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28 maggio 2023: le conclusioni all’Assemblea di costituzione del Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo”
di Fosco Giannini
Innanzitutto un saluto ed un ringraziamento agli oltre 50 compagni/e, docenti, intellettuali, quadri operai e dirigenti del movimento comunista, operaio e sindacale, sui 62 che sinora hanno aderito al nascente Centro Studi Nazionale che oggi – domenica 28 maggio 2023 – sono presenti a quest’assemblea on-line di costituzione del Centro Studi.
Sintetizzando in una sorta di formula, potremmo asserire che l’obiettivo strategico del Centro Studi che oggi prende forma è quello di contribuire a riprogettare e riconsegnare un pensiero forte, marxista, comunista, rivoluzionario, al movimento comunista e antimperialista italiano.
Un obiettivo che non potrà che incardinarsi, essenzialmente, su due pilastri analitici, su due questioni centrali:
-primo, l’odierna, inequivocabile pulsione alla guerra, e persino alla guerra mondiale, del fronte imperialista guidato dagli Usa e dalla Nato e, conseguentemente, la questione dell’abbandono, da tanta parte della “sinistra” italiana, dell’analisi e della prassi dell’antimperialismo e dunque la necessità di ricostruire un senso comune di massa antimperialista come necessaria avanguardia per un movimento unitario e di massa contro la guerra;
– secondo, la ricostruzione di un pensiero e di una prassi della rivoluzione in Occidente.
Di conseguenza, vi sono due problematiche da mettere a fuoco: l’attuale quadro internazionale e i suoi “movimenti” carsici e di superficie che lo caratterizzano e la lotta contro il neopositivismo e il neoidealismo di ritorno che oggi gravano, in Italia, su tanta parte della “sinistra”, a volte anche su parti non secondarie di quella comunista.
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Quando il sogno tecnomodernista si rivela un incubo
di Gioacchino Toni
Nel volume 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno (Einaudi 2015) Jonathan Crary, docente alla Columbia University e tra i fondatori delle edizioni indipendenti Zone Books, ha argomentato come attraverso le innovazioni tecnologiche digitali il capitalismo sia giunto a inediti livelli di dissoluzione della distinzione tra tempo di lavoro e tempo di non-lavoro. In continuità con quanto esposto in 24/7, Jonathan Crary, Terra bruciata. Oltre l’era del digitale verso un mondo postcapitalista (Meltemi 2023), evidenzia come le disuguaglianze e il dissesto ambientale siano correlati al capitalismo digitale, da lui indicato come fase terminale del capitalismo globale votato alla finanziarizzazione dell’esistenza sociale, all’impoverimento di massa, all’ecocidio e al terrore militare.
Ritenendo assurda la pretesa di poter perseguire il cambiamento sistemico ricorrendo ai medesimi apparati che garantiscono la sottomissione a concessioni e regole imposte da chi detiene il potere, lo studioso denuncia come, a differenza di quanto sostenuto da alcuni ambienti di tecno-attivismo1, lungi dal poter essere strumento di cambiamento radicale, l’universo di internet sia del tutto incompatibile con una Terra abitabile e con le relazioni umane di stampo egualitario.
Ritenendo del tutto illusoria «l’idea che internet possa funzionare indipendentemente dalle dinamiche catastrofiche del capitalismo globale», lo studioso sostiene che la dissoluzione di tale sistema non possa che comportare «la fine di un mondo guidato dal mercato e modellato dalle odierne tecnologie in rete».
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John M. Keynes - una guida verso un vicolo cieco
di Tibor Zenker
Il 5 giugno 2023 ricorre il 140° compleanno dell'economista britannico John Maynard Keynes (1883-1946). La sua opera principale, "Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta" (1936) e il keynesianesimo da essa derivato hanno fortemente influenzato il capitalismo del XX secolo e l'antisocialismo nella politica economica - Riportiamo una riflessione di Tibor Zenker, leader del Partito del Lavoro dell'Austria (PdA), da lui scritta nel 2016 in occasione del 70° anniversario della morte di Keynes
Nel quadro della macroeconomia borghese, l'opera di Keynes assume inizialmente una posizione di opposizione alle idee classiche e neoclassiche prevalenti nel primo quarto del XX secolo. Con esse, si attribuisce al "libero mercato" il merito di equilibrare domanda e offerta non solo nella produzione e nella vendita di beni, ma anche in termini di livello dei prezzi e soprattutto di disoccupazione. Si ipotizza quindi una tendenza alla piena occupazione. Keynes, invece, sosteneva l'idea di una tendenza all'equilibrio in presenza di sottoccupazione e attestava la teoria neoclassica come velleitaria e imprecisa quando affermava che "i postulati della teoria classica sono validi solo in un caso speciale, ma non in generale, perché la condizione che essa presuppone è solo un punto limite delle possibili situazioni di equilibrio "(1).
La disoccupazione involontaria, logicamente esclusa nel sistema neoclassico, è per Keynes il risultato di una mancanza di investimenti dovuta alle basse aspettative di profitto del capitale, per cui egli tiene conto anche di criteri decisionali soggettivi e psicologici oltre che oggettivi per quanto riguarda la disponibilità a investire. Keynes scrive: "Il rapporto tra il rendimento atteso di un bene capitale e il suo prezzo di fornitura o il suo costo di sostituzione, cioè il rapporto tra il rendimento atteso di un'ulteriore unità di quel tipo di capitale e i costi di produzione di quell'unità, ci fornisce l'efficienza marginale del capitale"(2).
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Verso l’economia di guerra
di Alessandro Somma
Le conseguenze della guerra non sono solo quelle visibili a occhio nudo, quelle denunciate dalle innumerevoli immagini che raccontano la tragica quotidianità di chi sopravvive e muore sotto le bombe. Non sono da meno gli effetti su chi viene apparentemente risparmiato dal conflitto perché vive in Paesi non direttamente coinvolti nei combattimenti. Semplicemente sono meno riconoscibili, sebbene coinvolgano il complessivo modo di stare insieme come società e in ultima analisi i fondamenti di quanto siamo soliti chiamare Occidente.
A mutare profondamente è l’ordine politico: la guerra richiede decisioni rapide e unanimi, a monte processi deliberativi opachi, e questo incide profondamente sulla qualità della democrazia, che vive al contrario di conflitti, di tempi scanditi dai ritmi della partecipazione e soprattutto di trasparenza. E anche l’ordine economico viene travolto: la produzione di armamenti e altri beni funzionali al conflitto deve procedere con modalità per certi aspetti incompatibili con il capitalismo, che tra i propri fondamenti vanta l’avversione verso il dirigismo e la pianificazione, utile invece a concentrare lo sforzo produttivo.
La guerra introduce insomma uno stato di eccezione, a ben vedere incrementando dinamiche che hanno preceduto il conflitto in corso[1]. Questo incide invero su un ordine politico e un ordine economico già pregiudicati dalla pandemia, e ancora prima dalle crisi economico finanziarie che hanno scosso il pianeta a partire dal 2008. Forse la novità dell’attuale stato di eccezione si coglie al meglio considerando una deriva che non era finora emersa con la stessa nettezza con cui si sta mostrando ora: la transizione verso l’economia di guerra, ovvero «un sistema di produzione, mobilitazione e allocazione di risorse finalizzate al sostegno della violenza»[2].
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ChatGPT, valore e conoscenza. Un approccio marxista
di Guglielmo Carchedi
In un commento al post di Michael Roberts sull’intelligenza artificiale (IA) e le nuove macchine per l’apprendimento del linguaggio (LLM), l’autore e commentatore Jack Rasmus ha sollevato alcune domande, che mi sono sentito in dovere di riprendere.
Jack ha detto: “l’analisi di Marx sulle macchine e il suo punto di vista secondo cui le macchine sono un valore del lavoro condensato che viene trasferito nella merce quando si deprezza, si applicano completamente alle macchine basate su software AI che hanno la capacità crescente di auto-mantenersi e aggiornare il proprio codice senza l’intervento del lavoro umano – cioè di non deprezzarsi?“
La mia risposta alla legittima domanda di Jack presuppone lo sviluppo di un’epistemologia marxista (una teoria della conoscenza), un’area di ricerca che è rimasta relativamente inesplorata e poco sviluppata.
A mio avviso, una delle caratteristiche principali di un approccio marxista è la distinzione tra “produzione oggettiva” (la produzione di cose oggettive) e “produzione mentale” (la produzione di conoscenza).
La cosa più importante è che la conoscenza deve essere vista come materiale, non come “immateriale”, né come un riflesso della realtà materiale. Questo ci permette di distinguere tra mezzi di produzione (MP) oggettivi e MP mentali; entrambi sono materiali.
Marx si è concentrato principalmente, ma non esclusivamente, sui primi. Ciononostante, nelle sue opere ci sono molti spunti su come dovremmo intendere la conoscenza.
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Moltitudini, capitalismo molecolare, corpi a lavoro. Discutendo i decenni smarriti
Intervista ad Aldo Bonomi
Nell’ambito del programma sui «decenni smarriti», come da intenti di questa rubrica (https://www.machina-deriveapprodi.com/post/il-lavoro-nei-decenni-smarriti-una-bozza-di-programma), si è richiesto ad autori che negli anni Ottanta e Novanta, per diverse ragioni, concorsero nel proporre rappresentazioni e immaginario della transizione, di «ritornare» sulle loro elaborazioni e analisi del periodo. Di Aldo Bonomi, sociologo e direttore del centro di ricerche territoriali Consorzio Aaster di Milano, fondato negli anni Ottanta insieme (tra gli altri) a Lapo Berti e Alberto Magnaghi, riprendiamo tre testi della seconda metà degli anni Novanta, intitolati Il trionfo della moltitudine (Bollati Boringhieri, 1996), Il capitalismo molecolare (Einaudi, 1997), Il distretto del piacere (Bollati Boringhieri, 2000). Volumi in cui, in modo diverso ma con reciproci e continui rimandi, l’autore prendeva programmaticamente congedo dalle macerie del fordismo (nel lessico di Bonomi, «il non più») e si addentrava nel «non ancora» (che perlopiù, all’epoca, ci si accontentava di definire postfordismo) secondo una prospettiva peculiare. Questi libri avevano un robusto sottostante di osservazione empirica delle società al lavoro nel capitalismo che stava cambiando pelle. La chiave di accesso al campo di analisi non muoveva tuttavia da una fredda e «oggettivistica» ricostruzione di queste trasformazioni. I «prototipi mentali» proposti muovevano piuttosto dai cambiamenti soggettivi e procedevano per successivi (e differenti, nei tre libri) gradi di astrazione, mantenendo perlopiù un forte ancoraggio nei luoghi indagati, coincidenti in questi testi principalmente con le piattaforme produttive in formazione del Nord Italia. Erano gli anni del leghismo in ascesa e dell’affermazione elettorale di Forza Italia, fenomeni interni alla politica che non costituivano il bersaglio del lavoro di Bonomi, ma che indubbiamente ne fecero da «quinta».
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Guerra e pace
di Alessandro Valentini
La guerra tra Russia e Ucraina, e in termini più complessivi tra Russia, Nato e Stati Uniti, viene spesso presentata come un ritorno alla “guerra fredda”. Il paragone però è fuorviante, non regge. Nella “guerra fredda” vi erano due sistemi, politici, economici e sociali ben definiti: da una parte il capitalismo, dall’altra parte il socialismo realizzato. Tutta la diplomazia e le relazioni internazionali ruotavano attorno a questa realtà, anche i numerosi paesi cosiddetti non allineati, come la Jugoslavia, l’India e la stessa Cina, si muovevano dentro questo contesto. E pure le strategie militari, compresa la corsa al riarmo delle due superpotenze, Usa e Urss, non prescindevano dai rapporti di forza usciti dalla Seconda Guerra Mondiale. Tant’è che, nonostante la contrapposizione tra blocchi, vi erano spazi, per una serie di paesi, anche europei, per poter condurre iniziative diplomatiche in parte autonome, che comportavano anche scambi commerciali e relazioni economiche. Si pensi all’azione delle socialdemocrazie, in primis di quelle tedesche e scandinave, o ai rapporti economici fruttuosi che i governi italiani di centro-sinistra stabilivano con l’Unione Sovietica e gli altri paesi socialisti. Nessuno statista occidentale, in quegli anni, fece mai dichiarazioni bellicose nei confronti dell’Urss o tentò di praticare una linea volta a smembrarla. Unica eccezione fu Churchill, che subito dopo il ’45, sconfitta la Germania nazista, si avventurò in dichiarazioni forti di aggressione militare all’Urss di Stalin, che non aveva ancora la bomba atomica, ma rimase una voce isolata e non fu ascoltato, per fortuna, dagli statunitensi. Tutti gli Stati di entrambi i blocchi si muovevano all’interno di quanto stabilito dagli accordi di Yalta che sancivano la presenza di due sfere di influenza, quella degli Usa e quella dell’Urss.
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Solo una divagazione? Dal “dono” di Mauss al Codice di Hammurabi. Cronache marXZiane n. 11
di Giorgio Gattei
1. Insomma, sul pianeta Marx, questo inedito corpo astronomico comparso nel cielo dell’economia politica sul finire del XVIII secolo, si producono sia grano che tulipani e la loro contemporanea presenza ne modifica in maniera indelebile il paesaggio. Ma dettagliamo: mentre il grano è “merce-base” (secondo la nomenclatura introdotta da Piero Sraffa) perché serve alla produzione di ogni altra merce essendo l’alimento dei lavoratori impegnati nelle loro produzioni, il tulipano è invece “merce non-base” dato che non vi partecipa (a che serve un tulipano se non a rimirarlo?) e che noi considereremo, facendo nostra una esagerazione sraffiana, che non entri nemmeno nella produzione di se stesso, così da «non trovarsi fra i mezzi di produzione di nessuna industria». E a questo proposito Sraffa ha fatto il caso, in una corrispondenza privata, degli elefanti bianchi, mentre in Viaggio di merci per merci pubblicato nel 1960 ha indicato le uova di struzzo e i cavalli da corsa (cfr. H. D. Kurz, Neri Salvadori, White elephants and other non-basic commodities: Piero Sraffa and Krishna Bharadwaj on the role and significance of the distinction between basics and non-basics, “The Indian Economic Journal”, June 3, 2021). Però a me è piaciuto prendere il tulipano a tipo ideale di “merce non base”, anche perché nel XVII secolo in Olanda è stato fatto oggetto della prima speculazione finanziaria della storia moderna (vedi l’immagine ch ho posti in apertura: Il trionfo di Flora/Tulipano di Hendrik Pot, circa 1640). E a chi venisse da sorridere su simili esempi strampalati, basterebbe ricordargli che anche gli armamenti sono “merci non base” e che un carro armato non serve alla produzione di alcunché, men che meno di se stesso, eppure lo si produce e fa danni.
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FOTTUTI! La formazione del rivoluzionario: Lenin e i bolscevichi
di Guido Carpi
Non si fa la rivoluzione senza rivoluzionari e rivoluzionarie.
È la lezione, ancora oggi tutta da conquistare, dei bolscevichi, che con l’Ottobre sovietico incendiarono il Novecento. Lenin ha speso l’intera propria opera a formare questo tipo di nuovo militante politico. Ogni sua riga è rivolta ai militanti, anche quando essi erano ancora di là da venire. Ipocriti e professori, invece, li voleva fuori dai piedi.
È questo il Lenin di cui abbiamo voluto parlare, nel secondo incontro del ciclo MILITANTI: giovane e sovversivo, audace e sognatore, pieno di intelligenza e odio di parte, lucida rabbia e realismo rivoluzionario, dentro il proprio tempo ma contro di esso, con gli stessi problemi, errori e contraddizioni da affrontare dei militanti di oggi – tra guerra, sfruttamento, mancanza di un orizzonte di trasformazione e l’urgenza del “Che fare?”. Un Lenin quindi ancora vivo, perché non mummificato dalle tristi parrocchie (e spesso inquietanti sette) “marxiste-leniniste-trozkiste-maoiste-sinistre” e chi più ne ha più ne metta, che hanno finito per renderlo inoffensivo.
L’idea-prassi centrale di Volodja, il nucleo della sua forza, è infatti l’«attualità della rivoluzione», la sua declinazione e articolazione concreta in ogni passaggio, momento, sia tattico che strategico, della militanza comunista: dall’inchiesta in fabbrica all’insurrezione nelle strade, dalla stesura di un volantino alla guerra civile. Una rivoluzione che scoppia e vince in Russia non perché fossero mature le condizioni storiche ed economiche del suo capitalismo, ma perché lì era più forte la lotta di classe e l’organizzazione politica degli operai. La lezione leniniana ci dice insomma che c’è da cogliere l’occasione quando si presenta – non solo: l’occasione c’è da prepararla.
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Relazione introduttiva all’Assemblea di costituzione del Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo”
di Alessandro Volponi*
Si svolge questo nostro incontro sullo sfondo di un Paese segnato da una decadenza pluridecennale, nel corso della quale conformismo e opportunismo sono dilagati ben oltre l’orto della politica politicante. Non mancano, però, focolai di rivolta o movimenti monotematici che perseguono obbiettivi sacrosanti, episodi straordinari di protagonismo operaio (GKN) e minuscoli partiti antisistema invisibili e immobili, insomma “non tutto è di plastica, qualcosa ancora freme, frigge” per dirla con Paolo Volponi, ma il panorama è desolante e, apparentemente, senza via d’uscita. Costituire un Centro Studi intitolato a un grande del marxismo, fondato su inequivocabili premesse teoriche, mirato a socializzare conoscenze, a proporre temi di ricerca e a preparare, in definitiva, un programma di alternativa di società, è un progetto ambizioso e impegnativo che va realizzato con umiltà e tenacia.
“Solo da un lavoro comune e solidale di rischiaramento, di persuasione e di educazione reciproca nascerà l’azione concreta di costruzione”, questa asserzione, contenuta in un articolo intitolato “Democrazia operaia” apparso ne L’ordine nuovo del 21 giugno 1919, ci ricorda lo straordinario esordio di un intellettuale collettivo formato da giovani eccezionali studiosi e da addetti alla produzione, l’avanguardia operaia torinese, che insieme progettarono di governare le fabbriche e lo Stato.
Potrà sembrare stravagante, a questo punto della relazione, un panegirico della memoria finché non si consideri che la memoria è un nemico giurato del trasformismo, del malgoverno, della criminalità organizzata, del fascismo e dell’imperialismo ed è chiaro che la Storia e il suo uso pubblico sono un grande, importante, terreno di lotta tra progresso e reazione.
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La falsa singolarità tecnocratica contro la vera singolarità tecnologica
di Roberto Quaglia
Quando si profila una tempesta mai vista all'orizzonte, hai voglia a chiuderti in casa e nasconderti sotto le coperte: la tempesta arriverà comunque perché la natura ha deciso così. Abbiamo messo in moto quel vortice di algoritmi che chiamiamo intelligenza artificiale e il turbine ora sta rapidamente montando alle dimensioni di uragano, ed è una tempesta che ci travolgerà inevitabilmente perché ormai così è nella natura delle cose. Buona fortuna a tutti!
Bene, dopo questa umile premessa, in effetti una promessa, proviamo ad affrontare uno degli argomenti più ostici di questo tempo ossia la creazione da parte nostra di una intelligenza artificiale in grado di risolvere tutti i nostri problemi, oppure - chi lo sa - di distruggerci e magari anche estinguerci.
Purtroppo, in gran parte delle discussioni a riguardo si dicono un sacco di scemenze, frutto del fatto che nessuno sa di che cosa si stia parlando. Probabilmente, nemmeno io lo so bene. E ad ascoltare gli stessi progettisti di queste intelligenze artificiali scopriamo con sconcerto che neppure loro lo sanno con esattezza. Ma il problema vero non consiste tanto in ciò che non sappiamo, quanto piuttosto in ciò che non sappiamo di non sapere. È riguardo a questo che ovunque si esagera.
A beneficio degli ultimi arrivati sull'argomento, facciamo quindi un breve riassunto delle puntate precedenti. Già nel 1950 Church e Turing formularono l'ipotesi che una macchina calcolatrice relativamente semplice sarebbe in grado di emulare un cervello umano, a patto di disporre di tempo e memoria infiniti. Ovviamente, questi non sono infiniti, per lo meno dalle nostre parti, quindi, è ovvio che dobbiamo scordarci la semplicità.
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Alcuni punti essenziali della critica del valore
di Anselm Jappe
Pubblichiamo qui, nella traduzione di Afshin Kaveh, l’appendice presente a chiusura del libro La société autophage di Anselm Jappe, éd. La Découverte, 2017, ancora inedito in Italia
Il sistema capitalista è entrato in una grave crisi. Quest’ultima non è soltanto ciclica, ma finale: non nel senso di un crollo imminente ma come disintegrazione di un sistema plurisecolare. Non è la profezia di un evento futuro, ma la constatazione di un processo divenuto visibile agli inizi degli anni Settanta e le cui radici risalgono all’origine stessa del capitalismo.
Non assistiamo al passaggio a un altro regime d’accumulazione (come nel caso del fordismo), né all’avvento di nuove tecnologie (come nel caso dell’automobile), né a un trasferimento del centro di gravità verso altre regioni del mondo, ma all’esaurimento della fonte stessa del capitalismo: la trasformazione del lavoro vivo in valore.
Le categorie fondamentali del capitalismo, quelle che Karl Marx ha analizzato nella sua critica dell’economia politica, sono il lavoro astratto e il valore, la merce e il denaro, che si riassumono nel concetto di “feticismo della merce”.
Una critica morale, fondata sulla denuncia dell’“avidità”, non coglierebbe il punto essenziale.
Non si tratta di essere marxisti o postmarxisti, o d’interpretare l’opera di Marx o completarla con altri apporti teorici. Piuttosto, si deve ammettere la differenza tra il Marx “essoterico” e il Marx “esoterico”, tra il nucleo concettuale e lo sviluppo storico, tra l’essenza e il fenomeno. Marx non è “superato”, come dicono i critici borghesi. Anche se manteniamo innanzitutto la critica dell’economia politica, e al suo interno soprattutto la teoria del valore e del lavoro astratto, essa costituisce sempre il contributo più importante per comprendere il mondo in cui noi viviamo.
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La catastrofe climatica e la «libertà dei consumatori»
Sulla miseria dei «discorsi di libertà» (tardo-borghesi)
di Thomas Meyer
1.
Come scrive il filosofo Slavoj Žižek (Žižek 2022, 285), non mancano più Cinque Minuti a Mezzanotte, ma è già Mezzanotte e Cinque! Oramai, perfino l'ultimo degli imbecilli dev'essersi reso conto che il cambiamento climatico è un dato di fatto (per quanto i dettagli possono essere discutibili), e che esso rappresenta una seria minaccia per l'umanità [*1]. Così come è anche evidente che le emissioni di CO2 e degli altri gas serra vanno radicalmente e rapidamente ridotte, se non vogliamo che la catastrofe climatica assuma delle proporzioni ancora più catastrofiche. Ciò implica una completa ricostruzione delle infrastrutture e un completo adeguamento, vale a dire, un rivoluzionamento del nostro modo di produzione e di vita. È pertanto all'ordine del giorno un programma di abolizioni e di cancellazioni. Nel suo percorso, la "locomotiva" dello sviluppo delle forze produttive sta bruciando tutti. Per dirla con Walter Benjamin, a meno che non si voglia rischiare di trovarsi di fronte alla morte dei "passeggeri", è diventato inevitabile tirare il "freno d'emergenza" (cfr. Böttcher 2023). Senza affrontare la questione di come possa essere abolito il modo di produzione capitalistico, di come si possa creare un corrispondente «movimento di trasformazione», con quale «società di transizione» (?) si debbano fare i conti (anche nel caso che il "convoglio" dovesse essere solo fermato), rimane comunque il problema del rifiuto emotivo, da parte di molte persone, nei confronti di tutti questi fatti. La consapevolezza - la quale potrebbe essere realmente acquisita, e che dovrebbe portare a ripensare e a "reagire" - viene invece rimossa emotivamente.
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I quaderni ecologici di Marx
di Kohei Saito
Karl Marx è stato a lungo criticato per il suo cosiddetto “prometeismo” ecologico, per la sua eccessiva attenzione riservata alla produzione industriale, indipendentemente dai limiti naturali. Questo punto di vista, sostenuto anche da alcuni marxisti, come Ted Benton e Michael Löwy, è diventato sempre più difficile da accettare dopo una serie di analisi attente e stimolanti degli aspetti ecologici del pensiero di Marx, elaborate sulle pagine della «Monthly Review» e altrove.
Il dibattito sul prometeismo non è una mera questione filologica quanto fortemente pratica, poiché il capitalismo affronta crisi ambientali su scala globale, senza soluzioni concrete. Qualsiasi soluzione del genere potrà provenire probabilmente dai vari movimenti ecologisti emergenti in tutto il mondo, alcuni dei quali mettono esplicitamente in discussione il modo di produzione capitalistico. Ora più che mai, quindi, la riscoperta di un'ecologia marxiana è di grande importanza per lo sviluppo di nuove forme di strategia di Sinistra e di lotta contro il capitalismo mondiale.
Eppure non c'è un accordo univoco nella Sinistra sulla misura in cui la critica di Marx può fornire una base teorica per queste nuove lotte ecologiche. Gli «ecosocialisti della prima generazione», secondo la classificazione di John Bellamy Foster, come André Gorz, James O'Connor e Alain Lipietz, riconoscono in una certa misura i contributi di Marx riguardo alle questioni ecologiche, ma allo stesso tempo sostengono che le sue analisi del XIX secolo sono troppo incomplete e datate per essere di reale attualità. Al contrario, gli «ecosocialisti della seconda generazione», come Foster e Paul Burkett, sottolineano il significato metodologico contemporaneo della critica ecologica di Marx al capitalismo, fondata sulle sue teorie del valore e della reificazione.[1]
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L'Europa di Gramsci
di Luca Mozzachiodi
Lelio La Porta e Francesco Marola (eds.): L’Europa di Gramsci. Filosofia, letteratura, traducibilità - “Per Gramsci”, Roma, Bordeaux, 2022, 272 pp.
Il volume L’Europa di Gramsci. Filosofia, letteratura e traducibilità, a cura di Lelio La Porta e Francesco Marola, è il primo volume della nuova serie della collana “Per Gramsci” della International Gramsci Society, che prosegue le sue pubblicazioni con l’editore Bordeaux, peraltro segnalatosi in questi anni per una robusta ripresa delle pubblicazioni di area marxista sia in campo politico che critico-letterario.
Quello degli studi gramsciani a livello mondiale (figurano del resto tra gli autori e autrici nomi di assoluto rilievo come Derek Boothman, Guido Liguori, Giuseppe Guida e Lelio La Porta) non è però il solo contesto in cui si inserisce questa raccolta. Esiste indubbiamente una filiazione diretta con un precedente volume di saggi ispirati al pensatore sardo: Il presente di Gramsci: letteratura e ideologia oggi, edito da Galaad nel 2018; ciò non solo perché nell’elenco degli autori ritroviamo, assieme al co-curatore Marola, Paolo Desogus, Lorenzo Mari, Mimmo Cangiano e Marco Gatto (ai contributi da parte dei due gruppi menzionati vanno aggiunti quelli di Pietro Maltese, Noemi Ghetti, Lavinia Mannelli e Fortunato Maria Cacciatore per comporre il ricco affresco di L’Europa di Gramsci), ma soprattutto perché del libro del 2018 il volume qui recensito fonda criticamente, arricchendole con varietà di riferimenti, una parte delle tesi allora date per presupposte. Se Il presente di Gramsci era nel suo intento un libro di posizionamento, non privo di qualche aspetto che lascia perplessità, inteso a riportare in auge uno sguardo di tipo estetico, critico e politico, questo è un volume scritto per saggiare e approfondire quei nessi politico-estetici e per radicare ulteriormente il pensiero gramsciano nel panorama critico contemporaneo.
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Cosa succede in Kosovo. "In ogni caso saremo con la guerra in casa per altri decenni"
Alessandro Bianchi e Chiara Nalli intervistano il generale Fabio Mini
Come l’AntiDiplomatico abbiamo avuto l’onore di intervistarlo più volte sul conflitto in Ucraina. La prima intervista, in particolare, è stata letta da oltre 100 mila italiani, che hanno così trovato un valido antidoto alla propaganda martellante e a senso unico.
Un conflitto che aveva previsto, per le scelte scellerate della Nato, e del quale ne ha da subito indicato rischi, portata e scenari, poi tutti effettivamente realizzati.
Dalle pagine del Fatto Quotidiano e con le sue interviste, il generale Fabio Mini si è imposto come una delle voci più credibili e autorevoli. Con il suo libro “L’Europa in guerra” (Paper First) ha offerto informazioni imprescindibili da cui partire per ogni discussione seria sull'argomento.
L’Europa è in guerra in Ucraina. Ma c’è un altro scenario che inquieta e molto in queste ore. Come ex capo di Stato Maggiore del Comando NATO per il sud Europa, nonché comandante delle operazioni di pace a guida NATO in Kosovo, dall’ottobre 2002 all’ottobre 2003, nessuno più del Generale Mini può aiutarci a comprendere quello che sta accadendo in questi giorni in Kosovo. Quante possibilità ci sono che si possa infiammare questo nuovo (vecchio) fronte?
* * * *
Generale in Kosovo, i disordini di lunedì hanno visto il coinvolgimento e il ferimento di circa 30 militari della KFOR, tra cui 11 soldati italiani. Il contingente italiano della KFOR è visto con grande stima dalla popolazione serba di Kosovo. Nella dispersione dei manifestanti nel comune di Zvecani sono stati esposti in prima linea proprio i militari italiani. Ritiene che ci siano specifiche considerazioni dietro questa scelta?
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Il feudalesimo digitale, quando il potere va a nozze con l’algoritmo
di Andrea Ventura
Gli esiti della competizione internazionale sull'intelligenza artificiale e il modo di utilizzare le potenzialità delle nuove tecnologie avranno ripercussioni profonde su chi eserciterà il potere nel prossimo futuro, su quale modello di società potrà affermarsi e su quali diritti saranno garantiti
Nel 1950 Alan Turing, celebre per aver decifrato il codice di comunicazione dei nazisti nel corso della guerra, affermò che in futuro le macchine potranno conversare come gli esseri umani. La prova di ciò sarebbe venuta nel momento in cui un essere umano non sarebbe stato più in grado di distinguere se teneva una conversazione con una macchina o con una persona. Il problema del linguaggio è sempre stato uno dei più difficili da trattare, e il test di Turing è rimasto uno scoglio non superabile, ma Chat GPT rappresenta un indubbio avanzamento verso il superamento della differenza tra un testo prodotto da un essere umano e quello prodotto da un programma. Come si è arrivati a questo? Possiamo affermare che presto le macchine potranno sviluppare capacità cognitive pari o superiori a quelle umane? Gli sforzi per approdare ai risultati attuali datano diversi decenni. Dapprima si è tentato di fornire alle macchine le conoscenze del mondo e le regole della sintassi, ma presto si è visto quanto questo compito fosse irrealizzabile. Le informazioni necessarie, infatti, erano così tante da superare qualsiasi possibilità di catalogarle e di inserirle nei programmi. Con l’avvento dei big data si è passati ad un approccio statistico. Fornendo alle macchine testi, traduzioni e conversazioni, grazie a metodi di apprendimento automatico (machine learning) esse hanno cominciato a registrare delle regolarità nelle sequenze delle parole, poi nella formulazione e delle frasi, riuscendo a generare testi sempre più complessi e privi di errori. In futuro, grazie all’uso che faremo tutti noi, si potranno raggiungere risultati sempre più raffinati.
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Appunti contro il destino. Militanti e ribelli nel Novecento
di Franco Milanesi
Cosa accomuna il rapinatore bolscevico Kamo, l’operaio nero delle Pantere Nere che difende il quartiere, la studentessa negli anni Settanta che occupa la scuola o l’università? Cosa condividono la staffetta partigiana che sfida gli infami repubblichini, la miliziana nordirlandese che prepara i Troubles contro gli inglesi, il conricercatore degli anni Sessanta che inchiesta la fabbrica per sovvertirla?
La militanza: una forma totale di guardare al mondo e agire al suo interno, per ribaltarlo. Punto di vista, parzialità, conflitto, odio per il nemico, fratellanza con i propri compagni. Baricentro tra spontaneità e organizzazione, il militante si colloca lì dove l’azione modifica la teoria e la teoria indirizza l’azione.
Ripercorrendo la storia e le lotte di questa figura chiave del Novecento, cosa rimane del militante oggi? Quali ricchezze e limiti ha espresso? Che tipo di militante potrà raccogliere le sfide ancora aperte?
Sono queste le domande che ci siamo posti e abbiamo condiviso con Franco Milanesi, autore di un vecchio libretto molto interessante poiché inattuale (Militanti. Un’antropologia politica del Novecento, edito nel 2010 da Punto Rosso) e ospite del primo appuntamento di MILITANTI, ciclo di incontri sulla militanza di ieri e di oggi.
Quelli che seguono, in forma di appunti, sono alcuni dei nodi e delle categorie di riflessione teorico-politica toccati da Franco nella discussione, che ha visto anche confliggere punti di vista ed esperienze di militanza differenti, perfino opposti – compresi i nostri, soprattutto per quanto riguarda i potenziali terreni del conflitto e le ambivalenze dei soggetti sociali che la nostra idea, e prassi, di militanza vuole inchiestare, presidiare, scomporre e ricomporre.
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Pensiero e umanità
di M. Parretti
A metà del 1800, Marx ritenne che fossero maturi i tempi per sostituire la filosofia con la scienza, anche nella conoscenza del pensiero umano giungendo alla geniale formulazione del paradigma del materialismo storico. Al tempo stesso formulò il criterio per distinguere la filosofia da quella che d’ora in avanti sarebbe stata la scienza, e lo identificò con la capacità di cambiare consapevolmente la realtà.
La sintesi marxiana fu dunque che la politica, cioè l’attività umana che cambia le stesse relazioni sociali, dovesse d’ora in poi basarsi sulla “scientificità”, cioè fare i conti con i cambiamenti sociali, che l’umanità avrebbe potuto realmente produrre, in relazione al livello effettivo di produttività raggiunto e non sulla “ideologia” dell’antropos di se stesso, cioè sulla “utopia”. Per questo sostenne l’idea di un comunismo “scientifico”, contrapposto a quello “utopistico” di quelli che ritenevano che gli esseri umani fossero capaci, per natura, di cooperare tra loro.
L’opera di Giovanni Mazzetti rivela gli elementi comuni delle analisi economiche di Marx e di Keynes, entrambe basate sulla produttività e, al tempo stesso, riprende il paradigma del materialismo storico, ne ridefinisce con precisione i contorni evidenziando la simultaneità tra i processi di “formazione delle (nuove) relazioni sociali produttive e riproduttive” e la “autodeterminazione del pensiero”. Con questa operazione culturale, Mazzetti riporta lo storicismo dall’ambito filosofico a quello scientifico e lo ripropone come chiave dell’analisi dello sviluppo della civiltà umana.
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"La vecchia Europa ha perso la sua sovranità"
Thomas Röper intervista Maria Zakharova
Pubblichiamo alcuni, importanti, estratti dall'intervista con Maria Zakharova - condotta da Thomas Röper per il suo sito ANTI-SPIEGEL e per il suo canale YouTube. La traduzione è stata effettuata da Nora Hoppe.
Röper: Grazie per il tempo e l'opportunità di parlare con lei. Vorrei iniziare con la questione del confronto tra Occidente, Russia, Ucraina e così via. I media occidentali molto spesso ritraggono tutto questo come se Putin si svegliasse un giorno di cattivo umore e decidesse di attaccare l'Ucraina. Forse, dal suo punto di vista, come portavoce del ministero degli Esteri e del governo russo, può spiegare al pubblico tedesco, che non ne sa molto, i retroscena di questo conflitto: perché è nato, come si è sviluppata questa situazione.
Zakharova: Se uno vuole solo capire questa parte della nostra storia, il nostro rapporto con l'Occidente, e "perché è iniziata l'operazione militare, come è successo?"… vorrei precisare che dal 2014 c'è stato un continuo spargimento di sangue, per otto anni, nel Donbass – quella regione che faceva parte dell'Ucraina dopo gli anni '90 e ora fa parte delle nuove regioni russe.
Non si trattava qua di morti isolate, sporadiche. Questo è stato un massacro incentrato su civili, cioè gente comune: donne, bambini e persino uomini… che avrebbero dovuto andare al lavoro, a scuola. Sono stati tenuti in ostaggio da questa situazione politica, e per 8 anni sono state uccise tante persone lì.
Lei conoscerà molto bene le statistiche… Non so se la gente in Occidente lo sappia, ma nel corso degli 8 anni, secondo stime diverse, 11.000, 13.000, 15.000 persone sono state uccise da entrambe le parti. Questi erano rappresentanti del regime di Kiev e residenti del Donbass e anche quelli che sono venuti al popolo del Donbass dalla Russia che erano volontari. E a proposito, ci venivano persone non solo dalla Russia.
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Il liceo Pilo Albertelli, il PNRR, il digitale e la scuola della Costituzione
di Anna Angelucci*
Le nuove tecnologie ti stanno dando la libertà di non dover scegliere.
Spot televisivo TIM, 2016
La vicenda del liceo Pilo Albertelli (con il suo consiglio d’istituto che rifiuta i progetti di scuola digitale finanziati coi fondi del PNRR) sta assumendo una dimensione molto ampia ed offre a tutti noi – genitori, docenti, studenti, esperti, studiosi – la preziosissima occasione di riflettere sul tema delle trasformazioni implicate nella coazione al digitale imposta massicciamente dal PNRR, a scuola e oltre.
Se il dibattito sollevato trascende il dato concreto e investe questioni politiche, come è stato giustamente osservato, direi che questo non costituisce un limite. Mi permetto di sottolineare che molte nostre scelte di vita trascendono il dato concreto e rimandano a questioni politiche. Comprare un libro nella libreria di quartiere o su Amazon; utilizzare su Internet piattaforme proprietarie o pubbliche; segnare nostro figlio in una scuola piuttosto che in un’altra; invitare a un dibattito un relatore e non un altro; approfondire in classe o in famiglia un certo argomento e tralasciarne altri; indossare una maglietta di un brand noto, di una cooperativa equa e solidale oppure anonima; comprare il latte al supermercato o al negozietto sotto casa: sono tutti gesti concreti che implicano scelte di natura politica, ove politica rimanda a polis, politiké, ovvero al nostro modo di essere cittadini e di vivere nel mondo.
A maggior ragione, nella scuola e nella dimensione didattica e pedagogica che le appartiene costitutivamente, ogni nostra scelta è e deve essere “politica”.
Del resto, tutto il PNRR – nel suo modo di declinare per l’Italia i fondi europei del Next Generation Eu – sottende una visione politica della società che si risolleva dopo la crisi della pandemia facendo una precisa scelta di campo che orienta gli investimenti economici: imboccando la strada della transizione digitale in tutti gli ambiti dell’organizzazione sociale.
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"La strategia imperialistica Usa in Europa ha radici lontane. In Ucraina assistiamo all'ultimo atto"
Alessandro Bianchi intervista Giulio Palermo
"La distruzione delle risorse materiali dell’Ucraina è la prerogativa per l’accaparramento delle sue risorse materiali e umane nella fase di ricostruzione". Giulio Palermo, economista autore con la nostra casa editrice di "Il conflitto russo-ucraino" (LAD, 2023), ci rilascia una lunga e illuminante intervista per argomentare e attualizzare le sue tesi ad oltre un anno dall'inizio dell'operazione speciale russa.
"Il continente europeo costituisce la scacchiera ma gli scacchi sono per lo più americani e russi e, sullo sfondo, cinesi. La strategia europea per l’Europa semplicemente non esiste. Esistono interessi economici convergenti e divergenti tra settori e tra stati". Stiamo vivendo una fase di cambiamenti epocali ma per quel che riguarda i processi finanziari Giulio Palermo invita alla prudenza perché il ruolo del dollaro nel breve e medio periodo resta ancora forte. Ma nel lungo periodo i movimenti tellurici saranno inevitabili. "Anche se per il momento questo processo sembra portare alla progressiva chiusura tra blocchi contrapposti, la crescita di un sistema di relazioni internazionali meno sbilanciata su un singolo attore è vista da molti paesi con interesse. La Cina e la Russia hanno le carte in regola per guidare questo processo, sia economicamente, sia politicamente, sia anche militarmente. E a un certo punto anche i paesi europei dovranno fare le loro scelte. È nel corso di queste trasformazioni reali dei rapporti economici, politici e militari che si ridefinirà nel tempo il ruolo del dollaro, il suo ridimensionamento e la fine della sua egemonia, non attraverso semplici accordi per denominare i contratti in rubli o in renminbi.", chiosa l'economista.
* * * *
D. Nel suo "Conflitto russo-ucraino" porta avanti la tesi che l'imperialismo Usa abbia come obiettivo principale l'Europa attraverso il pretesto ucraino. Ad oltre un anno dall'inizio del conflitto a che punto siamo?
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"Bisogna chiudere il G7"
di Vijay Prashad*
Si tratta di un organismo antidemocratico che usa il suo potere storico per imporre i propri interessi ristretti a un mondo che è alle prese con una serie di dilemmi più pressanti
Durante il vertice del Gruppo dei Sette (G7) del maggio 2023, i leader di Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti hanno visitato il Museo della Pace di Hiroshima, vicino al luogo in cui si è tenuto l'incontro. Non farlo sarebbe stato un atto di immensa scortesia.
Nonostante le numerose richieste di scuse da parte degli Stati Uniti. da parte degli Stati Uniti per aver sganciato una bomba atomica su una popolazione civile nel 1945, il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha rifiutato. Ha invece scritto nel libro degli ospiti del Peace Memorial: "Che le storie di questo museo possano ricordare a tutti noi i nostri obblighi di costruire un futuro di pace".
Le scuse, amplificate dalle tensioni del nostro tempo, assumono interessanti ruoli sociologici e politici. Le scuse suggerirebbero che i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki del 1945 sarebbero stati sbagliati e che gli Stati Uniti non avrebbero concluso la loro guerra contro il Giappone assumendo la superiorità morale.
Le scuse contraddirebbero anche la decisione degli Stati Uniti, sostenuta pienamente da altre potenze occidentali oltre 70 anni dopo, di mantenere una presenza militare lungo la costa asiatica dell'Oceano Pacifico (una presenza costruita sulla base dei bombardamenti atomici del 1945) e di usare questa forza militare per minacciare la Cina con armi di distruzione di massa ammassate in basi e navi vicine alle acque territoriali cinesi.
È impossibile immaginare un "futuro di pace" se gli Stati Uniti continuano a mantenere una struttura militare aggressiva che va dal Giappone all'Australia, con l'intento esplicito di disciplinare la Cina.
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De libertate: da Hegel a Corto Maltese
di Giuseppe Imperatore
“Hegel è un pensatore aperto”, così argomenta Zizek alla presentazione del suo testo Hegel e il cervello postumano, e ancora: “più che il pensatore della sintesi, per me è il vero teorico dell’assioma che se pianifichi qualcosa, non importa quali sono i tuoi piani, le cose andranno sempre per il verso sbagliato. Un esempio viene offerto dalla rivoluzione francese, in cui la voglia di libertà è sfociata nel terrore. Rinconciliazione per Hegel non significa arrivare a un punto in cui va tutto bene, ma è il momento in cui ci si riappacifica con il fallimento”.
La sintesi non è luogo di appiattimento o di negazione delle profonde rotture e delle laceranti ferite, ma è manifestazione di queste nel loro ricomporsi.
La sintesi presuppone dunque una presa d’atto, per questo non si può rinunciare al soggetto, che è l’espressione non del vuoto compromesso, ma del pieno vivere dello Spirito nel mondo anche senza mediazioni alcune.
L’atto del sintetizzare non deriva dalla pura ragione, ma la supera, va ben oltre la stessa.
La Ragione che trova quindi fondamento nella non-Ragione, ovvero la verità noumenica come non tutto, o ancora più precisamente come eterna parzialità del Tutto.
Hegel non nasconde mai il negativo, anzi è il primo a farlo affiorare, quindi ne dà una lettura tendente al superamento (Aufhebung), così che si possa realizzare, in un punto di apparente quiete, il mondo.
Il moto si arresta solo per una frazione d’attimo e poi riprende la sua vorticosa ed incessante marcia.
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Africa. La lotta contro il colonialismo oggi
di Tanupriya Singh
La Giornata della liberazione dell’Africa, il 25 maggio, segna la fondazione dell’Organizzazione dell’unità africana (Oua) nel 1963. Sebbene l’idea di "liberazione" sia stata da allora rimossa nella lettera, e anche nello spirito, dalle commemorazioni ufficiali della giornata, le forze radicali l’hanno mantenuta nella loro lotta contro il capitalismo.
Sessanta anni fa, il 25 maggio, il primo ministro e presidente del Ghana, il leader rivoluzionario anticoloniale Kwame Nkrumah si presentò davanti ad altri 31 capi di Stato africani nella capitale etiope di Addis Abeba e dichiarò: "La lotta contro il colonialismo non finisce con il raggiungimento dell’indipendenza nazionale".
"L’indipendenza è solo il preludio di una nuova e più impegnativa lotta per il diritto di gestire autonomamente i propri affari economici e sociali... senza essere ostacolati da controlli e interferenze neocoloniali schiaccianti e umilianti".
“Dobbiamo essere uniti o periremo”, sottolineava Nkrumah, riconoscendo che, mentre i paesi del continente africano si stavano "liberando dal giogo del colonialismo", a questi successi "corrispondeva un intenso sforzo da parte dell’imperialismo per continuare a sfruttare le nostre risorse creando divisioni tra di noi".
Nkrumah parlava in occasione della fondazione dell’Organizzazione dell’Unità Africana (OUA) nel 1963, sforzandosi, insieme ad altri leader, di costruire una visione panafricanista di un continente unito sotto una moneta, una zona monetaria e una banca centrale comuni, nonché di un governo unito e di una difesa comune sotto un Alto comando africano.
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