricostruire l’esercito tedesco ci vorranno anni, ma tale decisione segna uno spartiacque che cambierà il volto della Germania. E dell’Europa
L’annunciato riarmo tedesco riporta il vecchio continente a logiche di potenza per lungo tempo dimenticate, in un quadro di tensioni e squilibri europei, oltre che di aspra contrapposizione con la Russia, di certo non benaugurante per il futuro dell’Europa.
Paesi come Gran Bretagna, Francia e Polonia intendono seguire l’esempio tedesco, altri assistono preoccupati.
L’idea di un rafforzamento dell’esercito tedesco in realtà non è nuova. Essa risale all’annuncio della cosiddetta “svolta epocale” (Zeitenwende) da parte di Olaf Scholz, predecessore dell’attuale cancelliere, all’indomani dell’invasione russa dell’Ucraina nel 2022.
Due anni dopo quell’annuncio, tuttavia, il German Council on Foreign Relations aveva pubblicato un rapporto nel quale si affermava che la “svolta” non c’era stata.
Ma con l’arrivo di Friedrich Merz al cancellierato le cose paiono cambiate. Innanzitutto egli ha riformato il tetto del debito – una novità senza precedenti nella politica fiscale tedesca, che permette di sbloccare centinaia di miliardi di euro in spese per la difesa.
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La retorica della prevaricazione nel passaggio tra vecchio e nuovo antisemitismo
di Fabio Ciabatti
Valentina Pisanty, Antisemita. Una parola in ostaggio, Bompiani, Firenze-Milano 2025, pp. 176, € 13,30.
Antisemitismo non è un concetto come tanti altri. Divenuto sinonimo del Male Assoluto questo termine segna un confine tra chi appartiene al consesso civile e chi ne è escluso, tra chi ha diritto di parola e chi deve essere messo a tacere senza tanti complimenti. Non sorprende dunque che il potere di definire i suoi contenuti sia al centro di una battaglia senza esclusione di colpi. Proprio questa battaglia è il tema di Antisemita. Una parola in ostaggio, l’ultimo libro della semiologa Valentina Pisanty.
Contrariamente al senso comune, ci ricorda l’autrice, l’antisemitismo non acquisisce centralità nel discorso pubblico subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale quando si scopre l’orrore del genocidio nazista degli ebrei. E questo vale anche per lo Stato di Israele che, subito dopo la sua nascita, è impegnato a prendere le distanze dall’immagine dell’ebreo come vittima che nella Shoah aveva avuto la sua massima espressione. D’altronde, una parte consistente dell’opinione pubblica internazionale era stata favorevole allo stato israeliano nei suoi primi venti anni di vita. Ma le cose iniziano a cambiare con la guerra dei Sei Giorni del 1967 che porta Israele a occupare e a colonizzare Cisgiordania, Striscia di Gaza e alture del Golan.
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Adriano Prosperi, Cambiare la storia
di Gabriele Talami
Adriano Prosperi, Cambiare la storia. Falsi, apocrifi, complotti, Torino, Einaudi, 2025
Adriano Prosperi, storico italiano di formazione modernista, nel suo ultimo saggio Cambiare la storia, edito da Einaudi, affronta gli aspetti principali relativi all’arte di falsificare la storia. In questo viaggio attraverso varie epoche l’autore accompagna il lettore indagando gli aspetti, i contesti e le motivazioni che portano alla nascita di un falso storico. Nella breve premessa sono attenzionati alcuni aspetti della cancel culture, una tendenza sorta negli ultimi anni e approfondita in particolare dagli storici di World History. Secondo Prosperi questa visione, sulla carta tesa a migliorare la storia umana epurandola da violenze passate e personaggi sgraditi, oltre a semplificare la realtà ha di fatto trasformato il ruolo dello storico in quello di giudice. Se, come sosteneva già Aristotele, il passato non può essere modificato, è un’operazione mentale contorta e rischiosa giudicare il passato con gli occhi del presente.
Figure del calibro di Cristoforo Colombo e Winston Churchill hanno compiuto quelle che noi, in base alle nostre sensibilità odierne in materia di parità e diritti, senza alcun dubbio riteniamo essere atti razzisti e nefasti. Questa forma mentis conduce inevitabilmente alla cosiddetta “civiltà di vergogna” che, ignorando il dato storico, vuole colpevolizzare l’Occidente cercando di relegare all’oblio le tracce meno nobili del suo passato. Nel primo capitolo di Cambiare la storia Prosperi affronta quello che è ritenuto universalmente il falso di maggior successo e durata nella storia, ovvero la donazione di Costantino. Secondo quanto affermato dal documento, nel 315 d.C. l’Imperatore Romano Costantino, guarito dalla lebbra in seguito al battesimo cristiano elargito da parte di Papa Silvestro I, avrebbe in segno di riconoscenza donato al vescovo di Roma la parte occidentale dell’Impero.
Questo dono fece seguito alla conversione di Costantino nel 312 d.C., in un periodo in cui solo una parte minoritaria degli abitanti dell’impero era di fede cristiana. Se come affermava Paul Veyne l’audace conversione dell’imperatore fu un avvenimento decisivo in grado di spostare il baricentro della storia mondiale, la falsa donazione ebbe un peso considerevole nell’espansione territoriale e nel potere temporale della Chiesa.
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La logistica tra legalità e illegalità
di Marco Veruggio, Sergio Fontegher Bologna
La crescita della logistica è impressionante, nel 2024 in Italia siamo intorno a un miliardo di pacchi consegnati. Un fattore di inquinamento e di consumo di suolo per gli hub. In Amazon e nelle “coop spurie” si lavora in condizioni di sfruttamento, ma crescono conflitti e sindacati di base
Chi ha familiarità con il settore della logistica, ha una certa difficoltà ad accettare che quella cosa chiamata “logistica” nella narrazione quotidiana, inclusa anche la consegna dei cibi a domicilio, sia veramente tale. La logistica “vera” è una tecnica di management che si è affermata alla metà degli anni 70 in correlazione stretta con la lean production, è diventata pian piano una funzione strategica dell’impresa manifatturiera multinazionale, con il compito di organizzare al meglio i flussi inbound dei fornitori e quelli outbound dei clienti finali.
Con il procedere della globalizzazione, un po’ alla volta al posto del termine “logistica” si è preferito parlare di supply chain, tradotto in italiano con “catene di fornitura”, intendendo con questo la parte operativa delle “catene globali del valore”. Le esperienze di logistica più avanzate sono state quindi compiute nei sistemi dove domina la grande impresa (Germania, Giappone e Stati Uniti). In sistemi come quello italiano, caratterizzati da imprese medio-piccole, è invalso l’uso di esternalizzare questa funzione aziendale, affidandone a terzi specializzati l’esecuzione, in particolare le fasi del trasporto e magazzinaggio .1
Una svolta epocale è avvenuta tra la fine degli anni 80 e l’inizio degli anni 90 con l’ingresso nel mercato della logistica conto terzi (la cosiddetta contract logistics, la logistica esternalizzata che si basa su contratti a lungo termine) delle grandi società di servizi espresso, DHL, TNT, Federal Express, UPS.2 Perché? Perché con la globalizzazione le catene di fornitura sono diventate sempre più “lunghe”, un’azienda localizzata in Italia poteva avere dei fornitori di materie prime o di componenti localizzati in Patagonia o in Kazakistan. Per trasportare velocemente le forniture non bastavano i camion o le navi, ci volevano gli aerei. Queste società disponevano di flotte di aerei cargo e poterono iniziare a controllare il mercato delle grandi catene del valore.
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Sulla rivoluzione russa di Rosa Luxemburg
di Salvatore Bravo
Rosa Luxemburg nel 1918 scrisse un breve testo Sulla rivoluzione russa, era in prigione, e si informava, ciò malgrado, sugli avvenimenti che scuotevano la Russia e rimettevano in moto la storia. Paul Levi militante comunista andò a trovarla in carcere e le sconsigliò la pubblicazione, in quanto il testo era ancora in embrione. Dopo la sua tragica morte nel 1919, Jogiches e Clara Zetkin ritrovarono nell’appartamento della rivoluzionaria devastato dai Freikorps il breve scritto costituito da fogli sparsi e da frasi talvolta incomplete. Nel 1922 Paul Levi ruppe con il partito e pubblicò il testo “completandolo”. Nel testo, malgrado le manipolazioni, emergono in modo chiaro le distanze della rivoluzionaria dal bolscevismo. Le osservazioni critiche che Rosa Luxemburg muove al bolscevismo sono per noi attuali. La rivoluzionaria profetizzò mediante il senso critico che mai l’abbandonò il pericolo che la rivoluzione bolscevica fallisse per l’isolamento internazionale e per lo scollamento autoritario tra burocrazia e popolo. Il partito dei burocrati avrebbe alla fine prosciugato la spinta rivoluzionaria del popolo mediante la compressione delle libertà e con la gestione dispotica del potere. La scissione tra partito e potere avrebbe gradualmente trasformato la rivoluzione in conservazione di equilibri antichi. Il potere sarebbe tornato a gravare sul popolo e i “compagni” si sarebbero ritrovati ancora una volta “sudditi”. Lo scioglimento dell’Assemblea Costituente il 18 gennaio 1918 fu la premessa di una deriva che avrebbe condotto la rivoluzione al suo fallimento.
Rivoluzione è democrazia consiliare senza la quale nessuna conquista può essere definita “rivoluzionaria”. I rilievi politici che la Luxemburg mosse al bolscevismo e a Lenin hanno il limite di non considerare le condizioni storiche, in cui il comunismo nascente si trovava. Era assediato dalle potenze capitalistiche ed era in corso la Guerra civile.
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Attaccato a terra l'arsenale nucleare russo
Sognano un Atomic First Strike?
di Francesco Cappello
Gli attacchi alle forze nucleari strategiche minano i trattati sul controllo degli armamenti, distruggono la fiducia tra le potenze nucleari e rendono estremamente improbabili se non impossibili le prospettive di pace, spingendo verso l’escalation e aumentando il rischio di conflitto nucleare. Si sono preparati la loro fine
Il presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato:
“L’Ucraina ha attaccato le nostre basi aeree dove sono di stanza i bombardieri strategici russi. Hanno dimostrato che non può esserci una soluzione pacifica. Con questa azione hanno preparato la propria fine. Non c’è più la linea rossa. Si pentiranno di ciò che hanno fatto.”
- Attacchi ai bombardieri strategici nucleari Tu-95MS e Tu-22M3, nonché attacco ad aereo da trasporto An-12 presso la base aerea di Olenya; Attacchi a due velivoli AWACS A-50 presso la base aerea di Ivanovo; Voli su diversi Tu-22M3 presso le basi aeree di Dyagilevo e Belaya.
- L’A-50 è utilizzato per rilevare e tracciare velivoli e missili, inclusi quelli con capacità nucleari.
- Può supportare il comando e controllo delle operazioni aeree, inclusa la protezione dei bombardieri strategici russi, come il Tu-95 e il Tu-160, che sono parte della triade nucleare.
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Israele, ovvero genocidio e riciclaggio
di comidad
Le notizie vecchie sono spesso più istruttive delle nuove. Se si vuole capire il motivo dell’incantesimo che circonda Israele, e di tutte le timidezze e i distinguo con i quali viene affrontato il genocidio a Gaza, allora risulterà utile sapere che in Israele sono presenti quasi tutte le grandi aziende del mondo, non solo per fare accordi di investimento con le industrie e le autorità locali, ma anche per alimentare un giro di “startup”, cioè di nuove aziende che nascono e muoiono in breve tempo con la scusa di seguire l’onda del mercato. Non per niente le effimere startup sono uno degli strumenti preferiti per l’evasione fiscale e il riciclaggio. Quando uno sente le parole evasione fiscale e riciclaggio non sarà difficile associarle a Stellantis, che infatti ha il suo giro di startup in Israele.
Ma non deve neanche sorprendere che in Israele ci sia una ex azienda pubblica come l’ENEL. Il fatto che oggi l’ENEL sia una multinazionale non spiega il motivo per cui essa vada a investire in un paese costantemente in guerra. Un paese in cui chi se lo può permettere, come appunto i tecnici qualificati, coglie l’offerta al volo se si tratta di svignarsela e cambiare aria in cerca di quieto vivere. Ovviamente la comunicazione ufficiale cerca di ridurre il fenomeno al cosiddetto trauma del 7 ottobre. La realtà è che la labilità demografica di Israele era già evidente da tempo, dato che persino l’attività agricola delle colonie israeliane in Cisgiordania dipende non solo dai finanziamenti degli evangelici americani, ma anche dal loro lavoro al momento del raccolto.
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Operazione SpiderWeb: un’escalation che non resterà senza risposta
di Francesco Ferrante
È difficile sopravvalutare la natura teatrale dell’ultima operazione di droni ucraina all’interno del territorio russo, denominata Operazione “SpiderWeb”. Decine di piccoli droni, secondo quanto è emerso, sono stati introdotti clandestinamente in Russia durante un arco temporale di 18 mesi, immagazzinati nei container di camion commerciali e lanciati verso basi aeree strategiche russe. I titoli dei giornali la celebrano ora come un colpo di grande portata, un’ingegnosa dimostrazione di guerra asimmetrica.
Ma se si toglie il clamore mediatico, il quadro che emerge è molto più preoccupante. L’Ucraina afferma che gli attacchi hanno causato danni per 7 miliardi di dollari. I media occidentali, senza filtro alcuno, ripetono questa cifra acriticamente, mentre i filmati finora suggeriscono che solo da sei a dieci velivoli sono stati distrutti invece dei 41 annunciati da Kiev.
Anche prendendo per buone le stime più alte di Kiev, smentite dalle stesse immagini e dichiarazioni del Pentagono, che affermano che ben il 34% delle piattaforme aeree russe per il lancio di missili da crociera sia stata colpita, questo lascia alla Russia una schiacciante superiorità in termini di missili da crociera, missili balistici, droni, artiglieria e bombe plananti.
In altre parole, il vantaggio strategico della Russia rimane intatto. Quindi quale era il vero obiettivo operativo di questa operazione? Non si è mai trattato di ribaltare le sorti della guerra.
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Il lavoro e le false astrazioni
di Francesco Coniglione
Da tempo e in diverse occasioni Massimo Fini ha fatto una efficace critica del mito produttivistico e della sua celebrazione del lavoro come accumulo oltre le necessità. In età premoderna, egli sostiene, il lavoro non è mai stato celebrato come un valore da coltivare, così come avviene anche in certe popolazioni che, ad es., coltivano la terra per quanto loro basta. Si potrebbe aggiungere che a essere lodato era piuttosto, presso gli antichi romani, l’otium, visto non come semplice e passivo adagiarsi sul non fare, ma come occasione per coltivare le più alte qualità dell’umano.
Ma in questa pur giusta e condivisibile critica si annida un equivoco di fondo, che si ripercuote in altri ambiti, contribuendo a una loro deformata interpretazione. Infatti nel criticare il lavoro si deve fare attenzione a non confondere l’astrazione con il portatore concreto di essa: non è il Lavoro in quanto tale che si deve esaltare e/o difendere, ma il lavoratore nel quale esso si incarna e che se ne fa interprete. Non a caso la Festa del Lavoro è stata istituita allo scopo di richiamare l’attenzione sulla necessità di tutelare i lavoratori dagli eccessi degli industriali, che praticavano anche lo sfruttamento del lavoro minorile. Non si celebrava quindi il lavoro in quanto tale, bensì i lavoratori soggetti a uno sfruttamento spesso inumano: nel celebrare il lavoro si difendeva la dignità umana di chi lo esercita, ed è quindi l’uomo l’oggetto della sua valorizzazione. Quella medesima umanità che oggi viene offesa e mortificata dai lavori precari e sottopagati, che arricchiscono sempre più la classe abbiente, contribuendo alla crescente diseguaglianza delle ricchezze.
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Globalizzazione: come la sicurezza informatica cambia la geografia della supply chain digitale
La catena delle forniture digitali nell’era post-globale.
di Giuseppe Sperti
L’intreccio tra tecnologia e geopolitica sta trasformando radicalmente la catena delle forniture digitali. Dalla rimozione dei componenti Huawei in Germania al ripristino della produzione di chip negli Stati Uniti, i governi stanno riscrivendo le regole della globalizzazione alla luce dei rischi cibernetici. Compromissioni, spionaggio e guerre ibride hanno fatto della fiducia tecnologica una nuova questione geopolitica. Perché in un mondo dove ogni microchip può diventare un’arma, la sicurezza impone filiere affidabili, trasparenti e strategicamente allineate
Entro il 2026, gli operatori di telecomunicazioni tedeschi dovranno rimuovere dalle loro reti i componenti 5G forniti da aziende cinesi, come Huawei e Zte. Questo piano, disposto nel luglio 2024, deriva dalla crescente consapevolezza che la tecnologia non può più essere considerata neutrale.
In tempi di crescente tensione geopolitica, i governi si stanno rendendo conto che i chip non sono solo dispositivi elettronici e progettazione avanzata: possono anche essere strumenti di controllo e spionaggio, talora perfino di guerra. Ogni passaggio della catena di fornitura può essere intercettato e compromesso.
Il caso tedesco simboleggia una profonda trasformazione della supply chain digitale. Le forniture di tecnologia, un tempo considerate solo sotto la prospettiva economica, si stanno riconfigurando in linea con le esigenze strategiche dei governi. E vengono valutate anche sotto un profilo geopolitico.
Per anni la globalizzazione ha prosperato sull’assunto che l’efficienza economica e l’interdipendenza avrebbero garantito stabilità e crescita. Ma, nel nuovo scenario geopolitico, questo modello si sta sgretolando. Sotto il peso di una minaccia, silenziosa ma sempre più centrale: la compromissione della supply chain tecnologica.
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