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L'uomo nuovo
Marco Cedolin
Quando intorno alla metà del secolo scorso l'elite mondialista che di fatto gestisce le sorti del pianeta e dei suoi abitanti iniziò a strutturare le basi per la costruzione di un nuovo ordine mondiale (o comunque lo si voglia chiamare di una nuova società che potesse risultare funzionale ai propri interessi) comprese immediatamente come la globalizzazione fosse la strada migliore da percorrere per ottenere il risultato voluto. Le basi di un progetto di questo genere erano già state poste negli anni 30, quando il Council on Foreign Relations americano concepì strutture come la Banca Mondiale ed il Fondo Monetario internazionale che nacquero ufficialmente a Bretton Woods nel luglio 1944 ed ebbero senza dubbio modo di affinarsi quando a partire dal mese di maggio 1954 iniziarono le riunioni del gruppo Bilderberg, deputato a fare sintesi e delineare le strategie.......
Nello stesso periodo, ad ottobre del 1947 a Ginevra vide la luce il GATT (General Agreement on Tarifs and Trade) composto inizialmente da 18 paesi fra i quali l'Italia (che entrò a farne parte nel 1949) e destinato a comprenderne 37, che si proponeva l'obiettivo di eliminare tutto ciò che potesse in qualche misura ostacolare il commercio internazionale.
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Geopolitica, Ordine Mondiale e Globalizzazione
di Federico Pieraccini
Comprendere gli obiettivi e le logiche che accompagnano l’espansione di nazioni o imperi è sempre di fondamentale importanza per poter trarre conclusioni importanti per il futuro
Nei seguenti quattro capitoli intendo gettare le basi per una facile comprensione, molto approfondita, dei meccanismi che muovono le grandi potenze. Per riuscirvi occorre analizzare le teorie geopolitiche che concorrono, da più di un secolo, a modellare le relazioni tra Washington e le altre potenze mondiali. In secondo luogo è importante verificare come i principali oppositori geopolitici di Washington (Cina, Russia e Iran) si stiano organizzando da anni per porre un argine all’azione distruttiva di Washington. Infine, è importante osservare il cambiamento epocale nella dottrina di politica estera americana negli ultimi vent’anni e soprattutto come la nuova amministrazione Trump intenda cambiare corso e definire nuovamente priorità e obiettivi.
Il primo capitolo si concentrerà quindi sull'ordine internazionale, la globalizzazione, le teorie geopolitiche, la loro traduzione in concetti moderni e come sia mutata la nozione con cui si esercita il controllo su una nazione straniera.
Prima di affrontare le teorie geopolitiche che regolano l’ordine internazionale, è importante capire gli effetti della globalizzazione e il mutamento dell’ordine internazionale, conseguenze dirette di una Strategia antica degli Stati Uniti che mira a controllare ogni aspetto del pianeta con mezzi economici, politici, culturali e militari.
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Marc Bloch oltre la nouvelle histoire
Prospettive teoriche da riscoprire*
Adriana Garroni
Con questo articolo si ripercorrere una tappa fondamentale della storia della storiografia moderna: la reazione contro il positivismo del tardo XIX sec. fino all’elaborazione di nuovi metodi e nuovi oggetti della ricerca storica novecentesca. Si propone un’analisi del dibattito storiografico francese novecentesco, dalla storia totale di Marc Bloch e Lucien Febvre alle riflessioni di Le Goff e altri storici sulla antropologia storica e sulla, tanto celebrata quanto criticata, dilatazione dell’ambito della ricerca storica. Si sostiene la necessità di riscoprire quegli strumenti intellettuali di analisi e di sintesi, ravvisabili certamente nell’opera di Bloch, coi quali elaborare non solo nuove sintesi della conoscenza storica, ma anche una interpretazione complessiva delle nostre società, che è condizione necessaria per il loro miglioramento.
Gli ultimi decenni del XIX sec. furono caratterizzati da una vera e propria “rivolta contro il positivismo”;1 come ha scritto lo studioso italiano Angelo D’Orsi, dall’«avvento di una nuova epistéme, ossia l’insieme delle concezioni e dei modi di considerare e organizzare i processi della conoscenza»,2 ponendo così le basi per il salto qualitativo della storiografia novecentesca.
La nuova storia si proponeva di accogliere i migliori risultati della storiografia positivista e le innovazioni metodologiche e interpretative apportate dalle altre scienze sociali. Influenzati dal marxismo, gli storici statunitensi furono i primi a parlare di new history3 e a dare nuova enfasi ai fattori socio-economici nella spiegazione storica. Cominciarono a occuparsi di intellectual history e respinsero le divisioni disciplinari per concentrarsi sui legami che le diverse attività umane intrattengono con la storia delle società. E così, nel corso del Novecento si affermò in Europa e negli Stati Uniti l’attenzione verso la storia della cultura in senso generale, delle idee e delle abitudini mentali degli uomini in una data epoca e in un dato ambiente. Si trattò di una trasformazione complessiva della scienza storica, dei suoi oggetti e del suo metodo, che avrà esiti diversi nei diversi ambienti intellettuali. A questo proposito D'Orsi ha osservato che:
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Difesa della lezione frontale (o, per chi preferisce, «Lezione frontale 2.0»)
di Daniele Lo Vetere
La «Lezione Frontale»
Tre aneddoti.
a) Una volta mi è capitato di intercettare casualmente la conversazione di due studenti intorno a due loro insegnanti. Entrambi i colleghi facevano, come si poteva facilmente inferire, una “lezione frontale”. Eppure la loro reputazione presso i due ragazzi era ben diversa: «Ah, quando parla X, capisco la filosofia; invece Y fa una... Lezione Frontale» (smorfia incerta tra noia e senso di sufficienza).
b) Capita (o capitava, qualche decennio fa) di sentire frasi come queste: «la Lezione Frontale è mera trasmissività e ripetizione del sapere!», «la Lezione Frontale veicola il sapere in forme autoritarie!», «esistono alternative alla Lezione Frontale!» (quest'ultima con esiti irresistibilmente comici, perché, nel caso in cui il contesto sia un'aula in cui ci si specializzi per fare gli insegnanti o ci si aggiorni, viene quasi sempre pronunciata nel corso di una... Lezione Frontale).
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Monte dei Paschi di Siena: un disastro costruito con metodo
di Renato Strumia*
Il disastro Monte Paschi di Siena: combinazione perversa tra poteri forti, politica d’accatto, vigilanza latitante, elusione delle regole. Ma, soprattutto, il fallimentare bilancio del processo di privatizzazione del sistema bancario italiano
“Oggi la banca è risanata, e investire è un affare. Su Monte dei Paschi si è abbattuta la speculazione ma è un bell’affare, ha attraversato vicissitudini pazzesche ma oggi è risanata, è un bel brand”. Matteo Renzi, Presidente del Consiglio dei Ministri, al Sole 24 Ore, 22 gennaio 2016.
Una valutazione ragionata sul disastro Monte Paschi di Siena richiede almeno tre livelli di analisi.
Il primo livello attiene alla questione del “mercato” e del suo evidente fallimento nella soluzione della crisi, non solo del caso specifico e non solo del settore bancario, ma dell’intero sistema economico.
A dire il vero occorre estendere il ragionamento all’intera esperienza della privatizzazione delle banche italiane, per arrivare alla disarmante verità: il privato ha fallito e il pubblico ne deve pagare il prezzo. In estrema sintesi le banche pubbliche, trasformate in spa, privatizzate e quotate a partire dai primi anni ’90, sono diventate aziende come le altre, oggetto di contesa e speculazione, spremute per profitti di breve periodo, allontanate dalla originaria missione del fare credito e finanziare l’economia reale, infine abbandonate al loro triste destino.
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Yours for the Revolution
di Valerio Evangelisti
La Nova Delphi Libri ha appena pubblicato, in una nuova traduzione di Andrea Aureli, Il tallone di ferro di Jack London (pp. 368, € 14,00). Questa è l'introduzione di Valerio Evangelisti al volume
Ai partigiani italiani, durante la Resistenza, i comandi suggerivano una serie di letture da fare nei momenti di pausa, tra un’azione e l’altra. Tra i libri consigliati non mancava mai Il tallone di ferro di Jack London, spesso associato a La madre di Gorki. Una sorta di scuola quadri letteraria.
E’ solo uno dei segni della straordinaria fortuna del romanzo, fin dal momento della sua pubblicazione, nel 1907. Nel giro di pochi anni era già tradotto in una quantità di lingue, e conosceva ristampe che si sarebbero moltiplicate fino ai giorni nostri. Eppure non è l’opera migliore di London: ha parti fortemente didascaliche, le psicologie sono appena abbozzate, a eccessi di dialoghi dal ritmo di un catechismo incalzante succedono capitoli di frettolosa narrazione dei fatti.
Cosa fa, dunque, de Il tallone di ferro un libro formidabile, capace di passare da generazione a generazione? London lo scrisse, secondo la testimonianza della figlia Joan, dopo la sconfitta della rivoluzione russa del 1905, e perché allarmato dal moderatismo crescente che stava impregnando il Partito socialista americano, cui apparteneva. Intendeva divulgare in forme accessibili i principi fondamentali del marxismo, e specialmente della sua variante rivoluzionaria. Quella a cui aveva aderito nel 1896, quando si era iscritto all’intransigente Socialist Labor Party di Daniel De Leon.
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Hobbes e il riconoscimento. Antropologia, morale, politica
di Francesco Toto
1. La specificità dell’umano
Nella riflessione hobbesiana la frontiera tra l’animale e l’umano è un confine poroso, che congiunge e separa. Da un lato, Hobbes prende le distanze da una visione dell’umano come una regione della natura separata dalle altre, e include tra i tratti che l’uomo condivide con gli altri animali non solo la sensazione indotta dall’azione dei corpi esterni, l’immaginazione o memoria derivante dall’attenuarsi della sensazione, il «discorso mentale» costituito dalla successione più o meno regolata delle immagini, l’esperienza accumulata attraverso la stratificazione e la connessione delle memorie, ma anche la previsione del futuro a partire dall’esperienza che chiamiamo prudenza, l’immaginazione occasionata da parole o altri segni volontari che chiamiamo intelligenza, e persino quell’avvicendamento di desideri e avversioni che termina nella volontà e determina l’azione, ricevendo perciò il nome di deliberazione[1]. Dall’altro lato, il filosofo non manca di mettere in evidenza differenze relative tanto alla sfera della natura quanto a quella dell’artificio. Sul piano naturale la diversità principale è rappresentata da un particolare tipo di discorso mentale, che parte dall’immaginazione di una cosa per ricercare «tutti i possibili effetti che essa è in grado di produrre», e che a differenza di quello che muove da un effetto dato o desiderato in direzione delle cause o dei mezzi in grado di produrlo non è «comune agli uomini e alle bestie»[2]. In primo luogo, questo percorso mentale che va dall’immaginazione delle cose a quella delle loro conseguenze possibili si collega alla «singolare passione» della curiosità, o «desiderio di conoscere il perché e il come» che distingue «l’uomo […] dagli altri animali»[3].
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Tempesta perfetta
Note sulle cause e sulle possibili soluzioni
di Collettivo Comunista Genova City Strike
Il 2017 è l'anno del centenario della Rivoluzione di Ottobre. Un anniversario che le forze comuniste del mondo si apprestano a ricordare. Ma le commemorazioni si svolgeranno in un mondo che è attraversato da una profonda crisi economica di cui ancora non si intravedono le soluzioni e le possibili vie di uscita.
Un mondo in cui le forme di resistenza allo sviluppo e all'incremento dello sfruttamento dei lavoratori sono molteplici ma faticano a diventare teoria di un diverso modo di produrre e vivere. Proprio 10 anni fa nel 2007 negli USA si cominciano a vedere gli effetti di quella che scoppierà ufficialmente nel 2008 con il fallimento della banca d'affari Lehman Brothers e che sarà chiamata da tutti la crisi dei titoli subprime. Quel fallimento venne affrontato negli USA attraverso un salvataggio gestito dallo Stato ma la crisi si propagò in tempi rapidissimi in tutto il continente colpendo varie zone del mondo e interessando (in Europa) soprattutto i paesi più deboli (Irlanda, Spagna, Portogallo, Grecia e Italia).
La crisi è stata definita come una crisi finanziaria basandosi sul fatto che era cominciata come tale riguardando l'esplosione della bolla finanziaria di alcune banche importantissime a livello globale. In questi anni molti autori ne hanno studiato le cause e hanno partorito ricette per il suo superamento. Fatto sta che a distanza di quasi un decennio la crisi continua a persistere nonostante le ricette che hanno tentato di arginarla e di sconfiggerla.
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La riconnessione dei disconnessi
Dal moderno al complesso
di Pierluigi Fagan
Introduzione
Non tutte le riflessioni pubblicate su questo “diario di ricerca” hanno lo stesso peso. Questa che segue, ad esempio, è stata tormentata e riscritta e corretta più volte. Ho preferito pubblicarla in un’unica soluzione anche se è un po’ più lunga del solito. Concettualizza vari enti del pensiero quali la civiltà, la società, i modi di produzione, le forme politiche e le immagini di mondo in un unico ente detto “modo di stare al mondo”. Questo modo s’intende essere un sistema adattivo che ha una sua origine ed una parabola che lo porta a dover lasciare il posto ad una sua successiva versione. Come ogni sistema, ha un ordinatore, un concetto primo che ordina (dà ordine dando disposizioni) e del modo di stare la mondo moderno, s’individua questo ordinatore nel principio di disconnessione. Se il moderno che va a morire si è centrato sulla disconnessione, il complesso che va a venire dovrebbe basarsi sulla ri-connessione? Cominciando da dove?
* * * *
L’immagine è quella della metropolitana o della sala d’aspetto, individui con capo chino su qualche device che li collega al “loro” mondo che non è mai nel qui ed ora ma in un altrove. Non ci si connette col proprio intorno che è un aggregato di disconnessi, ci si connette con altri o altro. Non ci si connette nelle quattro dimensioni ma solo attraverso quella dello scambio di informazione e non lo si fa secondo i complessi codici dell’interrelazione umana ma attraverso quelli delle strettoie codificate della mediazione elettronica.
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Parlamentarismo, stato di eccezione permanente e ammissibilità del quesito sull'art. 18
di Quarantotto
Mentre sul fronte delle politiche economico-fiscali (e non a caso, visto che dovremo presto pensare alle coperture e ai "piani di rientro") domina la "questione bancaria", cioè l'insolvenza posta a carico dei risparmiatori-contribuenti in (più) momenti, sostanzialmente inscindibili (e lo vedremo nel 2017-2018), l'attività parlamentare e "partitica" appare in una sorta di stasi che ricorda molto la quiete prima della tempesta.
Formalmente, l'attività politica sembra in stallo perché vige la parola d'ordine che occorre aspettare un paio di pronunciamenti della Corte costituzionale.
Uno è quello, atteso per il 24 gennaio, relativo alla "costituzionalità" della legge elettorale, c.d. Italicum.
L'altro, ancor prima (l'11 gennaio), e ancor più rilevante in termini di valori costituzionalì, - in un Repubblica fondata sul lavoro (art.1) obbligata ad attivarsi per rendere "effettivo" il diritto relativo, con politiche economiche di pieno impiego (artt.3 e 4, comma 2, Cost. in relazione all'intera Costituzione "economica")-, è quello sull'ammissibiltà dei quesiti referendari sul jobs act.
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Ritorno al futuro: le origini del capitalismo
di Benjamin Bürbaumer
Da una quarantina d'anni, il dibattito marxista sulle origini del capitalismo sembra oscillare fra due posizioni antagoniste. Da una parte, le elaborazioni delle teorie del sistema-mondo (Wallerstein, Arrighi, Gunder Frank), dall'altra, quelle del marxismo politico (Brenner, Meiksins Wood, Teschke). A fronte di questa eccessiva polarizzazione del dibattito sull'emergere del capitalismo, Benjamin Bürbaumer mette in evidenza il contributo della teoria dello sviluppo ineguale e combinato (SIC). Lungi dall'essere solamente un'alternativa teorica alle due prime correnti, l'approccio svolto dal SIC apre un vasto cantiere teorico e politico, che mette in gioco la pluralità delle assi di oppressione (genere, razza, imperialismo, ecologia) nella genesi della modernità. Rifuggendo da ogni eurocentrismo e da ogni terzomondismo, lo sviluppo ineguale si rivela un concetto centrale per pensare la dialettica spaziale attraverso la storia, e per riorientare la riflessione strategica anticapitalista
Il dibattito in seno al marxismo sulle origini del capitalismo rimanda in larga misura ad una valutazione dell'evoluzione del pensiero di Marx. Tuttavia, questo dibattito è ugualmente determinato dal contesto concreto in cui ha luogo. Ne L'Ideologia Tedesca e nel Manifesto del Partito Comunista, il giovane Marx ha presupposto le origini del capitalismo più che spiegarle [*1]. Il progresso tecnologico vi gioca un ruolo centrale in quanto «il regime feudale della proprietà» viene presentato come carico di «catene» che ostacolano lo sviluppo delle forze produttive, e dichiara che andrà in pezzi per questa ragione [*2]. Al contrario, autori come Claudio Katz [*3] ed Ellen Meiksins Wood sottolineano come il Marx tardivo dei Grundrisse e del Capitale ponga l'accento sulle classi e sulle loro lotte, cose che è particolarmente ben illustrata dalla sezione sull'accumulazione nel I volume del Capitale. Questo testo mostra che la questione della proprietà dei mezzi di produzione si trova al cuore del capitalismo. Ciò non si riduce ad una semplice espansione quantitativa del commercio in quanto «al fondo del sistema capitalista, c'è la separazione radicale del produttore dai mezzi di produzione» [*4].
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Per comprendere la natura dello Stato Sociale e la sua crisi
di Giovanni Mazzetti
Quaderno Nr. 1/2017
Formazione online - Periodico di formazione on line a cura del centro studi e iniziative per la riduzione del tempo individuale di lavoro e per la redistribuzione del lavoro sociale complessivo
Abbiamo più volte sottolineato, nei nostri precedenti quaderni, che stiamo attraversando una situazione nella quale prevale uno stato di confusione sociale generale. La maggior parte di noi non sa infatti che cosa sta succedendo, e anche quando ripete continuamente che “siamo in crisi”, ne ha un’idea vaga, come quelle dei nostri lontani antenati sui terremoti e sulle epidemie. Né possiamo far affidamento sui responsabili della cosa pubblica che, spesso in coro con i loro stessi oppositori, si ostinano a ripetere vecchi luoghi comuni validi in passato . In molti rinunciano così a cercare un senso della situazione, o si appoggiano sull’ipotesi opportunistica che tutto dipenda da comportamenti devianti di individui malvagi, che, cercando il loro tornaconto, causano un danno agli altri.
Tuttavia questa interpretazione costituisce l’ingenua reazione di chi non sa nulla di come intervengono normalmente le trasformazioni sociali. Coltivando l’erronea convinzione che gli esseri umani sovrastino strutturalmente la propria realtà, credono che normalmente sussista il potere di determinarne l’evoluzione, conformandola alla propria volontà. E se la loro azione non produce gli effetti sperati, ciò può accadere solo perché la volontà di qualcun altro imprime alle cose quella tendenza di cui si soffre. Ora, la volontà è senz’altro una condizione del cambiamento.
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Ministero della Verità!
Il lascito di Obama e dei suoi
di Fulvio Grimaldi
“I due massimi ostacoli alla democrazia negli Usa sono, primo, la diffusa illusione tra i poveri di vivere in una democrazia e, secondo, il cronico terrore dei ricchi che la si possa realizzare”. (Edward Dowling)
“La verità deve essere ripetuta costantemente , poiché il Falso viene predicato senza posa. E non da pochi, ma da moltitudini. Nella stampa e nelle enciclopedie, nelle scuole e università, il Falso domina e si sente felice e a suo agio nella consapevolezza di avere la maggioranza dalla sua”. (Wolfgang von Goethe)
“Essere ignoranti della propria ignoranza è la malattia dell’ignorante”. (Amos Bronson Alcott)
“Demagogo è uno che predica dottrine che sa
essere false a persone che sa essere idioti”. (H.L. Mencken)
Occhio a chi date ragione
Al superbarbafinta Minniti, passato per stretta logica da fiduciario dei servizi segreti Usa al ministero degli Interni, è bastato che un ragazzo tunisino, pensando alla suocera o al portiere che gli ha parato un rigore, scrivesse “non so se fare il bravo o fare una strage” e avesse nel telefonino un pensiero negativo su Netaniahu, per definirlo terrorista dell’Isis, acchiapparlo, sbatterlo su un aereo e rimandarlo tra i Fratelli Musulmani che governano il suo paese.
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Il suicidio delle sinistre
di Carlo Galli
La demolizione dei templi del neoliberismo, sconsacrati e delegittimati ma ancora torreggianti sulle nostre società e sulle nostre politiche, comincia dal pensiero critico, capace di risvegliare il mondo «dal sogno che esso sogna su se stesso». In questo caso, dall’economia eterodossa, declinata in chiave teorica e storica da Sergio Cesaratto – nelle sue Sei lezioni di economia. Conoscenza necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne), Reggio Emilia, Imprimatur, 2016 –, esponente di una posizione non keynesiana né pikettiana né «benicomunista», ma sraffiana, e quindi in ultima analisi compatibile con il marxismo. Nella sua opera di decostruzione delle logiche mainstream vengono travolti i fondamenti del neo-marginalismo dominante: ovvero, che il concetto chiave dell’economia è la curva di domanda di un bene; che esistono un tasso d’interesse naturale, un tasso di disoccupazione naturale, un salario naturale, e che devono essere lasciati affermarsi; che c’è equilibrio e armonia fra capitale e lavoro; che c’è relazione inversa fra salari e occupazione (e quindi che la piena occupazione esige moderazione salariale); che il sistema economico raggiunge da solo l’equilibrio della piena occupazione se non ci sono ostacoli alla flessibilità del mercato del lavoro; che il risparmio viene prima degli investimenti; che la moneta determina i prezzi; che il nemico da battere è l’inflazione e che a tal fine si devono implementare politiche deflattive e di austerità, e intanto si deve togliere il controllo della moneta alla politica e conferirlo a una banca indipendente che stabilizza il tasso d’inflazione.
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Contro la disuguaglianza, ripensando il futuro
Luciano Gallino, la responsabilità e la speranza
di Lelio Demichelis
Un onore, come si dice. Parlare di Luciano Gallino, a quasi un anno dalla sua scomparsa (8 novembre 2015) è un onore per me che l’ho conosciuto, anche se tardi, il mio primo incontro con lui è avvenuto circa vent’anni fa. Non sono quindi un suo allievo nel senso classico e universitario del termine, ma sicuramente lo sono stato – e tale mi considero - per le molte cose che ho imparato da lui e che Gallino mi ha insegnato; lui che, quindi, è stato per me sicuramente un maestro, e uso deliberatamente questo termine ormai diventato fuori moda. Maestro nel senso di colui che parla, dialoga, suggerisce, propone, critica anche e corregge, a sua volta apprezzando e incoraggiando le strade, magari in parte diverse, intraprese poi dall’allievo. Maestro nel senso di avere indicato un percorso divenuto poi in gran parte comune (pur con alcune differenze), per avere condiviso riflessioni, analisi e interpretazioni della realtà. Per me, Luciano Gallino è stato questo – come maestri per me sono stati, in modi e con intensità e con forme diverse, Michel Foucault per quanto riguarda le forme del potere moderno, Günther Anders per le sue riflessioni sulla tecnica, e la Scuola di Francoforte per l’analisi dell’industria culturale, ancora della tecnica come apparato e delle nuove forme di alienazione e di omologazione.
Ma c’è anche altro, che mi lega a Gallino: la sua formazione sociologica era iniziata alla Olivetti, come tutti saprete, all’Ufficio studi e relazioni sociali.
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Debito pubblico
di Sergio Cimino
1. Il segno distintivo del dominio
— Il debito pubblico mondiale è arrivato a 60mila miliardi di dollari. Una formidabile arma politica nelle mani della classe dominante
Secondo il dato aggiornato in tempo reale riportato nel “The global debt clock” presente sul sito dell’Economist [1], nel momento in cui viene scritto questo articolo, il debito pubblico mondiale ammonta a 60.295 miliardi di dollari americani, all’incirca 56.000 miliardi di euro.
L’aumento costante del contatore riesce meglio di qualsiasi parola o confronto numerico, a rendere le dimensioni del fenomeno e la percezione della sua incontrollabilità. Quasi un’entità sovrumana, una divinità non soggetta alle condizioni che regolano l’esistenza di noi mortali.
Tic, tac, tic, tac…e nel frattempo questo Molok ha ingrandito il suo corpo di altri 5 milioni di dollari.
Come per tutte le divinità, anche il debito pubblico ha una sua storia, che in gran parte risente di quello che pensano, sono e fanno i suoi profeti. Molta nebulosità viene sparsa nei suoi dintorni, da chi ha tutto l’interesse a farne materia da iniziati.
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I recenti attentati terroristici in Medio Oriente
Cambiano alleanze e rapporti di forza
di Domenico Moro
Gli attentati terroristici di Capodanno a Istanbul, dove sono state uccise trentanove persone, e del 19 dicembre a Ankara, dove è stato ucciso l’ambasciatore russo Andrey Karlov, e a Berlino, dove sono state uccise dodici persone, per quanto possano essere diversi, hanno qualcosa che li lega. Il collegamento è rappresentato da quanto è accaduto in Siria. Qui, la caduta di Aleppo non ha rappresentato soltanto la caduta della principale città siriana nelle mani del fronte jihadista che combatte il presidente siriano Assad.
Più in generale, rappresenta la sconfitta delle forze jihadiste in Siria, che ora si vendicano nei confronti di chi li aveva appoggiati, cercando di utilizzarli ai propri fini, per poi abbandonarli. Non si tratta di una novità assoluta. L’ex agente dei servizi segreti militari italiani, Nino Arconte, ha rivelato, come ho riportato nel mio libro “La terza guerra mondiale e il fondamentalismo islamico”, che alla radice dell’odio contro gli Usa e l’Europa fu il “tradimento” dei governi occidentali, che avevano utilizzato i fondamentalisti islamici contro i governi laici del Medio-Oriente negli anni ’80.
In realtà, la caduta di Aleppo non segna soltanto la sconfitta strategica del fronte jihadista. La guerra civile si è, sin dall’inizio, trasformata in una miniguerra mondiale. Essa è stata il terreno di scontro tra potenze maggiori, cioè tra Usa e Francia, da una parte, e Russia e, sebbene in modo indiretto, Cina, dall’altra.
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Se questo è un ministro dell'economia...
di Leonardo Mazzei
L'invocazione del direttore del Sole 24 Ore al fantasmatico ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan
Che nei piani alti del potere economico vi fosse una certa maretta si sapeva. Adesso però le acque si fanno agitate, e dalla maretta sembra che si stia per passare ai marosi.
Il 30 dicembre scorso il direttore del quotidiano di Confindustria, Roberto Napoletano, ha deciso di mandare di traverso il cenone di San Silvestro di Pier Carlo Padoan. Dopo averlo ospitato, due giorni prima, nell'accogliente sede del giornale per un'intervista di ben 3 pagine, Napoletano ha deciso di dirla tutta: se veramente esistete (come governo), se davvero esisti (come ministro dell'Economia) cosa aspetti (e/o aspettate) a darcene prova?
Prima di dedicarci al merito del grido d'allarme di Napoletano, facciamo un passo indietro per dare uno sguardo all'intervista di Padoan. Tre pagine abbiamo detto, ma tre pagine di assoluta banalità. Gli altri media che se ne sono occupati hanno messo in rilievo il riferimento del ministro all'«opacità» della decisione della Bce su Mps. Sai che coraggio!
Il bello, poi, è che questa denuncia di opacità è preceduta da mille rassicurazioni sul fatto che il governo italiano nulla farà per reagire all'affronto subito. All'intervistatore che gli chiede se vi sia intenzione di contestare formalmente la richiesta di ricapitalizzazione giunta da Francoforte, così inizia la risposta di Padoan:
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Il ritorno della fabbrica
Appunti su territorio, architettura, operai e capitale
Pier Vittorio Aureli
La storia dei modi diversi in cui
viene estorto all’operaio il lavoro
produttivo, la storia cioè delle varie
forme di produzione del plusvalore,
è la storia della società capitalistica
dal punto di vista operaio
Mario Tronti, Operai e capitale
Nella storia del Movimento Operaio, la fabbrica ha avuto un ruolo fondamentale e per certi versi epico nel coagulare sia lo sfruttamento degli operai, sia la lotta di questi ultimi contro la loro condizione. Per questo l’apparente scomparsa della fabbrica quale punto avanzato del capitalismo nel mondo così detto sviluppato è stata spesso interpretata come una vera e propria sparizione della classe operaia quale blocco importante della società. Se questa interpretazione segue la realtà della tendenza industriale degli ultimi quaranta anni, ovvero il passaggio dall’egemonia del lavoro materiale a quella del lavoro immateriale, ha anche dato luogo ad una visione della fabbrica come spazio chiuso in se stesso, come luogo specifico della produzione di merci materiali.
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Buoni propositi per l’anno che viene
di Mimmo Porcaro
Il 2016 si chiude ponendoci un compito urgentissimo per il 2017.
La sonante vittoria dei No al referendum di dicembre ha finalmente trasformato la palude della politica italiana (che stava ristagnando grazie alla droga della Bce e agli artifici verbali dell’ex premier) in un rapido fiume che corre veloce verso una cascata: le prossime, inevitabili elezioni. E più tardi queste avverranno, più alto sarà il balzo della cascata, più rovinoso l’effetto sul sistema politico italiano.
Faranno certamente di tutto per evitare il patatrac: trucchi elettorali, corruzione di gruppi dirigenti, forse altro ancora. Ma ben difficilmente potranno scongiurare l’affermazione dell’unico attuale antagonista degli equilibri di potere: il M5S. E qui sorge il problema. Perché una vittoria del M5S dovrebbe essere senz’altro essere salutata, allo stato attuale, come un’affermazione ulteriore del fronte del No al PD ed al neoliberismo. Ma significherebbe anche, allo stato attuale, l’apertura di una obiettiva e salutare crisi con l’Unione europea senza che però vi siano le idee sufficientemente chiare, le alleanze sociali sufficientemente salde, le convinzioni politiche sufficientemente forti per gestirne positivamente le conseguenze.
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Ricostruire il programma socialista, rompere la gabbia dell’Euro
di Fabio Nobile, Domenico Moro
Premessa. Il presente elaborato non si propone di contenere tutte le variegate problematiche della società capitalistica contemporanea. Sceglie di focalizzarsi sugli elementi, a nostro parere, prioritari per ricostruire, qui e ora, le basi di ripartenza del movimento comunista italiano. Il nostro auspicio è che questo approccio aiuti a raggiungere, in un contesto molto difficile e di grave arretramento del partito e dell’insieme del movimento comunista in Italia, la necessaria chiarezza sulle scelte da fare, facilitando la lettura e favorendo una ampia discussione.
- I comunisti tra passato e presente
L’obiettivo di questo congresso del Partito della Rifondazione comunista è la definizione di una prospettiva socialista valida per il XXI secolo. A questo scopo è necessario definire un progetto adeguato alla fase in corso, che richiede una analisi della nuova fase storica del capitalismo e un chiarimento sul passato del movimento comunista italiano e internazionale. Il movimento comunista nasce dalla rottura con la socialdemocrazia sulla guerra e sull’imperialismo e si consolida con la Rivoluzione d’Ottobre. La Rivoluzione d’Ottobre, di cui quest’anno ricorre il centenario, rappresenta il primo tentativo di successo, nella storia umana, di rovesciare la classe dominante per fondare il potere politico sulle classi subalterne.
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La scomparsa del marxismo nella didattica e nella ricerca scientifica in economia politica in Italia
di Guglielmo Forges Davanzati
1. Introduzione
Pubblicato su "Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane”, E-ISSN 2531-9582, n° 1-2/2016, dal titolo "Questioni e metodo del Materialismo Storico" a cura di S.G. Azzarà, pp. 92-114. Link all'articolo: http://ojs.uniurb.it/index.php/materialismostorico/article/view/604
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È un dato di fatto che, nelle sue diverse declinazioni, il marxismo è stato espunto dai programmi di insegnamento dei corsi di Economia Politica in Italia, ed è del tutto marginale nella ricerca scientifica. È anche un dato di fatto che il marxismo italiano, nel corso del Novecento, ha fornito contributi di massima rilevanza sul piano internazionale e che quella tradizione può considerarsi, allo stato dei fatti, sostanzialmente terminata. Per le motivazioni che verranno presentate a seguire, si è imposto un nuovo paradigma dominante che, per pura semplicità espositiva, possiamo definire neoliberista (si vedrà infra che tale definizione è alquanto riduttiva, sebbene diffusamente utilizzata).
In prima approssimazione, potrebbe risultare sorprendente che queste teorie risultino dominanti, a ragione del loro palese fallimento; un fallimento che attiene sia alla diagnosi della crisi e alle fallaci prescrizioni di politica economica che ne derivano, sia alla palese incapacità previsionale (cfr. Sylos Labini, 2016). Tuttavia, una ricerca di Luca De Benedictis e Michele Di Maio, condotta somministrando questionari a economisti accademici italiani, rileva che solo il 3% degli intervistati si dichiara marxista, a fronte del circa 50% di economisti che si dichiara “eclettico” e “neoclassico” e del 20% che non si dichiara affatto, considerandosi verosimilmente un economista nell’accezione di Maffeo Pantaleoni (per il quale esistono due scuole in Economia: chi la conosce e chi non la conosce)1.
Questo saggio si propone di individuare ragionevoli motivazioni che possono essere poste a fondamento di questo “salto paradigmatico”, con due precisazioni preliminari.
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Da Lctm a Mps, un buco nero sta inghiottendo i servizi sociali in Italia
nique la police
L'Italia è un paese che da più di 20 anni si fonda sulla scommessa sui fondi speculativi. Con pessimi risultati che si ripercuotono su welfare, diritti e servizi sociali
Non c’è bisogno di fare grandi astrazioni. Basta guardarsi attorno. L’analisi specialistica sanitaria che tarda mesi, le prestazioni pensionistiche congelate, i posti letto in ospedale scomparsi, la spesa e la qualità del servizio per educazione e istruzione compresse. Le infrastrutture decadenti, gli investimenti bloccati. Per non parlare dell’assenza di un reddito di cittadinanza di fronte alla disoccupazione tecnologica (tema che, comunque, ancora oggi viene considerato una favola) E infine: i comuni senza reali strumenti di indirizzo economico del territorio.
Stiamo parlando di un percorso cominciato negli anni ’90, con il crollo della lira del 1992 e le politiche dei tagli del governo Amato. Percorso che, oggi, tocca livelli di asfissia sociale e che è destinato, se le cose rimangono queste, a peggiorare. Ci sono molte cause, e molte disclipline critiche con le quali avvicinarsi al problema. In una dimensione di futuro incerto dove il calo degli investimenti, nell’ultimo quinquennio, è palese. E questo specie quando i dati parlano chiaro: l’Italia, strutturalmente spende meno della media degli altri paesi Ue, per spesa sociale. In un contesto dove, nell’ultimo decennio, la percentuale di incidenza della spesa sociale rispetto al Pil è aumentata ma solo perchè il prodotto interno lordo è diminuito a causa della crisi. Non manca certo, come sempre in questi casi, il capro espiatorio: la spesa pensionistica. Indicata come troppo alta, iniqua, improduttiva. Andiamo invece a vedere, per spiegare la contrazione della spesa sociale e degli investimenti di questo paese, due elementi di un fenomeno dai contorni oscuri, un vero buco nero.
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La grande incertezza. Una lettura del dopo referendum
Alfio Mastropaolo
Lo scenario politico del dopo referendum ha mostrato un elettorato sempre più instabile e arrabbiato. Tra la scommessa persa del Pd di Renzi e l’avanzata dei populismi di destra, spicca l’assenza della sinistra
1. Le molte ragioni del no
Le ragioni del successo del no al referendum dello scorso 4 dicembre sono tante. E tanti i suoi significati. La matassa è ardua da dipanare, tenuto conto che coloro che hanno respinto la riforma Renzi/Boschi non avevano tutti le stesse motivazioni. In più, è presumibile che in molti più motivazioni si intreccino.
C’è chi ha votato no perché la riforma era sgrammaticata. Che fosse sgrammaticata l’hanno ampiamente riconosciuto pure parecchi tra quanti hanno dichiarato che avrebbero votato sì. La sua applicazione avrebbe creato parecchi problemi. Altri hanno votato no perché la riforma squassava il vecchio meccanismo di check and balances senza sostituirlo in maniera accettabile. In mano a forze politiche democraticamente inaffidabili, e il cielo sa se in giro ce ne sono, rischiava (specie intrecciata all’Italicum) di diventare un’arma micidiale. Per altri ancora la riforma non solo stravolgeva la lettera della Costituzione, ma ne rinnegava lo spirito. Ovvero sconfessava il compromesso tra forze politiche d’ispirazione cattolica, socialista e liberale stipulato a dicembre del 1947. Tra l’altro, l’iter di approvazione aveva calpestato una fondamentale regola non scritta dei grandi processi costituenti: la ricerca di un accordo il più ampio possibile. Altri ancora hanno votato no in dissenso con specifiche previsioni della riforma.
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Qualcosa ancora succede!
A proposito del sogno della vita eterna del capitalismo attraverso tutte le crisi
di Herbert Böttcher*
Lettera aperta alle persone interessate ad EXIT! nel passaggio al nuovo anno 2017
Anche il 2016 è stato segnato da tutte le catastrofi riguardo la vita e la morte dei rifugiati. È venuto così apertamente alla luce del sole quello che tanto piace ai mediatori ed alle mediatrici professionali, da chiunque lavori per i media fino ai funzionari della pubblica istruzione: storie personali e destini di vita, che si suppone siano indispensabili per poter mediare i contesti più complessi. Sarebbe stato naturale sommare uno più uno, e farsi venire il sospetto che, con i rifugiati, gli europei si sono trovati immediatamente di fronte quella situazione di crisi globale da cui si erano isolati.
Tuttavia, ancora una volta è stata riscoperta la "lotta contro le cause della fuga". Invece di "rimestare" nei sintomi - questo ci chiedono le voci pacifiche della politica e dei movimenti sociali - bisogna combattere le cause della fuga. Ma quali sono le ragioni per fuggire? Nel numero tematico della rivista "iz3w" [ https://www.iz3w.org/ ] viene discussa tutta una miscellanea di ragioni per la fuga: Il mercato mondiale produce povertà. La politica tedesca di esportazioni di armi sta obbligando le persone a fuggire. Le alterazioni climatiche distruggono i mezzi di vita di molte persone. E la politica dello sviluppo - al contrario di quanto dichiara il suo slogan «combattere le cause della fuga, non i rifugiati!» - con i progetti di infrastrutture, con la politica di liberalizzazione del mercato e con la cooperazione con le élite cleptocratiche, spinge le persone a fuggire.
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