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Psicosi rossobruna
di Matteo Luca Andriola
Uno spettro si aggira per l’Europa. No, non è lo spettro del comunismo, contro cui tutte le potenze della vecchia Europa ottocentesca si coalizzarono in una caccia alle streghe, dallo zar al papa, da Metternich a Guizot, come scrivevano Karl Marx e Friederich Engels nell’incipit del Manifesto del partito comunista (1848), ma quello del ‘rossobrunismo’. Più volte si è accennato a tale fenomeno in queste pagine, ma il termine ora non è usato nell’accezione qui spesso utilizzata ma come etichetta squalificante contro chi fa la stecca nel coro del pensiero unico liberale, imperante dal 1989 come unica religione civile che accomuna tutti, da centrodestra a centrosinistra, dai progressisti ai conservatori, uniti dal prefisso ‘liberal’: liberalprogressista, liberaldemocratico e liberalconservatore.
Fino a qualche anno fa la querelle sul rossobrunismo era limitata a dossier che circolavano in rete, spesso stilati da collettivi vicini o organici alla sinistra antagonista o pubblicati in siti Internet di movimenti e partiti della sinistra. È necessario perciò, a scanso di equivoci, fare un breve excursus storico del fenomeno.
Rossobruni: una breve genealogia storica
Per anni nel recente passato si sono indicati come rossobruni quei soggetti politici e culturali che, come la nouvelle droite, disconoscendo la diade destra/sinistra, proponevano un’ideologia sincretica o la convergenza strategica e/o organica con chi era situato agli antipodi politici ma condivideva una profonda avversione per il sistema liberale.
Un precedente storico, scrive lo studioso marxista Alessandro Pascale, va ricercato nel ‘concetto di ‘nazionalbolscevico’ o ‘nazional comunista’, nato in Germania nel primo dopoguerra e usato sia da una branca dell’estrema destra rivoluzionarioconservatrice sia dai marxisti del Kapd di Amburgo, fautori entrambi di una convergenza strategica fra nazionalisti rivoluzionari e comunisti contro il ‘nuovo ordine europeo’ uscito a Versailles.
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Viandanti nel nulla
di Marco Paciotti
Sul libro di Stefano G. Azzarà: Comunisti, fascisti e questione nazionale. Germania 1923: fronte rossobruno o guerra d’egemonia? [Mimesis, Milano-Udine, 2018]
Nell’attuale dibattito politico capita sovente di imbattersi nell’etichetta di “rossobrunismo”, per la quale si intende, tra chi vi aderisce entusiasticamente e chi invece vi si richiama con intenti più polemici (talvolta con toni crassamente scandalistici), un’alleanza transpolitica – oltre destra e sinistra – tra marxisti e nazionalisti contro il nemico comune costituito dal capitalismo globale transnazionale, stigmatizzato variamente quale “apolide”, “turbomondialista”, “sradicante”, “cosmopolita” etc., nel nome della difesa della “sovranità” e delle piccole patrie.
In un testo pubblicato lo scorso autunno presso Mimesis Stefano Azzarà, con scrupolo critico, polemizza con tale posizione, mostrandone l’inconsistenza sul piano storico-filosofico a partire dall’analisi del dibattito avvenuto nell’estate del 1923 tra alcuni esponenti della Kommunistische Partei Deutschland (tra cui spiccano le figure di Karl Radek e Paul Fröhlich) e i teorici del movimento völkisch Arthur Moeller van der Bruck[1] e Ernst Reventlow. Lo scambio, descritto dall’autore come un “dialogo tra sordi”, viene presentato in una nuova traduzione di Azzarà nella seconda parte del libro.
Esso ha origine in un intervento tenuto da Karl Radek alla seduta dell’Esecutivo allargato dell’Internazionale comunista a Mosca il 20 giugno del 1923, durante il quale il dirigente comunista evocava la figura di Leo Schlageter, “coraggioso soldato della controrivoluzione” e “martire del nazionalismo tedesco”, processato e assassinato per aver compiuto azioni di sabotaggio nella Ruhr occupata dalle truppe francesi in virtù del trattato di Versailles. Schlageter era descritto come un sincero patriota che aveva pagato con la vita per le sue idee: ma egli era un “viandante nel nulla”[2], dal momento in cui aveva aderito a un movimento egemonizzato dal capitale tedesco, il quale da un lato soffiava sulle aspirazioni indipendentiste di vasti strati delle classi popolari tedesche mentre, al contempo, non disdegnava di stringere accordi affaristici con i potentati economici francesi interessati alle materie prime dei territori occupati.
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Il Trattato di Aquisgrana e la fine dell’Europa politica
di Domenico Moro
Il 6 febbraio 2019 la commissaria alla concorrenza della Ue, Margrethe Vestager, ha bocciato la fusione tra Alstom e Siemens nel settore ferroviario. Immediatamente la Francia e la Germania hanno dichiarato che avrebbero dato avvio a un processo di revisione delle regole della concorrenza. Ben diverso è stato l’atteggiamento dei due Stati in occasione della fusione tra Fincantieri e Stx France, nella cantieristica. In questo caso la Francia, sostenuta immediatamente dalla Germania, ha chiesto alla commissione alla concorrenza di esaminare la fusione alla luce del regolamento sulle concentrazioni. Si tratta di un esempio che dimostra quanto l’Europa sia tutt’altro che un organismo unitario. La Ue, in realtà, è un sistema intergovernativo dove gli Stati non solo continuano ad esistere ma agiscono, sempre di più, secondo interessi e strategie nazionali. Al di là dei numerosi esempi in tal senso degli ultimi anni, specie dopo lo scoppio della crisi del debito pubblico, il Trattato di Aquisgana, siglato a gennaio dai governi di Francia e Germania, sancisce definitivamente l’inesistenza dell’Europa non solo come soggetto politico unitario, ma persino come terreno politico di coordinamento tra Stati.
La scelta della città di Aquisgrana ha una forte valenza simbolica. Infatti, Aquisgrana fu la capitale dell’Impero carolingio, che unì in uno stesso organismo politico Francia e Germania. Attorno al nucleo centrale composto da questi due Paesi, l’impero di Carlo Magno riuniva gli attuali Belgio, Olanda, Austria, Italia centrosettentrionale e Catalogna, insomma quello che ora è il nocciolo duro dell’area euro. Mentre l’Europa si scopre sempre più divisa su molte tematiche, e le divergenze economiche tra i Paesi si sono allargate sempre di più, la Francia e la Germania anziché lavorare, come vorrebbe la retorica europeista, ad una maggiore integrazione europea, si focalizzano sull’integrazione franco-tedesca con obiettivi e istituzioni proprie.
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L’eterno ritorno dell’uguale: il golpe in Venezuela tra petrolio e resistenza
di coniarerivolta
Dopo vent’anni al potere, le riforme sociali e redistributive introdotte dai governi di Hugo Chavez e Nicolás Maduro hanno trasformato la società venezuelana. In due decenni il governo popolare ha cercato, con risultati spesso lusinghieri, di sradicare la povertà estrema, combattere le disuguaglianze e cambiare le istituzioni politiche per trasferire parte del potere decisionale direttamente alle classi popolari. Vent’anni di Chavismo hanno anche spostato enormemente in avanti il confine di ciò che si può pensare, di ciò a cui un paese può aspirare. Il sottosviluppo ed il colonialismo economico non sono necessità, sono fenomeni storicamente determinati che possono essere combattuti ed affrontati, cercando di costruire una società che metta al centro delle priorità i bisogni e le necessità di chi è sempre stato spogliato di ogni minimo potere decisionale. È indubbio, però, che le politiche attraverso le quali si è cercato di raggiungere questi obiettivi abbiano implicato un conflitto con i settori economici che hanno comandato nel Paese per decenni: si tratta, fondamentalmente dell’oligarchia tradizionale e delle grandi imprese multinazionali. La maggior parte delle analisi prodotte dai media mainstream ha presentato l’attuale situazione in Venezuela come il risultato ovvio e naturale delle riforme socialiste. Non stupisce la disonestà intellettuale e politica di chi, fin dal primo giorno di insediamento al potere di Chavez, ha condotto una guerra sporca – a volte a bassa intensità, a volte direttamente con le sembianze di un colpo di Stato – contro un Governo che metteva a repentaglio i privilegi di stampo coloniale delle classi dominanti. Proprio per evitare di dare fiato ai luoghi comuni ed alle banalità con i quali siamo bombardati quotidianamente, riteniamo sia utile iniziare a riflettere sulle cause profonde delle difficoltà economiche che hanno colpito il Venezuela, in particolare negli ultimi anni. Come cercheremo di argomentare, uno degli aspetti cruciali, per la sopravvivenza ed il futuro successo dell’esperienza rivoluzionaria, risiede nella capacità di affrontare la dipendenza dalle esportazioni di petrolio, una dipendenza che è stata usata e sfruttata dai nemici (nazionali ed internazionali) delle trasformazioni economiche e sociali portate avanti da Chavez e Maduro.
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Terrore del lavoro e critica del lavoro
La tolleranza repressiva e i suoi limiti
di Ernst Lohoff
La moderna società occidentale ha preso l'abitudine di autocelebrarsi in quanto asilo di tolleranza e di libertà; per quel che riguarda il soggetto moderno del mercato, dichiara con soddisfazione di non avere tabù. A ben guardare, tuttavia, la sua pretesa assenza di pregiudizi si rivela una mera forma di indolenza, e come il risultato di un adattamento mimetico alla situazione di amministrazione fiduciaria che la società di mercato esige. Questo condiziona i suoi membri ad accettare il fatto che, in ultima analisi, le decisioni relative al contenuto della ricchezza sociale e lo sviluppo delle relazioni sociali non si basano su degli accordi coscienti, ma su un'istanza anonima, in questo caso il mercato . Che si tratti di senape o di detersivo, di preferenze sessuali o di opinioni politiche, tutto quello che può essere messo sul mercato è giusto, e tutto quello che si rivela invendibile è sbagliato. Il moderno soggetto delle merci vive la propria vita senza riserve e pregiudizi solo a partire dal fatto che ha dovuto interiorizzare l'idea secondo la quale il mercato è l'unica istanza legittima di riconoscimento, che ritraduce sempre le relazioni sociali in relazioni di domanda e offerta. L'identità fra tolleranza regnante e sottomissione incondizionata al potere della merce e de mercato. non gli conferisce tuttavia solo le caratteristiche di ciò che Herbert Marcuse ha definito «tolleranza repressiva». Questa connessione interna determina allo stesso tempo sia i suoi limiti che il punto in cui le cose si invertono, il punto in cui l'abbrutimento di un soggetto del mercato, capace di digerire tutto, lascia il posto al puro odio. In una società dove il fatto di essere vendibili è il criterio che decide tutto, opporle un criterio di principio è una cosa inaccettabile ed asociale: significa rifiutare di rischiare la propria pelle, e mancare di disciplina per quanto riguarda il conformare sé stessi alla merce.
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La testimonianza di Yanis Varoufakis che lo condanna
I negoziati segreti e le speranze deluse
di Eric Toussaint
Eric Toussaint, dottore in scienze politiche dell’università di Liegi e di Paris VIII e coordinatore dei lavori della “Commissione per la verità sul debito pubblico greco” creata il 4 aprile 2015 su iniziativa del Presidente del Parlamento greco e poi ben presto disciolta, ha ricostruito in una serie di articoli le vicende dei febbrili negoziati tra Bruxelles e il governo greco durante i giorni più caldi della crisi, basandosi sul libro pubblicato dall’ex ministro Varoufakis e sui suoi stessi ricordi. Qui si ricostruiscono gli accordi sulle privatizzazioni con i Cinesi e le interferenze della Germania, le speranze disilluse sull’aiuto dei russi e degli americani, e la fugace esaltazione per la coraggiosa decisione, presto rientrata, di non pagare il debito al Fmi. In particolare Toussaint sottolinea la rinuncia del governo greco a comunicare col popolo degli elettori per cercar di spiegare la situazione e ottenere il sostegno ad azioni coraggiose
Nell’undicesimo capitolo del suo libro, Yanis Varoufakis spiega di essere intervenuto per portare a termine la vendita del terzo terminal del Porto del Pireo alla compagnia cinese Cosco, che già gestiva dal 2008 i terminal 1 e 2. Come Varoufakis stesso riconosce, Syriza prima delle elezioni aveva promesso che non avrebbe consentito la privatizzazione della parte restante del porto del Pireo. Varofakis continua: “Syriza durante la campagna dal 2008 prometteva non soltanto che avrebbe impedito il nuovo accordo, ma che avrebbe totalmente estromesso Cosco“. E aggiunge: “Avevo due colleghi ministri che dovevano la loro elezione a questa promessa“. Tuttavia Varoufakis si affretta a cercar di concludere l’accordo di vendita a Cosco. Se ne occupa con l’assistenza di uno dei consulenti senior di Alexis Tsipras, Spyros Sagias, che fino all’anno precedente era stato consulente legale della Cosco. Nella scelta di Sagias c’era quindi un chiaro conflitto di interessi, cosa che Varoufakis riconosce (pag. 313). Era stato lo stesso Sagias, peraltro, a redigere il primo accordo con Cosco nel 2008. Sagias negli anni ’90 era stato consigliere anche del primo ministro del PASOK Konstantinos Simitis, che aveva organizzato la prima grande ondata di privatizzazioni.
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Da Hegel a Marx: fenomenologia dello Stato moderno capitalistico
di Carla Maria Fabiani*
Abstract: In Chapter 24 of the first book of Capital, Marx deals with the modern capitalist State, emphasizing the existence of complex factors which affect it. The theoretical basis of his reflection is to be found in Hegel’s Phenomenology. He points out the violent methods that the State use against workers – the eslege proletariat – and the subsumtpion of the State to capital.
1. Definire lo Stato: prima Hegel e poi Marx
È bene soffermarsi su una definizione non marxiana del potere dello Stato, ma irrinunciabile ai fini dell’analisi che svolgerò nelle pagine successive, in merito a quanto Marx espone nel celebre capitolo su «La cosiddetta accumulazione originaria» (Marx, 2011, 787-839).
Mi riferisco alla definizione hegeliana presente nella Fenomenologia dello spirito, ancor prima che nei Lineamenti di filosofia del diritto, a proposito del potere dello Stato, come sostanza che permane di contro alla ricchezza definita invece come sostanza che si sacrifica[1]. Quei passi delineano il passaggio da una concezione premoderna dello Stato a una concezione pienamente moderna: dallo Stato teocratico/assolutistico allo Stato monarchico costituzionale, così come verrà poi più dettagliatamente configurato nei Lineamenti.
La struttura cetuale della società dell’Ançien Régime, sostenuta dalla stabilità del potere statale – l’Io voglio del sovrano assoluto –, si sacrifica allo spirito del tempo moderno, che afferma con Smith: «La ricchezza, come dice Hobbes, è potere.» (Smith, 1995, 83).
Tale sacrificio non elimina il potere dello Stato in sé; rende ambivalente la sua definizione e la sua cognizione, da parte dei soggetti agenti all’interno di quella che più tardi sarà chiamata società civile, stato esterno, sistema dell’atomistica.
Il potere statale è perciò sia la sostanza semplice (l’Io voglio), principio di spiegazione e fondamento del fare di tutti e di ciascuno (di tutti i ceti), dimensione autonoma e autosufficiente del politico (l’État c’est moi!); ma anche l’opera universale, cioè proprio il risultato effettuale del fare di tutti e di ciascuno, la dimensione propriamente economica, alla quale il politico sacrifica la sua autonomia e dalla quale riceve legittimità e sussistenza (il mondo liberale della ricchezza).
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I dieci anni che sconvolsero il mondo
Introduzione
di Raffaele Sciortino
Raffaele Sciortino: I dieci anni che sconvolsero il mondo. Crisi globale e geopolitica dei neopopulismi, Asterios, 2019
A un libro obiettivamente denso si addice un’introduzione la più possibile asciutta. Il lettore non troverà qui, dunque, un riassunto del contenuto ma qualche indicazione del quadro nel quale questo lavoro si inserisce, della sua articolazione, delle questioni di fondo che punta a sollevare.
Il quadro. I dieci anni che hanno scosso, se non ancora sconvolto, il mondo sono gli anni della prima crisi effettivamente globale del sistema capitalistico: scoppiata tra il 2007 e il 2008, essa ha investito a cascata i meccanismi della globalizzazione finanziaria, gli assetti geopolitici mondiali, le dinamiche soggettive delle classi sociali fin dentro un Occidente che sembrava bloccato per sempre sul mantra neoliberista. Dieci anni possono essere poca cosa a scala storica ma sono un periodo già discretamente lungo a scala generazionale, tanto più se forieri di trasformazioni significative. Poco per fare un bilancio storico ma non per tentare un primo bilancio del presente inteso come un passaggio della storia. Questo libro, allora, non è un lavoro storiografico canonico - pur basandosi su fonti rigorosamente vagliate - ma è un lavoro politico come figlio di questo decennio. Non solo perché per una sua parte rielabora, sistematizza e fornisce una cornice teorica ad articoli da me scritti in tempo reale man mano che la crisi globale e i suoi risvolti venivano a delinearsi. Ma soprattutto nel senso che è il tentativo di mettere in prospettiva questi dieci anni a partire dalla convinzione che sono in corso mutazioni importanti, per certi versi veri e propri punti di non ritorno.
La dinamica degli ultimi decenni - già esito della peculiare controrivoluzione succeduta al lungo Sessantotto e segnata dal sempre eguale dello Spettacolo mercantile lubrificato dal circuito del debito - si è rimessa in moto. E lo ha fatto, finalmente, a partire da sconquassi che originano non dalla periferia ma dal centro dell’impero del capitale, scuotendo il consenso neoliberista diffuso e il suo pilastro, il soft power statunitense, rimettendo in campo l’interventismo statale a salvataggio dei mercati, riaccendendo il conflitto inter-capitalistico, suscitando anche in Occidente reazioni sociali e politiche esterne e contrarie ai dettati dell’ortodossia liberale.
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“Talmudisti e Nicodemisti”
di Elisabetta Teghil
Cominciamo con un esempio che vale più di mille parole. Il movimento indipendentista catalano non andrebbe appoggiato perché non è guidato dalla classe operaia e si dovrebbe auspicare invece la repubblica federale spagnola, progetto in grembo agli dei che non vedranno né figli né nipoti. Maniera elegante, quindi, per dire no alla repubblica catalana e farsi belli evitando di esporsi.
Peccato che la borghesia sappia bene cosa fare. Gli indipendentisti catalani sono in carcere, verranno processati e condannati.
Questo è l’atteggiamento di tante persone che si autodefiniscono di sinistra, colte e inclite. È molto diffuso e si ripropone in tante occasioni. Si era già presentato con la rivoluzione castrista definita una lotta interna alla borghesia e, comunque, lontana dagli interessi della lotta di classe. Costoro sono i Talmudisti.
Tranciano giudizi su ogni tentativo di uscire da questa società o anche solo di provare a dare una risposta diversa e stigmatizzano tutto e tutti: Thomas Sankara si sarebbe spinto troppo avanti, Lula, Dilma Rousseff, Kirchner sarebbero stati troppo tiepidi e avrebbero perso il contatto con le masse… Ce n’è per tutti perché i talmudisti sono i depositari del verbo, pensano a studiare le sacre scritture, a interpretarle e a fare esegesi. E questo permette loro di non prendere mai posizione, di non schierarsi mai, ma anzi di avallare chi racconta, perché adesso siamo arrivati addirittura a questo, che la colpa del colpo di stato in Cile è delle politiche sconsiderate di Allende e che Maduro e prima di lui Chavez sono dei dittatori che, circondati da pretoriani, hanno dissanguato il paese e impoverito i venezuelani.
Ma i Talmudisti si esercitano per dare interpretazioni sempre più raffinate, e infatti alcuni ci raccontano che Chavez era ben altra cosa ma il suo pensiero è stato tradito da Maduro. Chiaramente perché Chavez è morto altrimenti chissà quale sarebbe stata la versione adatta allo scopo.
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Blockchain: un'arma del sistema neoliberale
L'agenda digitale, ossia il panopticon neoliberale
di Bazaar
Bazaar scrive: «La tecnica non è neutrale: nasce sociopoliticamente orientata per raggiungere gli obiettivi di chi ne finanzia lo sviluppo e la diffusione». A partire da questo enunciato il nostro spiega cosa sia davvero la blockchain ed a quali interessi sia funzionale, quindi la visione del mondo che ci sia dietro. Un’indagine preziosa, costata tanta fatica e che dunque merita venga letta e diffusa
«La Camera dei deputati del Parlamento italiano ha approvato il cosiddetto “decreto semplificazioni” che contiene le definizioni legali di blockchain, o meglio, “tecnologie basate su registri distribuiti” (DLT) e degli smart contract, con le relative linee guida.» cryptonomist.ch
1. L’agenda digitale presenta sé stessa, come ogni programma di riforme sociostrutturali neoliberiste, come una forma di progresso tecnologico che semplificherà la vita dei cittadini, pardon: utenti.
Questa “agenda” è un documento programmatico che va ideologicamente inquadrato in quell’ambito di provvedimenti volti alla privatizzazione dello Stato e al controllo totalitario del lavoro e di tutte le attività e funzioni in cui l’individuo sviluppa la propria personalità; ovvero, l’agenda digitale è un’agenda politica.
Inquadriamo innanzitutto il fenomeno della digitalizzazione nell’ambito privato.
La secolare propaganda del progressismo liberale – trita e ritrita – si presenta sempre con i medesimi ideologemi:
a) Il progresso scientifico permette a tutti di vivere da borghesi benestanti (e se voi invece no – ça va sans dire – è perché non meritate).
Chi riceve il messaggio dà così per scontato che il consumo di massa non abbia a che fare con particolari scelte politiche e che, a loro volta, queste scelte abbiano a che fare con lotte tra classi o durissime dialettiche tra sezioni del medesimo ceto, tra gruppi d’interesse.
I consumi di massa possono essere ottenuti e mantenuti in almeno due modi che possono avere risvolti politici e sociali contrapposti:
(I) vengono aumentati i salari in modo che la domanda aggregata cresca (tutti i lavoratori diventano mediamente più ricchi e possono comprare beni volti a migliorare la qualità della loro vita).
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Regioni, aboliamole!
Il regionalismo differenziato è secessione
di Ugo Boghetta
Puntuale come la cometa di Halley torna la discussione sul passaggio alle Regioni di soldi e competenze. Ma l’arrivo delle comete era foriero di sventure.
Con Bossi si chiamava devolution. Poi sono seguiti: sussidiarietà, federalismo fiscale, regionalismo rafforzato. Ora l’appellativo è quello di regionalismo differenziato.
Lombardia e Veneto, le due regioni a trazione leghista, per spingere in questo senso hanno anche svolto un referendum consultivo, La Regione Emilia Romagna ha invece avanzato una proposta parzialmente diversa ma a livello istituzionale.
La faccenda, è grave e pesante: ne va dell’unità del paese e di uguali diritti per gli italiani. Ma produce anche un indebolimento generale dell’Italia in un contesto internazionale complicato ed in transizione conflittuale anche nell’eurozona e nel Mediterraneo.
La questione è tecnicamente complicata per cui cercheremo di ridurla all’osso, o meglio, alla polpa. E la polpa sono i soldi e il potere.
Lombardia e Veneto pretendono risorse in una qualche proporzione di uno o più tributi versati nei loro territori, mentre la Regione Emilia-Romagna chiede le risorse in funzione del trasferimento di competenze. La zuppa è sempre la stessa. Ovviamente pretendono le risorse che lo Stato redistribuisce ma non gli interessi che paga.
I legaioli del nord chiedono 23 competenze, l’Emilia 15, ma le funzioni amministrative in ballo sono circa 200.
Le materie sono le più varie: salute, istruzione, mobilità ma anche protezione civile, cultura, infrastrutture quali ferrovie, autostrade, aeroporti, ma anche le prestazioni sanitarie, il numero dei medici nelle università, le assunzioni, la stessa ammissibilità dei farmaci!
Il passaggio del personale, che in alcuni casi copre tutta la spesa, tira in ballo anche questioni contrattuali. Mentre l’assunzione in altra regione dovrà essere consentita.
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Le emigrazioni e il dilemma etico-politico
di Moreno Pasquinelli
Catto-comunismo o comunismo d’accatto?
Parafrasando Carl Schmitt sovrano è chi decide l’ordine del giorno. E’ sotto gli occhi di tutti come l’élite neoliberista, forte della sua formidabile potenza di fuoco mediatica, sia riuscita a fare del fenomeno emigratorio la questione fondamentale dell’agenda politica.
Una colossale operazione ideologica di distrazione di massa. Tutti hanno abboccato, sinistre comprese, le quali hanno anzi deciso di occupare la prima linea del fronte immigrazionista, pur restando, lo Stato maggiore, ben saldo nelle mani dei dominanti. Sarebbe sbagliato pensare che questo obbligare la pubblica opinione a considerare l’immigrazione come questione delle questioni sia solo strumentale all’evidente obbiettivo di rovesciare il governo giallo-verde. Dietro c’è molto di più, c’è una visione del mondo, la necessità di imporla come destino.
Infatti, sul fenomeno emigratorio, l’élite dominante vorrebbe tracciare la linea che divide il bene dal male, lo spartiacque tra buoni e cattivi. Cattivo è chiunque non accetti come sacro il principio morale della cosiddetta “accoglienza”, dalla parte del male starebbe chiunque respinga come eticamente superiore l’ordine cosmopolitico fondato sul melting pot multietnico. Ancora una volta ricorrendo a Schmitt siamo in presenza di “concetti teologici secolarizzati”. Rovesciare l’ordine del giorno dei dominanti dovrebbe essere il primo atto politico di chi si considera antagonista, e non solo per evitare di essere ad essi funzionali.
Come mai questo non avviene? Non è solo per insipienza tattica, accade perché gli stessi “antagonisti” hanno introiettato e fatta propria sia la visione teologica dell’élite — compresi i suoi esorcismi per combattere e circoscrivere il “male” e non esserne contaminati — solo camuffandola con la maschera di quello che un tempo sarebbe stato chiamato “catto-comunismo” o meglio comunismo d’accatto.
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Gli USA: uno Stato-canaglia al servizio della propria economia
di André Chamy*
Improvvisamente, la classe possidente francese diventa consapevole dell’uso economico che gli Stati Uniti fanno del sistema giudiziario. Dal 1993 il Dipartimento per il Commercio ha creato un Trade Promotion Coordinating Committee e un Advocy Center, direttamente collegato alle agenzie d’intelligence. Più di recente, il Dipartimento di Giustizia ha interpretato le leggi statunitensi in modo da estendere il proprio potere all’estero ed esercitarlo, insieme alle altre amministrazioni, nell’interesse delle grandi aziende USA. Di fatto, i processi intentati contro le imprese europee non sono in relazione con le violazioni di cui vengono accusate. Sono processi concepiti per portarle al fallimento o consentirne l’acquisizione da parte di società USA
In pochi mesi, Frédéric Pierucci è passato brutalmente dallo status di presidente della filiale “calderone” di Alstom a quello di detenuto sottoposto alle drastiche condizioni della vita carceraria statunitense…
Ecco riassunto in poche parole il percorso di un dirigente francese in balìa della giustizia USA… Il caso Pierucci consente di fare diverse considerazioni sul piano economico e strategico.
In un libro-testimonianza, intitolato Le piège américain. Otage de la plus grande entreprise de déstabilisation (La trappola americana. Ostaggio della più grande impresa di destabilizzazione), un ex dirigente Alstom svela i retroscena dell’acquisizione del gruppo francese da parte della statunitense General Electric (GE) [1].
Pierucci, un «fantoccio nelle mani della giustizia americana», fu «vittima della strategia» del PDG Patrick Kron. La storia personale di Pierucci illustra la guerra economica degli Stati Uniti contro l’Europa, finalizzata a impadronirsi dei pezzi da novanta dell’industria del Vecchio Continente, usando la giustizia come leva per piegare le imprese, ricorrendo sia a restrizioni fisiche, quali sono le reclusioni abusive, sia a costrizioni finanziarie, usando l’espediente di ammende esorbitanti che farebbero cadere interi Paesi.
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Reddito e salario: la vera posta in gioco
di Marta Fana e Simone Fana
Per il blocco neoliberista il principale problema del Reddito di cittadinanza è di essere troppo generoso rispetto alle retribuzioni italiane. Emerge allora il vero oggetto dello scontro: continuare a svalutare il lavoro
Da mesi si parla dei due cavalli di battaglia dell’ultima legge di stabilità: quota 100 e Reddito di cittadinanza. L’audizione alla Commissione Lavoro del Senato sul decreto legge 4/2019 che li introduce si è dimostrata la sede privilegiata in cui vengono scoperte le carte delle parti sociali chiamate a esprimersi. È stato in quel momento infatti che i veri nodi politici sono venuti al pettine: il problema principale del Reddito di cittadinanza è di essere troppo generoso rispetto ai salari italiani: la distanza tra i due è minima e questo comporterebbe che i lavoratori potrebbero rinunciare ai magri salari preferendo il sussidio.
In particolare, Tito Boeri, presidente (in scadenza) dell’Inps, spiega che «secondo i dati Inps, quasi il 45% dei dipendenti privati nel Mezzogiorno ha redditi da lavoro netti inferiori a quelli garantiti dal Reddito di cittadinanza» e che pur considerando il 50% dei trasferimenti meno generosi questi rimangono più alti «dei redditi da lavoro del 10% più basso della distribuzione dei redditi da lavoro». Sulla stessa barricata si trova Confindustria, preoccupatissima della potenziale riduzione dell’offerta di lavoro da parte dei poveri disgraziati, accusa il «livello troppo elevato del beneficio economico. I 780 euro mensili che percepirebbe un single, privo di altro reddito dichiarato, potrebbero scoraggiarlo dal cercare un impiego, considerando che in Italia lo stipendio mediano dei giovani under 30, al primo impiego, si attesta sugli 830 euro netti al mese: 910 al Nord (820 per i non laureati) e 740 al Sud (700 per i non laureati)».
La critica, avanzata dal blocco liberista italiano, che si estende al Pd e a Carlo Calenda, è nei fatti infondata dal momento che il Reddito di cittadinanza obbliga i lavoratori ad accettare una delle prime tre offerte di lavoro a prescindere dalla retribuzione, pena la decadenza del diritto al sussidio. Tuttavia, la psicosi provocata dal decreto mette in chiaro quello che fin qui in molti non avevano voluto vedere: l’oggetto dello scontro in atto non è il reddito in sé, ma il diritto del padronato italiano a perseverare nella svalutazione del lavoro e dei salari. Bassi sono e bassi devono restare altrimenti addio competitività.
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Per i 5 Stelle un minuto a mezzanotte
di Fulvio Grimaldi
Foibe, TAV, migranti,vaccini, scienza, Italia in frantumi, Venezuela ... Negazionisti alla colonna infame!
Negazionisti brutti, affermazionisti belli
Viaggiamo nei paradossi. A ogni negazionista corrispondono inevitabilmente uno o più affermazionisti. A loro volta questi, a dispetto loro, risultano negazionisti riguardo a quanto affermano i negazionisti, divenuti a loro volta affermazionisti. Ma lo Zeitgeist imperante fa sì che agli affermazionisti che si confrontano con i negazionisti vengono attribuiti a priori la ragione, il vero e il giusto, così come vengono assicurati consenso e buona ragione ai negazionisti delle affermazioni dei negazionisti. E’ tutto questione di prospettive. Ma di una cosa possiamo tutti essere certi: che dei negazionisti gli affermazionisti hanno una paura fottuta. La caccia alle streghe negazioniste si spiega solo con il terrore che degli affermazionisti si possa scoprire cose gravissime. Ricordate che cosa succedeva a certi nostri temerari antenati che, con ancora granelli di libertà classica nelle vene, mettevano in discussione, che so, la transustanziazione dal corpo di Cristo nell’ostia, o, al Concilio di Nicea I, che padre e figlio fossero della stessa sostanza, in senso aristotelico, o non piuttosto due distinti esseri divini? Anche lì la paura dei dogmatici in fieri si estrinsecava in “eretici” bruciati o sepolti vivi da imperatori cristiani o vescovi. Oggi al negazionista, in sempre più paesi, ci si limita col carcere. Cosa si teme?
Giornata del ricordo…strabico
Confusione? Passiamo a un esempio, uno di tendenza: le foibe. Chi nega che in quei buchi sul Carso siano stati gettati, solo dai feroci partigiani titini, solo innocenti cittadini, solo perchè italiani e, magari, non comunisti, è un negazionista messo alla gogna dall’affermazionista che invece sancisce quella narrativa e, inesorabilmente diventa a sua volta negazionista della versione affermata dalla controparte. La quale versione potrebbe, per modo di dire, essere fondata su documenti che, grazie alla ricerche di storiche eminenti come Claudia Cernigoi e Alessandra Kersevan, mai contraddette e non contraddicibili perché documentate, che nelle foibe finirono per primi sloveni e croati rastrellati dai fascisti nelle loro terre.
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Il potere nasce dalla canna del fucile? Tra Resistenza e Costituzione
di Silvia Calamandrei
Il libro di Giuseppe Filippetta (L’estate che imparammo a sparare. Storia partigiana della Costituzione, Milano, Feltrinelli, 2018) già dal titolo, che riprende un’espressione dello scrittore e partigiano Marcello Venturi1, e dal sottotitolo, ci preannuncia un’interpretazione controcorrente della genesi della nostra carta costituzionale, posta nel segno della discontinuità come frutto di un’esperienza di sovranità dal basso, individuale, esercitata nelle bande partigiane.
Rovesciando in positivo l’entrata nella “terra di nessuno” che segue l’8 settembre, quel precipitare in uno stato hobbesiano dell’homo homini lupus a cui tanti, rifacendosi al catastrofismo del sattiano De profundis, hanno fatto risalire la “morte della patria”, l’autore ne sottolinea invece il potenziale di innesco di una ripresa di sovranità dal basso, nella scelta individuale della lotta armata partigiana. Come testi di riferimento e chiavi interpretative ha Una guerra civile di Claudio Pavone e la Resistenza perfetta di Giovanni De Luna, e scrive un saggio “post-revisionista” in cui profonde la sua cultura di giurista, per smarcarsi dall’interpretazione “continuista” che tanti giuristi hanno dato della Costituzione repubblicana, a partire da Costantino Mortati.
Per meglio valutare la novità dell’approccio e il target polemico la chiave si trova nel capitolo finale, «La sovranità dimenticata», dove, dopo aver confutato il saggio Rivoluzione e diritto di Santi Romano (settembre 1944), si stigmatizza il “catastrofismo giuridico” dei vari Satta, Capograssi e Carnelutti. Secondo Filippetta la maggioranza dei giuristi italiani vive l’8 settembre come una sorta di Tsimtsum cabalistico nel quale lo Stato si ritrae e la scena della sovranità è occupata da una moltitudine di singolarità individuali, non legittimate ad agire da sovrani. Santi Romano nega la capacità di ordinamento della Resistenza, pur cogliendone la portata rivoluzionaria. Secondo quanto scrive, «il ritrarsi dello Stato ha lasciato posto alla violenza di una moltitudine di individui che si vogliono sovrani, ma che non sono in grado di produrre un ordine e che agiscono in nome di una giustizia che in realtà non conoscono».
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La pericolosa deriva dei sindacati confederali: negano il conflitto e sposano il liberismo
di coniarerivolta
Nel 1927 il Gran Consiglio del Fascismo deliberava la ‘Carta del Lavoro’, il documento simbolo della nascita dello stato corporativo e dell’indirizzo di politica economica che il regime avrebbe condotto di lì in avanti, almeno fino allo scoppio del secondo conflitto mondiale. Un indirizzo politico volto all’esplicita negazione del conflitto di classe e, di conseguenza, alla completa sottomissione dei lavoratori agli interessi padronali. Espressioni quali “collaborazione tra le forze produttive”, “solidarietà tra i vari fattori della produzione”, “uguaglianza tra datori di lavoro e lavoratori”, rinvenibili nell’articolato della Carta del Lavoro, trovarono la loro compiuta sintesi nel riconoscimento, da parte del fascismo, dell’organizzazione privata della produzione come “funzione di interesse nazionale” e dell’iniziativa economica privata come motore dell’economia. Una perfetta espressione della visione liberista (con i dovuti e gli opportuni distinguo – si pensi, ad esempio, alla coniugazione del lavoro, presente nella Carta fascista, come “dovere sociale”, in contrapposizione all’ideale liberale del lavoro come “diritto”), che prevede il superamento della lotta di classe in nome di un “armonico” asservimento del lavoro al capitale, ai fini dello “sviluppo della potenza nazionale”.
La caduta del regime fascista non ha comportato, come ben sappiamo, la morte dell’ideale liberal-corporativista di unità tra le forze produttive. Esso appare infatti rintracciabile negli indirizzi di politica economica promossi dai governi italiani dal secondo dopoguerra in poi. Neanche l’alternanza tra governi di centro-sinistra e centro-destra degli ultimi decenni ha minimamente scalfito questa visione. Senza addentrarci in una complessa disamina storica, venendo ai giorni nostri, si può ritenere che quel concetto, pur rimanendo immutato nella sostanza, abbia fatto registrare dei cambiamenti nelle modalità tramite le quali esso viene declinato nel discorso pubblico.
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Il silenzio dei senzienti
di Il Pedante
Ricevo e pubblico con gratitudine un contributo sottoscritto da numerose associazioni per la libertà di scelta sanitaria. Il documento, scaricabile qui nella versione completa di allegati e approfondimenti, contiene il lavoro svolto dalle associazioni in preparazione delle loro audizioni presso la Commissione igiene e sanità del Senato della Repubblica, nell'ambito della discussione sul disegno di legge n. 770 in materia di vaccinazioni.
Quelle audizioni non hanno avuto luogo né mai lo avranno, nonostante le pubbliche rassicurazioni del presidente di Commissione. Qualcuno ha infatti stabilito che il testo dovrà tradursi in legge nel più breve tempo possibile. Chi ha dettato questa accelerazione? Chi ha deciso di escludere le associazioni? E perché? Non si sa né, come già in passato, ci si degnerà di spiegarlo. La vicenda, ostinatamente derubricata dai più intelligenti, da quelli che badano alle cose serie, all'ordinaria amministrazione di cose tecniche e grige da lasciare al grigiore dei tecnici, continua a svolgersi in un silenzio equivoco da segreto di Stato e sotto l'assedio del mainstream anglosassone, scientifico e non, mentre persino il vicepremier e ministro degli Interni deve suggerire in pubblico la propria impotenza malgrado gli impegni presi con gli elettori. Sembra che nessuno possa affrontare il tema senza fulminarsi: una dinamica tipica, ci spiegano gli intelligenti, delle cose di poca importanza.
Sul disegno di legge in parola ho già speso molte pagine su questo blog (qui e qui, inter alia). Nel testo che segue se ne affrontano le criticità in modo più sistematico, nell'ambito di una battaglia ferma ed equilibrata per affermare il diritto del popolo italiano di autodeterminarsi secondo Costituzione, attraverso il voto e le altre forme di partecipazione previste dalla Carta. La ripetuta violazione di questo diritto, con questa ennesima promessa mancata, dovrebbe aprire gli occhi di tutti su un metodo che, già da solo, lascia intuire l'abnormità del merito in gioco.
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La società dei performanti
di Maurizia Russo Spena, Vincenzo Carbone
Interroghiamo oggi, in questa sede, il libro di Roberto Ciccarelli Capitale disumano. La vita in alternanza scuola lavoro (Manifestolibri, 2018), che è meraviglioso soprattutto nella sua sezione più filosofico-politica (dove vi è un recupero ed una riappropriazione della nozione di forza lavoro intesa come produttrice di legame sociale e valori), a partire dall’osservazione di alcune categorie rilette sulla base delle nostre esperienze professionali di ricercatori in ambito socio-educativo e di genitori di figli che subiscono costantemente le ingiunzioni performative della «scuola delle competenze». Interpelleremo del testo, pertanto, la parte più empirica delle transizioni intese come misura di politica attiva dell’alternanza scuola lavoro (ASL), che definiremmo piuttosto come intreccio non lineare tra formazioni e lavori, e, dunque, non l’analisi delle transizioni quale paradigma che concerne l’intero corso di vita.
Ci soffermeremo, in particolare, sulla violenza delle retoriche delle competenze, del loro carattere performativo, delle conseguenze che producono sulla vita dei soggetti in carne ed ossa, soprattutto a partire dal mondo della scuola. La costruzione di questa narrazione, secondo la quale gli studenti all’interno del principio della formazione continua, degli apprendimenti ricorsivi e della certificazione delle capacità (sapere, fare, dover-essere, imparare ad apprendere), devono essere i promotori del proprio capitale umano, è avvenuta in un quarto di secolo, a livello nazionale, ma anche sul piano internazionale ed europeo.
1. La nozione di competenza/e va aggredita non solamente in quanto dispositivo di controllo, valutazione ed asservimento, ma soprattutto perché le logiche e le metriche (adottate verso «comportamenti oggettivabili») ad essa sottese costituiscono e delimitano l’unico orizzonte di pensabilità del soggetto neoliberale.
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Invito a ragionare
di Pierluigi Fagan
Dopo il festival di Sanremo ma prima del festival di Cannes, si terrà a Roma, nel secondo week end di maggio, l’inaugurazione della decima edizione del Festival della complessità. Gli amici del comitato promotore a cui quest’anno do una mano, mi hanno chiesto di tenere per un mesetto il blog collegato all’iniziativa che durerà poi tutta l’estate con molti incontri organizzati in tutta Italia.
Apriamo quindi il percorso di avvicinamento a quel primo incontro con questo post che verte su una cruciale questione relativa non a questo o quel pensiero o sistema di pensiero, ma su come componiamo i pensieri in genere. Pensare è sempre pensare a qualcosa ed è attività talmente istintiva che pensiamo tutti di poterlo e saperlo fare, siamo tutti esperti nel pensare ricevendo in eredità la funzione dalla lunga storia del nostro genere Homo, viepiù se sapiens.
Pensare a come pensiamo è una di quelle situazioni riflessive (la cosa applicata a se stessa che comincia dalla coscienza di avere coscienza) che apre un mondo diverso, non quello che vede noi alle prese con le cose del mondo, ma noi alle prese con noi stessi. E’ attività poco divertente o meno divertente che non pensare a questo o quello e poi buttarsi a capofitto nella polemica con chi la pensa diversamente, un po’ come la scuola guida rispetto al viaggiare verso una meta.
Alle volte però è necessario perché non sempre come facciamo le cose produce di per sé la miglior soluzione. Apriamo dunque con l’invito a pensare le cose “nel loro complesso”. Ma cosa significa pensar la cosa nel suo complesso?
Eccovi l’articolo sul sito del festival: qui.
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La CGIL di Landini, il ruolo del sindacato e la politica economica
di Luca Michelini*
1. Pur con i limiti di chi non conosce dall’interno le logiche odierne di una grande organizzazione come la CGIL, che pure ho studiato nella sua evoluzione storica ed ho avuto modo di conoscere direttamente, seguire l’azione politico-sindacale di Landini ritengo sia molto importante per cercare di cogliere qualche segnale di risveglio del cd. movimento dei lavoratori.
La notizia importante è stata che Camusso ha appoggiato la candidatura di Landini alla segreteria.
La preparazione di Landini a questo appuntamento è stata notevole, perché per anni ha costruito la propria candidatura, seguendo una triplice strategia.
In primo luogo Landini è sempre stato al fianco dei lavoratori, acquisendo una credibilità sindacale, morale e politica innegabile. La credibilità in politica è fondamentale, soprattutto ora che sono venute definitivamente a mancare solide fondamenta culturali alla politica della sinistra. Certo, sono importanti anche gli esiti delle lotte; ma ancora più importante è che chi dirige le manovre, anche in caso di sconfitta, rimanga leale al proprio schieramento. Landini, d’altra parte, ha girato l’Italia rinsaldando l’organizzazione e lo spirito di tanti lavoratori e di tanti cittadini orfani di una rappresentanza politica capace di difenderli. Né Rifondazione e discendenti, né i partiti che hanno dato vita al PD, né il PD sono stati in grado di farlo, infatti. In fondo, Landini ha dato voce e speranza ai tanti cittadini italiani orfani del PCI. Ha cioè avuto cura di rinsaldare i tanti legami che il movimento operaio, in ogni sua componente (politica, sociale, sindacale) ha costruito in decenni e decenni di vita associativa. Ha fatto cioè l’esatto contrario di quanto si è proposta la dirigenza politica ex-comunista, come notò in un celebre editoriale dedicato a D’Alema il compianto direttore del “Manifesto” Luigi Pintor.
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Losurdo, Controstoria del liberalismo
di Salvatore Bravo
Il binomio democrazia-liberalismo è parte dell’apparato ideologico che col suo manicheismo manipolativo esemplifica i messaggi e traccia linee di confine tra il bene ed il male. L’ordoliberalismo europeo trae la sua legittimità dal giudizio sbrigativo e sempre negativo su ogni alterità politica esistita. L’Unione sovietica, il comunismo ed ogni dialettica del possibile continuano ad essere “il male impronunciabile”. Il male è ontologico ed inemendabile e dunque inspiegabile, per cui ogni mediazione razionale che possa spiegare genesi, ascesa e caduta di un sistema politico altro, è ridotta a poche parole astoricizzate e che tendono solo, a far cogliere la malvagità del sistema altro. Dall’altra parte della linea di confine c’è il bene, il regno irenico dove le contraddizioni sono sublimate nella verità del mercato. Il liberal liberismo si propone quale verità della storia intrasmutabile oltre la quale vi è se stessa, con i suoi naturali sommovimenti. Domenico Losurdo in Controstoria del liberalismo, mette in atto mediante il metodo induttivo, la coerenza e le contraddizioni degli autori liberali e del loro contesto politico sociale. Si tratta di un’opera preziosa per uscire dalla spelonca buia della rappresentazione conformistica ed ideologica del liberalismo, il quale è automaticamente associato alla democrazia, ai diritti, all’emancipazione. La controstoria non solo elimina i pregiudizi positivi contro il liberalismo, riportandolo alla sua verità storica, ma lungo il testo emerge la verità della cultura liberale, a cui pur riconoscendo indubitabili meriti, ovvero la difesa dei soggetti dall’assolutismo, essa ha il fine di difendere la proprietà, laicizza la ricchezza, la mette in circolo e ne fa il fondamento conflittuale ed individualistico delle comunità che vorrebbe liberare. La lettura della storia del liberalismo di Domenico Losurdo ci permette di comprendere meglio l’Europa dell’euro, della finanza competitiva e nel contempo ci fa scorgere il nostro probabile futuro, qualora nuovi accadimenti, nuove consapevolezze comunitarie non intervengano a deviare gli automatismi attuali.
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Sinistra e critica alla Ue: a che punto è la notte?
di Alessandro Barile
«Senza teoria rivoluzionaria non può esservi movimento rivoluzionario» Lenin
«Un’oncia di azione vale quanto una tonnellata di teoria» Engels
Ormai giunti al 2019 possiamo trarre un parziale ma significativo bilancio sul rapporto tra la sinistra[1] e l’Unione europea. O meglio: tra la sinistra e la critica alla Ue. Una posizione, questa, che ha segnato una novità e una discontinuità nel discorso medio della sinistra italiana ed europea di questo decennio. Forse l’unica vera discontinuità concettuale che ha investito le posizioni politiche della sinistra da molti anni a questa parte. Nei fatti, il dibattito pubblico veicolato dal sistema politico-mediatico si concentra nei pressi proprio dell’Unione europea: sovranità politica o popolare, sovranismo, populismo, questione nazionale, lotta alla globalizzazione, crisi economica et similia. L’Unione europea è al centro di ogni frame discorsivo massmediatico che ci investe quotidianamente. Va però riconosciuto che siamo entrati in una fase diversa. Se negli anni attorno allo scoppio della crisi economica, e soprattutto – in Italia – nel periodo tra il 2009 e il 2012, andava introdotto a forza un pensiero critico che ponesse la Ue al centro delle riflessioni sistemiche, oggi questa critica si è assestata. Procede affinandosi, ovviamente, ma si è resa in qualche modo inaggirabile, al di là di come la si pensi sulla rottura o meno della costruzione europeista. Per essere più precisi: la critica alla Ue è andata sedimentando tre posizioni, espressioni di altrettante sinistre: da una parte la sinistra anti-Ue, che orienta la sua proposta politica attorno al tema della rottura coi vincoli europeisti; dall’altra, quella sinistra che, nonostante il posizionamento critico, persiste nel dichiararsi europeista, proponendosi al più di «cambiare dall’interno» il rigido regime liberista di Maastricht; c’è poi una sinistra che decide di posizionarsi fuori da questo schematismo, lasciando decisioni e ragionamenti in sospeso, evitando il confronto diretto con la questione europeista.
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La guerra culturale in corso in Italia
di Alessandro Pascale
La guerra di cui si parla avviene nel campo della riscrittura ufficiale della Storia. Quello che Orwell aveva teorizzato in 1984 sta avvenendo in questo periodo storico in Italia.
Mattarella non è il nostro presidente
Poco più di un mese fa Mattarella era osannato da tutti per il suo discorso democristiano di Capodanno. Nel giro di pochi giorni ha ricordato a tutti la sua vera natura, quella di un furbo squalo, servo della borghesia e dell'imperialismo.
“Bisogna difendere e preservare l'amicizia con la Francia”, dice Sergio Mattarella. Ed esprime tutta la sua inquietudine sulle tensioni diplomatiche in corso con Parigi, parlando di “grande preoccupazione per la situazione” e chiedendo di “ristabilire subito il clima di fiducia”. [1] Mattarella non ha alcun interesse a sostenere la polemica sul franco CFA, né si esprime sulle rivolte popolari dei gilets jaunes che mettono a ferro e fuoco il Paese da oltre due mesi. Per lui l'UE e i suoi equilibri vengono prima degli interessi dell'Italia. Lo ha mostrato peraltro in maniera molto chiara nel piccolo “golpe” del 27 maggio 2018, quando disse che gli interessi dei “risparmiatori” e degli “investitori internazionali” venivano prima dell'intero popolo italiano. [2]
Cosa ha detto invece sul Venezuela e su quel Guaidò autoproclamatosi presidente con l'appoggio di Washington e di Bruxelles? Sempre in polemica con la giusta linea “neutralista” del Governo (cosa di cui bisogna rendere merito al M5S), ha chiesto che l'Italia assumesse, con “senso di responsabilità e chiarezza”, una “linea condivisa con tutti gli alleati e i partner europei”. D'altronde ci tiene a ribadire che “non ci può essere incertezza né esitazione nella scelta tra la volontà popolare e la richiesta di autentica democrazia da un lato, e dall'altro la violenza della forza”. [3]
Certo: Caracas non è mica Parigi...
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Il grandioso crollo dell’austerità europea
di Claudio Conti
A seguire un articolo di Guido Salerno Aletta da Milano Finanza
Piovono conferme, non avevamo capito male. Il “documento Altmaier” è la dichiarazione di fallimento del modello economico che è stato imposto con la forza alla Germania e a tutta l’Unione Europea negli ultimi venti anni. E l’annuncio, ancora imbarazzato e senza una chiara strategia, di una inversione di rotta.
Non basta infatti rendersi conto di aver sbagliato tutto, se l’universo concettuale con cui si ragiona è ancora quello che ha prodotto il disastro. Ne abbiamo una dimostrazione nel demenziale “dibattito politico” italiano, dominato da “esperti” che ripetono le antiche sciocchezze sull’austerità necessaria e i “soldi che non ci sono”, incaricati di combattere degli autentici idioti che sentono suonare le campane ma non sanno da dove (Lega e Cinque Stelle).
L’errore, infatti, non è dipeso da un cattivo uso della ragione, ma dalla assoluta prevalenza di interessi materiali: in specifico quella delle multinazionali dell’industria manifatturiera classica e della finanza speculativa. Un’accoppiata che ha impedito di affrontare sul serio le sfide dell’innovazione tecnologica (pur riempiendosene la bocca ad ogni cerimonia ufficiale), ha depresso violentemente il mercato interno europeo (il primo del mondo, quando ancora i salari non erano stati violentemente compressi), e soprattutto distrutto il sistema dell’istruzione (in Italia siamo arrivati addiritura a sentire ministri dire “con la cultura non si mangia”…).
La borghesia multinazionale europea, grazie al dominio della Germania, si è crogiolata nel vantaggio accumulato nei decenni precedenti (grazie a quel “modello sociale europeo” imposto dal conflitto sociale e dalla presenza dell’Urss), mentre gli Stati Uniti delocalizzavano la produzione e i giganti asiatici cominciavano appena a tirarsi fuori dal sottosviluppo.
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