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Votare contro il cattivo di turno
di Nicola Melloni
Le elezioni presidenziali Usa sono l'ultimo esempio della tendenza alle urne degli ultimi anni: scegliere il meno peggio. Ma siamo sicuri che serva davvero a sventare il pericolo delle destre?
Con le elezioni statunitensi che si avvicinano, torna centrale il dibattito sul cosiddetto voto per il meno peggio – che prevede di votare Kamala Harris per cercare di fermare il pericolo rappresentato da Donald Trump. Nulla di nuovo, in Italia siamo abituati almeno dal 1994 e dal voto «contro» Berlusconi e raramente «a favore» dell’altra coalizione – anche se in verità già Indro Montanelli invitava a votare la Democrazia cristiana «turandosi il naso» per fermare un altro pericolo, quello comunista.
La logica del meno peggio è particolarmente importante in periodi di polarizzazione e grande tensione politica, quando chi abbiamo davanti non è solo un avversario ma un nemico che mette a rischio l’esistenza stessa della democrazia. Ecco allora che davanti a un rischio del genere, l’unica cosa da fare è un «fronte comune», il cui collante è la difesa della libertà, e la lotta contro fascismo, razzismo, intolleranza. Un compito nobile, il cui costo è però, spesso, la rinuncia a un programma politico coerente o che parli ai bisogni concreti delle persone. La situazione è poi esasperata da sistemi politici bi-partitici o bi-polari, dove la vittoria dell’uno è la sconfitta dell’altro.
Se da una parte, dunque, la sconfitta dell’altro è la determinante principale del voto, dall’altra la politica attuale sembra esistere solo intorno alla vittoria elettorale, che par quasi esser diventato l’unico mezzo per far politica, spesso dimenticando il ruolo chiave che le opposizioni dovrebbero giocare nella polis democratica. Ci viene spesso ripetuto che solo al governo si possono cambiare le cose, anche se «cosa» cambiare rimane spesso molto vago. Ed è la sinistra che viene costantemente chiamata a baciare il rospo, per ovvi motivi.
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Comunisti/e: forma-partito, Il rapporto tra democrazia interna e progetto rivoluzionario
di Fosco Giannini*
Nell’affrontare la questione della forma-partito comunista, il primo nodo da sciogliere è proprio quello legato alla “questione del partito”. Assistiamo ormai da decenni, in Italia ma non solo, a un attacco forsennato alla forma-partito in quanto tale. Tant’è che, sulla scorta di questo attacco proveniente dai media mainstream e dunque dalla cultura dominante borghese, non poche formazioni politiche italiane apparse negli ultimi decenni hanno preventivamente rinunciato al termine partito (dalla Lega a Potere al Popolo, passando per il Movimento 5 Stelle) nella speranza che, sbarazzatisi di questo termine reso “inadeguato e pesante” dall’aggressività ideologica del capitale, tutto poteva essere più facile e più vicina la possibilità di stabilire legami più forti con le masse, con l’elettorato, con il popolo, attraverso una visione delle cose che scadeva, appunto, in un populismo più o meno consapevole proprio a partire dalla scelta di rimuovere la parola “partito”, prima tappa, spesso, di uno scivolamento politico verso inclinazioni populiste che tanto hanno caratterizzato la Lega quanto il M5S di Beppe Grillo. Cancellare il termine “partito” ha voluto dire aderire innanzitutto al quel senso comune di massa, per tanta parte costruito ad arte dalla classe dominante attraverso i suoi portavoce mediatici, che vedeva e tuttora vede (certo, anche per colpa delle varie formazioni partitiche e della loro quasi totale genuflessione agli interessi del capitale) nei partiti la sede primaria della corruzione e dell’“occupazione dello Stato”, in una visione, ecco perché populista, svuotata da ogni coscienza di classe e incline ad addossare tutta la colpa dello sfruttamento oggettivo e sempre più pesante dei lavoratori non più alle contraddizioni di classe e all’attacco di classe padronale, ma “al sistema dei partiti”, alla “partitocrazia” e, dunque, alla stessa forma-partito.
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Perché i Brics vogliono una moneta di riserva internazionale
di Claudio Conti - Guido Salerno Aletta
L’avanzata e soprattutto l’allargamento dei paesi Brics sono un problema ormai molto consistente per la propaganda che deve vendere la storica “superiorità occidentale”. Soprattutto sul piano economico.
L’ingresso, un anno fa, di altri quattro paesi (Egitto, Etiopia, Iran, Emirati Arabi Uniti), ha portato quell’area a rappresentare il 35% del Pil e quasi la metà della popolazione mondiali, mentre il G7 (Usa, Giappone, Gran Bretagna, Canada, Italia, Francia e Germania) è sceso ormai al 30% del Pil, con appena un sedicesimo della popolazione. Particolari decisivi: la quota del Pil “occidentale” continua a scendere velocemente e l’età media nei Brics (e nei candidati) è molto bassa, mentre l’area G7 sente il morso del calo demografico, con popolazioni che invecchiano e fisiologicamente escono dalla produzione (nonostante il costante aumento dell’età pensionabile).
Anche il fatto di controllare il 42% della produzione di petrolio chiarisce l’importanza di questo insieme, forte nella produzione e nelle materie prime. Soprattutto tenendo presente che alcuni paesi già oggi sulla porta dell’organizzazione potranno solo aumentare di molto queste caratteristiche: a cominciare da Arabia Saudita, Malesia, Algeria, Venezuela, Indonesia, Cuba.
Detto in estrema sintesi, economie sovradimensionate dalle attività finanziarie, con una popolazione in calo, contro economie “fisiche” che possono contare su una massa di giovani che – una volta migliorate le condizioni per il loro protagonismo in tutti gli ambiti del lavoro (istruzione, formazione, sviluppo industriale, ecc) – non potranno che moltiplicare la distanza che già ora separa i Brics dall’”Occidente collettivo”.
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Il libro Bianco Ue sulle tecnologie duali e le strategie militari e civili del nuovo imperialismo europeo
di Federico Giusti
"È inutile attaccare l’imperialismo o il militarismo nella loro manifestazione politica se non si punta l’ascia alla radice economica dell’albero e se le classi che hanno interesse all’imperialismo non vengono private dei redditi eccedenti che cercano questo sfogo.”
J. A. Hobson, L’imperialismo, Newton & Compton editori, Roma 1996, p. 119.
Partiamo da questa considerazione di Hobson, un liberale che scrisse un saggio critico sul colonialismo inglese a cavallo tra Otto e Novecento, per cercare di fare chiarezza sui processi di militarizzazione in atto nella società e in particolare nel settore educativo e universitario.
E un'altra considerazione va fatta rispetto a una visione euro centrica ancora imperante che ha portato a letture preconfezionate non solo dei processi in atto nell'area Mediorientale ma anche in altre zone del Globo, ad esempio rispetto al saccheggio operato dalle multinazionali in alcuni continenti nella ricerca di materie prime rare indispensabili per la svolta green e i processi di digitalizzazione.
In questo caso la classica visione ecologica dei processi di transizione dimentica di guardare a quanto accade nei paesi del terzo mondo e in via di sviluppo, guarda con sufficienza, o sterile esaltazione, ai Brics, non coglie il nesso tra i processi di militarizzazione, te tecnologie duali e i processi di ristrutturazione del capitalismo occidentale.
Lo sforzo analitico per comprendere la realtà dovrebbe partire invece dall'intreccio tra militarismo e processi riorganizzativi del capitalismo, tra politiche imperialiste e neo coloniali e la svolta green almeno per non cadere negli schematismi del passato.
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Sul filo del rasoio 2/2
di Enrico Tomaselli
Se c’è una cosa fondamentale che va messa subito in chiaro, per quanto riguarda l’attuale fase del conflitto in Medio Oriente, è che – esattamente come per il conflitto in Ucraina – siamo di fronte a un conflitto radicale, in cui la dimensione spaziale (territori) è assolutamente secondaria, mentre a essere prevalente è la dimensione temporale (durata), e soprattutto che si tratta di un conflitto in cui gli obiettivi delle parti sono assolutamente inconciliabili. Questo significa che non esiste una possibilità intermedia tra vittoria e sconfitta, non c’è spazio alcuno per mediazioni e negoziazioni che puntino a stabilire una qualche pace duratura, e che anche solo opzioni tattiche, come dei cessate il fuoco temporanei, sono estremamente difficili. In entrambe i casi, si è superato un punto di non ritorno; e lo si è superato non nel corso delle due guerre, dove pure si registra una continua escalation, ma nel momento stesso in cui hanno preso avvio. Così come l’avvio dell’Operazione Speciale Militare, il 24 febbraio 2022, ha segnato (forse persino senza piena consapevolezza da ambo le parti) il passaggio a una fase di conflittualità irreversibile, altrettanto è stato per l’operazione Al Aqsa Flood, il 7 ottobre 2023.
Nello specifico, quanto si sta verificando nel teatro mediorientale – che al di là delle motivazioni peculiari è comunque parte a pieno titolo del confronto globale in atto – si presenta come uno scontro tra attori con posizioni assolutamente non conciliabili. La posta in gioco, infatti, è un completo ridisegno del quadro geopolitico regionale (che, come visto nella prima parte, si ripercuote ampiamente, anche ben oltre i paesi direttamente coinvolti) e che, a prescindere dagli esiti immediati del conflitto, presenta due sole possibili opzioni: o la distruzione dell’Asse della Resistenza, Iran compreso, con tutto quello che ciò comporterebbe (espulsione della Russia dal Medio Oriente, cancellazione definitiva dei progetti legati alla Nuova Via della Seta, crescenti minacce occidentali in Asia Centrale ed Africa), o viceversa espulsione di qualsiasi influenza regionale da parte americano-occidentale.
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"Prima che sia tardi?" Storico militante per la Palestina di Milano sul perché (questa volta) non ha manifestato
Patrizia Cecconi intervista Vincenzo Barone
La lettera aperta che uno storico amico del popolo palestinese, l’avvocato Vincenzo Barone di Milano, ha reso pubblica ha sollecitato il nostro interesse e per questo abbiamo deciso di intervistarlo. Vincenzo Barone ha partecipato alle 54 manifestazioni che ogni sabato si svolgono a Milano per chiedere la fine del genocidio a Gaza, ma al 55° sabato ha deciso di non partecipare e ne spiega il perché. A chi interessa solo il numero o l’opportuna etichetta che fa “audience” potrà sembrare bizzarro dedicare un’intervista a uno dei tanti militanti che non hanno mai amato mettersi in mostra, ma chi crede che la Storia, proprio quella con la S maiuscola, cresca su un prato composto di milioni di fili d’erba, il pensiero di un singolo militante, un “filo d’erba” di quel prato, ma pensante, impegnato e serio conoscitore, anche dall’interno, della questione palestinese, merita approfondimento e diffusione, così lo intervistiamo contando anche in una possibile riflessione sulle sue ragioni.
* * * *
D. Buongiorno Enzo, abbiamo letto la tua lettera di rifiuto al 55° appello che chiedeva di manifestare per la fine del genocidio a Gaza con la parola d’ordine “fuori l’Italia dalla guerra prima che sia troppo tardi”. Vuoi spiegare a chi ci legge il motivo del tuo rifiuto?
Questa decisione è maturata a seguito di una profonda, dolorosa analisi e mi amareggia, in virtù del rapporto che mi vanto di avere con il movimento pro-Palestina, aver deciso convintamente di disertare l’ultima manifestazione. Per questo ho reso pubblico il mio pensiero, sperando che da ciò consegua un riflessione collettiva. La Palestina è vittima sacrificale (e iniziale) di un processo di sgretolamento e allontanamento della popolazione indigena da parte dell’occupazione israeliana. È un progetto genocida le cui mire non si arresteranno a Gaza e Cisgiordania ma c’è motivo di credere, e ogni analista di geopolitica lo sa, che si allargherà a Libano, Siria, Iraq e una fetta del regno hashemita: un’idea omicida partorita un centinaio di anni fa e riscontrabile nelle documentazioni desecretate circa due decenni or sono.
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Il popolo di Trump
di Giovanna Baer
Chi è il popolo di Trump? 74 milioni di voti alle ultime presidenziali, 12 milioni in più del 2016: se Trump se n’è andato chi l’ha votato è ancora lì e più numeroso. Viaggio nei fattori decisivi per la scelta del voto, tra livello di scolarizzazione ed ‘etnicizzazione‘ della working class
Nonostante la sconfitta elettorale nelle presidenziali del 3 novembre scorso, l’America non ha abbandonato Trump: The Donald ha ottenuto 74 milioni di voti, 12 milioni in più del 2016 – il che fa di lui il candidato più votato nella storia americana, Joe Biden a parte. Il presidente uscente è riuscito a convincere più del 70% dei suoi elettori (1) che la presidenza gli sia stata sottratta con la frode, e le sue truppe hanno lottato con lui in tribunale, sui media e per le strade fino alla fine, quel 6 gennaio in cui fedelissimi sostenitori hanno preso d’assalto Capitol Hill per impedire che il Congresso ne certificasse la sconfitta. Durante la transition molto si è parlato del rifiuto di Trump di concedere la vittoria, della sua dipendenza dai social media, del suo equilibrio mentale sempre più in bilico, della nuova procedura di impeachement a seguito dei fatti del 6 gennaio, dell’America spaccata in due; ma quasi nessuno si è interrogato sul perché una metà degli americani continui a sostenerlo nel bene e nel male, contro ogni previsione e, a volte, anche contro il proprio interesse.
Dai dati finora disponibili (che non comprendono, purtroppo, un’analisi del voto postale, il cui peso, in questi tempi pandemici, è stato tutt’altro che marginale), le presidenziali del 2020 hanno finito per assomigliare molto a quelle del 2016, in palese controtendenza rispetto ai sondaggi pre-elettorali, tutti solidamente pro Biden. Lo conferma Charles H. Stewart, direttore e fondatore del MIT’s Election Data and Science Lab (2): “Ci sono stati lievi cambiamenti, ma […] molto meno drammatici di quanto ci hanno fatto credere i sondaggi. Semmai, alcune tendenze si sono rafforzate, come la prevalenza del voto Dem fra l’elettorato under 30. In tutti gli altri gruppi di età (30-44, 45-64, 65 e oltre) il divario fra i due contendenti è stato abbastanza ridotto”.
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Il nuovo autoritarismo
di Nico Maccentelli
In questi ultimi mesi si è visto di tutto in fatto di violazioni dell’art. 21 sulla libertà d’espressione. Lo sappiamo bene noi a Bologna, quando il sindaco PD, Matteo Lepore, ha esercitato pressioni indebite definibile censura, sulle attività di ben due case di quartiere: Villa Paradiso e la Casa della Pace, con il divieto a proiettare due film definiti “putiniani”. In particolare PD e +Europa sono stati molto attivi in questa attività censoria che va ben oltre la diffamazione, poiché dare del putiniano a destra e a manca a chiunque voglia accedere a fonti informative che non siano quella ufficiali è lo “sport ufficiale” di chi ha sposato la linea guerrafondaia della NATO e della classe dirigente ucraina, che sta usando la popolazione come carne da macello per reggere la pacca fino alle presidenziali USA e oltre, mantenendo un regime banderista, dunque filo-nazista, che ha soppresso i più elememtari diritti politici, religiosi e civili.Ma il grottesco lo ha raggiunto l’on. PD Debora Serracchiani con la sua interrogazione ai ministri Piantedosi e Tajani circa la pubblicazione di manifesti come li vedete nel post della onorevole e che come potete constatare non hanno nulla di filo-putiniano nel loro essere un appello alla pace e a non considerare nemico né un popolo, né una nazione.
Se la Serracchiani avesse un minimo di conoscenza delle cose saprebbe che l’Italia non è in guerra con la Russia. Così come se avesse un minimo di cognizione in fatto di democrazia, si renderebbe conto che in Italia, fino a prova contraria, c’è il diritto di manifestare il proprio pensiero.
Se poi prendiamo i contenuti di detto manifesto: «vogliamo la pace, ripudiamo la guerra» (art. 11 della Costituzione Italiana), non pare proprio che tale manifesto inneggi ad alcuna guerra, al contrario, rivendica uno degli articoli fondamentali della nostra Carta Repubblicana.
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Fine della megamacchina, un libro di Fabian Scheidler
di Sébastien Navarro
Dal n. 7 di “Collegamenti” (autunno 2024) riportiamo questa recensione di Sébastien NAVARRO al libro di Fabian Scheidler, “La fine della megamacchina. Storia di una civiltà sull’orlo del collasso”. Trad: Gaia D’Elia, Castelvecchi, 2024, 396 p., brossura, EAN: 9788868266622
Ricordo di aver sfogliato le pagine con le mani umide, il terrore, l’impossibilità di prendere la vera misura di ciò che stavo leggendo. Quanti anni ho? Forse venti. È tardi per aprirsi alla politica ma vengo da un ambiente in cui mi è stato trasmesso ben poco. La mia “presa di coscienza” avviene quando sono oramai un giovane adulto. Ho ingoiato chilometri di letture, sperando di recuperare un arretrato che non recupererò mai. Ho letto Le vene aperte dell’America Latina di Eduardo Galeano (1940-2015) e non ricordo come questo libro sia finito nelle mie mani. Quello che so è che leggerlo mi toglie il fiato. L’entità dei massacri e dei saccheggi nel continente sudamericano è così vasta da stordirmi. “La storia è un profeta che guarda all’indietro: partendo da ciò che è stato e in opposizione a ciò che è stato, annuncia ciò che accadrà”, scrive Galeano. Pochi paragrafi dopo, l’uruguaiano riassume un lungo continuum storico: “I conquistadores sulle loro caravelle e i tecnocrati in jet, Hernán Cortés e i marines nordamericani, i corregidores del regno e le missioni del Fondo Monetario Internazionale, i mercanti di schiavi con i profitti della General Motors”.
Galeano scriveva queste righe alla fine degli anni Sessanta. Mezzo secolo dopo, il drammaturgo e saggista tedesco Fabian Scheidler scrive nella sua introduzione a La fine della megamacchina: “Il processo di espansione iniziato in Europa cinque secoli fa si è rivelato una storia che, per la maggior parte dell’umanità, è stata immediatamente sinonimo di deportazione, impoverimento, violenza di massa – persino genocidio – e saccheggio di territori. Questa violenza non è finita. Non è una malattia infantile del sistema, ma una sua componente strutturale e duratura. La distruzione delle condizioni di vita di centinaia di milioni di esseri umani a causa del peggioramento del cambiamento climatico ce lo ricorda oggi.
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Pensare il proprio tempo. Emmanuel Todd
di Salvatore Bravo
Per poter ricostruire la possibilità di un progetto comune è necessario decodificare in profondità le cause della decadenza occidentale, e in particolare europea, che sembra inarrestabile. Non si tratta di mettere in atto una giaculatoria dagli esiti infausti, ma di liberarsi dalle sovrastrutture pregiudiziali che impediscono di cogliere la “verità storica” e di pensarla. Emmanuel Todd, bisogna riconoscerlo, ha avuto il coraggio etico nella sua analisi sulla sconfitta dell’Occidente di individuare una delle macro cause all’origine della disintegrazione europea. Ogni civiltà è viva e creante, se ha una identità dialettica. L’identità è il collante valoriale che consente di organizzarsi intorno ad assi assiologici e politici. L’identità non è un monolite, ma è tale se contempla al suo interno opposizioni, resistenze e alternative con le quali ci si raffronta. L’identità dev’essere sottoposta a una continua revisione razionale nello spazio pubblico della politica. L’Occidente ha raso al suolo, e non solo in senso metaforico, ogni identità e ogni modello etico. La liberazione da ogni “da”, è oggi nichilismo realizzato. Solo il mercato con le sue oscillazioni domina; la legge del più forte ha instaurato il più feroce degli individualismi capace di attuare solo i personali interessi economici immediati. Tale logica trasversale a ogni classe sociale rende l’Occidente incapace di comprendere le identità e ciò lo espone al disastro e alla sconfitta. Le azioni militari non valutano la variabile identità, ma si limitano a misurare i soli rapporti di forza quantitativi, per cui la sconfitta è sempre dietro l’angolo. L’identità dona forza plastica e dinamicità; l’Occidente mutilo dell’identità, ne ha un vero terrore-orrore e finisce per calcolare le contrapposizioni secondo paradigmi militari e di forza. Si dilegua, così, la componente motivazionale e spirituale che rende un sistema attivo.
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I fronti ucraini, il summit dei BRICS in Russia e la “strategia dello struzzo”
di Gianandrea Gaiani
Il vertice del BRICS tenutosi a Kazan (Russia) è stato ampiamente trascurato da molti media occidentali. Dopo il primo giorno di lavori non se ne trovava traccia sulle prime pagine di nessun grande quotidiano italiano e lo stesso approccio veniva evidenziato da qualche osservatore sulla stampa britannica. Il giorno successivo solo due quotidiani italiani hanno messo il summit in prima pagina ma solo per evidenziare le critiche alla presenza del segretario generale dell’ONU all’evento.
Un distacco mediatico che coincide in buona parte con quello (di facciata) della politica, forse non casuale, da abbinare alla scomparsa da prime pagine, TG e persino agenzie di stampa occidentali dei resoconti dai fronti ucraini dove si moltiplicano di giorno in giorno le avanzate russe e i centri abitati liberati od occupati (a seconda dei punti di vista) dalle truppe di Mosca.
Una “strategia dello struzzo” (dalla leggenda infondata che lo struzzo infili la testa nella sabbia per non vedere le minacce) che non ci risparmierà dall’impatto con la cruda realtà.
Fenomeno peraltro non nuovo: basti ricordare che la lunghissima battaglia di Bakhmut, a cui sono state dedicate migliaia di pagina per raccontare l’epica resistenza delle truppe di Kiev, è scomparsa dai giornali dopo la sua caduta in mano alle truppe russe del Gruppo Wagner nel maggio 2023 al punto che diversi giornali hanno accuratamente evitato per molti giorni persino di rendere noto il successo russo.
Anche la caduta di Avdiivka è stata ignorata, quella di Ugledar (o Vuhledar) ampiamente sminuita d’importanza: altre roccaforti probabilmente continueranno a cadere nel silenzio mediatico di Europa e Occidente, ovviamene con qualche bella eccezione.
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Critica e autocritica del progresso
di Alessandro Volpe
È concepibile una situazione in cui la categoria di progresso perda il suo significato, e che tuttavia non sia la situazione della regressione universale che oggi si allea col progresso. In tal caso il progresso si trasformerebbe nella resistenza all’incessante pericolo della ricaduta. Il progresso è quest’opporre resistenza al pericolo su ogni gradino, non l’abbandonarsi al flusso globale del processo, non il lasciarsi andare in balìa della scalinata.
(Theodor W. Adorno, da Parole chiave. Modelli critici)
1. Critica e progresso
Negli ultimi anni il tema del progresso è tornato all’attenzione del dibattito filosofico, e non sono pochi oggi i contributi teorici a recuperare un’idea forte di progresso che non si limiti a pensarlo in termini di possibilità, ma anche di realtà fattuale. [1] Alcuni di questi contributi si rifanno all’idea di evoluzione morale o di incremento etico-politico in termini di conquiste istituzionali e giuridiche. Una ripresa teorica che si presenta curiosamente in controtendenza rispetto alla generale percezione di una crisi del progresso e di fiducia che sembra investire le società occidentali. Tuttavia, la rivalutazione di un concetto così esigente deve sapersi accompagnare a una consapevolezza delle sue eventuali distorsioni e dei suoi eventuali nodi problematici. Il dibattito che ha di recente animato la teoria critica intorno all’idea di progresso può senza dubbio aiutare ad accrescere tale consapevolezza.
Il punto di vista che la teoria critica può offrire è quello di un’analisi dei rapporti di potere relativi e spesso impliciti ai concetti e alle formazioni di pensiero; un’impresa teorica non meramente decostruttiva poiché interessata anche a illuminarne contenuti di riflessione ed emancipazione.
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Sul cosiddetto neo-togliattismo giuridico degli anni Settanta
di Michele Prospero*
§1. Il marxismo italiano tra forma e teologia politica
Al culmine dell’età dei diritti, con le strategie di cittadinanza maturate nel cosiddetto secolo socialdemocratico, ci fu una significativa rinascita della riflessione politico-giuridica di ispirazione marxista in tutto l’Occidente. «La teoria giuridica nella tradizione marxista non dogmatica fu ripresa negli anni ’70. Di particolare importanza furono la raccolta di due volumi curata da Hubert Rottleutbner (1975) e Norbert Reich (1972), così come i numeri del 1971-73 di Critical Justice. Accanto a queste pubblicazioni, maturò una temporanea rinascita di una teoria giuridica di sinistra (all’epoca ancora chiamata marxista) riscontrabile nella Germania occidentale, nel dibattito francese, oltre che italiano e americano. Autori come Joachim Pereis, Norbert Reich, Wolfgang Abendroth, Thomas Blanke, Wolf Paul, Oskar Negt, Ulrich K. Preuß, Nicos Poulantzas, Burkhard Tuschling, Umberto Cerroni e Toni Negri o Monique Chemillier-Gendreau, Isaac D. Balbus e Sol Picciotto, o Franz Neumann e Otto Kirchheimer. Questi studiosi hanno mostrato un interesse particolare per l’attività dello Stato, i suoi margini di manovra e il suo potenziale di governo»1. Per quanto riguarda il panorama repubblicano degli anni Settanta, si assiste a una ripresa della elaborazione concettuale e, quanto agli approdi della ricerca, nel complesso «non mi sembra che nel dibattito giuridico italiano, sia pure latamente inteso, vi fossero stati, con la sola, significativa eccezione di Cerroni, dei precedenti degni di nota»2. Una spinta all’affinamento del lavoro critico sul diritto viene anche dalle esigenze della pratica politica. Lo stesso segretario del Pci Berlinguer sollecitava un contributo della teoria.
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E' ancora attuale la categoria di imperialismo e quali sono i paesi imperialisti?
di Domenico Moro
Il termine di imperialismo è associato ai più importanti imperi del passato come quello romano o quello persiano. Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento il termine di imperialismo è stato ripreso per descrivere la nuova realtà mondiale, caratterizzata dalla formazione di diversi imperi facenti riferimento soprattutto agli stati dell’Europa occidentale. Per questo il periodo tra la seconda metà dell’Ottocento e il 1945, quando inizia la decolonizzazione, è stato definito l’età degli imperi. L’impero più vasto era quello britannico, seguito da quello francese, spagnolo, portoghese e olandese, che erano gli imperi più antichi. Tra gli ultimi Paesi a partecipare alla corsa alle colonie ci furono gli Stati Uniti, il Giappone, la Germania, il Belgio e l’Italia.
L’imperialismo moderno si differenzia da quello antico perché non rappresenta soltanto un espansionismo militare bensì un espansionismo in primo luogo economico, basato sulla conquista di territori da sfruttare e utilizzare economicamente, le colonie. L’imperialismo è una fase dello sviluppo del capitalismo, caratterizzando in modo peculiare l’economia dei Paesi imperialisti. Dal punto di vista globale l’imperialismo è un sistema basato sulla divisione tra un centro metropolitano, i Paesi imperialisti, e una periferia e una semiperiferia, entrambe sfruttate e oppresse dal centro.
Dal momento che dopo il 1945 è iniziato il processo di decolonizzazione e le ex colonie sono divenute stati indipendenti, si può parlare dell’esistenza di un imperialismo ancora oggi? Riteniamo di sì, ma con delle differenze. Quella di imperialismo rimane, quindi, una delle più importanti categorie di interpretazione della realtà. Per analizzare l’imperialismo attuale e definire le novità rispetto a quello della prima metà del Novecento dobbiamo partire da un testo che fu fondamentale nell’interpretazione dell’età degli imperi, “L’imperialismo. Fase suprema del capitalismo” di Lenin.
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Èidola: il crepuscolo degli idoli nel cyberspazio
di Vincenzo Morvillo
Quando nel 1927 Werner Heisenberg formula il principio di indeterminazione – cardine teorico della meccanica quantistica – sancendo una radicale rottura rispetto alla meccanica classica, pone le basi di uno stravolgimento radicale nell’osservazione e nello studio non solo delle leggi della fisica ma anche, conseguentemente, della natura e della realtà stessa.
Il principio d’indeterminazione esprime infatti, com’è noto, l’impossibilità a priori di determinare con precisione illimitata i valori di due variabili incompatibili (quantità di moto e velocità di una particella) per cui l’osservatore dovrà scegliere quale misura privilegiare predisponendo gli strumenti di misura conseguenti. In altri e più semplici termini, equivale a dire che il soggetto osservatore cambia la realtà.
Da quel momento dunque la natura e le sue leggi, lungi dall’essere qualcosa di obiettivo e quindi da scoprire, diventano piuttosto condizionate dall’osservazione soggettiva di colui che ne fa oggetto di studio. Il che, forzando un po’ la mano, non è molto distante dall’affermare che sono una nostra invenzione.
Insomma, con il principio di indeterminazione Heisenberg insieme ad altri fisici – a partire dall’amico e collega Niels Bohr – elaborano quel probabilismo ontologico che, nelle posizioni della cosiddetta Interpretazione di Copenaghen, darà vita a quell’antirealismo scientifico che tanto influenzerà il ‘900 anche in altri e diversi campi di studio. Dalla filosofia all’arte, dalla letteratura alla psicoanalisi, dalla politica all’economia.
Una vera e propria svolta epistemologica, che elimina la nozione di certezza sostituendole quella di probabilità e in virtù della quale siamo costretti a ripensare il concetto di causa-effetto in termini diversi rispetto al senso riduttivamente deterministico tipico del meccanicismo newtoniano.
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Il Secondo Olocausto e le Nazioni Unite
Alessandro Bianchi intervista Pino Arlacchi
l'AntiDiplomatico intervista l'ex vicesegretario delle Nazioni Unite: "Non ci sono qui camere a gas, ma sono all’ opera gli stessi infernali meccanismi del primo Olocausto"
"Sono diventato pessimista sull’esito della partita Israele-Palestina". Pino Arlacchi, ex vicesegretario generale e Direttore del programma antidroga e anticrimine dell’ONU torna a dialogare con "Egemonia". Uno dei più noti sociologi e criminologi a livello mondiale, cultore delle materie internazionalistiche e in particolare delle dinamiche delle Nazioni Unite, autore di saggi importanti su terrorismo e finanza, a Pino Arlacchi abbiamo chiesto di aiutarci a inquadrare il massacro israeliano in atto alla luce del diritto internazionale e, soprattutto, offrire proposte concrete che potrebbero essere prese per dare al regime di Tel Aviv una pressione internazionale che oggi manca.
* * * *
Sulla definizione del massacro in corso da parte di Israele si dibatte molto sul termine da utilizzare. Come lo definirebbe Lei alla luce del diritto internazionale?
"La rottura dell’ultimo tabù al riguardo è stata la delibera della Corte internazionale di giustizia che ha definito i massacri di Gaza un tentato genocidio. Pochi si sono accorti delle conseguenze di questa svolta. Media e governi occidentali -nonché il Palazzo di Vetro- hanno immediatamente calato il sipario sul tema. La svolta è stata, in realtà, il riconoscimento di un fatto talmente imbarazzante da non poter essere accettato, in precedenza, neppure da molti critici del sionismo. Non si può più negare che quanto avviene davanti ai nostri occhi è il tentativo di sterminare un popolo e non la vendetta per una catastrofe subita un anno fa. Non siamo di fronte a un eccesso di legittima difesa.
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Omini di burro. Scuole e università al Paese dei Balocchi dell’IA generativa
di Daniela Tafani
Come l’omino di burro del romanzo di Collodi, chi introduca nelle scuole e nelle università strumenti di “intelligenza artificiale generativa” promette agli studenti un Paese dei Balocchi in cui potranno scrivere senza aver pensato. I sistemi neoliberali – nei quali si ritiene che la didattica sia un addestramento ai test e che la valutazione delle opere dei ricercatori non ne richieda la lettura – sono già pronti a un simile annientamento dell’istruzione pubblica e alla sua sostituzione con qualche software proprietario.
Volentieri la redazione ripubblica il contributo di Daniela Tafani apparso sul Bollettino telematico di filosofia politica
1. Macchine per scrivere frasi probabili
A un programma informatico si assegna talvolta il nome della facoltà umana che si desidera implementare; così, osservava nel 1976 Drew McDermott, si ingannano molte persone, tra le quali in primo luogo se stessi, riguardo a ciò che il programma è effettivamente in grado di fare: “un programma chiamato ‘PENSARE’” – scriveva McDermott – “tende ad acquisire inesorabilmente strutture di dati chiamate ‘PENSIERI’”. L”espressione “intelligenza artificiale generativa” è un esempio di tale “mnemotecnica dei desideri”: induce infatti a dimenticare che si tratta di software che gira su computer e che generare output a partire da input è ciò che i software normalmente fanno.
I generatori di linguaggio sono sistemi informatici di natura statistica, basati su grandi modelli del linguaggio naturale (Large Language Models): producono stringhe di testo, sulla base di una rappresentazione probabilistica del modo in cui le sequenze di forme linguistiche si combinano nei testi di partenza e sulla base della valutazione, formulata da esseri umani, dei gradi di preferibilità delle risposte.
L’interazione con tali sistemi non ha nulla a che vedere con l’interlocuzione con un essere umano. Quando immettiamo, quale input, una domanda – ad esempio, “Chi ha scritto I promessi sposi?” –, la domanda che stiamo effettivamente ponendo è un’altra: nel caso di questo esempio, è: “Data la distribuzione statistica delle parole nel corpus iniziale di testi, quali sono le parole – che gli utenti e i valutatori approverebbero maggiormente – che è più probabile seguano la sequenza “Chi ha scritto I promessi sposi?“”.
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Fachinelli e/o Fortini?
di Ennio Abate
Prima parte
Elvio Fachinelli, il desiderio dissidente (Quaderni Piacentini n. 33 - febbraio 1968)
Dietro front. Torno al 1968. In quell’anno lessi pure «Il desiderio dissidente» sul n.33 – febbraio 1968 dei «quaderni piacentini». Un saggio calato – oggi direi: quasi affogato – in un presente che allora ribolliva. Fachinelli parlava di «movimenti di dissidenza giovanile del nostro e degli altri paesi ad alto sviluppo industriale». Li diceva fragili nei «contenuti programmatici» e nei «comportamenti», ma tenaci: non si facevano riassorbire dal Sistema, dal Potere. Diceva. Ma chi era per me, che partecipavo all’occupazione della Statale di Milano (qui), Elvio Fachinelli e che effetti ebbe su di me quella lettura? Un nome che sentivo per la prima volta, uno psicanalista. Visto appena – una sola volta, mi pare nel 1988 – vent’anni dopo tra il pubblico della Casa della Cultura di Via Borgogna. E, quando lessi quel suo saggio, sulla psicanalisi avevo al massimo curiosità, sospetti o idee libresche e incerte. Forse, se non fosse stato pubblicato sui «quaderni piacentini», neppure l’avrei notato. Perché l’ideologismo della politica al primo posto, impostosi per tutti gli anni Settanta, mi aveva raggiunto e preso in ostaggio.
La prima reazione fu di simpatia. Nelle parole di Fachinelli ritrovavo, espresso su un piano intellettuale autorevole e argomentato, quel desiderio di libertà e di cambiamento, che sentivo attorno a me. Ma il ghiaccio sociale sembrava rotto anche per me. Uscivo dall’isolamento dell’immigrato, che in una Milano a lui sconosciuta era riuscito a stabilire fino ad allora poche e limitate relazioni, mi ritrovavo di botto tra compagni e compagne e ascoltavo con piacere discorsi di denuncia, svecchiamento e rivolta. Eppure impacci e dubbi restavano; e si svelarono anche in quella mia lettura.
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Perché il vertice BRICS di Kazan è l’ultima speranza che abbiamo per evitare la terza guerra mondiale
di OttolinaTV
Ottoliner buongiorno e benvenuti a questo nuovo appuntamento delle cronache di fine impero; come molti di voi sapranno, nonostante il silenzio assordante del circo mediatico domani a Kazan avrà inizio quello che, con ogni probabilità, è l’evento di politica internazionale più importante dell’anno: il sedicesimo summit annuale dei BRICS (ormai ufficialmente BRICS+), probabilmente il più importante dalla loro fondazione nel 2009, subito dopo lo scoppio della grande crisi finanziaria causata dagli USA e pagata da tutto il resto del mondo. L’Occidente collettivo, infatti, che è ostaggio di una ristrettissima oligarchia finanziaria che deve il suo dominio all’imperialismo finanziario USA e alla dittatura globale del dollaro, ha già dichiarato la guerra totale al resto del mondo per ostacolare l’ineluttabile transizione a un nuovo ordine multipolare; e, dopo aver subito una clamorosa sconfitta nella prima battaglia sul fronte ucraino, è impegnato a sostenere la deflagrazione definitiva di un secondo fronte in Medio Oriente per salvare la faccia, destabilizzare il pianeta e ostacolare così, appunto, la crescita economia e industriale dei presunti avversari. Di fronte alle evidenti difficoltà del blocco occidentale, in molti (ovviamente intendo tra gli antimperialisti che, comunque, alle nostre latitudini sono una piccola minoranza, per quanto sempre più consistente), presi dall’entusiasmo, tifano per una resa dei conti definitiva che metta fine per sempre all’imperialismo a guida USA attraverso le armi e – sempre presi dall’entusiasmo – sono spinti a farsi un’immagine dei BRICS+ come di un blocco di Paesi coeso, pronto a guidare questa distruzione – via missili ipersonici – del Grande Satana. Purtroppo (o per fortuna) rischiano di rimanere delusi: ammesso e non concesso che alcuni dei BRICS+ auspichino davvero la resa dei conti definitiva via armi contro il dominio dell’Occidente collettivo, quello che possiamo dire con un discreto margine di certezza è che, di sicuro, non è una posizione condivisa e nemmeno maggioritaria.
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L’intelligenza artificiale. Problemi e prospettive
Intervista a Stefano Borroni Barale
“L’Ai attuale è una grande operazione ideologica e di marketing, confezionata per aumentare il controllo delle persone e restringere il margine di libertà digitale” (1)
L’Intelligenza artificiale (Ai) è un tema oggi talmente di moda che persino il papa ha ritenuto indispensabile dire la sua sull’argomento. Un utile strumento per orientarsi in questo profluvio di notizie, in genere sensazionalistiche e spesso fuorvianti, è fornito dal libro recentemente pubblicato di Stefano Borroni Barale, “L’intelligenza inesistente. Un approccio conviviale all’intelligenza artificale”, Altreconomia, 2023. Un agile saggio divulgativo alla portata anche del lettore meno esperto.
Il titolo “L’intelligenza inesistente” rimanda esplicitamente ad Agilulfo il “cavaliere inesistente” creato da Italo Calvino, un paladino che pur “non esistendo” riesce comunque a combattere valorosamente al servizio di Carlomagno (“Bé, per essere uno che non esiste, siete in gamba !” sbotta a un certo punto l’imperatore).
Più precisamente per l’autore – a differenza di quanto sostengono i millantatori – non esiste oggi (né è alle viste) una Ai “forte” in grado di pensare come un essere umano ma solo un’Ai “debole” in grado di “simulare” alcuni aspetti del pensiero umano. Una Ai che funziona solo grazie al lavoro costante di un vasto proletariato digitale, invisibile e malpagato (i cosiddetti “turchi meccanici” o “turker”). (2)
“Collegamenti” ha posto alcune domande all’autore. (3)
* * * *
Mentre gli entusiasti esaltano le prospettive che ci offre lo sviluppo dell’Ai, a molti non ne sono sfuggiti i pericoli, dal punto di vista della privacy, della violazione del diritto d’autore e dell’uso bellico (come il controllo totale sui palestinesi nella “smart city” di Hebron e i droni israeliani che seminano morte a Gaza). Secondo te quali sono i maggiori rischi di questa nuova tecnologia, così come si va configurando ?
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Medio Oriente in fiamme 1/2
di Enrico Tomaselli
Un sommario inquadramento geopolitico della situazione mediorientale, per provare ad orientarsi nel complesso panorama della regione, tra le più esplosive del pianeta, e comprenderne le dinamiche politiche e militari. Prima parte di una analisi generale, che successivamente, nella seconda, esaminerà gli aspetti militari del conflitto
Gli avvenimenti mondiali susseguiti all’avvio dell’Operazione Speciale Militare, nel febbraio 2022, hanno sicuramente rilanciato – specialmente in occidente – un interesse diffuso per la geopolitica, materia negletta da decenni. Questo rinnovato interesse, però, non ha trovato grande corrispondenza nella effettiva comprensione delle dinamiche che la sottendono, anche e soprattutto nelle élite politiche europee.
Anche chi prova a fare delle analisi geopolitiche, del resto, spesso tende a dare per scontate cose che, invece, tali non sono per il grande pubblico. Uno degli errori più comuni – nella rappresentazione e quindi nella comprensione – è quello di focalizzare l’attenzione sugli attori principali, ricadendo, anche involontariamente, in quelle schematizzazioni dualistiche che hanno caratterizzato i decenni precedenti, allontanandosi quindi dalla complessità che invece caratterizza appunto la visione geopolitica.
Con questa consapevolezza, si vuole qui pertanto affrontare l’attuale situazione mediorientale – al momento la più incandescente – partendo dapprima da una valutazione complessiva del quadro geopolitico, per poi esaminare nella seconda parte – con uno sguardo più ravvicinato – la situazione di teatro sotto il profilo militare.
Quando guardiamo al conflitto in Medio Oriente, tendiamo appunto a escludere (o quanto meno a marginalizzare) gli attori non di primo piano. Vediamo Israele, con gli Stati Uniti alle loro spalle, e dall’altro lato l’Iran con i vari soggetti dell’Asse della Resistenza.
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La società della ricompensa. I tanti volti (sorridenti) della gamification coercitiva
di Gioacchino Toni
Adrian Hon, La società della ricompensa. Perché la gamification ci fa giocare di più ma divertire di meno, traduzione di Paolo Bassotti, Luiss University Press, Roma 2024, pp. 320, € 23,00 edizione cartacea, € 12,99 ebook
Uscito con il titolo You’ve Been Played: How Corporations, Governments, and Schools Use Games to Control Us All (Basic Books, 2022), il volume, dal taglio divulgativo, è stato scritto da un autore che conosce bene l’universo dei videogame e delle loro applicazioni extra-ludiche. Adrian Hon è programmatore di videogiochi, co-creatore di Zombies Run! – uno dei più popolari mobile fitness game – e co-fondatore della celebre casa di produzione indipendente di videogame Six to Start.
Nonostante il termine gamification si sia diffuso soltanto in avvio del nuovo millennio, del ricorso a logiche di gioco per scopi non ludici si può parlare anche a proposito di pratiche in uso ben da prima dell’avvento del digitale e di internet. Indubbiamente le nuove tecnologie hanno incrementato il grado di pervasività e di incidenza della gamification1 ed è passando in rassegna i fattori tecnologici e sociali che hanno portato a tutto ciò che si apre il libro di Hon.
Lo sguardo utopico con cui si guardava ai giochi come se questi potessero “salvare il mondo” proprio dei decenni a cavallo tra il cambio di millennio – onda lunga di quel tecno-ottimismo che aveva contraddistinto la nascita di internet e l’arrivo del digitale –, può dirsi scemato a metà degli anni Dieci quando, invece, si è diffusa una sorta di disillusione circa il mondo della rete. In realtà scrive Hon, «l’aura carismatica che avvolgeva i vecchi ideali utopistici non è morta, ma si è spostata su quel tipo di gamification della vita e del lavoro oggi tanto in voga, conferendole una legittimità morale che cela i suoi aspetti più manipolatori» (p. 33).
Nonostante ad avere la meglio sia stata una gamification conservatrice, utilizzata per aumentare la produttività e lo sfruttamento, Hon si guarda bene dal demonizzare il ricorso a logiche di gioco per scopi extra-ludici, non mancando di sottolineare come la gamification sia effettivamente dotata di un grande potenziale educativo e scientifico.
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La CIA e la cosiddetta “French Theory”
di Alessandra Ciattini
Come l’agenzia di spionaggio è riuscita a creare un pericoloso clima antisovietico e antimarxista, camuffando la sua propaganda come informazione fattuale e ammorbidendo l’atteggiamento critico nei confronti della delirante politica impostasi agli albori del “secolo americano”, favorendo, inoltre, la metamorfosi delle forze politiche rappresentative del movimento operaio
Si potrebbe affermare che nulla accade per caso: l’indebolimento del marxismo è stato prodotto da molti fattori, tra i quali anche l’intervento diretto della CIA, i cui agenti (fatto sorprendente) erano dei raffinati cultori di filosofia.
Ricordo i giorni successivi all’ammainamento della bandiera rossa dal Cremlino e la sua sostituzione con quella russa. Tutti gioivano esultanti affermando che la guerra fredda era finita e che ci avrebbe aspettato un periodo di pace e di prosperità. Per quanto mi riguarda, insieme ai membri del mio ambiente culturale, non partecipai a questa gioia, convinta che la Germania dell’est era stata praticamente svenduta e la fine dell’URSS avrebbe messo in pericolo i già difficili equilibri mondiali. Non mi vanto di aver avuto ragione anzi, speravo e di avere torto e che le mie paure fossero infondate. Invece, oggi ci troviamo alle soglie di una terza guerra che sarà probabilmente nucleare, alquanto prevedibile se si conosce la natura insaziabile del capitalismo, il cui motto può così esser riassunto “dare il meno possibile, per ottenere il massimo”, o se vogliamo una citazione letteraria, così a un certo punto esclama in Moby Dick il capitano Akab: “Il mio movente e il miei fini sono folli, ma i miei mezzi sono razionali”. Razionali nel senso che sono adeguati all’apocalittico sterminio dell’umanità o all’uccisione della balena bianca. Tra l’altro ricordo che un bomba nucleare è anche meno cara rispetto a tutte le armi sofisticate che si stanno attualmente usando.
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Al varco della sconfitta. Trieste 2021, come è stata uccisa la rivolta no green pass in Italia
A cura di Konrad Nobile
Un'analisi e delle riflessioni sulle giornate che segnarono il destino del movimento contro il lasciapassare vaccinale
A tre anni esatti dai fatti del porto di Trieste e dal vile sgombero del Varco IV, apice della protesta contro la tessera verde e punto di svolta per tutto il movimento “No Green Pass”, torna utile analizzare ciò che allora accadde.
Fare un’autopsia di quelle dense giornate d’ottobre e proporre delle riflessioni in merito è essenziale non solo per preservarne la memoria, ma anche per comprendere ciò che allora non funzionò e che portò al declino di un intero movimento, avviatosi verso la sua parabola discendente proprio dopo quel fatidico 18 ottobre 2021.
Lo scopo ultimo di questa riflessione è infatti tentare, scovando le mancanze e i limiti che si ebbero allora, di fare tesoro di quella grande esperienza affinché, nelle mobilitazioni presenti e future, non si ricada negli stessi errori e si possa invece intraprendere la strada della lotta in maniera più matura, organizzata ed efficace.
Per svolgere al meglio questa nostra disamina ci siamo affidati, oltre alle nostre conoscenze, memorie ed esperienze dirette, anche a preziose testimonianze di alcuni triestini, membri del locale “Coordinamento No Green Pass e Oltre”, che hanno voluto con entusiasmo raccontarci la loro versione dei fatti e narrarci quelle giornate.
Su quello che accadde e sui giudizi relativi a come fu gestita la piazza in quei giorni non vi è accordo all’interno del Coordinamento, e dunque le dichiarazioni qui pubblicate (che sono solo una parte di quelle a noi rilasciate) vanno intese come contributi dei singoli intervistati e non come un giudizio unanime del comitato triestino sui fatti del porto.
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La sconfitta dell’Occidente – l’irrinunciabile analisi di Emmanuel Todd
di Roberto Iannuzzi
Todd ha il grande merito di aver aperto un dibattito troppo a lungo rifiutato dall’ipocrisia delle élite occidentali, tracciando un quadro realistico delle ragioni del declino dell’Occidente
A più di due anni dall’inizio del conflitto ucraino, sebbene la guerra continui a infuriare soprattutto nella parte orientale del paese, se ne sente parlare molto meno.
Una ragione c’è: le cose non stanno andando come la gran parte degli strateghi, dei commentatori, dei grandi mezzi di informazione occidentali aveva previsto.
Kiev è sulla difensiva, la speranza ucraina di riconquistare i territori perduti si è rivelata un’illusione, le forze russe stanno avanzando sull’intero fronte del Donbass. L’invasione estiva dell’oblast russo di Kursk da parte ucraina si è risolta in un estemporaneo episodio di avventurismo militare.
Ma soprattutto, l’entusiasmo occidentale per il sostegno all’Ucraina si sta affievolendo, con una Germania sempre più alle prese con la sua crisi economica interna, e gli Stati Uniti assorbiti da un’incerta campagna presidenziale.
Le ragioni del fallimento occidentale in Ucraina
Sebbene il conflitto sia tutt’altro che concluso, e presenti tuttora rischi di escalation a seconda delle scelte che compiranno i leader occidentali, esso ci parla di un fallimento.
Ad aver fallito sono le strategie militari della NATO, le sanzioni che avrebbero dovuto mettere in ginocchio un’economia russa che è invece più che mai vitale, l’industria militare americana ed europea che si sono rivelate incapaci di stare al passo con la produzione bellica russa.
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