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Ti ricorda il '29?
di Riccardo Bellofiore e Joseph Halevi
Le risposte di Roosevelt alla crisi, terribilmente simili alle decisioni affannose di queste settimane
Possiamo oggi ripensare il New Deal di Roosevelt? Dipende dalle condizioni soggettive: dalla capacità di radicalizzazione della popolazione salariata, precaria, pensionata e via dicendo. Certamente, deve essere come minimo un'azione a livello europeo.
La crisi «finanziaria» del 1929, che toccò il fondo come crisi «reale» nel 1932-3 (la disoccupazione balzò dal 4,5% al 25%, il resto erano lavori «precari»), nasceva da tre problemi: alta concentrazione nel settore monopolistico, dunque elevati margini di profitto e bassi salari; spostamento della ricchezza verso il casinò di Wall Street; concorrenza sfrenata tra le piccole aziende, che comportò una pletora di capitali. La crisi fu aggravata dal legame del dollaro all'oro; dalla politica monetaria restrittiva della Federal Reserve, indifferente ai crolli bancari; dalla demonizzazione della spesa pubblica da parte di Hoover. Il primo New Deal scaturiva dalla forte spinta a sinistra del partito democratico, grazie anche ai lavoratori immigrati non anglosassoni. Le misure prese immediatamente comprendevano, oltre allo sganciamento dal vincolo aureo, una più elastica provvista di liquidità da parte della Fed e il salvataggio delle banche, soggette ad una più stretta regolazione.
Provvedimenti cruciali furono la Federal Deposit Insurance Corporation, cioè la protezione di conti bancari delle famiglie, che esiste tuttora, e il Glass-Stegall Act, cioè la separazione tra banche commerciali e banche di investimento, annullato da Bill Clinton (oggi le banche di investimento non scompaiono, né sono di nuovo separate dalle banche commerciali, semmai accedono ai depositi raccolti da queste ultime).
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La depressione globale
di Nouriel Roubini
Il sistema finanziario del mondo ricco è diretto verso l' implosione. I mercati finanziari non sono riusciti ad arrestare la loro caduta libera per diversi giorni, il mercato dei titoli a breve termine e quello del credito si sono trovati bloccati di fronte a un balzo dei loro spread sul tasso d' interesse ed è troppo presto per dire se la zattera delle misure adottate dagli Stati Uniti e dall' Europa sarà in grado di rimediare al dissanguamento oltre l' immediato futuro.
Per la prima volta in settant' anni, si è diffuso il timore di un effetto domino generalizzato ed esteso all' intero sistema bancario, mentre quello "ombra" - l' universo costituito da istituti di compravendita, agenzie di mutui non bancari, altri strumenti strutturati d' investimento come gli hedge fund, i fondi di titoli a breve termine e un certo tipo di fondi d' investimento - hanno davanti a sé il rischio di un collasso a partire dalle loro passività a breve termine. Per quanto riguarda l' economia reale, tutte le economie avanzate - che rappresentano il 55 per cento del prodotto interno lordo mondiale - erano già entrate in recessione prima dei devastanti shock finanziari cominciati verso la fine dell' estate. Ora quindi dobbiamo fare i conti con una recessione, con una grave crisi finanziaria e con una grave crisi del sistema bancario. I mercati dei paesi emergenti hanno cominciato a risentire di questa sofferenza soltanto quando gli investitori stranieri hanno iniziato a ritirare le proprie risorse.
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La rivoluzione berlusconiana
di Alessandro Leogrande
In questi mesi il governo Pdl-Lega porterà a termine la propria riforma della giustizia, realizzando uno dei capisaldi della “rivoluzione berlusconiana”, elaborato già nella prima metà del decennio passato quando Berlusconi decise di scendere in campo non solo per sbarrare la strada ai “comunisti”, ma anche, via via, alle toghe rosse, a Mani pulite, alla “casta delle procure” che avevano sovvertito e avrebbero continuato a sovvertire la democrazia italiana. Sanare questo tumore, ricondurlo all’ordine, cioè alla posizione che occupava prima di Tangentopoli, è da sempre uno degli obiettivi del berlusconismo. Chi ha pensato negli anni, e ultimamente fino all’approvazione del lodo Alfano, che Berlusconi si occupasse di giustizia solo per regolare e anestetizzare i processi che lo riguardavano, si è mostrato miope.
C’è sicuramente del “personale” in tutto questo, e il Cavaliere ha sempre gridato alla persecuzione giudiziaria, all’accanimento di alcune toghe nei suoi confronti. Ma c’è anche qualcosa di più, molto di più: ridurre l’autonomia della magistratura, farne un ente alle dipendenze dello strapotere governativo risponde a interessi più vasti che si riconoscono nel berlusconismo e da esso si sentono protetti. Tale mossa è in piena sintonia con le pretese del partito degli avvocati, trasversale a tutto il centrodestra, che in questi anni è diventato una potente lobby parlamentare. Non è solo una mossa difensiva, risponde a un preciso impianto ideologico. E qui la parola “ideologia” è usata nel senso più strettamente filosofico: visione del mondo e delle sue cose, ed elaborazione di una teoria politica che sia sulla stessa lunghezza d’onda.
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Operaismo, non confondiamo tutto
Ferruccio Gambino
"L'assalto al cielo" di Steve Wright, studioso australiano dei movimenti della seconda metà del '900
Dobbiamo a Steve Wright, noto studioso australiano dei movimenti della seconda metà del Novecento, questo volume che disegna la parabola di Classe Operaia (1964-67), Potere Operaio (1969-73) e dell'Autonomia operaia (1973-79): L'assalto al cielo. Per una storia dell'operaismo (postfazione di Riccardo Bellofiore e Massimiliano Tomba, Edizioni Alegre, Roma 2008, pp. 334, euro 20).
Alla prima edizione inglese del 2002 è seguita l'edizione tedesca del 2005 e adesso quella italiana, nella traduzione di Willer Montefusco, grazie al rinnovato interesse per l'operaismo, come osservano Bellofiore e Tomba nella loro postfazione. Steve Wright ricostruisce questa vicenda che troppo a lungo era rimasta affidata alle arringhe di vari magistrati, a parte il notevole contributo di Franco Berardi ( La nefasta utopia di Potere Operaio , Castelvecchi, 2003) e ci offre un'interpretazione documentata e originale del dibattito che ha segnato l'operaismo negli anni '60 e '70.
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Alla radice del «pubblico» perduto
Luigi Cavallaro
La crisi finanziaria esplosa in queste settimane rappresenta il culmine di un processo che ha avuto inizio sul finire degli anni '70 e che, dopo un primo crack nel 1987, ha vissuto un vero e proprio boom negli anni '90 e una sorta di superfetazione negli ultimi dieci anni. Si tratta di un processo nel corso del quale sono stati letteralmente rovesciati gli assunti su cui, nel trentennio precedente, si era costruito il senso comune in materia di politica economica. In quel periodo un po' tutti erano convinti che il buon funzionamento dell'economia necessitava di alcune regole. I settori guida dovevano essere socializzati. Una grossa quota di bisogni privati (trasporti, casa, scuola, sanità, pensioni) doveva essere soddisfatta attraverso consumi collettivi.
La tassazione dei redditi e della ricchezza doveva ridurre le disparità economiche. Ultimo, e non meno importante, i mercati finanziari dovevano essere limitati nella loro capacità di speculare sulle passività delle imprese e dello stato.
Non era una ricetta sbagliata, tant'è che tutte le economie occidentali, sul finire degli anni '60, avevano praticamente raggiunto la piena occupazione: nell'opinione di storici insigni come Hobsbawm, quel periodo viene designato non a caso col nome di «Età dell'oro».
Fu in quel torno di tempo (approssimativamente, tra il 1968 e il 1977) che a sinistra si consumò una cesura rilevante tra coloro che, fino a quel momento, si erano avvalsi del patrimonio di teorie e prassi del movimento operaio novecentesco per interpretare il mondo (e, bisogna aggiungere, anche per trasformarlo non poco) e coloro che, invece, erano cresciuti nel ferro e nel fuoco della critica a quel patrimonio di pratiche sociali e culturali.
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Oltre l'ossessione del berlusconismo
Guido Viale
L'uomo di Arcore è «solo» l'italica personificazione di un degrado mondiale. La versione specifica di una caduta umana, da cui bisogna tentare d'uscire con un «movimento dal basso» che diventi «fatto politico»
A cavallo tra gli anni '50 e '60 del secolo scorso, in Francia, il pensiero radicale di sinistra aveva dato vita a una rivista dal titolo profetico Socialisme ou barbarie. Mai analisi storica è stata più pregnante: il socialismo non si è realizzato - e forse non avrebbe potuto realizzarsi mai - ed è sopravvenuta la barbarie. Quella in cui tuttI noi, insieme all'intero pianeta, siamo ormai immersi.
Come La lettera rubata di Poe, la barbarie è lì davanti ai nostri occhi; ma proprio per questo non la vediamo; e quando qualcosa colpisce la nostra attenzione, come i conflitti di interesse del presidente del Consiglio, la pornografia eletta a sistema di selezione della classe di governo, la truffa mondiale della Parmalat, l'invasione dell'immondizia, le tifoserie scatenate o il razzismo della Lega, tendiamo ad attribuirla a una specificità nostrana, come se il resto del pianeta fosse immune da cose simili o anche peggiori. Invece, fatte le debite proporzioni, i conflitti di interesse che hanno portato in Iraq e in Afghanistan Bush e i suoi accoliti fanno impallidire quelli di Berlusconi (con l'aggravante che negli Stati uniti non c'è nemmeno una magistratura che, nel bene o nel male, li abbia messi sotto accusa); l'improvvisa ascesa di alcune soubrette al governo del nostro paese non sono che una versione sporcacciona dell'ascesa che potrebbe portare un «pitbull con il rossetto» a rovesciare un pronostico elettorale dato ormai per scontato; le truffe perpetrate dal sistema finanziario degli Stati uniti giganteggiano di fronte a quelle di Parmalat, Cirio, Banca di Lodi o Alitalia; la spettacolarizzazione che trasforma in successi gaffe e flop interni e internazionali di Berlusconi fanno scuola nel mondo.
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La grande crisi
Rossana Rossanda
Che deve pensare una cittadina come me, sprovveduta di teoria e pratica economica e perseguitata da vent'anni dal coro «meno stato più mercato», quando legge che la Camera dei rappresentanti e il Senato degli Usa stanno decidendo di stanziare 700 miliardi di dollari pubblici per coprire il gigantesco buco che banche e assicurazioni private hanno fatto? Prima di tutto, che vuol dire? Che con questi 700 miliardi di dollari lo stato federale si fa carico, cioè fa carico ai contribuenti, dell'immenso buco scavato da banchieri e assicuratori senza avere nulla in cambio, soltanto perché le macerie non precipitino su tutti, tipo 1929? Oppure che in cambio mette un guinzaglio su quelle proprietà, stabilendo quel che possono o non possono continuare a fare, alla faccia della libertà di impresa, sacra fino all'altro ieri? O che addirittura le hanno nazionalizzate, nel senso che sono diventati proprietari diretti di banche e assicurazioni?
Idem per l'Europa. Negli Stati uniti il congresso aveva emesso qualche lamento e prima di votare il Senato ha imposto degli emendamenti, mentre nel vecchio continente qualcuno ha deciso in meno di 24 ore di salvare Fortis e Texia e il presidente francese, nonché attualmente della Ue, Sarkozy, doveva annunciare ieri che la Ue istituiva un fondo di 300 miliardi di euro per salvare banche e assicurazioni europee in eventuale emergenza? Senonché Angela Merkel, che di questo non era stata informata, sta lanciando alte strida: «La Germania non ci metterà un soldo», per cui allo stato dei fatti Sarkozy rinunciava ad annunciare, e domani si vedrà.
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Il progetto per un nuovo secolo americano
di Ilvio Pannullo
La caduta agli inferi di alcuni tra i maggiori istituti di credito statunitensi, con il conseguente piano di recupero a spese della collettività, è stato definito da alcuni analisti come una sorta di 11 settembre dell’economia. E’ probabile infatti, che esso rappresenti la definitiva messa in crisi dell’impianto monetarista che aveva caratterizzato le politiche economiche dell’amministrazione Bush. I rovesci in Afganistan e Iraq e la destabilizzazione del Pakistan in questo momento sono solo lo sfondo della crisi politica che caratterizza la fine del mandato presidenziale. Che è in primo luogo la fine di quella lobby neocons che così in profondità ha attraversato i due mandati presidenziali di George W. Bush. Lo strettissimo legame tra le politiche economiche e militari del peggior presidente della storia Usa, hanno infatti avuto come centro ispiratore della sua aggressività internazionale proprio questa sorte di conventicola delinquenziale che tanto ha contribuito all’ascesa di Bush e alle guerre da lui scatenate in giro per il mondo.
Per conoscere meglio pensieri, parole e opere della lobby neocons, almeno sotto l’aspetto della regia occulta delle operazioni militari, basta leggere il Sunday Herald del 15 settembre 2002, che pubblicò il sunto di un documento, redatto due anni prima per conto di alcuni dei principali esponenti dell'attuale governo americano, che descriveva, in dettaglio, un progetto per la sottomissione militare del pianeta al dominio statunitense.
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Anatomia della crisi I
Dalle cartolarizzazioni ai toxic assets
di Emilio Barucci
La drammatica crisi del sistema finanziario sta suscitando molte considerazioni sulle colpe del libero mercato e i benefici della regolamentazione. Tuttavia se si cerca di analizzare, fuori da ogni ideologia, quanto è successo negli ultimi anni, le conclusioni appaiono meno ovvie. Tutti riconoscono che all’origine della crisi ci sia l’introduzione su scala macroscopica di derivati di credito quali i famigerati CDO nell’ambito della "securitization" ovvero la prassi di accorpare, impacchettare e rivendere agli investitori rischi finanziari di vario tipi, e in particolare il rischio mutui.
Questa idea non è nata a fini speculativi. Il suo primo motore è stata la reazione all’introduzione di una più stretta regolamentazione per le banche. Nell’analisi dell’origine di questo mercato fatta da Moody’s ben prima dell’inizio della crisi (Debuysscher, 2005), leggiamo che fondamentale per la nascita della securitization e in generale della finanza strutturata fu l’accordo di Basilea del 1988. In questo accordo, i regulators introdussero norme più rigide per garantire maggiore stabilità del sistema bancario, tra cui la norma secondo cui per un miliardo di euro investiti da una banca in un’attività rischiosa, ad esempio mutui, le banche dovessero mettere da parte in forma di capitale una frazione del miliardo, in cui la frazione era specifica per l’attività "mutui". Come può una norma così ragionevole essere la causa di una prassi che ha portato alla maggiore crisi del sistema bancario dal 1929?
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Crisi delle borse o crisi del capitalismo?
di Danilo Corradi
Coordinamento nazionale sinistra critica
Dodici banche americane fallite, la più grande nazionalizzazione a stelle e strisce dal ’29, fusioni “difensive” che cambiano il panorama mondiale della finanza, ultimi trimestri negativi per Usa e Ue e recessione tecnica per l’Inghilterra. A poco più di un anno dall’esplosione della “bolla speculativa” sui mutui subprime l’economia mondiale sembra tutt’altro che fuori dalla crisi.
In questa sede possiamo semplicemente elencare alcuni nodi analitici e alcune conseguenze socio-politiche che l’attuale crisi capitalistica ci obbligherà ad affrontare:
1) la teoria che più viene proposta dai guru dell’economia mondiale considera la crisi come conseguenza dei pochi controlli sui sofisticati strumenti finanziari (i derivati) che sono andati moltiplicandosi negli ultimi 15 anni fino a raggiungere un controvalore negli scambi trimestrali di oltre 600trilioni di dollari (oltre 12 volte il PIL mondiale). Pochi controlli e diverse mele marce che hanno “speculato” oltre i limiti della ragione economica. Una teoria che farebbe sorridere se non fosse la più accreditata. Qualcuno forse dimentica che tutto il sistema ha partecipato alla grandissima ascesa della finanza. Hanno partecipato le banche centrali fornendo denaro a costo zero per oltre un decennio, hanno partecipato tutte le grandi aziende che hanno investito in media oltre il 50% delle risorse in strumenti finanziari (nel ’79 il rapporto era 2% investimenti finanziari 79% produttivi ), hanno partecipato i governi sino agli enti locali che hanno acquistato direttamente derivati o promosso truffe come i fondi pensione integrativi.
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Il mercato in difficoltà e lo stato interventista
Riccardo Bellofiore
Nei commenti di queste settimane non ci è stata risparmiata la sequela di argomentazioni tranquillizzanti: crisi passeggera; non si può fare a meno della finanza; le banche europee sono al riparo; il vecchio continente, ancora manifatturiero, ne uscirà rafforzato; l'Italia può contare sulle medie imprese multinazionali. Peccato che questa finanza ci abbia portato sulle soglie di una nuova Grande Crisi. Che le banche europee abbiano aggirato la regolamentazione per garantirsi più elevati rendimenti. Che lo sganciamento dell'Europa dagli Usa si sia negli ultimi mesi sgonfiato come una favola. Che i pochi spezzoni vitali del nostro apparato produttivo siano fragilissimi e dipendenti dalla congiuntura. Certo, è finito un mondo. Il punto non è quello di capire il «perché» di breve periodo. Si tratta di capire come se ne esce. Meglio, come ne uscirà il capitale.
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Perché una sinistra senza aggettivi?
Alberto Burgio
Nei giorni scorsi (il 9 e il 17 settembre) Marcello Cini ha pubblicato su queste pagine un ampio intervento che mette a fuoco nodi teorici cruciali e dimostra come una riflessione autonoma e spregiudicata sia condizione necessaria affinché la sinistra torni capace di incidere sul piano politico e culturale. Si tratta di un contributo rilevante non soltanto per gli argomenti, esposti con la passione e la lucidità alle quali Cini ci ha da lungo tempo abituato, ma anche per l'implicito suggerimento che lo sottende.
O compiamo lo sforzo di cimentarci con le sfide della ricerca teorica, o non usciremo da questa gravissima crisi. O ci occupiamo, oltre che di cronaca, anche di storia, oppure verremo travolti da mutamenti che non saremo stati in grado di decifrare. La qualità di questo intervento raccomanda, credo, di non archiviare il discorso come una generica esortazione. Cini afferma cose impegnative e formula interrogativi pressanti, offrendo una preziosa occasione per avviare la riflessione, in effetti sempre più urgente, sui compiti della sinistra e sugli strumenti a sua disposizione. La tesi di fondo è incontrovertibile. Il capitalismo sta conducendo l'umanità e il pianeta verso la catastrofe.
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Il brevetto del nuovo capitale
«Appunti per cercare le ragioni a sinistra
Marcello Cini
Nuovo modo di produrre e nuovo ruolo della scienza, In un mondo messo a rischio nella sua esistenza materiale e nella sua ragione morale. Un contributo alla discussione per non rassegnarsi al declino, tra deriva moderata e resistenza testimoniale
Condivido tuttora, nonostante l'attuale diaspora della sinistra, la domanda che Claudio Fava aveva posto a Chianciano con chiarezza: «Abbiamo paura di impegnarci nella costruzione di una sinistra che sappia finalmente elaborare le culture del comunismo e del socialismo per proporne una sintesi originale? Qualcuno di noi è così miope da vivere questa sfida culturale e politica, che forse prenderà il tempo e lo spazio di una generazione, come un tradimento ai sacri luoghi delle nostre identità? O pensiamo davvero che tra dieci o vent'anni ci saranno ancora, in questo paese, una sinistra cosiddetta 'socialdemocratica' e una sinistra cosiddetta 'comunista', ciascuna gelosa custode delle proprie liturgie e della propria storia? Un nuovo soggetto politico di sinistra non soffocato dall'ornamento dei propri aggettivi è solo una favola ce ci raccontiamo o è realmente una sfida che ci mette tutti (tutti!) in discussione?». Penso ancora che il dibattito su come iniziare a costruire gli strumenti che possono contrastare l'offensiva travolgente che il capitalismo del XXI˚ secolo sta portando avanti contro i popoli della Terra dovrebbe avere la priorità.
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Crisi della finanza, trasformazioni della democrazia, critica della politica
La moneta e la finanza globale
di Christian Marazzi
Tutto ciò che sembrava delineare un funzionamento normale della finanza negli anni Settanta è oggi scomparso, e per questo le teorie economiche si dimostrano obsolete. Negli ultimi decenni, tutto si è trasformato all’interno della finanza e delle sue regole sia per quello che riguarda la gestione del debito pubblico e il finanziamento degli investimenti sia per quello che riguarda invece la gestione delle imprese e soprattutto la creazione di posti di lavoro. Il fatto più rilevante: la finanza ha ormai preso il posto della creazione monetaria, che era stata una costante nel corso dei famosi trenta gloriosi anni del dopo guerra. Durante questa fase di crescita generalizzata del capitalismo occidentale, grazie al legame tra il Ministero del Tesoro e la Banca centrale, le autorità monetarie disponevano del potere di creare liquidità di moneta. Le autorità monetarie avevano, in questo modo, la possibilità di coprire i debiti generati dalle politiche di deficit spending, prima di tutto attraverso una creazione di moneta ex ante che anticipava il divenire-capitale di questa moneta immessa nel circuito economico dalle autorità statali. La moneta così creata e immessa nelle reti bancarie per acquistare dei titoli - i buoni del Tesoro –costituiva una sorta di creazione di reddito ex ante
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Politica al lavoro
Mario Tronti
I lavoratori tra globalizzazione e territorializzazione. E la loro cancellazione come soggetto politico. Un convegno a Brescia, per riprendere l'inchiesta. Il 3 ottobre, organizzato da Crs, Associazione per il rinnovamento della sinistra e il manifesto
Appuntamento a Brescia, il 3 ottobre. Ne ha parlato già Paolo Ciofi sul manifesto del 18 settembre. Prende l'avvio il progetto di un impegno di ricerca di tipo nuovo. Il tema è: lavoro e politica. Sì, perché è una novità occuparsene. Questo dice molto della condizione in cui siamo. Quello che fino a qualche tempo fa era una vecchia convinzione è oggi una constatazione del tutto nuova: e cioè che o i lavoratori sono una forza politica o non esistono. E l'inesistenza politica dei lavoratori è il problema della sinistra certo, ma è anche il problema della società e dello Stato, è il tema vero della crisi di civiltà. Se non mettiamo la cosa così, non riusciamo a trovare la bussola che cerchiamo per orientarci nel mare aperto del capitalismo-mondo di nuovo in subbuglio per affari tutti suoi. E' questo che fa male oggi a vedere: che l'avversario di classe non se la passa bene e non riesce a far star bene la gran parte dei suoi subalterni, e tuttavia i suoi problemi sono tutti relativi ai rapporti tra le sue parti interne. In fondo anche la forza-lavoro era parte interna del capitale, ma quando smetteva i panni di produttrice di plusvalore e assumeva la veste di realizzatrice di valore politico, minacciava, come si diceva, l'ordine costituito e accennava a qualcosa d'altro e di oltre. Adesso invece le contraddizioni capitalistiche sono sempre e solo rese di conti tra pezzi delle forze dominanti, finanziarizzazione contro economia reale, liberalizzazione versus regolazione e viceversa, mercato e/o Stato, distribuzione mondiale delle risorse energetiche e quindi pezzi di mondo contro altri pezzi di mondo, dentro però un pensiero unico di rapporti sociali: comandano i padroni, privati o pubblici, e i lavoratori eseguono. Riportare il tema lavoro al centro dell'agenda politica.
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Africa. È in Sicilia la direzione strategica delle forze speciali “anti-terrorismo” Usa
di Antonio Mazzeo
A Stoccarda, l’1 ottobre 2008, s’insedia Africom, il comando delle forze armate Usa per l’Africa. La centrale d’intelligence per le operazioni di guerra nel continente è tuttavia presente da 5 anni nella base aeronavale di Sigonella. Nel più assoluto segreto, stazioni di telecomunicazioni e aerei P-3C Orion coordinano la “guerra al terrorismo” in un’area compresa tra il Golfo di Guinea e il Corno d’Africa. La raccolta e l’elaborazione d’informazioni sono necessarie per dirigere i bombardamenti contro popolazioni civili, i sequestri e le deportazioni illegali di persone “sospette”. I reparti ospitati a Sigonella sono pure coinvolti nell’addestramento e la fornitura di armamenti ad eserciti responsabili di gravi crimini contro l’umanità. E l’Us Air Force preannuncia l’arrivo di militari e mezzi in Sicilia…
“Joint Task Force JTF Aztec Silence” è il nome della forza speciale creata dal Dipartimento della difesa degli Stati Uniti per condurre missioni d’intelligence, sorveglianza terrestre, aerea e navale, nonché vere e proprie operazioni di combattimento in Africa settentrionale ed occidentale. Il primo ad illustrarne le finalità è stato il generale James L. Jones, comandante delle forze armate Usa in Europa (Eucom), in un’audizione davanti alla sottocommissione difesa del Senato, l’1 marzo 2005. “Eucom – ha dichiarato Jones - ha istituito nel dicembre 2003 JTF Aztec Silence, ponendola sotto il comando della VI Flotta Usa, per contrastare il terrorismo transnazionale nei paesi del nord Africa e costruire alleanze più strette con i governi locali”. Il generale statunitense si è poi soffermato sulle unità d’eccellenza prescelte per coordinarne le operazioni. “A sostegno di JTF Aztec Silence, le forze d’intelligence, sorveglianza e riconoscimento (ISR) della Us Navy basate a Sigonella, Sicilia, sono state utilizzate per raccogliere ed elaborare informazioni con le nazioni partner. Questo robusto sforzo cooperativo ISR è stato potenziato grazie all’utilizzo delle informazioni raccolte dalle forze nazionali locali”. Le unità aeree e navali della VI Flotta operanti nel Mediteranno, le differenti agenzie Usa d’intelligence e i partner Nato europei collaborano con la speciale task force nella raccolta d’informazioni.
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Parole scomode
Rossana Rossanda
Ci pesa chiedere soldi ogni due o tre anni a chi ci legge, ma siamo soffocati non soltanto dalla abolizione da parte del governo di ogni diritto della stampa scritta e dai nostri probabili errori (perché anche i poveracci ne fanno, per quanto stringano la cinghia). Da venti anni in qua siamo soffocati dal fastidio che provano i più nell'ascoltare una voce fuori dal coro. Fa impressione oggi sentir dire da Tremonti in Italia e da Sarkozy in Francia quel che fievolmente non abbiamo smesso di dire mai e cioè che deregulation e finanziarizzazione dell'economia avrebbero portato la medesima allo sfascio. A scriverlo, l'epiteto più gentile che si riceveva era: «siete arcaici». Simpatici ma fuori dal mondo. Il mondo, dicevano quelli che se ne intendono, era globalmente capitalistico, finalmente fuori dal controllo dell'inaffidabile politica, finalmente consegnata alla mano invisibile e giusta del mercato. Meno stato più mercato è stata la parola d'ordine della destra, della sinitra detta riformista, e della sinistra radicale, magari per opposte ragioni ma con il medesimo risultato. Persino uno Scalfari, che all'inizio metteva in guardia dall'economia del farwest s'è azzittito, per non dire della sufficienza con cui sono stati trattati gli Stiglitz e i Fitoussi o i Krugman che osavano aprir bocca davanti al monetarismo delle banche centrali e ai prodigiosi disastri del Fondo monetario internazionale. E il lavoro? Le imprese avevano giurato che, con il progresso della tecnologia era ormai una voce insignificante del loro bilancio. E invece da vent'anni è diventato il terreno della caccia più feroce dei padroni per strozzarlo ai minimi, e quando non ci sta, delocalizzano. L'Europa, solo continente in cui esso aveva conquistato dei diritti, s'è andata formando dando addosso alla sua «rigidità» e avanti con flessibilità e precariato, e basta con i contratti nazionali, negli applausi non dico dei Fassino, Veltroni, Epifani ma fin del meno azzardoso D'Alema. E noi, ne siamo usciti indenni?
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Il rifiuto della raccolta differenziata
Guido Viale
Che cosa c'è ancora da fare in Campania, dopo che Berlusconi e Tremonti hanno annunciato di aver risolto il problema dei rifiuti? Tutto. Tutto quello che è necessario per passare da una gestione straordinaria che in 14 anni è stata la principale fonte del disastro a una gestione ordinaria che restituisca al governo del territorio - comuni, province e regione - le competenze previste dal nostro ordinamento e rispetti i principi della normativa europea e italiana: primo ridurre la produzione di rifiuti; poi recuperare materia; quindi estrarre energia solo se non si può recuperare materia; discarica solo per ciò che non si può recuperare. Per ridurre la produzione di rifiuti bisogna promuovere, con appositi accordi. il vuoto a rendere (sia riciclabile che pluriuso) e la vendita alla spina di prodotti in grani, in polvere e liquidi; scoraggiare gli articoli usa e getta (pannolini, stoviglie e gadget ) incentivando gli equivalenti lavabili e/o durevoli; promuovere l'acqua del rubinetto e scoraggiare quella minerale dove gli acquedotti sono sani; valorizzare i rifiuti elettrici e elettronici (in sigla, Raee), accelerando l'attuazione dell'accordo che ne prevede ritiro e riciclo; sostenere il commercio dell'usato offrendo ai «mercatini» spazi adeguati a fianco degli ecocentri dove intercettare quello che a cittadini e aziende non serve più; sostenere il compostaggio domestico e quello in fattoria: cioè lo scambio diretto di sostanza organica con alimenti biologici tra ristoratori o negozi alimentari e agricoltori.
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Il peggioramento della crisi del debito
Mike Whitney intervista Michael Hudson
Mike Whitney: Venerdì [5 Settembre] pomeriggio il governo ha annunciato il piano per collocare i due giganti dei mutui, Fannie Mae e Freddie Mac, in “amministrazione controllata”. Gli azionisti saranno praticamente spazzati via (le loro azioni sono già crollate di oltre il 90%) e il governo interverrà per proteggere il debito delle due aziende. Per certi versi, proteggerà anche le loro azioni privilegiate, che Morgan-Chase ha svalutato solo della metà. Questo sembra essere l’intervento governativo più radicale mai operato sui mercati finanziari nella storia americana. Se queste due società fossero nazionalizzate, si aggiungerebbero 5.300 miliardi di dollari al bilancio del paese. Quindi, la mia prima domanda è: perché il Tesoro sta salvando gli obbligazionisti e gli altri investitori? Qual è l’interesse pubblico in tutta questa vicenda?
Michael Hudson: Il Tesoro ha sottolineato che la scadenza per definire i dettagli dell'acquisizione era domenica pomeriggio, prima che i mercati asiatici aprissero le contrattazioni. Questa preoccupazione riflette la bilancia dei pagamenti e quindi la dimensione militare del salvataggio. Le banche centrali di Cina, Giappone e Corea detengono grosse quote di queste securities, proprio a causa delle grosse dimensioni di Fannie Mae e Freddie Mac, i loro 5.300 miliardi di dollari in mutui garantiti dal debito che ha citato, e gli 11.000 miliardi totali del mercato dei mutui americano.
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Bush salva tutta la finanza sregolata
Carlo Leone Del Bello
Il governo Usa scende in campo, sperando di risolvere la crisi in modo definitivo. Centinaia, forse migliaia di miliardi di dollari pubblici per comprare i titoli «spazzatura», derivati dai mutui. Per l'Europa, Sarkozy pensa a una commissione bancaria continentale Piano shock del Tesoro: centinaia di miliardi per ripulire i bilanci di Wall Street. Festeggiano le borse mondiali
Un cambio di rotta epocale, quello delineato dall'amministrazione Bush, a poco più di un mese dalla fine del mandato. Dall'approccio «caso per caso», al salvataggio sistemico del mondo della finanza, usando denaro pubblico. Quanto? Si parla di centinaia di miliardi di dollari - forse mille, nello scenario peggiore - per ripulire i bilanci delle banche. Euforia ai limiti del parossismo sui mercati azionari, nella speranza che, grazie allo Zio Sam, da ora in poi le cose non potranno che migliorare. Il piano prospettato da Henry Paulson, segretario del dipartimento del tesoro, è semplice, e ricalca quello messo in piedi da George Bush padre per risolvere la crisi delle casse di risparmio nel 1989. Sostanzialmente, il governo creerà un fondo con cui acquistare tutti i titoli derivati dalla cartolarizzazione dei mutui.
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Lehman ovvero il collasso del parassita
Domenico Moro
L'economia Usa sta rivelando con le crepe sempre più vistose che appaiono in superficie la fragilità di fondo che la caratterizza da tempo. Quella di una economia e di un paese che hanno vissuto fino ad ora a credito sulle spalle del mondo intero
Come quasi sempre accade, quasi tutti i quotidiani, compresi quelli economici, fino a qualche giorno fa erano pronti a scambiare un timido raggio di sole per la fine della tempesta. La stessa Marcegaglia preconizzava in una intervista sul Corriere una imminente ripresa Usa sulla base di una più che precaria rivalutazione del dollaro sulle altre valute. La realtà si è premurata di smentire i facili ottimismi e di ricordarci che la crisi dei mutui non è terminata, e che anzi i suoi effetti si fanno più manifesti. Del resto, si sapeva benissimo che la crisi immobiliare aveva tramutato le cartolarizzazioni dei mutui in carta straccia e, anche se l'entità delle perdite subite da tutto il sistema bancario Usa(e non solo) era incerta, si era però certi che fosse enorme. Infatti, da diversi mesi, mano a mano che le perdite emergevano, è iniziato uno stillicidio di fallimenti bancari che, evidentemente, costituivano solo l'avanguardia che quello che sta accadendo ora.
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Ok, il prezzo è giusto. Cause e rimedi per l'inflazione
Domenico Moro
Un recente articolo di Paolo Savona, "economista etico" e le sue contraddizioni fanno da spunto per una riflessione sul concetto di mercato e soprattutto di "libero" mercato
Non lo sapevamo ma siamo noi la causa del nostro male. Ce lo rivela l'economista Paolo Savona dalle colonne del Messaggero. Se l'inflazione cresce, indipendentemente dall'andamento delle materie prime, la colpa è della "gente", che chiede di frenare l'azione del libero mercato, e dei sindacati, contrari alle liberalizzazioni, come quelle contenute nella direttiva Ue Bolkestein. Così, ci rimangono, secondo Savona, due soluzioni. La prima è stringere la cinghia e ridurre drasticamente i consumi (sic!), aspettando che il mercato riallinei i prezzi alla domanda, e la seconda è...l'etica.
La Chiesa dovrebbe, insieme ai media e ai gruppi dirigenti, affermare un sistema di valori etici che conducano al rispetto del "giusto prezzo". Un principio che la dottrina cattolica insegna da oltre un secolo ma, fino ad ora, con scarsi risultati. Chissà perché. Comunque, secondo Savona, solo un mercato etico può funzionare, mentre ogni eventuale azione regolatrice, anche sui prezzi, dello Stato è destinata al fallimento, perché...il mercato è il mercato e va lasciato alla sua autoregolazione.
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La grande illusione
di Paul Krugman*
Fino ad ora, nonostante il ruolo della Georgia come importante corridoio per il trasporto del petrolio, le conseguenze economiche della guerra nel Caucaso sono state decisamente ridotte. Ma mentre stavo leggendo le ultime cattive notizie mi son trovato a chiedermi se questa guerra sia un presagio, un segno che la seconda età della globalizzazione potrebbe trovarsi a condividere il destino della prima.
Se vi state domandando a che cosa io mi riferisca, ecco quello che dovete sapere: i nostri nonni vivevano in un mondo di economie largamente autosufficienti, orientate verso l’interno. I nostri trisnonni, però, vivevano, come noi oggi, in un mondo di commerci ed investimenti internazionali su larga scala, un mondo distrutto dai nazionalismi.
Nel 1919 il grande economista britannico John Maynard Keynes descriveva l’economia mondiale come si presentava alla vigilia della prima Guerra Mondiale: “L’abitante di Londra poteva ordinare telefonicamente, mentre sorbiva il tè del mattino, vari prodotti da tutto il mondo…, nello stesso tempo, e con lo stesso mezzo, poteva investire la sua ricchezza nelle risorse naturali e nelle imprese di qualunque parte del mondo.”
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Operazione Saakashvilli
di Giulietto Chiesa
Quei giorni di agosto 2008 resteranno sicuramente nella storia come giorni di una svolta, di un drastico del quadro politico internazionale. La Russia non è più quella che, per 17 anni, l'Occidente aveva immaginato che fosse. E' ben vero che, i primi anni dopo il crollo, l'euforia del trionfo dell'Occidente era stata corroborata da una leadership russa di Quisling, capitanati da un ubriacone rozzo e baro, come lo fu Boris Eltsin. Ma dopo, con la sua dipartita dal potere russo, la musica aveva cominciato a cambiare. I segnali erano tanti. Ma i vincitori erano convinti che Vladimir Putin facesse il muso duro solo per rabbonire i russi umiliati, mentre, in realtà, proprio lui stava - lentamente, ma con chiara progressione - mettendo le basi per un cambiamento. Solo che, come dice un antico proverbio coltivato sotto ogni latitudine, Dio acceca coloro che vuole perdere. L'illusione sulla disponibilità dei russi a lasciarsi mettere ormai il piede sul collo in ogni occasione avrebbe dovuto assottigliarsi e dare spazio al realismo.
Da queste colonne ho scritto più volte - i lettori lo ricorderanno - che la Russia aveva smesso di ritirarsi e che sarebbe venuto il momento in cui tutti avremmo dovuto accorgercene.
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La stagflazione colpisce ancora. Chi?
di Roberto Tamborini
I maggiori paesi industrializzati mostrano chiari sintomi di rallentamento dell'attività economica e di accelerazione dell'inflazione. In una parola: stagflazione. Il peggiore dei mondi possibili per le autorità di politica economica, che non si era più materializzato dopo la crisi petrolifera dei primi anni '70. La Bce ha assunto una posizione restrittiva in linea con l'impegno di ricondurre l'inflazione al 2% annuo nel medio periodo. Il Dpef presentato dal governo indica una "inflazione programmata" per i rinnovi contrattuali dell' 1,7% (ossia meno della metà di quella tendenziale).
I sindacati hanno protestato per il palese irrealismo. La Confindustria ha apprezzato il rigore salariale indicato dal Dpef. Ci sono tutte le premesse per un ritorno del clima di confusione e di conflitto che caratterizzò gli anni '70. Può giovare cercare di fare un po' di chiarezza.
Sui libri di testo di economia la stagflazione compare come esempio del peggiore dei mondi possibili. Appena essa è riapparsa dall'archivio dei bui anni '70, si è immediatamente ricreato il medesimo clima di disorientamento, d'incertezza e di conflitto, anche se accelerazione dell'inflazione e rallentamento produttivo sono, in media, molto meno intensi di allora. Le autorità monetarie sulle due sponde dell'Atlantico hanno assunto chiaramente posizioni diverse (nei fatti e, forse, persino a parole).
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