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La sinistra tedesca ha un problema di sionismo
di Lucilla Lepratti
È difficile dare una rappresentazione fedele del livello di repressione che vive in Germania chi si oppone al genocidio in Palestina, perché ogni tentativo di descriverla sembra non renderne pienamente la gravità. Tra l’infinità di esempi che si potrebbero dare, c’è uno dei tanti casi di violenza che non ha attratto l’attenzione di grandi testate giornalistiche, ma che serve a illustrare la brutalità della repressione anti-palestinese in Germania.
Alla manifestazione annuale di commemorazione di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht a Berlino, a gennaio di quest’anno, si era aggregato un blocco pro-palestinese con tanto di kefiyeh, bandiere e cartelloni. La polizia si era presentata in numeri assolutamente sproporzionati per la grandezza del corteo e decisamente più alti degli anni scorsi, con tanto di elmi e telecamere. Dopo aver diviso il corteo in due e con il pretesto di arrestare qualcuno che aveva gridato lo slogan presunto antisemita “From the river to the sea, Palestine will be free”, la polizia ha caricato tredici manifestanti, ferendo gravemente almeno una decina di persone. Uno di loro, un uomo di sessantacinque anni spinto a terra dalla polizia, ha perso conoscenza e mentre sanguinava dal naso e dalla bocca la polizia si è rifiutata di chiamare un’ambulanza, impedendo a paramedici e giornalisti di soccorrerlo. L’uomo è poi stato portato in ospedale e pare abbia avuto un infarto, anche se la polizia non ha voluto confermare la diagnosi. Le immagini di quella violenza sono state diffuse sui social, a nutrire la rabbia di chi continua a scendere in piazza, ma senza che la violenza della repressione sia diminuita; si sono aggiunte alle tante immagini di arresti e brutalità, spesso per un semplice cartello che, senza citare la famigerata frase per intero, faceva riferimento alla richiesta di libertà e diritti nel territorio compreso tra il mar Mediterraneo e il fiume Giordano.
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Per fermare le atrocità
di Bruna Bianchi
Affamare, dilaniare, distruggere tutto ciò che sostiene la vita. Siamo di fronte all’ultimo atto del progetto sionista? Malgrado tutto sono tante le persone che a Gaza con straordinaria forza d’animo soccorrono, proteggono, consolano, salvano umani e animali. Intanto ovunque nel mondo non smettono di svolgersi manifestazioni per chiedere il cessate il fuoco e la fine della occupazione. Dare risonanza a queste voci, denunciare le sofferenze inflitte, conservare la memoria, contribuire a spezzare la catena delle complicità denunciando gli stati che inviano armi, che accettano di sospendere gli aiuti, chiarire la natura del colonialismo sionista, contribuire a creare un movimento di opinione, sono le uniche vie per fermare l’orrore della violenza coloniale e genocida che si è fusa con la violenza delle armi pesanti all’avanguardia.
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“Israele ha bisogno di creare una crisi umanitaria a Gaza […]. Gaza diventerà un luogo in cui nessun essere umano può esistere…”
(Giora Eiland, ex generale del Cons. nazion. sicurezza israeliano, 8/10/23)
“Coloro che ritorneranno qui, se mai ritorneranno, troveranno terra bruciata. Niente case, niente agricoltura, niente di niente…”
(Yogev Bar-Shesht, colonnello resp. amministrazione civile a Gaza, 4/11/23)
A partire dal 7 ottobre 2023 dichiarazioni simili a quelle di Eiland e Bar-Shesht sono state reiteratamente e pubblicamente espresse da autorità politiche, militari e di governo. Frasi di incitamento a radere al suolo Gaza sono apparse con insistenza sui social.
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Può la ricchezza crescere più della produzione? Ritorno su alcuni fondamentali
di Sergio Bruno
Sergio Bruno riflette sull’incapacità delle teorie macroeconomiche di spiegare le crescenti diseguaglianze e l’aumento del peso relativo della ricchezza improduttiva e della liquidità. Solo adottando una prospettiva inter-temporale e ragionando criticamente sugli spunti di Keynes e Tobin è possibile cominciare a far luce sugli interrogativi posti da tali fenomeni, incompatibili con dinamiche di equilibrio, indicando come i deficit di bilancio sarebbero una risposta quasi necessitata al tesoreggiamento, che è il vero evento dannoso.
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La risposta alla domanda che compare nel titolo di questo articolo è: si, è possibile, è anzi un fatto divenuto vistoso da almeno un secolo. Segno che la ricchezza improduttiva cresce più della capacità produttiva, grosso modo correlata alla produzione.
Paradossale è solo che la ricchezza improduttiva non interessi molto le riflessioni sistemiche degli economisti.
L’enfasi sulla domanda di riserve liquide, posta da Keynes insieme a quella sul ruolo della domanda finale, avrebbe potuto aprire uno spiraglio. Purtroppo solo il ruolo della domanda ha cambiato “le vecchie idee”, quelle che Keynes considerava l’impedimento maggiore a più profondi cambiamenti di prospettiva. (“The difficulty lies not in the new ideas, but in escaping from the old ones, which ramify, for those brought up as most of us have been, into every corner of our minds”).
L’idea che Keynes non è riuscito a scalfire è che la moneta serva solo a finanziare le transazioni produttive e l’inflazione dei flussi delle merci prodotte.
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Attraversando il PNRR. Parte II (II)
Politiche energetiche e filiere produttive
di Emiliano Gentili, Federico Giusti, Stefano Macera
Pubblichiamo la seconda parte dello studio sul PNRR condotto da Emiliano Gentili, Stefano Macera e Federico Giusti. Dopo aver analizzato il contesto economico italiano e la strategia perseguita dall’Unione Europea nella programmazione del Piano, nel nuovo articolo, gli autori analizzano l’idea di politica energetica dell’Ue e dell’Italia ed esaminano alcuni investimenti previsti dal PNRR particolarmente significativi per lo sviluppo dell’economia italiana, con particolare riferimento alla filiera dei semiconduttori e dell’idrogeno.
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III. La filiera dell’idrogeno
La Missione 2, Componente 2, Sottocomponente 3 del nostro Pnrr punta a creare e rafforzare un comparto industriale italiano per la produzione, la distribuzione e l’utilizzo dell’idrogeno come risorsa energetica alternativa. Al suo interno, una buona quantità di fondi viene destinata allo sviluppo dell’idrogeno per applicazioni industriali (soprattutto chimica e raffinazione petrolifera). Al di là delle ragioni economiche di un simile orientamento tale scelta riflette il fatto che gli impianti produttivi che già utilizzano idrogeno sono più facilmente integrabili all’interno della filiera dell’idrogeno inteso come vettore energetico: l’utilizzo di questo gas per produrre ammoniaca, ad esempio, consente di trasportarlo all’interno del composto ammoniaco, rendendolo molto più «stabile» e facile da controllare, e abbassando i costi del trasporto logistico.
L’Investimento 5.2, infine, prevede «l'installazione in Italia di circa 5 GW di capacità di elettrolisi [uno dei procedimenti per produrre idrogeno] entro il 2030 (…) [e] lo sviluppo di ulteriori tecnologie necessarie per sostenere l’utilizzo finale dell'idrogeno (es. celle a combustibile per autocarri)»[1].
Cosa sono, però, l’idrogeno e la sua filiera? E che importanza possono avere in relazione allo sviluppo economico e alla riduzione dell’impatto ambientale del capitalismo?
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Fermare gli stranamore
di Enrico Tomaselli
Come è stato più volte detto su queste pagine, un serio problema per l’occidente collettivo, e segnatamente per quella sua parte che si raccoglie all’ombra della NATO, è quella sorta di autismo che la contraddistingue – laddove con questo termine si intende alludere alla barriera di incomunicabilità che viene costantemente eretta tra il pensiero (diplomatico e strategico) delle leadership e la realtà effettuale. E c’è in particolare un aspetto che ne risulta significativamente problematico, e che prescinde da qualsivoglia valutazione di merito, e cioè l’incapacità di comprendere le ragioni del nemico. Purtroppo, l’azione della propaganda, che si è sin dall’inizio focalizzata sulla disumanizzazione del nemico, ha creato una sorta di effetto boomerang, per cui le stesse élite politiche occidentali ne sono rimaste vittime, perdendo di vista un aspetto invece fondamentale.
È questo un meccanismo mentale persino classico, nella sua prevedibilità: poiché si deve negare in nuce che il nemico possa avere delle ragioni, si finisce col misconoscerle, e conseguentemente col non comprendere il come e il perchè delle sue azioni presenti e future.
Nello specifico, rifiutarsi di considerare l’approccio russo al conflitto che lo oppone all’occidente, si traduce nella incapacità di valutare e prevedere correttamente quali potrebbero essere le prossime mosse. Non a caso, infatti, queste valutazioni oscillano costantemente tra estremi opposti, che vedono la Russia ora come un’orda barbarica impaziente di attaccarci, ora come un paese in rotta e prossimo al tracollo.
La realtà, invece, ci dice che le scelte di Mosca rispondono a una logica ben chiara e precisa, che a sua volta è limpidamente riconducibile a quelli che per i russi sono i propri interessi strategici.
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L’Italia tra verticismo e disgregazione*
di Daniela Lastri
Dalle amministrazioni locali e regionali la verticalizzazione sbilanciata del potere si traduce a livello statale nella figura del "sindaco d'Italia". A ciò si affianca l'autonomia differenziata, che dividerebbe ancor più un Paese già fortemente diseguale. Per scongiurare entrambi i processi la sinistra deve elaborare adeguate risposte culturali, politiche e sociali
Verticismo
Per “verticismo” non intendiamo solo la proposta di modifica costituzionale portata vanti dall’attuale maggioranza di destra (l’elezione diretta del Presidente del Consiglio). Allo stesso modo, per “disgregazione” non intendiamo solo la cosiddetta autonomia differenziata e il disegno di legge Calderoli che indica le modalità di attuazione del celebre articolo 116, terzo comma della Costituzione. Però è chiaro che questi due processi istituzionali costituiscono un passaggio decisivo della nostra battaglia contro il verticismo e la disgregazione.
Di verticismo è impregnata tutta la politica che ha caratterizzato la svolta maggioritaria degli anni ‘90. L’introduzione dell’elezione diretta dei sindaci aveva, in realtà, qualche rilevante fondamento, e forse i meno giovani ricordano l’estrema incertezza in cui versavano le amministrazioni comunali in tante zone del Paese. L’amministrazione locale richiedeva probabilmente un intervento “stabilizzatore”, le crisi politiche locali hanno spesso effetti pesanti nell’amministrazione quotidiana delle comunità e nella qualità della politica.
L’elezione diretta del sindaco ha però portato con sé effetti che dovevano essere visti con maggiore attenzione, e corretti a tempo debito. Penso non solo al ruolo dei consigli comunali, che avrebbero dovuto essere potenziati nelle capacità di controllo, di indirizzo e di promozione della partecipazione dei cittadini. Penso anche al ruolo delle giunte comunali, politicamente ridimensionate nelle capacità di governo collegiale in favore dell’unicità di direzione esercitata dall’organo monocratico. E penso anche a un’accentuata concentrazione di potere amministrativo di apparati sempre più serventi l’organo monocratico.
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La questione dell'egemonia nel XXI secolo.
Politica e cultura ai tempi del mondo disperso
di Pierluigi Fagan
Egemonia è antico concetto greco che si pose il problema di come una parte minore eserciti potere anche indiretto e spesso guida più che comando, su una parte maggiore. Era di origine militare. Poi Gramsci lo trasferì nell’agone culturale.
Lì, nonostante le obiettive contraddizioni sociali che avrebbero fatto pensare a un rapido sviluppo del discorso e sviluppo politico comunista e socialista primo Novecento, la presenza di una forte egemonia delle classi dominanti, impediva il contagio delle idee e la loro trasformazione in azione politica collettiva. Gramsci ragionava a griglia di classi, aveva una ideologia, sostenne l’idea del “soggetto collettivo” fatto di partito operante culturalmente, socialmente, politicamente in riferimento alla classe sociale di riferimento, potenziato dagli intellettuali. Ma lo invitò a dar battaglia per l’egemonia prima di realizzare i suoi progetti concreti, proprio per creare le condizioni di possibilità per ottenere quel fine. Il campo delle idee e del loro pubblico discorso, discussione e condivisione, andava emancipato dal meccanicismo sotto-sovrastrutturale, roba da meccanica newtoniana tipo rivoluzione industriale.
Non so quanti di voi sanno dell‘estremo successo che questo concetto ha da decenni nella cultura politica e intellettuale americana. Da W. Lippman e la nascita delle Relazioni Pubbliche, prima addirittura col nipote di Freud Bernays, fino a J.Nye e il suo soft power ora smart power, il coro pubblicitario, serie e televisione, il controllo dell’immaginario, fino il porno, Marvel, Hollywood, la musica e molto, molto altro. L’intera costellazione dei think tank, fondazioni, Council, Fondazioni, giornali e riviste, convegni e dibattiti, libri, accademici, vi si basa, da Washinton al mondo, quantomeno occidentale.
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Un genocidio preannunciato
di Chris Hedges - chrishedges.substack.com
Il genocidio a Gaza è la fase finale di un processo iniziato da Israele decenni fa. Chiunque non l'abbia previsto è perché ha voluto rimanere cieco di fronte al carattere e agli obiettivi finali dello Stato di apartheid
A Gaza non ci sono sorprese. Ogni atto orribile del genocidio israeliano era già stato anticipato. Lo è stato per decenni. L’espropriazione dei palestinesi della loro terra è il cuore pulsante del progetto coloniale dei coloni di Israele. Questo esproprio aveva avuto momenti storici drammatici – nel 1948 e nel 1967 – quando vaste parti della Palestina storica erano state confiscate e centinaia di migliaia di palestinesi erano stati ripuliti etnicamente. L’espropriazione è avvenuta anche in modo graduale: il furto di territori al rallentatore e la costante pulizia etnica in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est.
L’incursione del 7 ottobre in Israele da parte di Hamas e di altri gruppi di resistenza, che ha causato la morte di 1.154 israeliani, turisti e lavoratori migranti e ha visto circa 240 persone prese in ostaggio, ha dato a Israele il pretesto per ciò che desidera da tempo: la cancellazione totale dei palestinesi.
Israele ha distrutto il 77% delle strutture sanitarie di Gaza, il 68% delle infrastrutture di telecomunicazione, quasi tutti gli edifici municipali e governativi, i centri commerciali, industriali e agricoli, quasi la metà di tutte le strade, oltre il 60% delle 439.000 case di Gaza, il 68% degli edifici residenziali – il bombardamento della torre Al-Taj a Gaza City, il 25 ottobre, ha ucciso 101 persone, tra cui 44 bambini e 37 donne, e ferito centinaia di persone – e ha distrutto i campi profughi. L’attacco al campo profughi di Jabalia, il 25 ottobre, ha ucciso almeno 126 civili, tra cui 69 bambini, e ne ha feriti 280. Israele ha danneggiato o distrutto le università di Gaza, tutte chiuse, e il 60% delle altre strutture educative, tra cui 13 biblioteche. Ha inoltre distrutto almeno 195 siti del patrimonio culturale, tra cui 208 moschee, chiese e l‘Archivio centrale di Gaza, che custodiva 150 anni di registrazioni e documenti storici.
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Politicamente corretto, neoliberismo e lotta di classe. Sui libri di Ventura e Cangiano
di Fabrizio Maria Spinelli
L’oppressione materiale era svanita: il classismo era diventato
lo sguardo culturale del piccolo borghese sul proletario.
La differenza tra la piccola borghesia di sinistra e quella di destra
era ridotta alla coscienza di tale sguardo.
(Mimmo Cangiano)
Ed è parte di grand’intelligenza che si dia a veder
di non vedere, quando più si vede, già che così ‘l giuoco è
con occhi che paiono chiusi e stanno in se stessi aperti.
(Torquato Accetto)
The quality of nothing
hath not such need to hide itself. Let’s see. Come, if
it be nothing, I shall not need spectacles.
(Shakespeare, King Lear)
Nell’autunno 2015 va in onda negli USA la diciannovesima stagione di South Park, che segna un decisivo scarto con le precedenti – sia per i temi che per la modalità impiegata nel trattarli (non più episodi autoconclusivi ma un principio seriale). Un nuovo preside (Principal PC) si insedia nella scuola elementare dove si svolgono le vicende, pretendendo di cambiare le abitudini comunicative di una società (quella di South Park) reputata arretrata, offensiva e intollerante. Per lo spettatore è chiaro che l’accusa mossa dal personaggio PC si rifletta sulla serie stessa, proverbialmente scorretta, e in cui uno degli unici personaggi afferenti a qualche minoranza, in questo caso quella nera, è chiamato indicativamente Token.
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Commento all’articolo di Fabrizio Marchi “Sulla prostituzione”
di Fabio Rontini
L’articolo di Fabrizio Marchi “Sulla prostituzione. Una riflessione a partire da una analisi di Carlo Formenti”, recentemente pubblicato su Sinistrainrete, ha dato seguito a un interessante dibattito nella sezione commenti, a cui anch’io ho partecipato. Dal momento che le considerazioni, secondo me, da fare su quello scritto e sul dibattito che ne è seguito, sono troppo lunghe da riportare in forma di commento, ho deciso di tradurle a mia volta in forma di contributo a sé stante.
Ho letto un paio di libri di Marchi, “Contromano, critica dell’ideologia politicamente corretta” e “Le donne: una rivoluzione mai nata”, che consiglio perché interessanti, soprattutto il secondo, più agevole ma con una tesi unitaria più definita. Gli riconosco il merito di aver affrontato di petto alcuni aspetti della questione sessuale e del femminismo, nelle loro relazioni con la lotta per l’emancipazione sociale in generale, che sono, sì, importanti e fondamentali, ma ancora coperti da pudore, ipocrisie e veti da parte del pensiero di sinistra cosiddetto “politicamente corretto”. Non concordo con lui nella misura in cui ritengo che le conclusioni a cui finisce per approdare, pur provenendo da un retroterra marxista e di sinistra, e pur al di là delle buone intenzioni e dei meriti che le sue analisi indubbiamente possiedono, siano fondamentalmente di destra e reazionarie.
In ogni caso le mie osservazioni non verteranno sull’argomento specifico dello scritto da cui hanno preso spunto, la prostituzione, ma sulla questione generale della emancipazione femminile, nei termini in cui Marchi la affronta, e basandomi su letture precedenti, sia sue che di altri, nonché su esperienze personali.
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Un’analisi di tutto rispetto
di Laura Baldelli
Recensione del libro di Antonio Calafati L’uso dell’economia. La sinistra italiana e il capitalismo 1989-2022.
Nell’analisi dell’autore, critica del pensiero liberale, non troveremo le categorie e i termini marxiani come coscienza di classe, conflitto di classe, imperialismo. Non si mette in discussione il capitalismo, né il liberismo, bensì il neoliberismo del capitalismo sovrano che non vuole sottostare alle regole della democrazia. Il prof. Calafati contesta l’uso ideologico dell’economia politica, definito “una patologia mortale per la democrazia” e quindi per lui è consequenziale anche la condanna delle società del socialismo reale. Il saggio è affascinante come un romanzo, dove l’approccio storico e filosofico ci guida al pensiero di Adam Smith, di Friedrick Engels, di Alexis de Toqueville, di John Stuart Mill, di Joseph Alois Schumpeter per spiegare epoche ed eventi storici della società europea e della metamorfosi della Sinistra Italiana.
Il prof. Antonio Calafati è un economista urbanista. È stato docente universitario presso l’Università Politecnica di Ancona, facoltà di economia Giorgio Fuà, alla Friedrich-Schiller-Universitat di Jena e all’Accademia di Architettura di Mendrisio, inoltre ha coordinato l’International Doctoral Programme in Urban Studies a L’Aquila. È autore dei saggi come Città in nuce nelle Marche, scritto con Francesca Mazzoni per Franco Angeli ed. 2008, Economie in cerca di città. La questione urbana in Italia” ed. Donzelli 2009, Città tra sviluppo e declino (a cura di) ed. Donzelli 2013. La sua ricerca parte sempre dall’osservazione del mondo reale, con un approccio multidisciplinare, contrassegnata da una grande onestà intellettuale e libertà di pensiero, offrendoci una riflessione della storia recente del nostro Paese dall’’89 al ’22, con gli strumenti dell’economia, dell’urbanistica e della sociologia.
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A viso aperto. Intervista di Mario Scialoja a Renato Curcio. Recensione
di Claudio Cereda
Si tratta di un libro datato (marzo 1993) ma che ha il pregio di ripercorrere l’esistenza di Renato Curcio dalla nascita alla uscita dal carcere dopo 24 anni nello stiel della intervista che consente la trattazione breve e diretta delle diverse questioni e me lo sono letto nell’ambito del percorso di analisi biografica dei capi dell BR alla ricerca di motivazioni, pulsioni e diversità. Il tutto è stato innescato dalla morte di Barbara Balzerani che, come Renato Curcio è stata una esponente di primo piano delle BR, non pentita, non dissociata ma nemmeno irriducibile.
Curcio è stato il padre fondatore, non è stato mai convolto direttamente in omicidi, ha gestito tutta la fase iniziale di sviluppo della organizzazione e da subito dopo l’uccisione della moglie ha vissuto l’evoluzione della politica delle BR dalla propaganda armata, agli omicidi, al sequestro Moro, alla gestione Moretti che non condivideva sino alla disfatta..
La sua vicenda personale è quella di un figlio di ragazza-madre. Il padre, il fratello del regista Luigi Zampa, molla la madre incinta e dunque i suoi primi anni di vita avvengono tra disagio e miseria con ricordi felici tra le valli valdesi e la imposizione di una scuola superiore (perito chimico) scelta perché gli negarono il liceo artistico. Al termine delle superiori R.C. molla la madre a Sanremo e se ne va a Genova vivendo di espedienti nel centro storico finché, ormai alle soglie della vita da barbone alcolista qualcuno gli parla della facoltà di sociologia a Trento. Ci va e grazie ai voti con cui si era diplomato riesce ad avere borsa e collegio universitario.
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Un senso precipite d’abisso
Lettere al futuro 9
di Marino Badiale
Il messaggero giunse trafelato/ disse che ormai correva/ solo per abitudine/ il rotolo non aveva più sigilli/ anzi non c’era rotolo, messaggio,/ non più portare decrittare leggere/ scomparse le parole/ l’unica notizia essendo/ visibile nell’aria/ scritta su pietre pubbliche/ in acqua palese ad alghe e pesci./ Tutto apparve concorde con un giro/ centripeto di vortice/ un senso precipite d’abisso.
(B.Cattafi, La notizia)
1. Introduzione: un mondo condannato
L’attuale civiltà planetaria si sta avviando all’autodistruzione, a un collasso generalizzato che porterà violenze e orrori. Una organizzazione economica e sociale che ha come essenza della propria logica di azione il superamento di ogni limite è ormai arrivata a scontrarsi con i limiti fisici ed ecologici del pianeta. Non potendo arrestarsi, essa devasterà l’intero assetto ecologico del pianeta prima di collassare. Il fatto che questo sia il percorso sul quale è avviata la società globalizzata contemporanea emerge con chiarezza da molte ricerche, interessanti in sé e anche perché svolte da studiosi di formazione scientifica (nel senso delle scienze “dure”) e lontani da impostazioni teoriche legate al marxismo o in generale all’anticapitalismo. Uno dei centri di ricerca di questo tipo è lo Stockholm Resilience Center dell’Università di Stoccolma [1]. Al suo interno viene sviluppata da anni la ricerca relativa ai “limiti planetari” che la società umana non deve superare per non rischiare la devastazione degli ecosistemi planetari e quindi, in ultima analisi, l’autodistruzione. Gli studiosi del Resilience Center hanno individuato nove di questi limiti (fra i quali, ad esempio, la perdita di biodiversità, il cambiamento climatico, l’acidificazione degli oceani).
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Il salario minimo non vi salverà
di Nico Maccentelli
Savino Balzano, Il salario minimo non vi salverà, Fazi Editore, Collana Le Terre – 2024, pp. 168, 12 euro
Leggere Il salario minimo non vi salverà di Savino Balzano, offre un’infinità di spunti di riflessione per chi ancora oggi voglia proseguire e rilanciare lo scontro di classe e intenda ragionare su una piattaforma che coniughi diritti fondamentali sul lavoro, compreso il salario, e la questione della democrazia e della partecipazione popolare nella lotta di classe. Ottima la prefazione di Lidia Undiemi, che già in precedenza aveva analizzato i tratti negativi dell’operazione salario minimo.
In sintesi, ciò che il libro evidenzia è l’inutilità se non la controproducenza di un salario minimo legale finché le politiche attuate nel nostro paese sono quelle neoliberiste, che mettono al centro la massimizzazione dei profitti, subordinando retribuzioni e qualità della vita a questo desiderata che di fatto è un imperativo indiscutibile per la classe padronale.
Il salario minimo ha a che vedere con il potere d’acquisto? È una prima sostanziale domanda da porsi.
Il potere d’acquisto delle retribuzioni in Italia, con il nostro paese che è diventato il fanalino di coda per livelli salariali in Europa e quindi con una misura come il salario minimo c’entra come la panna nella carbonara. Così ironizza Savino Balzano(1), sostenendo a giusta ragione che la contrazione salariale in questi ultimi trent’anni ha riguardato categorie le cui retribuzioni sono ben oltre la soglia di salario minimo che si vorrebbe introdurre, come i meccanici, i chimici, i bancari, i farmaceutici, il pubblico impiego, solo per fare alcuni esempi. Ciò pertanto non produrrebbe alcun effetto. Il salario minimo legale, nel contesto italiano e per come pensato da chi per decenni ha remato contro gli interessi dei lavoratori, non comporterebbe effetti significativi per la stragrande maggioranza della popolazione salariata.
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Dalla “primavera ecologica” all’imbroglio dello “sviluppo sostenibile”
Mezzo secolo fa la “primavera ecologica” investe l’Europa
di Marino Ruzzenenti
Negli anni ‘70 in Europa si inizia a discutere di crisi ecologica e si fa strada un’ecologia critica verso il sistema economico vigente. Dagli anni ‘80 però le grandi multinazionali e le associazioni di imprese impongono al dibattito e alla politica una virata neoliberista che mette ipocritamente insieme difesa dell’ambiente e crescita infinita
Le difficoltà del Green Deal stanno emergendo alla luce del sole, non solo a causa degli sconquassi prodotti dalla guerra in Ucraina e dalla postura autolesionista assunta dall’Ue.
Può essere di qualche utilità per comprendere l’attuale impasse dare uno sguardo al mezzo secolo che abbiamo alle spalle, da quando all’Europa sono state chiare la gravità della crisi ecologica e l’urgenza di porvi rimedio.
Pochi sanno che nel 1972, per dieci mesi, fu Presidente della Commissione europea un ecologista radicale, Sicco Mansholt1, socialdemocratico, già leader dei contadini olandesi e protagonista della cosiddetta “rivoluzione verde” in agricoltura (ovvero chimica e macchine a gogò). Mansholt aveva avuto l’opportunità di leggere in bozza la ricerca commissionata dal Club di Roma al Massachusetts Institute of Technlogy di Boston, che poi sarebbe uscita con il titolo, in inglese, The limits to Growth, e in italiano, I limiti dello sviluppo. Una fulminate conversione, per lui. Così ne trasse la convinzione che l’Europa e in generale il Primo mondo, come si diceva all’epoca per l’Occidente industrializzato, dovesse porre un freno allo sviluppo materiale dell’economia, ovvero al prelievo di risorse naturali e allo sversamento di inquinanti, e che si dovesse lavorare nella prospettiva di una crescita zero o addirittura “sottozero”, sganciandosi dal vincolo del Prodotto nazionale lordo come unico misuratore del benessere sociale per adottare un nuovo indicatore, il Bonheur national brut, la Felicità nazionale lorda, il buen vivir, come diremmo oggi.
Mansholt in realtà interpretava lo spirito del tempo, quella straordinaria stagione ricca di analisi e proposte che attraversava l’Europa e non solo e che venne da Giorgio Nebbia chiamata “primavera ecologica”.
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Le opposte narrazioni sull’attentato di Mosca: Stato Islamico o pista ucraina?
di Roberto Iannuzzi
E’ possibile che i servizi ucraini abbiano organizzato l’attacco al Crocus City Hall, eventualmente servendosi della rete del terrorismo islamico come copertura?
A una settimana dal terribile attentato che ha visto uomini armati fare irruzione nel Crocus City Hall (un’affollata sala da concerto a Krasnogorsk, sobborgo di Mosca), aprire il fuoco contro gli spettatori, e incendiare la sala uccidendo circa 140 persone, sull’accaduto si sono consolidate due narrazioni contrapposte.
La prima è quella diffusa dai governi e dai media occidentali, secondo la quale la Russia è stata vittima di un attacco da parte di una specifica branca dello Stato Islamico (spesso indicato come ISIS) – quella che si fa chiamare “Stato Islamico della Provincia del Khorasan” (ISKP, secondo l’acronimo inglese più corretto, ma sono state usate anche altre sigle, come ISIS-K e IS-K).
La seconda è quella russa, la quale, pur non scartando del tutto la tesi dell’estremismo di matrice islamica, ritiene che i mandanti vadano ricercati a Kiev.
La narrazione occidentale sostiene che l’invasione russa dell’Ucraina avrebbe “distratto” Mosca da minacce come quella dell’estremismo islamico. Washington afferma anche di aver messo in guardia – invano – il governo russo, nei giorni precedenti l’attentato, sulla possibilità che luoghi affollati divenissero bersaglio di attacchi da parte di estremisti.
Il presidente francese Emmanuel Macron ha appoggiato la versione americana, dichiarando alla stampa che “le informazioni in nostro possesso…così come quelle dei nostri principali partner, indicano in effetti che è stata un’entità dello Stato Islamico a istigare questo attacco”. Egli ha aggiunto che sarebbe “cinico e controproducente” per Mosca addossare la colpa all’Ucraina.
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Sul diritto del lavoro nella Seconda Repubblica
di Simone Bisacca
Comprendere l’evoluzione (in peggio) del diritto del lavoro negli ultimi trent’anni costituisce un fondamentale strumento di comprensione della situazione presente e un importante bagaglio teorico per qualunque militante rivoluzionario. Questo articolo di Simone Bisacca, pubblicato sul n. 6/2024 di “Collegamenti” ne delinea un quadro sintetico ma efficace
La produzione legislativa in materia di diritto e processo del lavoro dal 1997 (c.d. Pacchetto Treu – governo Prodi I) al 2023 (decreto lavoro del 1 maggio 2023 – governo Meloni) ha ratificato lo spostamento dei rapporti di forza tra capitale e lavoro a favore del capitale avvenuta a partire dagli anni ’80 e ne ha accresciuto la dinamica.
Secondo i dettami del liberismo, compito dello Stato è rimuovere ogni impedimento alla libera determinazione dei prezzi anche nel mercato del lavoro e alla possibilità dell’impresa di soddisfare il proprio fabbisogno di manodopera con la massima flessibilità.
Flessibilità declinata sia in entrata che in uscita, con effetto di precarizzare la condizione dei lavoratori; la contropartita teorica della flessibilità avrebbe dovuto essere l’aumento di occasioni di lavoro e quindi la diminuzione della disoccupazione, ma la relazione tra i due fattori resta indimostrata e gli unici effetti certi sono stati l’aumento delle diseguaglianze sociali e la diminuzione della conflittualità sul posto di lavoro.
Il mercato del lavoro, del resto, è componente dell’economia che, banalmente, sconta gli andamenti macroeconomici ed è mistificatorio attribuirvi poteri taumaturgici rispetto al benessere complessivo della società.
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Il comunismo non si costruisce e non si organizza
di Michele Garau
In occasione dell'uscita di Lo scisma da un mondo che muore. Jacques Camatte e la rivoluzione di Michele Garau terza pubblicazione del nuovo marchio editoriale MachinaLibro, proponiamo un estratto del libro in cui l'autore ragiona sul rapporto tra comunismo e organizzazione nel pensiero del filosofo francese.
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La componente più importante e meno intuitiva dell’eredità di Bordiga che Camatte valorizza è quella del rapporto tra comunismo e organizzazione. Più di preciso si tratta del rifiuto, espresso da Bordiga, verso ogni feticismo delle forme e «mistica dell’organizzazione». Una fiducia assoluta nel partito come programma e comunità che supera le generazioni, ma una critica feroce verso il culto delle strutture burocratiche, qualificato come «fascista» da Camatte e da Bordiga stesso: «l’ideologia fascista per cui tutto è questione d’organizzazione, di messa in piedi di strutture!»[1]. C’è indubbiamente un primo significato, superficiale ma esatto, per cui il comunismo non si organizza in quanto sorge dal corso spontaneo e automatico del movimento storico – è il frutto del suo determinismo – non da progetti, interventi o dall’esercizio della volontà umana. Non si può costruire il comunismo, innanzitutto, ma al massimo rimuovere gli ostacoli che ne intralciano lo sviluppo: «[…] con virulenza si insiste sull’assioma: il comunismo non si costruisce, si distruggono soltanto gli ostacoli al suo sviluppo»[2]. È un concetto che punteggia l’elaborazione di Bordiga e che viene spiegato, tra l’altro, nel già citato Dialogato con Stalin.
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Trittico mediorientale
di Pierluigi Fagan
Pubblicherò a seguire, ben tre diversi articoli di analisi di ciò che sta succedendo e potrebbe in prospettiva succedere in Medio Oriente, con epicentro Israele Gaza. Purtroppo, essendo la faccenda complessa, non si può far di meno. Complesso non significa perdersi in nuvolaglie di incertezze indeterminate, quella si chiama confusione. Complesso è ricostruire il groviglio di variabili, loro interrelazioni spesso non lineari, dentro relazioni tra vari sistemi e sottosistemi, dentro contesti in evoluzione, per certi tratti di tempo. Buona lettura ai coraggiosi! [I testi provengono da post mattutini sulla mia pagina fb e forse a qualcuno potrebbe interessare il dibattito che spesso ne è scaturito].
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LA TERRA PROMESSA (27.03.04)
Perché si chiama “geopolitica”? Be’ perché come insegnano le cartine di Luisa Canali su Limes, tutti i discorsi che fai a parole sulla politica, li devi mettere su una cartina geografica, no? Avete presente? Il territorio, le coste, i fiumi, i monti, i laghi… L’ora di geografia era in genere un relax, ma forse vi siete rilassati troppo visto la vasta ignoranza che circola in materia. In più, visto che siete tendenzialmente idealisti, ‘ste brutte robe concrete della realtà, vi impicciano il libero svolazzo e non le amate troppo. Ravvedetevi se volete capire qualcosa del mondo intorno a voi, il mondo si sta muovendo parecchio di recente.
Allora, dovete sapere che sono anni che si coltiva l’idea di creare un Grande Medio Oriente con Israele pacificato con una parte del mondo arabo di area Golfo alle spalle.
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Se il genocidio è un rumore di fondo
di Naomi Klein
È una tradizione degli Oscar: un discorso politico squarcia il velo della mondanità e dell’autocelebrazione. Ne scaturiscono reazioni contrastanti. Alcuni lodano l’oratore, altri lo ritengono l’usurpatore egoista di una notte di celebrazioni. Poi tutti girano pagina.
Eppure sospetto che l’impatto delle parole del regista Jonathan Glazer, che il 10 marzo hanno fermato il tempo alla cerimonia di premiazione di Los Angeles, durerà molto più a lungo, e il loro significato sarà oggetto di analisi per anni.
Glazer stava ritirando il premio per il miglior film internazionale per La zona d’interesse, ispirato alla storia di Rudolf Höss, il comandante del campo di concentramento di Auschwitz. Il film segue l’idilliaca vita domestica di Höss con la moglie e i figli, che si svolge in una residenza signorile con giardino adiacente al campo di concentramento.
Glazer ha descritto i suoi personaggi non come mostri, ma come “orrori non-pensanti, borghesi, ambiziosi-arrivisti”, persone capaci di trasformare il male in rumore di fondo.
Prima della cerimonia del 10 marzo, La zona d’interesse era già stato acclamato da molte star del mondo del cinema. Alfonso Cuarón, il regista premio Oscar per Roma, l’ha definito “probabilmente il film più importante di questo secolo”.
Steven Spielberg l’ha descritto come “il miglior film sull’Olocausto che io abbia visto dopo il mio”, riferendosi a Schindler’s list, che sbancò agli Oscar trent’anni fa. Ma mentre il trionfo di Schindler’s list rappresentò un momento di unità per la maggioranza della comunità ebraica, La zona d’interesse capita in un momento diverso.
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Domande di oggi sul sindacalismo di base a partire da oltre 30 anni addietro
di Cosimo Scarinzi
Articolo di apertura del n. 6/marzo 2024 di “Collegamenti”
Credo sia necessario, quando ci si interroga sul sindacalismo di base oggi, tenere presente il fatto che si tratta di un assieme di organizzazioni, di militanti, di lavoratrici e lavoratori che esiste ormai dall’inizio degli anni ’90 e di una vicenda per molti versi complicata.
Ovviamente il sindacalismo di base non sorge dal nulla, già negli anni precedenti vi erano alcune organizzazioni sindacali alla sinistra dei sindacati istituzionali e, soprattutto, vi sono stati negli anni ’80 importanti movimenti di massa fuori dal controllo di questi sindacati nella scuola, nei trasporti, nella sanità; ma un’ipotesi consistente di sindacalismo alternativo data, appunto, dall’inizio degli anni ’90.
È bene domandarsi quali siano le condizioni sociali e politiche che determinano questa situazione.
In primo luogo si deve partire da quello che è stato definito la fine del compromesso socialdemocratico e cioè dall’assieme di privatizzazioni, taglio dei servizi e quindi del salario indiretto, taglio delle pensioni, accrescimento del peso del lavoro precario.
Questa deriva rendeva credibile l’ipotesi che l’offensiva del capitale avrebbe provocato una ripresa della lotta di classe a livello delle condizioni che le lavoratrici e i lavoratori vivevano. Nei fatti la crisi del capitale ha determinato, a livello planetario, risposte che hanno, quanto meno, spostato in avanti le contraddizioni rendendole, nello stesso tempo, più radicali come rileva Riccardo Bellofiore in “La caduta del saggio di profitto in Paul Mattick” (1).
In secondo luogo la scelta dei sindacati istituzionali di accettare lo scambio fra peggioramento delle condizioni della classe e salvaguardia del loro diritto di gestire la contrattazione e dei finanziamenti che ricevevano, e ricevono, dal padronato e dal governo suscitava tensioni fra i lavoratori, i militanti sindacali, parte degli stessi gruppi dirigenti, culminate con la cosiddetta “settimana dei bulloni” (2).
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L'itinerario teorico-politico di Mario Tronti
Andrea Cerutti intervista Massimo Cacciari
“Caro Mario, le stelle di quel pensiero critico che ti ha sempre ispirato, non brillano più in questa povera Italia annichilita da un pensiero unico che ha fatto strame di ogni criticità. Siamo stati sconfitti, ma non per questo ti sei, ci siamo arresi o peggio ancora passati al nemico”. Così Massimo Cacciari aveva salutato l’amico di decenni. In questa intervista si è cercato di ricostruire per cenni un lungo e articolato itinerario teorico-politico che è anche la storia di un’“amicizia stellare”, a distanza ma prossimi, senza perdersi mai.
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Quando vi siete conosciuti con Tronti?
Ci conoscemmo all’incirca con l’inizio dell’avventura di classe operaia. Il primo del gruppo che io conobbi fu Toni Negri, stava a Venezia ed era oltretutto fidanzato con la sorella del mio migliore amico. E attraverso Toni ho poi conosciuto Mario, Asor, Coldagelli e, insomma, tutti quanti.
Mario era iscritto al PCI, si era formato in quel contesto di sezione di partito.
Ma questo non appariva. Toni Negri si era già separato dal partito socialista in cui aveva militato a Padova. E anche negli altri, quando li conobbi, compreso Tronti, non si avvertiva affatto questa origine. L’elemento critico nei confronti della sinistra tradizionale, del partito comunista, era radicale, fortissimo. La mia simpatia per questi personaggi derivava anche da questo.
Operai e capitale, l’opera di Tronti, si poneva in forte contrapposizione con tutta la tradizione gramsciano-togliattiana del PCI.
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Anni ’70. Sconfitti sì, pentiti no
di Ennio Abate
Ho letto negli ultimi giorni varie reazioni alla presa di posizione della filosofa Donatella Di Cesare in occasione della morte di Barbara Balzerani.I E mi sono chiesto perché noi ex della nuova sinistra torniamo sull’argomento del lottarmatismo degli anni ’70, anche quando siamo fuori gioco rispetto all’attuale svolgimento della lotta politica.
E mi chiedo anche perché i commenti su quelle vicende non riescono ad andare, ancora oggi, oltre la demonizzazione dei brigatisti e l’assoluzione dei governanti d’allora. Mi ha colpito anche che quanti hanno difeso almeno il diritto d’opinione della Di Cesare diano per scontato il giudizio negativo sul lottarmatismo (o terrorismo) ma tacciano su come lo Stato lo abbia vinto e abbia vinto anche le formazioni politiche della nuova sinistra (Avanguardia Operaia, Lotta Continua, Pdup, MLS) che il lottarmartismo criticarono. E, cioè, non accennino più ai danni subiti dalla democrazia italiana proprio da quella vittoria dello Stato.ii Ancora nel 2024, dunque, il dibattito non può uscire dall’oscillazione: compagni criminali o compagni che sbagliarono. (E a sbagliare oggi sarebbe la Donatella Di Cesare).
Non è in questione la competenza di chi ha preso posizione sulla vicenda, di letture fatte o non fatte, di conoscenza della letteratura sul fenomeno. Ce n’è stata tanta. E l’abbiamo tutti più o meno macinata. Il blocco più che cognitivo mi pare emotivo.
Siamo tuttora bloccati di fronte a un tabù. Troppo influenzati o sottomessi alla interpretazione autoritaria dei vincitori.
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Il popolo russo, Putin, la democrazia
di Piero Bevilacqua
Pensare con idee ricevute
E’ davvero stupefacente leggere o ascoltare intellettuali e studiosi democratici e di sinistra, talora di sinistra avanzata o radicale (cioè di sinistra, ma il termine è stato infamato dal cosiddetto centro-sinistra) che ancora oggi, dopo due anni di guerra in Ucraina, dopo tutte le rivelazioni di fonti americane, le ricostruzioni storiche dei precedenti che hanno preparato quel conflitto, continuano a ripetere lo slogan << la brutale invasione russa>>, <<l’occupazione violenta della Crimea>>, ecc. Gli stessi stereotipi e retoriche si ripetono per il massacro in corso nella martoriata Gaza. I combattenti di Hamas sono terroristi perché hanno ucciso civili israeliani con il pogrom del 7 ottobre (cosa, ahimé, terribilmente vera e ovviamente da condannare, ma non bisognerebbe mai dimenticare la storia che la precede e predispone) mentre i soldati di Israele che di civili palestinesi, e soprattutto di bambini, ne hanno ucciso e ne vanno ammazzando un numero spaventosamente superiore, restano soldati.Intendiamoci, la guerra è sempre un errore, è l’ingresso al più grande degli orrori. Quindi condanniamo quella scelta di Putin. Ma chi non riconosce che la Russia è stata trascinata in quel massacro è persona non informata dei fatti.
Svolgo le considerazioni che seguono non solo per il dispiacere che provo a sentire anche tanti amici e studiosi di valore ripetere queste espressioni che sono il calco della vulgata occidentale, ma perché ovviamente tale subalternità interpretativa all’informazione corrente indebolisce gravemente l’opposizione politica all’atlantismo, che ci chiama alla guerra, all’involuzione antidemocraitca dell’UE, frena l’azione a favore delle trattative e della pace.
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La sinistra nel pantano dell’elettoralismo
di Marco Morra[1]
La crisi di Unione Popolare
Sono passati diciotto mesi da quando Unione Popolare (UP) fu lanciata dai partiti Democrazia e Autonomia (DeMa), Rifondazione comunista (PRC), Potere al popolo (PAP) e da Manifesta, la componente alla Camera delle ex deputate del M5S, Silvia Benedetti, Yana Chiara Ehm, Doriana Sarli, Simona Suriano. La coalizione, nata in occasione delle elezioni politiche del 2022, pretendeva di essere qualcosa di più dell’ennesimo cartello della sinistra radicale destinato a non sopravvivere all’ennesima sconfitta elettorale. Un progetto strategico capace di indicare, a partire da obiettivi politici e rivendicativi unificanti, una prospettiva di ricomposizione delle forze alla sinistra del PD.
È bastato poco, tuttavia, perché questa prospettiva mostrasse le prime crepe profonde. La proposta di una lista elettorale più attrattiva avanzata da Michele Santoro e Raniero Della Valle lo scorso settembre e diventata realtà il 14 febbraio. Una lista, o meglio, un movimento “per portare al centro della campagna elettorale per le europee la parola pace”, secondo le dichiarazioni di Santoro. «Pace, terra, dignità», poche, semplici parole d’ordine per unificare il campo pacifista e riavvicinare gli elettori delusi dalla politica, intorno a un tema, la guerra, considerato la radice di tutti i mali, dalle migrazioni alla crisi climatica alla mancanza di politiche sociali.
Il progetto ha sin da subito rapito l’attenzione di alcuni dei principali leader di Unione Popolare. Il suo portavoce, Luigi De Magistris, si è espresso a favore di una lista unitaria che potesse “superare la soglia di sbarramento”, impegnandosi nella ricerca di una mediazione soddisfacente per tutte le componenti di UP. Maurizio Acerbo, invece, segretario del PRC, ha operato una netta forzatura rispetto alle valutazioni ancora in corso nella coalizione, schierandosi a favore della più ampia convergenza tra le forze che hanno assunto “posizioni coerentemente contro la guerra”.
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A cura di Daniela Danna: Il nuovo volto del patriarcato
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