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comedonchisciotte

Rifkin: il venditore di olio di serpente

di Ugo Bardi 

idrogenoGli americani parlano di "snake oil" (olio di serpente) per quel tipo di intrugli miracolosi che dovrebbero far bene ai calli, curare il mal di testa, e far andar via anche le emorroidi. Da noi, tendiamo a correlare i venditori di questi intrugli alla ormai storica figura di Vanna Marchi.

Con qualsiasi termine lo si voglia definire, un venditore di intrugli di grande successo è Jeremy Rifkin che continua a imperversare con le sue idee sull'idrogeno. E' un ospite regolare - sempre a pagamento da quello che si sente dire - di conferenze e dibattiti. Ultimamente, lo abbiamo visto come ospite addirittura del parlamento italiano, osannato da quasi tutti i parlamentari.

Così come l'olio di serpente viene detto curare le malattie più svariate, Rifkin ci propone l'idrogeno come rimedio universale dei guai più vari. Se le idee di Rifkin sono grandiose, sono anche molto confuse. Ci sono perlomeno tre concetti che possiamo identificare nella proposta di Rifkin, e forse anche di più.

1. L'idrogeno come mezzo di stoccaggio dell'energia rinnovabile. Questa è un idea nel complesso sensata. L'idrogeno potrebbe essere una delle tecnologie che ci permetteranno di risolvere il problema dell'intermittenza delle fonti rinnovabili.

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manifesto

La nouvelle vague della decrescita

Alcune riflessioni critiche sull'ultimo libro di Serge Latouche edito da Feltrinelli presentato come «un vero e proprio manifesto per la Società della decrescita» da realizzare attraverso un programma che punti alla diminuzione delle merci prodotte Il crollo prossimo venturo La proposta dello studioso francese di trasformare la società attraverso comportamenti virtuosi è espressione di una «pedagogia delle catastrofi» in cui la denunci

Luigi Cavallaro

ecologiaDa quando il tracollo dell'esperimento sovietico è sembrato riportare le lancette della storia all'epoca del «trionfo della borghesia», per dirla col titolo del celeberrimo libro di Eric J. Hobsbawm, una nuova idea ha cominciato a farsi strada tra gli orfani irreconciliati dell'idea «crollista». L'idea, molto in sintesi, è che il capitalismo, assai più gravemente che da un antagonismo di classe nel frattempo annacquatosi, sarebbe minato da un rapporto contraddittorio addirittura con la «natura»: la sua propensione alla «crescita illimitata», infatti, prima o poi dovrebbe indurlo a sbattere il muso contro la finitezza del pianeta Terra e delle sue risorse.

È stata la legge dell'entropia a offrire il pilastro teorico su cui edificare una narrazione ancor più fosca del declino irreversibile del modo di produzione (nuovamente) dominante. La presa di coscienza del fatto che tutti i tipi di energia sono destinati prima o poi a trasformarsi in calore non più utilizzabile e che il sistema solare tutto tende verso una «morte termodinamica» ha indotto, infatti, i «neocrollisti» a formulare critiche «radicali» all'idea che il processo economico potesse essere descritto in termini circolari e a esigerne con forza una rappresentazione in termini unidirezionali, rispettosa della «freccia del tempo».


La catastrofe annunciata


La termodinamica, in tal modo, è diventata la «fisica del valore economico» e la legge dell'entropia «la radice della scarsità economica», come scrisse l'economista e statistico di origine rumena Nicholas Georgescu-Roegen.

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manifesto

 AZZARDI CLIMATICI

Quel rischio a misura di un pianeta precario

ambienteMa il clima e l'economia sono realtà in cui opera l'incognita dei rapporti sociali. La sua irruzione nell'agire collettivo restituisce la pregnanza politica tanto del degrado ambientale che della gestione del bilancio pubblico Un percorso di lettura che mette a confronto i modelli di previsione dei mutamenti climatici e dell'andamento dei conti pubblici. Entrambi possono essere usati per elaborare condizioni di equilibrio nel breve, ma non nel lungo periodo

Luigi Cavallaro

«Facciamo un lavoro precario in un pianeta a rischio oppure il pianeta è precario perché il lavoro è a rischio?». Il dilemma lucidamente (e genialmente) sintetizzato in una vignetta di Pat Carra, pubblicata su questo giornale il 10 novembre scorso, non sembra aver suscitato particolare attenzione, almeno a giudicare dagli interventi che da allora in poi si sono succeduti su queste pagine in merito alla «questione ambientale». Eppure, è un dilemma centrale: dalla sua risoluzione, infatti, dipende la nostra possibilità di porre finalmente la questione ambientale come problema politico e sbarazzarci di quell'attitudine neoluddista di cui l'hanno ricoperto frotte di profeti di sventura, ai quali va una responsabilità non secondaria nel perdurare di una situazione che vede l'ambiente ridotto al rango di «questione tematica» o di «problema trasversale», come notava su queste stesse pagine Roberto Marchesini l'11 marzo scorso.

Proviamo allora a prendere sul serio il dilemma di Pat Carra, e chiediamoci anzitutto: cosa significa «rischio»? In senso tecnico, il rischio è la probabilità che un dato evento, che comporta danni per persone, animali o cose, si verifichi in un tempo definito. Poiché la sua misura si ottiene moltiplicando la probabilità dell'evento considerato per l'entità del danno che esso produce, ogni discussione intorno ad un qualunque rischio presuppone che si disponga di un modello teorico in grado di spiegare, sulla base di certe assunzioni ed ipotesi, il comportamento del sistema fisico e/o sociale di cui quell'evento è, propriamente parlando, «elemento». Diversamente, non potremmo mai «predire», ad esempio, che entro il 2100 il livello del mare crescerà da 18 a 59 centimetri e le temperature si innalzeranno fino a 4 gradi oltre le medie attuali, come affermato dal Rapporto 2007 dell'Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc). Né che eventi del genere potrebbero generare perdite economiche comprese fra lo 0,1 e lo 0,5 per cento del Pil, come pronosticato dall'Istituto per lo sviluppo economico di Kiel.