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Fronte dei porci
di Guido Viale
E l'ambiente? È scomparso dai radar, soffocato dalla paura dello spread, della crisi, del default. Non solo in Italia ma in tutta Europa; e in tutto il mondo. Non solo a livello locale, ma anche a quello globale.
Tra il 28 novembre e il 10 dicembre si terrà a Durban (Sudafrica) la Cop 17, l'ultima conferenza sul rinnovo degli accordi di Kyoto per il contenimento delle emissioni che sono all'origine dei cambiamenti climatici. Scienziati di tutto il mondo, riuniti nell'Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) insistono nel mettere in guardia i governi che il tempo per evitare una catastrofe irreversibile che cambierà i connotati del pianeta Terra e le condizioni di sopravvivenza della specie umana sta per scadere; e che misure drastiche devono essere adottate per realizzare subito un cambio di rotta. Ma a Durban, come a Cancun (2010) o a Copenhagen (2009) non succederà niente. La delegazione europea, che aveva le posizioni più avanzate, ha ormai rinunciato - a causa della "crisi" - a proporre agli altri governi vincoli più stretti (e quella italiana non ha mai avuto qualcosa da dire). Se stampa e media avessero dedicato alla minaccia di questa catastrofe imminente anche solo la metà dell'attenzione dedicata allo spread, il 99 per cento della popolazione mondiale sarebbe scesa in piazza con i forconi per costringere i rispettivi governanti a prendere provvedimenti immediati.
A livello locale il nostro paese - ma anche il resto d'Europa - viene sconvolto sempre più spesso dal dissesto di interi territori, con morti e danni incalcolabili.
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Città e territori come beni comuni. Nove proposte per salvare il Belpaese
di Paolo Berdini
Dopo Tangentopoli la legislazione urbanistica è stata smantellata. Le metropoli sono diventate terreno di conquista degli speculatori. Fiumi di cemento hanno inondato i nostri territori. Ripristinare la legalità, bloccare le espansioni urbane, riqualificare le periferie, recuperare il costruito abbandonato: ecco tutto ciò che andrebbe fatto per fermare il saccheggio del territorio e delle città

Il 1993 segna lo spartiacque per comprendere cosa è avvenuto nel territorio e nelle città. Tangentopoli aveva mostrato lo stretto intreccio tra l’urbanistica e la corruzione: a Roma e Milano, solo per fermarci alle due maggiori città, le regole venivano sistematicamente cambiate dalla politica collusa con la proprietà fondiaria e con l’affarismo.
Nulla di nuovo. Una storia iniziata nell’immediato dopoguerra: la Roma dominata dalla Società generale immobiliare, la Napoli dei tempi di Lauro, lo scandalo di Agrigento, il sacco di Palermo avevano dimostrato l’arretratezza del sistema economico che dominava le città. È stata la speculazione parassitaria a imporre il proprio dominio: dappertutto erano sorte periferie sfigurate e incivili.
Eppure in quel periodo il legislatore aveva risposto agli scandali con una serie di riforme che avevano collocato l’Italia nel panorama dei paesi virtuosi. Regole e strumenti pubblici chiari e efficaci: la legge sull’edilizia pubblica del 1962, la legge ponte del 1967, la Bucalossi del 1977, la Galasso del 1985, la legge sulle aree protette del 1991. Era stato mancato l’obiettivo di scindere in maniera definitiva il diritto di proprietà dal diritto di edificare analogamente agli altri paesi europei poiché il tentativo di riforma di Fiorentino-Sullo fallì nel 1963 per la violentissima reazione del blocco immobiliare. Cionostante, la risposta agli scempi urbanistici portò a una profonda evoluzione della legislazione.
La risposta allo scandalo di Tangentopoli è stata di segno opposto: la legislazione urbanistica è stata infatti smantellata.
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Il perché di tanto spreco
Di Antonio Turiel
Cari lettori,
c'è un argomento ricorrente nelle ultime discussioni ed ha a che fare con la possibilità di mantenere una società stabile e vivibile diminuendo volontariamente i consumi. Una tale affermazione è innegabilmente certa: dico sempre che è ridicolo parlare di scarsità di energia mentre nel mondo si consumano 85 milioni di barili al giorno di petrolio da 159 litri ciascuno; pensateci, sono più di 156.000 litri al secondo in tutto il pianeta e ciascun litro di questo magico elisir contiene la stessa energia che un uomo sano e forte (circa 100 watt di potenza media) potrebbe produrre lavorando senza sosta per quasi 4 giorni e mezzo (per circa 106 ore).
Insomma, il mostruoso flusso di energia che arriva solo dal petrolio nel pianeta equivale al lavoro quotidiano di 60 miliardi di nerboruti schiavi energetici di quelli da 100 watt per unità: 8 e mezzo per ogni abitante di questo pianeta e questo solo di petrolio (dato che il consumo globale di energia primaria è di 14 Tw di media mondiale, contando tutte le fonti è di 20 schiavi energetici a persona; la media europea arriva a 45 schiavi energetici a testa, mentre negli Stati Uniti la media fa 120). Giudicate Voi, ora, se si può parlare di scarsità di energia con questi numeri, soprattutto tenendo conto di come si spreca l'energia.
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Benessere senza crescita
Pierluigi Sullo
Vorrei fare a Guido Viale un paio di domande. Siccome leggo con grande interesse quel che scrive sul manifesto, e trovo che i suoi articoli hanno l’inestimabile pregio – in questa situazione confusa e ansiosa – di mostrare come una alternativa alla «crescita senza benessere» (il titolo del suo ultimo articolo, sul manifesto del 25 settembre) sia non solo desiderabile, ma una autentica politica economica concretamente realizzabile, vorrei chiedergli se non pensi che, su un paio di questioni appunto, non si possa proseguire nel ragionamento.
La prima domanda riguarda un tema solo in apparenza secondario: un problema di parole e non di fatti. Quell’ultimo articolo di Viale si conclude così: «L’alternativa non è dunque tra crescita e decrescita, ma tra cose da fare e cose da non fare più». Ora, per quel che vale io sono un amante del pragmatismo: credo che in un periodo di transizione, e di crisi complessiva (incluso il senso delle parole), non ci debba impuntare su definizioni o etichette. Però i simboli hanno un loro peso. Specialmente se forniscono un nome alle cose nuove e sconosciute, e contraddicono la deriva delle cose. All’inizio di questo secolo, la formula del Forum sociale mondiale, «Un altro mondo è possibile», ha utilmente pettinato contropelo il «pensiero unico», ossia quell’acronimo Tina («There is no alternative») che lo stesso Viale ha ampiamente smontato, da ultimo nel libro collettivo «Calendario della fine del mondo». Dire «comunismo» nel secolo in cui il capitale trovava la sua forma moderna, voleva dire indicare un altro orizzonte. Lo stesso è accaduto per la parola «nonviolenza» nel secolo successivo, che si è costruito sulle fondamenta delle guerre: civili, di classe, mondiali, di religione. In questo secolo, dominato – come Viale sa meglio di me – dall’impossibilità di oltrepassare il limite naturale e sociale della «crescita», la parola «decrescita» ha la capacità di simboleggiare un altro genere di civilizzazione.
In un recente sondaggio di Ilvo Diamanti, sulla Repubblica, in cui si cercavano le parole – secondo gli intervistati – del futuro o del passato, si vide a sorpresa che non solo a prevalere erano in generale le parole che hanno a che fare con gli interessi e i beni comuni, dopo decenni di incantamento del «privato», ma che tra queste compariva anche la parola più ostracizzata e vilipesa dalla politica, dai sindacati, dai media e dagli intellettuali: «decrescita», appunto.
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La doppia impostura della «ripresa»
Serge Latouche*
Introduzione
Che cosa è la «ripresa»? E’ in sostanza quel che è stato proposto al vertice (G8 / G20) di Toronto, un programma che contiene allo stesso tempo sia la ripresa che l’austerità. La cancelliera tedesca Angela Merkel chiedeva una politica vigorosa di rigore e di austerità. Il presidente degli Usa Barak Obama, temendo di colpire la timida ripresa dell’economia mondiale e di quella statunitense con una politica deflazionista, chiedeva un rilancio ragionevole. L’accordo finale è stato raggiunto su una sintesi zoppicante: la ripresa controllata nel rigore e l’austerità moderata dal rilancio. Il ministro dell’economia francese Christine Lagarde, che non era ancora presidente del Fondo monetario internazionale, ha allora azzardato il neologismo «rilance» (contrazione di «rigueur e «rilance»). Con ciò sincronizzando il passo con il consigliere del presidente Sarkozy, Alain Minc, che, interrogato su quel che bisognava fare nella situazione critica provocata dalla destabilizzazione degli Stati da parte di mercati finanziari che i medesimi Stati avevano appena salvato dalla rovina, si è prodotto in questa ammirevole formula: bisogna schiacciare allo stesso tempo il freno e l’acceleratore.
In ogni modo, denunciare la doppia impostura di questo programma costituisce per me una tripla sfida.
Prima di tutto, si tratta parlare in questo luogo, nell’ambito del parlamento europeo a Bruxelles – tempio della religione della crescita – a partire da una posizione iconoclasta, la decrescita, per di più a proposito di una materia di cui non sono uno specialista, la Grecia e la crisi del debito sovrano.
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#Notav on the battleground
Sono le prime luci dell’alba quando i lampi dei fuochi d’artificio squarciano il cielo terso delle Alpi Cozie. È il segnale che da settimane tutti attendevano. I mostri meccanici ed i legionari inviati dal ministro Maroni stanno entrando in azione. La popolazione locale, messa in stato d’allerta, sale sulle barricate. Freelance, inviati, hacktivisti, cameraman, redazioni di quotidiani, portali d’informazione, radio e televisioni si preparano ai posti di combattimento.
Comincia così la battaglia del 27 giugno contro l’apertura del cantiere per l’alta velocità. Il terreno di scontro non è solo quello che si inerpica ripido fra i vigneti ed i boschi della Maddalena di Chiomonte. È anche quello scosceso ed impervio della comunicazione.
In prima linea tra i lacrimogeni, come mai era successo in precedenza, smartphone, telecamere, pagine Facebook ed account Twitter. Ma anche SMS, telefonate e libere frequenze radiofoniche fanno il loro sporco lavoro nel documentare in tempo reale quanto accade sui prati della Libera Repubblica della Maddalena.
Un alveo di servizi internet “2.0” comincia a raccontare, con fotografie, filmati ed articoli, l’assedio delle forze dell’ordine alla popolazione della Val Susa. Catalizzano l’indignazione vibrante, che si leva dal Piemonte fino a Palermo, per quanto sta accadendo in valle: indignazione a cui nessuno che attraversi le piazze della rete lunedì mattina può rimanere immune, favorevole o contrario che sia alla TAV. I social network diventano anche strumenti collaborativi.
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La grande rapina della privatizzazione dell’acqua. Che cosa insegna all’Italia il caso inglese
di Tommaso Fattori
Anticipiamo il testo dell'introduzione all'edizione italiana dello studio di David Hall ed Emanuele Lobina – ricercatori del PSIRU (Public Services International Research Unit) dell'Università di Greenwich – "Da un passato privato ad un futuro pubblico. La privatizzazione del servizio idrico in Inghilterra e nel Galles", edizioni Aracne (di prossima uscita).
Questo rigoroso studio sugli effetti della “più grande rapina legalizzata” della storia britannica – definizione del quotidiano conservatore Daily Mail – contiene elementi importanti per il dibattito sulla privatizzazione del servizio idrico che sta attraversando il nostro paese, grazie all’iniziativa referendaria "2 sì per l’acqua bene comune" promossa da una vastissima coalizione sociale.
Un dibattito nel quale colpisce l’astrattezza ideologica delle tesi dei privatizzatori, aggrappati a modelli economici irreali, talvolta per l’ingenuità tipica di chi vive asserragliato nell’accademia senza contatto con il mondo esterno, più frequentemente per i forti interessi materiali connessi ai processi di privatizzazione. L’astrattezza di queste argomentazioni, spesso comicamente ammantate di pragmatismo, rifiuta con ostinazione di confrontarsi con i dati di fatto e con l’esperienza empirica, là dove i processi di privatizzazione del servizio idrico integrato siano avanzati e consolidati da anni. Anzi, sono proprio alcune esperienze di privatizzazione “riuscita”, come quella inglese o gallese, ad essere portate ad esempio da chi evidentemente non ha idea di ciò di cui sta discettando o confida nell’ignoranza di chi ascolta.
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Res Publica e beni comuni
Riccardo Petrella
A pochi giorni dai referendum mi sembra utile socializzare la prefazione di Riccardo Petrella al suo libro RES PUBLICA E BENI COMUNI, pensare le rivoluzioni del XXI secolo. Credo che possa aiutare a chiarire il contesto e le ragioni della nostra battaglia per l’acqua bene comune. Buona lettura!
I beni comuni. Le due questioni di fondo.
Al centro del dibattito teorico e politico sui beni comuni nei paesi occidentali vi sono due questioni fondamentali.
La prima riguarda il principio/ruolo dello Stato (più precisamente, di governo e, quindi, di sovranità e di sicurezza). La seconda è relativa al principio di gratuità (della vita). I gruppi sociali dominanti hanno imposto il principio di “governance” ed hanno monetizzato la vita.
La “Governance” al posto del governo
L’uso del concetto di “governance” risale alla seconda metà degli anni ’70 allorché l’economia occidentale si trovava alle prese con la rincollatura dei cocci del sistema finanziario andato in frantumi nel periodo 1971-73 (fine della convertibilità del dollaro in oro e dei tassi di cambio fissi, fine dei controlli sui movimenti di capitale, esplosione del mercato delle divise, liberalizzazione dei mercati, deregolamentazione e privatizzazione del settore…).
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Una risposta dovuta
di Marino Badiale, Massimo Bontempelli
Qualche tempo fa è stato pubblicato in rete un articolo di Domenico Moro [qui e qui] in cui vengono criticati vari autori legati alle teorie della decrescita[1]. Fra gli altri, viene discusso e criticato il nostro scritto su “Marx e la decrescita”[2]. Le critiche che nascono da un autentico desiderio di confronto razionale sono sempre le benvenute, naturalmente, perché permettono di migliorare le proprie tesi, di correggere gli errori, di maturare. Purtroppo non è questo il caso dello scritto in questione. Esso non mostra il benché minimo desiderio di confronto razionale, limitandosi a dare una versione caricaturale della nostra impostazione, e a dileggiare questa versione da lui stesso creata.
Non ci interessa, ovviamente, rispondere a chi manifesta una simile personalità. Ci siamo però convinti che scrivere una risposta fosse un atto dovuto nei confronti di due categorie di possibili lettori: i gruppi ai quali si rivolge Moro, da una parte, e le persone che hanno dimostrato interesse e apprezzamento per il nostro lavoro, dall'altra. Per questi due gruppi di lettori sono utili, noi crediamo, due diversi tipi di considerazioni.
A chi si rivolge Moro? Come è chiaro dal tono del suo scritto, e dall'esame dei siti dove è apparso, egli si rivolge ad alcune delle nicchie comuniste rimaste in Italia (essenzialmente piccoli frammenti generati dalla dissoluzione di Rifondazione e del PdCI), e il suo scritto ha una valore di difesa ideologica di queste nicchie. Non si tratta di discutere razionalmente pregi e difetti di una proposta teorica come quella della decrescita, si tratta di difendere un proprio orticello ben recintato. Una nuova proposta teorica, che rischia di far saltare i recinti, deve essere svalutata in blocco.
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L'energia nucleare, solo una parte di un modello da convertire
Guido Viale
Il passaggio dall’era dei combustibili fossili a quella delle energie rinnovabili, o anche solo la sua promozione, impongono un cambio di paradigma. L’economia degli idrocarburi è un sistema centralizzato. E’ fatto di campi petroliferi e pozzi minerari distanti migliaia di chilometri dai suoi utilizzatori finali, di oleodotti e gasdotti, di grandi petroliere, di convogli giganteschi e di navi carboniere e metaniere, di raffinerie e centrali di generazione elettrica di grande taglia, di grandi Kombinat industriali, di elettrodotti ad alta tensione, di società di prospezione, di gestione e di distribuzione, pubbliche e private, di dimensioni mondiali e di capitali proporzionati: un sistema che produce sempre più centralizzazione, dispotismo e guerre; il trasporto e i suoi impatti costituiscono una quota crescente dei costi ambientali ed economici della filiera.
La logica di un’economia delle fonti rinnovabili richiede invece un sistema distribuito, che migliora la sua efficienza quanto più è decentrato. Ogni comunità dovrà produrre, attraverso mix di fonti che variano da un contesto all’altro, la maggior parte dell’energia che consuma e le reti di vettoriamento dell’energia elettrica saranno asservite esclusivamente al riequilibrio tra le diverse utenze.
E’ vero che nella realtà, la logica con cui viene perseguito lo sviluppo delle fonti rinnovabili continua a ricalcare in gran parte l’impianto dell’economia delle fonti fossili: i casi estremi sono costituiti dalle grandi dighe idroelettriche che devastano intere regioni, o da progetti come Desertech, destinato, se mai funzionerà, a perpetuare la dipendenza dall’estero degli approvvigionamenti energetici.
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La città dei rifiuti. Giustizia ambientale e incertezza nella crisi dei rifiuti in Campania
Marco Armiero1 e Giacomo D´Alisa2
1. Introduzione
Come è noto, i movimenti per la giustizia ambientale affondano le loro radici nelle mobilitazioni delle comunità povere delle città americane (Pellow 2007), riconnettendosi idealmente alle battaglie per i diritti civili più che alla tradizione del movimento ambientalista (Melosi 2000). In pochi ricordano che quando venne ucciso Martin Luther King Jr. si trovava a Memphis per sostenere uno sciopero di lavoratori neri nella gestione dei rifiuti (Bullard and Johnson 2000).
Lawrence Summer, presidente dell’università di Harvard e capo del Consiglio Nazionale Economico dell’amministrazione Obama, ha sostenuto, quando era presidente della Banca Mondiale, l’esportazione dei rifiuti nelle zone povere del mondo come la migliore delle soluzioni economiche possibili[3]. Una soluzione praticata e non solo teorizzata, come il caso dell’esportazione massiccia delle navi da smantellare ad Alang in India dimostra (De Maria 2010).
I rifiuti sono stati, lo sono e purtroppo lo saranno ancora nel futuro un problema di giustizia ambientale in un’economia che aspira ad una crescita illimitata. Questo è il motivo per il quale i rifiuti devono essere sempre più un aspetto centrale del dibattito sulle ingiustizie socio-ecologiche. Questo lavoro vuole contribuire a questo risultato e lo fa illustrando le difficoltà che incontrano attivisti e studiosi nel costruire il cammino per un efficace ecologismo popolare (Martinez-Alier 2009). Il caso analizzato è quello della Campania, regione del sud dell’Italia che da più di 17 anni vive in un regime di emergenza nella gestione dei rifiuti.
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Inceneritori Spa
Marco Cedolin
Quando il cittadino è costretto a sovvenzionare il proprio avvelenamento

Mentre l’Italia continua a praticare investimenti colossali nella costruzione di nuovi impianti d’incenerimento, proponendo i forni inceneritori come l’unica e più moderna risorsa indispensabile per gestire il problema dello smaltimento dei rifiuti, la maggior parte degli altri Paesi hanno smesso da tempo di considerare quella dell’incenerimento come una strada sulla quale occorre investire e si stanno orientando in direzioni opposte che privilegiano la raccolta differenziata, il riciclaggio ed il riutilizzo. Perfino le nazioni storicamente più propense ad incenerire i rifiuti, come gli stati Uniti ed il Giappone, da anni non stanno più costruendo nuovi inceneritori ed hanno iniziato a demolire quelli vecchi. In Svezia la costruzione degli inceneritori è stata abbandonata a favore della raccolta differenziata dei rifiuti, mentre 62 paesi nel mondo già aderiscono all’Alleanza globale contro gli inceneritori (GAIA)......
Solamente in Italia i forni inceneritori, qualora contemplino il recupero energetico, sono impropriamente definiti termovalorizzatori al fine di accreditarli presso l’opinione pubblica di una falsa immagine positiva che invece non posseggono.
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L'apocalisse è già qui
Guido Viale
Apocalisse significa rivelazione. Che cosa ci rivela l'apocalisse scatenata dal maremoto che ha colpito la costa nordorientale del Giappone?
Non o non solo - come sostengono più o meno tutti i media ufficiali - che la sicurezza (totale) non è mai raggiungibile e che anche la tecnologia, l'infrastruttura e l'organizzazione di un paese moderno ed efficiente non bastano a contenere i danni provocati dall'infinita potenza di una natura che si risveglia. Il fatto è, invece, che tecnologia, infrastrutture e organizzazione a volte - e per lo più - moltiplicano quei danni, com'è successo in Giappone, dove la cattiva gestione di una, o molte, centrali nucleari si è andata ad aggiungere ai danni dello tsunami.
Non è stato lo tsunami a frustrare anche le migliori intenzioni di governanti, manager, amministratori e comunicatori: l'apocalisse li ha trovati intenti a mentire spudoratamente su tutto, di ora in ora; cercando di nascondere a pezzi e bocconi un disastro che di ora in ora la realtà si incarica di svelare. È un'intera classe dirigente, non solo del nostro paese, ma dell'Europa, del Giappone, del mondo, che l'apocalisse coglie in flagrante mendacio, insegnandoci a non fidarci mai di nessuno di loro. Solo per fare un esempio, e il più "leggero": Angela Merkel corre ai ripari fermando tre, poi sette, poi forse nove centrali nucleari che solo fino a tre giorni fa aveva imposto di mantenere in funzione per altri vent'anni. Ma non erano nelle stesse condizioni di oggi anche tre giorni fa? E dunque: c'era da fidarsi allora? E c'è da fidarsi adesso?
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La decrescita non è impoverimento
Marino Badiale, Massimo Bontempelli
L’idea (o slogan) della decrescita è una componente essenziale di un pensiero critico capace di confrontarsi con la situazione del mondo contemporaneo, e di interagire con una possibile nuova pratica politica adeguata ai gravissimi problemi attuali. Il punto di partenza del pensiero della decrescita è la ritrovata consapevolezza, annullata nel senso comune da qualche secolo di capitalismo, che i concetti di bene economico e di merce non sono identici: beni (intesi anche come servizi) sono i prodotti del lavoro umano che soddisfano determinati bisogni e necessità, merci sono, tra quei beni, quelli inseriti in un mercato monetario con un prezzo di vendita, e acquisibili, quindi, soltanto pagando quel prezzo. In termini logici, sono due concetti interconnessi, ma non coestensivi. La distinzione chiaramente riecheggia quella, introdotta dagli economisti classici e ripresa da Marx, fra valore d’uso e valore di scambio. Quando si parla di crescita si intende la crescita della sfera della circolazione di merci, quindi della sfera di compravendita di beni e servizi dotati di un prezzo. Quando si parla di decrescita si intende la diminuzione del raggio di questa sfera.
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La Fiat a scuola
di Guido Viale
A tutti i «modernizzatori» che hanno salutato il referendum di Mirafiori come l'ingresso delle relazioni industriali italiane nella «modernità» va ricordato che la Modernità, o «Età moderna», è iniziata nel 1492 con la scoperta dell'America. A quel tempo, nella Modernità, l'Italia delle Signorie era già entrata. Nei secoli successivi ha avuto alti e bassi (attualmente sta sicuramente attraversando un basso); ma se il 14 gennaio 2011 dovesse diventare una data storica, starebbe a segnare non l'entrata ma l'uscita del paese dalla Modernità: per ripiombare in un nuovo Medioevo; oppure, per instaurare una forma nuova di «feudalesimo aziendale». Perché?
Non mi soffermo sulla limitazione del diritto di sciopero - accordata dal nuovo contratto - che ogni lavoratore dovrà poi sottoscrivere individualmente; né sulla abolizione della rappresentanza elettiva a favore di una gestione dei contenziosi affidata ai sindacati firmatari (trasformati così in missi dominici: ovvero, agenti del padrone); temi già ampiamente trattati da altri. Ma che cosa succederà in produzione?
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