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La doppia natura del suffragio universale
di Gianni Giovannelli
Benché ad essi l’intorbidar l’altrui pace
guadagno sommo paresse, molti pure
vollero chiarire a quai patti s’avrebbe
a far guerra, quai sarebbero stati i premi
donde le speranze e gli aiuti.
Sallustio (La guerra di Catilina, 21, trad. V. Alfieri, Asti, 2004, pag. 89)
La cronaca della guerra, in queste ultime giornate, è costretta a dividere lo spazio della comunicazione mediatica con i risultati elettorali, sia sulla carta stampata sia in rete. Mentre il giudizio sulla guerra, nella nostra vecchia Europa, si riduce a un coro quasi unanime di sostegno alle posizioni americane e di condanna a qualsiasi forma, anche tenue, di opposizione-diserzione, i commenti ai risultati elettorali sono invece di contenuto contrastante, diversi nel valutare le possibili conseguenze, discordanti nell’individuare le soluzioni più utili, quelle più adatte a risolvere i problemi di controllo sociale e a mantenere l’ordine. Il contrasto che caratterizza le posizioni assunte dagli analisti di regime non si limita all’esito delle consultazioni concluse, ma affronta pure quelle in arrivo, proponendo anzi complicate strategie volte a ottenere, per il tramite delle urne, la stabilità necessaria della cabina di comando creata per garantire il potere (sempre più chiaramente biopotere) del capitalismo contemporaneo. L’idea forza, a modo suo non priva di un certa genialità creativa, lanciata da Mario Draghi ormai più di dieci anni or sono con la formula del c.d. pilota automatico, comincia a sentire gli effetti del tempo, ogni tanto si inceppa o quanto meno lascia spazio a possibili imprevisti. Nulla, del resto, dura in eterno.
Guerra, elezioni, crisi
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“Mario dacci la linea”
Antonio Gnoli intervista Rita di Leo
A volte dice: questo non lo scrivere. A volte però insiste: questo ci terrei che lo dicessi. È ondivaga Rita di Leo, la donna che abbracciò l’operaismo come forma suprema di emancipazione: «Furono anni interessanti che naufragarono in una disfatta. Eravamo io, Mario, Alberto e Umberto. Venivano da me. Giuseppina cucinava, e che piatti faceva… Discutevamo, anche con accanimento. Ma se oggi mi guardo indietro loro, i miei amici, non ci sono più. E non c’è più neanche Giuseppina. Come vedi sono sola. Abbracciata alla mia memoria». Ho letto con curiosità il nuovo libro di Rita di Leo: L’età dei torbidi (edito da DeriveApprodi). L’età in cui tutto si confonde e alla fine c’è un solo vincitore.
* * * *
C’è ancora la lotta di classe su cui tu hai scritto, sperato, partecipato?
«Morta e sepolta, almeno quella alla quale noi avevamo dato il nostro appoggio».
Dici noi, a chi pensi?
«Mario Tronti, Alberto Asor Rosa, Umberto Coldagelli, io. E poi si aggiunsero Toni Negri, Massimo Cacciari e altri ovviamente. Tutto ebbe inizio con Raniero Panzieri. Ma non vorrai fare la storia dell’operaismo».
Vorrei capire il tuo punto di vista di donna allora molto giovane e impegnata.
«Ti dico subito che non sono mai stata iscritta al partito comunista. Ma a 16 anni percepivo acutamente le ingiustizie sociali. Forse in questo agevolata dal sentimento della famiglia».
Che famiglia era la tua?
«Decisamente borghese. Un padre avvocato, una madre pedagogista. Due fratelli, uno dei quali era Fernando di Leo, regista cinematografico».
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Francia: chi votare alle prossime legislative?
di Jacques Nikonoff
Molti si chiedono quali siano le vere ragioni che hanno spinto il Presidente della Repubblica a sciogliere l’Assemblea Nazionale. Al di là del narcisismo patologico dell’individuo, ci sono ragioni politiche ben ponderate. Ad esempio, un gruppo di consiglieri di Emmanuel Macron, una decina di persone — “cocciniglie” secondo l’ex ministro delle Finanze Bruno Lemaire — ha lavorato a questo piano per diversi mesi nella massima segretezza. L’obiettivo dello scioglimento era quello di rafforzare il “blocco centrale” (Macronisti) sfruttando le debolezze e le divisioni a sinistra e a destra. Infatti, a sinistra e tra gli ecologisti, diverse personalità si erano unite a Macron, così come molti dirigenti dei Repubblicani (LR).
Di fronte alla crisi politica e all’ansia che la dissoluzione avrebbe provocato, l’obiettivo era quello di spaventare i cittadini con la solita retorica del rischio dei “due estremi”, Marine Le Pen e il Rassemblement National (RN) da una parte, Jean-Luc Mélenchon di La France Insoumise (LFI) dall’altra. La prima ha ottenuto il 23,15% dei voti espressi al primo turno delle elezioni presidenziali del 2022 e si è qualificata per il secondo turno con il 41,45%, mentre Jean-Luc Mélenchon ha ottenuto il 21,95% al primo turno. Il caso sembrava semplice e ovvio.
Ma questa strategia è fallita miseramente. Sfidando tutte le previsioni, la sinistra ha formato un cartello elettorale chiamato Nuovo Fronte Popolare (NFP), mentre una parte dei repubblicani si è unita al RN invece che al partito di Macron. Nessuno si è unito al “polo centrale” perché oggi la mangiatoia è vuota e la prospettiva è quella di una batosta alle elezioni legislative.
La posta in gioco nelle elezioni legislative del 30 giugno e del 7 luglio è duplice: o una maggioranza assoluta per il Rassemblement National o per il Nouveau Front Populaire, improbabile ma comunque possibile; o una maggioranza relativa nell’Assemblea Nazionale per uno dei due.
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Francia: tre proposte politiche, l’una più reazionaria e anti-proletaria dell’altra
di Il Pungolo Rosso
Le elezioni anticipate in Francia a meno di un mese da quelle europee offrono tre alternative della stessa salsa nazionalista, e qualunque sarà il risultato, il prossimo governo francese proseguirà sulla strada del riarmo e dell’economia di guerra.
Riponiamo le nostre speranze non nella vittoria di un “nuovo fronte popolare” tutto interno al sistema, ma nella ripresa delle lotte sociali e nella presa di coscienza e mobilitazione internazionalista contro tutte le guerre del capitale, e contro il “nemico interno” che le prepara e alimenta.
* * * *
Il risultato delle elezioni europee del 10 giugno 2024, in Francia, con l’affermazione del Rassemblement National i come primo partito, ha indotto il presidente Macron a sciogliere l’Assemblea Nazionale e indire nuove elezioni politiche per il 30 giugno. Un azzardo secondo molti, comunque un calcolo che si basa sulla speranza, forse mal riposta, di arrivare comunque al ballottaggio grazie a una maggiore affluenza alle urne ii, e di avere di nuovo i voti della sinistra contro la destra, quale “male minore”. iii
Macron accusa il colpo e gioca l’azzardo
Il risultato alle Europee non costringe Macron alle dimissioni, tuttavia lo indebolisce in Europa, dove i 13 seggi del suo partito Renaissance lo ridimensionano dentro Renew Europe, che scesa a 79 seggi è a sua volta socio di minoranza nella coalizione a guida Von der Leyen – PPE (Partito Popolare Europeo), 186 seggi, e S&D (Socialisti e Democratici), 135 seggi iv. Anche se il RN della Le Pen con i suoi 30 seggi è sì maggioranza in ID (Identità e Democrazia) che tuttavia coi suoi 59 seggi non ha i numeri per riunire una maggioranza alternativa v. Il voto europeo indebolisce quindi la posizione dell’imperialismo francese nel Parlamento UE, e indirettamente nel Consiglio e nella prossima Commissione Europea.vi
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Le forze viventi e la logica del capitale
di Chiara De Cosmo
Michael Heinrich arricchisce la lettura di Marx con uno sguardo nitido sul rapporto tra scienza e critica. Occorre, però, non tralasciare in questo quadro le potenzialità del lavoro vivo
A partire dagli anni Ottanta, con l’affermazione crescente delle politiche neoliberiste e il depotenziamento, almeno nel mondo occidentale, dell’immaginazione di un futuro alternativo rispetto ai rapporti capitalistici, la teoria marxiana pareva non tenere più il passo con i tempi. Lo studio dell’economia iniziò progressivamente a ridursi alla sola indagine quantitativa, all’esplorazione di modelli di equilibrio che facevano astrazione dalle relazioni materiali e storiche. Una seria presa in carico della teoria del valore marxiano sembrava, in questo contesto, ormai anacronistica.
Nata come una tesi di dottorato elaborata tra il 1987 e il 1990, La scienza del valore di Michael Heinrich, recentemente edita in italiano a cura di Stefano Breda e Riccardo Bellofiore (PGreco, 2023), si proponeva di sfidare questa prospettiva. Tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento, riprendendo alcuni degli esiti più alti raggiunti dal dibattito degli anni Venti sulle categorie della critica dell’economia politica marxiana da parte di autori come Isaak I. Rubin e Henryk Grossman, il problema del valore e la teoria del capitale di Marx erano state rimesse a fuoco in una duplice direzione. Da un lato, letture di più stretta competenza economica – come quelle legate al paradigma neo-ricardiano che si rifaceva alla riflessione di Piero Sraffa – ne avevano tentato una formalizzazione; dall’altro, alcuni pensatori che rientrano nel novero di quella che è conosciuta come Neue Marx Lektüre, tra cui Helmut Reichelt e Hans Georg Backhaus, ne avevano colto la centralità per comprendere il modo in cui, in un mondo dominato dal capitale, si costruissero le forme della socializzazione. Tuttavia, proprio questo divaricarsi di orientamenti, da un lato più strettamente economico, dall’altro più apertamente sociologico, aveva impedito di cogliere la reale portata scientifica della teoria marxiana.
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Imperialismo, marxismo e questione nazionale
Riflessioni sul pensiero e sulla prassi di Marx e di Lenin
di Eros Barone
La borghesia è sempre in lotta; da principio contro l’aristocrazia, più tardi contro le parti della stessa borghesia i cui interessi vengono a contrasto col progresso dell’industria, e sempre contro la borghesia di tutti i paesi stranieri.
Gli operai non hanno patria. Non si può togliere loro quello che non hanno. Poiché la prima cosa che il proletariato deve fare è di conquistarsi il dominio politico, di elevarsi a classe nazionale, di costituire se stesso in nazione, è anch’esso ancora nazionale, seppure non certo nel senso della borghesia. 1
K. Marx e Friedrich Engels, Manifesto del Partito Comunista.
1. Una priorità strategica
La questione nazionale ha occupato un posto centrale nel pensiero di Lenin soprattutto a partire dal 1913-1914 in poi, diventando una priorità strategica negli anni della guerra mondiale e, dopo la rivoluzione d’Ottobre, in quelli della costruzione dello Stato sovietico, che coincidono con un nuovo periodo della storia del movimento operaio: il periodo dell’Internazionale comunista. Il concetto di nazione elaborato da Lenin traeva origine, per un verso, dalla categoria storica di Stato nazionale come prodotto dello sviluppo democratico borghese soggetto alle variazioni strategiche della lotta di classe internazionale, categoria messa a punto da Kautsky, e per un altro verso dalla tesi di Marx il quale affermava il carattere condizionato e temporaneo della validità del principio di autodeterminazione delle nazioni in rapporto ai fini dell’internazionalismo proletario e, nel contempo, subordinava il superamento delle differenze e delle rivalità nazionali al progresso del socialismo.
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Elezioni europee: tragicommedia alla francese
di Andrea Inglese
Un ecosistema politico scombussolato
Due settimane fa lo stile solenne, regale, napoleonico, gaullista, che sempre aleggia sui momenti cruciali della vita politica francese, e su quelli in particolare che riguardano le deliberazioni presidenziali, ha lasciato spazio a una gesticolazione forsennata e scomposta, tale da ricordare piuttosto lo stile italiano, e il suo talento per la commedia grottesca, tutta animata da calcoli cinici, guerre intestine, colpi bassi e maniere da spaccone. I colpi di scena non sono mancati: batosta della maggioranza di governo alle elezioni europee; l’estrema destra di Le Pen e del giovane Bardella primo partito di Francia (con più del 30% dei voti); immediata decisione presidenziale di sciogliere il governo e di andare alle elezioni legislative a poche settimane dall’inizio dei Giochi Olimpici; miracolosa e istantanea alleanza delle sinistre fratricide in un nuovo Front Populaire; Éric Ciotti, presidente del partito della destra conservatrice (quello di Chirac e Sarkozy), che proclama un’alleanza con l’estrema destra, rompendo un tabù fino a oggi inviolabile, e viene immediatamente smentito da tutte le personalità del suo partito, trattato come traditore e privato della sua carica; contesa tra Ciotti e il suo partito davanti al tribunale, con decisione di giustizia che permette al presidente appena ripudiato di riacquisire le sue funzioni; l’espulsione di Marion Maréchal Le Pen dall’altro partito di estrema destra, quello di Éric Zemmour, per aver espresso la volontà di allearsi con il partito della zia Marine. Di tutti questi eventi, l’unico veramente prevedibile, grazie all’arte divinatoria dei sondaggi, era la vittoria del Rassemblement National (ex Front National), il più enigmatico riguarda la scelta di Macron di andare alle urne subito (il 29 e 30 giugno per il primo turno, il 6 e 7 luglio per il secondo), il più inverosimile l’accordo delle sinistre, firmato nell’arco di qualche giorno, con tanto di programma assai dettagliato per “realizzare delle grandi biforcazioni” sui temi sociali, economici, ecologici, e di politica internazionale.
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Il problema non è la disobbedienza civile, è l’obbedienza civile
di Alberto Bradanini
1. In Palestina, quarantamila morti, ottantamila feriti, verosimilmente molti di più, lo sapremo solo quando l’indignazione verrà ufficialmente consentita, autorizzando a discuterne pubblicamente anche i giornalisti di giornali e TV, che confondono quotidianamente la libertà di parola con la parola in libertà. Tale umano sentimento di esecrazione sarà dunque sdoganato quando non avrà più effetto sulla sofferenza e la sopravvivenza di quel popolo martoriato, in ossequio al disegno di pulizia etnica e massacri di massa perseguito dello stato d’Israele.
Sul fronte ucraino, si combatte invece una guerra provocata a tavolino dall’incontenibile bulimia dell’impero americano che mira a destabilizzare/frammentare la Russia, per accaparrarsene le ricchezze: l’evidenza, per gli scettici residuali, riempie intere biblioteche, mentre i cervelli di regime pappagalleggiano le veline che ricevono dalle redazioni agli ordini della plutocrazia atlantica.
Con ferrea vigilanza sulla narrativa pubblica, il neoliberismo bellicista a guida Usa modella la coscienza popolare, genera sordità e acquiescenza, e rende superflui persino gli interventi destabilizzanti (colpi di stato, invasioni, diffusione di droghe, attentati) cui facevano un tempo ricorso i padroni del mondo per diffondere quei gioielli che essi chiamano democrazia e diritti umani.
Ciononostante, l’esercizio della menzogna e la criminalizzazione del dissenso non sono divenuti per ciò stesso superflui. Seppur narcotizzato o assonnato, il popolo resta inquieto. La storia insegna che se si tira troppo la corda, può uscire dal coma! La sorveglianza rimane indispensabile. Tuttavia, l’egemone unipolare – sempre meno tale, grazie al cielo, essendo il Sud del Mondo uscito finalmente dall’irrilevanza – non abbandonerà facilmente la presa e, seppur privo di egemonia, insiste a voler dominare il mondo, ricorrendo ancor più alla violenza, e diventando più pericoloso, come un orso ferito.
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Le condizioni della Germania
Thomas Meaney e Joshua Rahtz intervistano Sahra Wagenknecht
L’economia tedesca deve affrontare molteplici crisi convergenti, sia strutturali che congiunturali. L’impennata dei costi energetici dovuta alla guerra con la Russia; lo shock del costo della vita, con un’inflazione elevata, alti tassi d’interesse e salari reali in calo; l’austerità imposta dal freno costituzionale al debito, mentre i concorrenti americani puntano all’espansione fiscale; la transizione verde che colpirà settori chiave come l’industria automobilistica, l’acciaio e la chimica; e la trasformazione della Cina, uno dei più importanti partner commerciali della Germania, in un concorrente in settori come i veicoli elettrici. Può dirci innanzitutto quali sono le regioni più colpite dalla crisi?
C’è in corso una crisi generale, la più grave degli ultimi decenni, e la Germania si trova in una situazione peggiore di qualsiasi altra grande economia. Le più colpite sono le regioni industriali, finora spina dorsale del modello tedesco: la Grande Monaco, il Baden-Württemberg, il Reno-Neckar, la Ruhr. Durante la pandemia, il commercio al dettaglio e i servizi sono stati i più colpiti. Ma ora le nostre imprese del Mittelstand sono sottoposte a una forte pressione. Nel 2022 e 2023, le imprese industriali ad alta intensità energetica hanno subito un calo della produzione del 25%. È un dato senza precedenti. Hanno appena iniziato ad annunciare licenziamenti di massa. Queste piccole e medie imprese a conduzione familiare – molte delle quali specializzate in ingegneria o produttrici di macchine utensili, ricambi auto, apparecchiature elettriche – sono davvero importanti per la Germania. Sono perlopiù gestite dai proprietari o a conduzione familiare, quindi non sono quotate in borsa e spesso hanno un carattere piuttosto robusto.
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“La guerra e l’oligarchia finanziaria”
Recensione del saggio di Federico Fioranelli
di Ascanio Bernardeschi
Le contraddizioni del modo di produzione capitalistico rendono necessario l’intervento dello Stato, ma le classi dominanti preferiscono la spesa pubblica per la guerra a quella sociale. Nella fase monopolistica del capitalismo si ha l’intreccio fra industria e finanza e la trasformazione delle economie dei paesi occidentali in parassitari e usurai, sorretti dalla potenza militare
Federico Fioranelli è un giovane docente di economia politica, autore di diversi articoli e saggi sia di teoria economica che di analisi delle concrete economie, facente parte del Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo”.
A fine 2023 ha pubblicato per le edizioni Simple di Macerata il libro La guerra e l’oligarchia finanziaria, che è un’analisi dell’economia di guerra nell’attuale fase di finanziarizzazione dell’economia, un agile volumetto di 94 pagine, inclusa la ricca bibliografia, dalla lettura molto scorrevole.
La tesi da cui parte questo lavoro è che non è stata tanto la spesa civile ma quella militare, in particolare quella degli Usa, che ha consentito di sostenere, tramite il moltiplicatore keynesiano, la domanda e quindi di scongiurare per alcuni decenni la recessione. Questa tesi è sostenuta dopo un excursus essenziale ma illuminante della storia economica degli Usa, mettendo in fila una serie di dati statistici assai utili, che evidenziano la stretta correlazione fra spesa militare e crescita economica.
Fioranelli ci fornisce anche una spiegazione della preferenza per la spesa militare su quella civile, che pure sarebbe ugualmente in grado di attivare il moltiplicatore. Tale preferenza non sta solo nelle ragioni geostrategiche e nella natura imperialistica degli States, ma esiste anche una spiegazione più strettamente economica: mentre la spesa civile sottrae spazio al settore privato, quindi ai profitti, quella militare, attivando le imprese private del comparto, non presenta questo inconveniente. Inoltre la militarizzazione produce “un rispetto cieco per l’autorità” e “una condotta di conformismo e di sottomissione” che rassicura l’oligarchia finanziaria riguardo alla “sua autorità morale” e alla “sua posizione materiale” (p. 50). Ciò spiega perché, dopo la grande crisi del ’29-30, il new deal di Roosevelt abbia incontrato forti resistenze da parte delle classi dominanti e in ragione di ciò sia stato attuato in forma timida e contraddittoria, non producendo i risultati sperati, risultati ottenuti pienamente invece con la corsa agli armamenti a partire dal 1940.
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L’imminente crollo dell'impero americano
di Chris Hedges - declassifieduk.org
Il mondo come lo conosciamo è gestito da una classe esclusiva di gangsters americani che hanno a loro disposizione armi e denaro virtualmente illimitati
La percezione pubblica dell’Impero Americano, almeno per coloro che negli Stati Uniti non hanno mai visto l’impero dominare e sfruttare i “miserabili della terra”, è radicalmente diversa dalla realtà.
Queste illusioni artificiali, di cui Joseph Conrad aveva scritto in modo così preveggente, presuppongono che l’impero sia una forza per il bene. L’impero, ci viene detto, promuove la democrazia e la libertà. Diffonde i benefici della “civiltà occidentale”.
Si tratta di inganni ripetuti ad nauseam da media compiacenti e sciorinati da politici, accademici e potenti. Ma sono bugie, come sanno tutti coloro che hanno trascorso anni a fare reportage all’estero.
Matt Kennard nel suo libro The Racket – in cui racconta di Haiti, Bolivia, Turchia, Palestina, Egitto, Tunisia, Messico, Colombia e molti altri Paesi – squarcia il velo. Espone i meccanismi nascosti dell’impero. Ne descrive la brutalità, la mendacità, la crudeltà e le pericolose auto-illusioni.
Nell’ultima fase dell’impero, l’immagine venduta a un pubblico credulone inizia a incantare gli stessi mandarini dell’impero. Essi prendono decisioni basate non sulla realtà, ma sulle loro visioni distorte della realtà, colorate dalla loro stessa propaganda.
Matt lo definisce “il racket”. Accecati dall’arroganza e dal potere, arrivano a credere ai loro stessi inganni, spingendo l’impero verso il suicidio collettivo. Si ritirano in una fantasia in cui i fatti, duri e spiacevoli, non si intromettono più.
Sostituiscono la diplomazia, il pluralismo e la politica con minacce unilaterali e con lo strumento contundente della guerra. Diventano i ciechi architetti della loro stessa distruzione.
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Produrre e lobotomizzare
di Salvatore Bravo
Il ciclo del capitale con i suoi processi di valorizzazione è trattato da Marx nel II Libro de Il Capitale. Nell’esposizione marxiana vi è la condanna etica ai processi di monetarizzazione del lavoro umano. La condanna assiologica è il fondamento della critica marxiana. Il capitale è ciclo improntato all’accrescimento illimitato del plusvalore nel quale gli esseri umani (i sussunti) sono cannibalizzati da tale processo e incorporati nel sistema produttivo. Il capitalismo è, quindi, una visione del mondo in cui si converte la vita in morte, è “antiumanesimo militante”.
Il lavoro vivo è trasformato in lavoro morto, ovvero in accrescimento del profitto e in allargamento delle spire del mercato. Su tutto campeggia la sola categoria di quantità: il totalitarismo della quantità condanna ogni essere umano a vendersi al capitalista; è il rapporto di forza a determinare le relazioni di dominio legalizzate dai diritti astratti che li “definiscono”ed eguali. La logica di dominio è inoculata nel sistema sociale fino alla naturalizzazione della stessa mediante l’addestramento al’astratto. Si educa a pensare senza valutare le condizioni materiali in cui il soggetto opera. La quantità è il fine che muove il capitalismo, esso deve spogliare ogni esperienza del suo contenuto soggettivo, creativo e assiologico per immetterla nel mercato e per convertirla in strumento-azione che sostiene il capitalismo. Le macchine con cui i capitalisti si pongono in competizione incorporano il lavoro muscolare e intellettuale, esse “non sono solo macchine”, perché sono l’effetto dell’incorporamento nell’acciaio dei subalterni. Sono vampiri animati dal sacrificio dei popoli. La schiavitù salariata dell’operaio come dei tecnici non è solo nel prodotto finale ma in tutto il sistema produttivo.
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Il laboratorio Israele
Chiara Cruciati intervista Enzo Traverso
Dialogando con Chiara Cruciati, Enzo Traverso spiega perché la posta in gioco della guerra a Gaza ha una portata che va ben al di là del Medio Oriente
Questa intervista di Chiara Cruciati, vicedirettrice del manifesto, a Enzo Traverso è avvenuta il 16 giugno nell’ambito del festival Contrattacco organizzato da Edizioni Alegre. All’iniziativa, durata due ore, hanno assistito quasi 200 persone. Qui la trascrizione del colloquio, rivista dagli autori.
* * * *
L’8 giugno 2024, un’operazione israeliana per la liberazione di 4 ostaggi ha ucciso 276 palestinesi. Nei giorni successivi sono usciti dettagli sul modo in cui l’operazione è stata compiuta, nel cuore del campo profughi di Nuseirat. Eppure sui media occidentali e nelle dichiarazioni pubbliche dei leader politici si è parlato di «successo». La narrazione dell’offensiva israeliana passa da mesi per la sotto-rappresentazione se non l’occultamento dei crimini di guerra israeliani, eppure stavolta si è raggiunto un nuovo apice: definire una carneficina «un successo». Un massacro ampiamente anticipato dalle leadership europee che all’indomani del 7 ottobre dichiararono il sostegno «incondizionato» a Israele, dando di fatto la benedizione a qualsiasi forma di reazione.
In Gaza davanti alla storia dedichi un capitolo prezioso all’Orientalismo, più forte – scrivi – dell’eredità dell’Illuminismo. Dare valore diverso a una vita e a una comunità sulla base della presunta superiorità morale e culturale del mondo bianco occidentale è un tratto essenziale dell’Orientalismo. Possiamo leggere dentro a questo però anche una deriva necropolitica e, di rimando, fascista?
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Vincenzo Costa, La società dell’ansia
di Alessandro Visalli
Il libro di Vincenzo Costa, La società dell’ansia[1], è del 2024 e si inserisce nel filone dei suoi testi politici di cui fanno parte Elites e populismo[2], del 2019, L’assoluto e la storia[3], del 2023, e Categorie della politica[4], del 2023. Nel blog Nella fertilità cresce il tempo (un verso di Pablo Neruda dal Canto General[5]), questi libri sono stati letti in altrettanti post[6]. Rispetto a questi, tuttavia, il testo sembra aprire un altro e nuovo filone di ricerca che si collega probabilmente con alcuni altri del medesimo autore, inseriti nella tradizione fenomenologica di cui Costa è uno dei principali cultori[7]. Si tratta comunque di un testo ambizioso: il tentativo, per ora abbozzato di creare una sorta di economia politica delle emozioni.
Ci sono alcuni bersagli polemici, più che altro rilevabili dai termini e dalle formule a volte tranchant adoperate: il primo è la cosiddetta “svolta linguistica”[8] e la successiva “svolta argomentativa”[9], quindi Habermas che le traduce entrambe in prescrizioni politiche e sociali negli anni Novanta; il secondo è il materialismo marxiano. E c’è un oggetto centrale: l’emergenza del legame sociale, ovvero dell’ordine sociale.
Dei due bersagli polemici principali (Habermas e Marx) il primo è più evidente, in particolare è criticata la centralità del suo concetto di “razionalità” come criticabilità di azioni ed affermazioni, e quello di “argomentazione” come relazione tra azioni linguistiche le quali si ancorano alla “costrizione non coatta” dell’argomento migliore universalisticamente ancorato[10].
Il problema che Costa sente è la disgregazione del senso nella società contemporanea, ovvero del senso socialmente costituito e condiviso (non già attraverso una discussione razionale). Quindi il problema che sente è quello dell’anomia e delle sue conseguenze sociali e psicologiche.
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Picconate sulla globalizzazione
di Roberto Iannuzzi
Colpendo economicamente Russia e Cina, gli USA sembrano determinati a smantellare l’attuale ordine globalizzato pur di preservare la propria residua egemonia
La persuasione che la competizione fra grandi potenze sia un gioco a somma zero ispira le scelte dell’élite politica americana e della componente atlantista di quella europea.
In base a questa visione, gli Stati Uniti e i loro alleati nel vecchio continente (in posizione molto subordinata, a dir la verità) devono compiere ogni sforzo per preservare l’egemonia americana e occidentale su un mondo sempre più insofferente ai diktat di Washington.
Questa sfida, vista come esistenziale, giustifica agli occhi della classe politica occidentale il ricorso a ogni mezzo, dall’ambito militare a quello economico.
Se nel campo militare abbiamo visto che USA e alleati europei sono disposti a rischiare una pericolosa escalation con Mosca pur di “dissanguare” la Russia in Ucraina, la guerra senza quartiere contro gli “avversari designati” dell’Occidente (Russia e Cina, in primo luogo) non può non coinvolgere anche la sfera economica.
La globalizzazione è un sistema ingiusto, fondato sullo sfruttamento della manodopera e delle materie prime dei paesi più poveri, che però ha anche minimizzato i costi di produzione, e dato lavoro a milioni di persone sollevandole dalla povertà assoluta.
Semplificando, essa è stata storicamente fondata su due poli: la Cina, la cosiddetta “fabbrica del mondo”, e gli Stati Uniti, il centro del sistema finanziario globale e il mercato di consumo di ultima istanza.
Ritrovandosi incapaci di competere in questo sistema da essi stessi creato, gli USA hanno deciso di smantellarlo, invece di correggerne gli squilibri. Unico obiettivo dell’élite americana è preservare l’egemonia di Washington. A qualunque costo.
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Perché gli USA non aiutano a negoziare una fine pacifica della guerra in Ucraina?
di Jeffrey Sachs - Common Dreams
Per l'amor di Dio, negoziate!
Per la quinta volta dal 2008, la Russia ha proposto di negoziare con gli Stati Uniti su accordi di sicurezza, questa volta attraverso le proposte avanzate dal presidente Vladimir Putin il 14 giugno 2024. Le quattro volte precedenti, gli Stati Uniti hanno respinto l'offerta di negoziazione preferendo una strategia neoconservatrice volta a indebolire o smembrare la Russia attraverso la guerra e operazioni segrete. Le tattiche neocon degli Stati Uniti hanno fallito disastrosamente, devastando l'Ucraina e mettendo in pericolo il mondo intero. Dopo tutto questo bellicismo, è tempo che Biden avvii negoziati di pace con la Russia.
Dalla fine della Guerra Fredda, la grande strategia degli Stati Uniti è stata quella di indebolire la Russia. Già nel 1992, l'allora Segretario della Difesa Richard Cheney teorizzava che, dopo la dissoluzione dell'Unione Sovietica nel 1991, anche la Russia avrebbe dovuto essere smembrata. Zbigniew Brzezinski suggerì nel 1997 che la Russia dovesse essere divisa in tre entità confederate: la Russia europea, la Siberia e l'Estremo Oriente. Nel 1999, l'alleanza NATO guidata dagli Stati Uniti bombardò l'alleato della Russia, la Serbia, per 78 giorni, allo scopo di frammentarla e installare una grande base militare NATO nel Kosovo secessionista. I leader del complesso militare-industriale statunitense sostennero vigorosamente la guerra cecena contro la Russia nei primi anni 2000.
Per garantire questi progressi contro la Russia, Washington ha spinto aggressivamente per l'espansione della NATO, nonostante le promesse fatte a Mikhail Gorbaciov e Boris Yeltsin che la NATO non si sarebbe mossa nemmeno di un centimetro verso est dalla Germania.
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L’Occidente è un accidente
di Paolo Ferrero
Cosa sta succedendo? Questa domanda è sempre più diffusa perché l’insicurezza e il disorientamento hanno oramai raggiunto un livello impressionante: alla precarizzazione della vita che ci ha imposto per decenni il liberismo si è infatti aggiunta la possibilità concreta della guerra. L’insicurezza sociale, la precarietà, la distruzione del welfare, uniti alla vicenda della pandemia del Covid e oggi al clima di guerra determinano un vero e proprio spaesamento, uno diffuso stato di choc.
L’insicurezza si nutre anche di una forte di perdita di credibilità delle narrazioni pubbliche: com’è del tutto evidente buona parte della comunicazione non è finalizzata a informare i cittadini ma a manipolare l’opinione pubblica. Pensate solo a come viene rappresentato dai media il genocidio del popolo palestinese a Gaza. Nell’insicurezza matura la sfiducia ma anche la ricerca spasmodica di certezze a cui aggrapparsi come a un salvagente.
Nel difficile compito di evitare sia le bugie di regime che quelle complottiste, abbiamo realizzato questo numero di “Su la Testa”, cercando di capire cosa c’è dentro e dietro questa situazione nebulosa connotata dal clima di guerra. Lo facciamo puntando l’attenzione sull’Occidente. Non solo perché ci viviamo ma perché è l’Occidente che più di ogni altro aggregato mondiale sta puntando sulla guerra. Giova ricordare, per sottolineare un solo elemento, che l’Occidente ha l’unica alleanza militare a largo raggio oggi esistente al mondo – la NATO – e nel 2023 ha speso 1.341 miliardi di dollari, pari al 55% della spesa militare mondiale pur avendo meno del 23% della popolazione.
Attorno ai nodi della guerra e dell’Occidente ruota questo numero della rivista che confido vi aiuterà a inquadrare il problema e spero venga letto e discusso collettivamente: perché la rifondazione del comunismo e il rilancio dell’alternativa si fondano necessariamente su una corretta analisi di fase.
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L’imperialismo e il conflitto tra aree valutarie
di Carla Filosa - Francesco Schettino
Imperialismo transnazionale e aree valutarie
La concatenazione transnazionale che ha cambiato la configurazione della lotta interimperialistica, ormai da molto non più rigidamente suddivisa per prevalente appartenenza statuale, appare nella richiesta di un’accresciuta capacità di penetrazione del capitale nel mercato mondiale. Perciò la predeterminazione di aree valutarie di riferimento supera in importanza la mera collocazione storica geografica dell’investimento.
Sarebbe perciò un grave errore ritenere, com’è diffuso costume, che gli elementi monetari e valutari siano soltanto una questione separata dalle strategie industriali produttive.
Da un lato, si pongono in risalto i caratteri di una rincorsa dell’“economia reale”, disperata perché in crisi, nell’attuale nuova divisione internazionale del lavoro – ovverosia, filiere di produzione, dislocazioni, esternalizzazioni, subfornitura a scala mondiale, “corridoi” energetici e altro, “vantaggio competitivo”, centralizzazione e trasformazione degli assetti proprietari internazionali, con rovesciamento del ruolo tra organismi sovrastatuali e stati nazionali, privatizzazioni se reputate efficaci, ecc.
D’altro lato, si evidenziano quelli di un’“economia monetaria” che cerca di procedere alla ridefinizione egemonica delle suddette aree valutarie di riferimento significativo per il mercato mondiale “unificato”.
La tematica delle aree valutarie si pone per individuare nel dettaglio quali elementi di costo siano espressi in dollari, in euro o nelle valute asiatiche, rublo, yuan e yen, e in quale valuta quindi si presentino in divenire anche i prezzi di vendita. Da quanto precede si possono dedurre alcuni argomenti chiave.
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Cittadini ucraini “russi”, “russofoni” e “filo-russi”: un po’ di chiarezza
di Andrea Muni
Prima puntata di un trittico di approfondimento sulla guerra civile ucraina e sul conflitto russo-ucraino (qui il link alla presentazione)
Riavvolgere il filo
Dopo il golpe/rivolta di Maidan del 2014 la fazione politica filo-occidentale e nazionalista che ha preso il potere nel Paese ha cercato di far passare in Occidente, con l’avvallo dei media, l’idea che non esista una parte considerevole di ucraini che è russo-ucraina, russofona e, in certi casi, filorussa. In questo approfondimento chiariremo come questi tre termini indichino tre cose diverse, da non confondere e sovrapporre necessariamente. Per la narrazione ultra-nazionalista filo-occidentale sposata dai nostri media, questi ucraini (russi, russofoni e/o filorussi) sarebbero una sorta di serpe in seno, un corpo estraneo, uno sparuto nemico interno eterodiretto dai russi da scacciare o rieducare. Eppure questi ucraini popolano buona parte del Sud e dell’Est del Paese, dove è condensata la minoranza etnica russa, dove gli ucraini sono maggioritariamente russofoni e dove è più frequente incontrare persone di orientamento geopolitico filo-russo. I cittadini ucraini che la nostra propaganda definisce genericamente filorussi: 1) raramente sono a favore o entusiasti della guerra, che infuria soprattutto nella loro parte di Ucraina e di cui patiscono nella carne e negli affetti come ogni altro ucraino, 2) non sono affatto tutti ideologicamente putiniani o ultra-nazionalisti, spesso sono anzi nostalgici dell’Urss, 3) non desiderano necessariamente l’annessione alla Federazione Russa, né tanto meno la desideravano dieci anni fa allo scoppio della guerra civile, 4) non si trovano solo nel Donetsk e nel Luhansk, ma sono diffusi in tutto l’Est e il Sud.
I cosiddetti filorussi sono quindi una parte dei cittadini ucraini dell’Est e del Sud del Paese, che è accomunata da alcune posizioni:
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Doppio colpo all’università
di Lorenzo Zamponi
Dopo la guerra all'autonomia del sapere scatenata dalle destre nelle settimane scorse, il governo passa alle vie di fatto: con un decreto che aumenta la precarizzazione e una legge delega che ridisegna la governance
Un doppio colpo all’università. Una riforma del precariato, che cancelli i passi avanti fatti nel 2022 tornando almeno alla Gelmini, se non a un suo peggioramento, da presentare subito, forse addirittura sotto forma di decreto da convertire in legge entro l’estate. E una riforma generale dell’università, che riveda governance, reclutamento, didattica e diritto allo studio, proposta sotto forma di legge delega in modo da permettere al governo di ridisegnare l’università a proprio piacimento.
Qualche settimana fa, su queste pagine, si parlava della guerra culturale scatenata dalla destra, non solo in Italia, contro l’università, come uno dei pochissimi luoghi di discussione comune e confronto tra idee rimasto nella nostra società. Nel giro di pochi giorni, ai primi di giugno, il governo ha aperto due fronti di conflitto molto concreti e materiali: prima, le anticipazioni fatte filtrare dalla commissione ministeriale sul precariato guidata dall’ex rettore del Politecnico di Milano Ferruccio Resta, sull’impellente proposta di revisione al ribasso delle figure contrattuali precarie della ricerca universitaria rispetto alla parzialmente migliorativa riforma del 2022; poi, nel consiglio dei ministri di martedì 4 giugno, il varo del disegno di legge sulla semplificazione normativa, che prevede, all’articolo 11, una delega ad ampio spettro al governo per riformare l’università. Due fulmini a ciel sereno, arrivati senza il minimo coinvolgimento della comunità accademica (con la parziale eccezione della Conferenza dei Rettori, come vedremo) e che entrano a gamba tesa in una situazione molto delicata: quella di un sistema universitario mai così pieno di precari (grazie al Pnrr), che difficilmente accetteranno di buon grado un’ulteriore riduzione delle possibilità di accesso a un contratto dignitoso. Una bomba a orologeria in attesa di esplodere.
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Ue e movimento comunista: cosa dovrebbe fare, oggi, il MpRC, se fosse un partito comunista?
di Fosco Giannini*
L’esigenza dell’unità del movimento comunista dell’Ue nella ricerca politico-teorica e nella lotta anticapitalista sovranazionale
Cosa dovrebbe fare, che compiti prioritari avrebbe, dopo queste elezioni europee 2024, il Movimento per la Rinascita Comunista se fosse un partito, un partito comunista e, ancor meglio, un partito comunista d’avanguardia? Cosa dovrebbe fare a partire dall’analisi della situazione concreta relativa all’Ue, così come mirabilmente è stata sviluppata dal compagno Ascanio Bernardeschi su questo stesso giornale, «Futura Società», in un editoriale dal titolo “Un voto che delegittima l’Unione europea”?
Ha scritto Ascanio: “L’Unione europea, fin dal trattato di Maastricht e dai suoi precedenti, si è caratterizzata come un tentativo di integrazione economica sulla base di un modello liberista e imperialista. È stata, per esempio, funzionale al colonialismo in Africa e, dopo la fine del campo socialista europeo, all’omologazione dei modelli sociali nei Paesi ex alleati dell’Urss, intossicando il continente di nazionalismo, razzismo e neofascismo, aderendo inoltre a tutte le guerre della Nato.
Le sofferenze sociali derivanti dalla crisi del capitalismo, l’assenza di ogni ipotesi alternativa alle politiche liberiste che hanno devastato i diritti sociali e richiesto un viraggio progressivo verso l’autoritarismo e la riduzione degli spazi democratici, hanno determinato un malcontento popolare che, in assenza – salvo pochissime eccezioni – di una sinistra forte e incisiva hanno avvantaggiato la lievitazione della falsa alternativa di destra”.E più avanti: “Per fortuna, nelle recenti elezioni europee non tutto il malcontento ha guardato a destra. Intanto c’è il dato importante, e non a caso trascurato dai media, dell’astensionismo (…) un dato così eclatante significa l’ennesima delegittimazione delle istituzioni dell’Unione europea. Ennesima, perché ogni qual volta i popoli sono stati chiamati a esprimere in appositi referendum (mai in Italia) l’approvazione o meno della Costituzione europea, quest’ultima è stata sonoramente bocciata, tanto che l’establishment ha ovviato cambiandole nome. Ora si chiama Trattato”.
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Il problema dei diritti fondamentali negli Stati Uniti (e non solo)
di Paolo Arigotti
Fabrizio De André, in uno dei suoi pezzi più celebri[1], cantava “Si sa che la gente dà buoni consigli, Sentendosi come Gesù nel tempio, Si sa che la gente dà buoni consigli, Se non può più dare cattivo esempio”.
Se applicassimo lo stesso principio ai rapporti internazionali, allora emergerebbe come in diversi stati, di ieri e di oggi, specialmente tra quelli che si ergono a difensori dei diritti umani – contemplati nella dichiarazione del 10 dicembre 1948, uno dei primi documenti approvati dall’Assemblea generale dell’ONU[2] - magari utilizzando tale scudo per giustificare una serie di azioni discutibili, esistono una serie di problemi di non poco conto: un qualcosa che potremmo facilmente inquadrare in quei “buoni esempi” di cui parlava il famoso cantautore genovese.
In effetti, gli Stati Uniti d’America detengono una serie di poco invidiabili primati sul fronte dei diritti umani.
Se molto si potrebbe dire, ed è stato detto, sulle guerre illegali (secondo lo statuto delle Nazioni Unite) condotte in giro per il mondo[3], magari in nome della presunta “esportazione della democrazia”, oggi preferiamo soffermarci sul versante interno.
Prima di spostare la nostra attenzione sulla realtà degli States, ci sembra importante ricordare come da più parti sul banco degli imputati vengano messe le enormi spese militari, che così tanto incidono sul debito americano, dovute non solo alle operazioni belliche tout court, ma anche al mantenimento di un colossale apparato – composto di basi, installazioni e forze dislocate nei quattro angoli del pianeta – che sottraggono non poche risorse alla cittadinanza.
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Cosa è andato storto nel capitalismo?
di Michael Roberts
Ruchir Sharma ha pubblicato un libro dal titolo What went wrong with capitalism? [Cosa è andato storto nel capitalismo?]. Ruchir Sharma è un investitore, gestore di fondi, autore ed editorialista del Financial Times. È a capo delle attività internazionali di Rockefeller Capital Management ed è stato investitore nei mercati emergenti presso Morgan Stanley Investment Management.
Con queste credenziali, di essere “organico alla bestia” o addirittura “una delle bestie”, dovrebbe conoscere la risposta alla sua domanda. In una recensione del suo libro sul Financial Times, Sharma delinea la sua argomentazione. In primo luogo, ci dice: «mi preoccupa la posizione degli Stati Uniti alla guida del mondo. La fiducia nel capitalismo americano, costruito su un governo limitato, che lascia spazio alla libertà e all'iniziativa individuale, è crollata». Egli osserva che ora, la maggior parte degli americani non si aspetta di «stare meglio tra cinque anni» – un minimo storico da quando l'Edelman Trust Barometer ha posto questa domanda per la prima volta, più di due decenni fa. Quattro americani su cinque dubitano che la vita per la generazione dei loro figli sarà migliore di quanto lo sia stata per loro. Secondo gli ultimi sondaggi Pew, la fiducia nel capitalismo è diminuita tra tutti gli americani, in particolare tra i democratici e i giovani. Infatti, tra i democratici sotto i trent’anni, il 58% ha ora un'«impressione positiva» del socialismo; solo il 29% dice la stessa cosa del capitalismo.
Questa è una brutta notizia per Sharma, forte sostenitore del capitalismo. Cosa è andato storto? Secondo Sharma, è l'ascesa del big government[1], del potere monopolistico e del denaro facile per salvare le imprese più grandi. Ciò ha portato alla stagnazione, alla bassa crescita della produttività e all'aumento delle disuguaglianze.
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Indisciplinabili dal fordismo
Hobos, wobblies e i limiti di Gramsci
di Fabrizio Denunzio
Fabrizio Denunzio riflette su come leggere Gramsci oggi, interrogando le positività e le criticità di Americanismo e fordismo e provando a illuminare i processi di formazione di soggettività che, dentro e fuori il fordismo, non si sono lasciate disciplinare dalla logica della produzione tayloristica e che, nella sostanza, lasciano intravedere forme di vita, di lotta e di sindacalismo non riconducibili a quelle che si sono affermate nel movimento operaio europeo tra la fine del XIX e i primi decenni del XX secolo
Come leggere Gramsci oggi
In almeno due importanti lavori usciti di recente, a poca distanza l’uno dall’altro, Pasquale Serra ci invita a leggere Gramsci in modo molto diverso da quanto lo si sia fatto negli ultimi decenni, ossia da quando il furore filologico degli esperti – credo databile dagli inizi degli anni Novanta del Novecento e identificabile sempre presuntivamente, visto che l’autore non cita mai esplicitamente gli artefici di questa svolta, con Gianni Francioni e il suo progetto di una nuova edizione nazionale dei Quaderni del carcere – ha preso il sopravvento sul modo abituale con il quale in Italia, tra gli anni Cinquanta e i Settanta del XX secolo, si era solito leggere il pensatore sardo, cioè non allontanandolo mai dall’attualità politico-sociale del paese e da tutti i più scottanti problemi che lo assillavano: dal lavoro in fabbrica all’emigrazione, dal fascismo alla questione meridionale, e così via.
Con la conquista dell’egemonia interpretativa da parte delle ermeneutiche filologiche, il gramscismo italiano si è ridotto a una sapiente quanto ferrea macchina di citazioni avendo oramai abbandonato ogni pretesa analitica della realtà contemporanea. Questo passaggio ha determinato una forma di produzione intellettuale altamente «spoliticizzata» quanto sterilmente «speculativa» (Serra 2019, p. 67), meglio, allora, molto meglio, riprendere la lezione degli argentini per i quali il «loro Gramsci» non ha mai smesso di reagire con le questioni fondamentali del loro tempo, il peronismo prima fra tutte: da qui la decisione di Serra di curare l’edizione italiana del saggio di Horacio Gonzáles Il nostro Gramsci, dalla quale sono ricavabili le precedenti argomentazioni polemiche[1]. Che non sono destinate a finire.
Nel secondo dei due lavori a cui ho appena fatto riferimento, Serra rilancia la polemica, purtroppo lasciando anche questa volta nell’anonimato i suoi bersagli, ma non avrei difficoltà a riconoscervi, come esempi illustrativi, i lavori di un Giuseppe Cospito (2004, pp. 74-92) o di un Fabio Frosini (2004, pp- 93-11).
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Covid, l’ultima parola
di Paolo Di Marco
Premessa
Con un articolo sul NYTimes del 4 Giugno della biologa molecolare Alina Chan abbiamo finalmente e pubblicamente tutti gli elementi necessari a dire l’ultima parola sulla pandemia.
Dato che si presenta come un giallo colla classica lenta raccolta di indizi, la formulazione di ipotesi e i colpi di scena, per non dimenticare tutti i possibili depistaggi, ne seguiremo lo svolgimento lungo le tappe essenziali.
Le informazioni fondamentali sono riassunte in una sequenza di articoli, partendo dal Wall Street Journal poi da quello seminale di Wade sul Bulletin of the Atomic Scientists del 5/5/2021, passando all’intervento su Nature del Giugno ’20 con un articolo a primo firmatario Daszak, poi all’articolo sul Times di Tufekci del ‘22, poi quello di Wallace del ‘22 e infine questo di Chan.
A questo vanno aggiunti i dati sulla mortalità da pandemia raccolti sul Bulletin of the Atomic Scientists così come gli ultimi studi su Nature a altri giornali scientifici sui danni collaterali dei vaccini.
1- le origini: Wuhan
A Wuhan, epicentro della pandemia, c’è il grande laboratorio per la ricerca sui virus, WIV; dato che il virus più simile al COVID (96%) proviene dai pipistrelli, e la cava di pipistrelli più vicina (da cui proviene il simile) è a centinaia di km di distanza, qualcuno sospetta subito che l’origine dell’epidemia sia un incidente di laboratorio.
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